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"Un cane corre per strada, inseguito da un ragazzo

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"Un cane corre per strada, inseguito da un ragazzo
La corda è lunga finché si spezza.
Terenzio si scapicolla per strada, e un ragazzo l’insegue. La lunga corda che li unisce
sgambetta i passanti che bofonchiano. Una signora ben vestita lancia un “Accidenti!”, perché ha
paura che le calze si smaglino; un giovanotto con il gatto arretra temendo per la sorte di costui,
ma il cane neppure lo guarda; un signore veramente anziano non capisce neanche il motivo per
cui è costretto a saltellare a piedi alterni per non sbattere la faccia sull’asfalto ruvido. Intanto, la
coppia disturbatrice procede veloce nella sua corsa, anche se, ad essere esatti, è l’animale
domestico a trascinarsi dietro il ragazzo.
Questo avvenimento si ripete regolarmente ogni domenica, oggi probabilmente in una forma piú
esasperata del solito, quando Gianfilippo è costretto dalla mamma a condurre a spasso Terenzio,
un cucciolo di alano tigrato di quindici mesi, affinché questi espleti, in altro luogo che non sia
l’appartamento, i propri esecrabili bisogni. Il disciplinato figliolo vorrebbe tanto sottrarsi a
quest’impegno; in cambio, sarebbe disposto perfino a lanciarsi in imprese leggendarie, quali
aiutare la povera donna nelle faccende di casa, gettare regolarmente via la spazzatura e simili, se
non fosse per il timore di non trovare una scusa adatta e di essere allora costretto ad ammettere la
verità: “Terenzio non fa altro che sbatacchiarmi di qua e di là, giú in strada; lo fa apposta, per
vendicarsi di quella volta che…”
Già, qui viene il bello: per vendicarsi di che cosa? Non di quella volta, o meglio di quei ripetuti
episodi, in cui Gianfilippo, in preda alla noia piú mortale, appena tornato da scuola e in attesa del
pranzo, torturava l’allora minuscolo compagno, tirandogli la coda fino a farlo piangere, oppure, in
un lampo di entusiasmo artistico, gli afferrava le zampe anteriori e lo sollevava a sé piroettando
come una coppia applaudita di ballerini di tango; e nemmeno di quella volta in cui il cagnolino, in
preda ad atavico appetito, si era precipitato di slancio verso la ciotola or ora colmata di
prelibatezze, pronto a conficcarvi l’intero muso, quando questa d’un tratto gli veniva sottratta dal
sadico compare, e il relativo contenuto gettato nel gabinetto, cosicché l’accorta signora, passando
per caso in salotto e scorgendo la ciotola già vuota, minacciava il quadrupede con il mestolo:
“Quante volte devo dirti che mangiare in fretta ti fa male, eh? Poi mi rivomiti tutto e io devo
pulire. E sí che era bollente! Ti dessero pure le pietre, non esiteresti a mandar giú anche quelle,
ingorda d’una bestia! Peggio per te, adesso te ne starai digiuno per un bel pezzo, cosí imparerai a
darti una regolata.” E cosí era avvenuto. Lo sventurato se ne era stato un giorno e mezzo digiuno
a languire con i crampi al ventre. S’era ridotto a leccare le formiche che trovava in giro, le quali,
ingoiate intere e ancora pienamente attive nello stomaco, si vendicavano facendogli il solletico
tutte insieme; dunque l’unico rimedio per non farsi torturare era quello di ributtarle fuori.
Arrivavano quindi puntuali le legnate della padrona, che non tollerava i succhi gastrici del
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cucciolo sparsi sul tappeto. È superfluo anche credere che la maltrattata bestiola provasse un
sentimento di rivalsa nei confronti del ragazzo a causa della gioia che questi provava nel portarlo
in giro, alla ricerca abituale di un angolo da adibire a toilette. Il fanciullo se lo portava dietro
buono buono, aspettando pazientemente che scovasse il posto piú adatto, e fino a lí fischiettava
motivetti allegri che facevano compagnia ad entrambi. Quando vedeva che il cane rallentava,
fiutava, rifletteva sul da farsi, allora girava lo sguardo, come se volesse concedere all’amico una
certa privacy; quindi, con la coda dell’occhio, scopriva se il fatidico momento fosse giunto e,
appena l’altro si lasciava andare in contrazioni che non mi pare esser d’uopo descrivere, tirava la
fune che li legava; la vittima innocente era costretta di conseguenza ad allungare l’esile collo come
una giraffa per non farsi strozzare, e al tempo stesso per tentare di completare l’atto. Non per
queste ragioni, seppure tutte valide, Terenzio aveva giurato vendetta. Il motivo principe, lo
immaginerete già, implica come al solito una faccenda amorosa.
Una delle tante domeniche pomeriggio, la coppia consueta procedeva lungo il fiume: il martire,
tremante, non si dava pace e strisciava sui ciottoli duri per il timore di nuove torture; l’aguzzino,
fremente, fantasticava strumenti e sevizie degne della Santa inquisizione. Dal lato opposto
procedeva un altro ragazzo, anche lui con un cane al guinzaglio. Alla reciproca vista, i due
giovanotti accorciarono il laccio, pronti ad affrontare un probabile tentativo di zuffa. Giunti a
breve distanza l’uno dall’altro, Terenzio aveva il pelo intirizzito, pareva un porcospino, e l’altro,
un collie color panna e caffè, anch’egli di giovane età, era tutto sospinto in avanti con la coda
ritta, sebbene nessuno dei due avesse ancora osato ringhiare o ancor meno abbaiare. L’angusto
sentiero non permetteva deviazioni di sorta, per cui era inevitabile che i quattro venissero a
contatto tra di loro. Gianfilippo stavolta aveva persino perso il sorriso sinistro, che riusciva a
mantenere anche quando la mamma lo minacciava di dargliele di santa ragione, a causa di qualche
sua malefatta. Nel momento in cui le due bestiole si erano sfiorate, era avvenuto l’impensabile. In
religioso silenzio i due si erano annusati a vicenda, per scoprire nuove sensazioni o piú
semplicemente con chi avevano a che fare, e un attimo dopo era tutto un leccarsi e rincorrersi per
la manifesta gioia di un amore sbocciato dal caso. In questo frangente si era verificato appunto il
gesto imperdonabile. Tornato in sé in seguito allo spavento, invidioso per l’amico, che invece di
offrirsi quale oggetto del suo spasso, preferiva sollazzarsi a sua volta, Gianfilippo lo aveva
afferrato per la collottola, lasciandogli un segno ancora visibile dopo due settimane, e lo aveva
trascinato via con sé. Terenzio, a freddo, chiedeva giustizia; d’ora in poi le cose sarebbero andate
in maniera ben diversa.
Nelle settimane a seguire chiunque avrebbe creduto che di mezzo ci fosse un sortilegio, che il
candido animale si fosse rivolto ad un demonio per ricevere grazie insperate: si stava ingrandendo
a vista d’occhio, le zampine di una volta diventavano veri e propri artigli, il corpo si mutava in
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tronco, e ciò che un tempo era una timida sporgenza, era divenuta adesso una vera e propria
testa. Il ragazzo, al contrario, pareva aver arrestato la sua crescita naturale; la sproporzione tra i
due era diventata ad un tratto lampante. Un giorno porti a passeggio il tuo cagnolino, il giorno
dopo… è lui a rimorchiarti.
Le prime volte, in strada, il cane si limitava a strattoni sporadici, ancora controllabili, sebbene in
un paio di occasioni era riuscito addirittura a divincolarsi. Erano i primi assaggi di libertà,
inusuale, e dopo alcuni istanti in cui se ne restava a fiutare l’aria, come per capire da quale lato
spingesse il vento, si lasciava acciuffare di nuovo. Gianfilippo aveva ormai compreso che le regole
del gioco stavano per cambiare, e spesso lo si trovava tutto solo in camera a contemplare
soluzioni per ovviare al problema.
In un primo momento aveva convinto i genitori a comprargli un guinzaglio a lunghezza
regolabile, cosí quando il sottoposto si ribellava, poteva lasciare un po’ di corda per non farsi
trainare, come usa il pescatore con i pesci di dimensioni portentose. Quando poi il ribelle si fosse
sfiancato, lo avrebbe tratto nuovamente a sé.
Per ottenere margini di sicurezza via via maggiori, di cui si prestava necessità, data la crescita
esponenziale dell’animale, aveva deciso di non affidarsi piú solo ad un semplice guinzaglio, ma di
procurarsi una corda robusta da utilizzare a mo’ di frusta, cosí da poterlo controllare a bacchetta,
come un imperatore con i sudditi dall’alto del suo trono.
Il pomeriggio di questa domenica estiva, i due escono per l’ennesima volta insieme. Tutto
comincia nel migliore dei modi: Terenzio si dimostra piú calmo del solito e il padroncino lo segue
a distanza ravvicinata. Passano da stradine secondarie a strade sempre piú affollate, in cui i bar e i
cinema pullulano di persone riversate davanti ai banconi, ai tavoli e alle casse. Come per lanciare
un segnale, il cane si volta un istante, fissa il ragazzo negli occhi, si rivolta e parte, le quattro
robuste e agili gambe non si lasciano piú scorgere. Il giovane è teso, capisce che per la corda è
troppo tardi, la getta e allenta il guinzaglio; si concentra per la sfida finale. Prime a cadere sono tre
sedie, quindi è la volta di un cameriere, che con la solita fretta e il carico ingombrante di
leccornie, taglia la strada al missile per poi accasciarsi al suolo. Due, quattro, sei metri. Gianfilippo
intuisce che non può restarsene lí ad attendere, perché stavolta la corsa è destinata a durare, e se
si fa sorprendere immobile verrà catapultato. Comincia quindi a correre, piú veloce che può. Uno
strappo improvviso lo costringe a mettere le ali ai piedi. La catena non ha piú giogo. Rimpiange
l’errore di calcolo. Il laccio è troppo robusto perché si spezzi subito e, quel che è peggio, è legato
saldamente al polso. Non ha scelta: come un novello campione di sci nautico, tenterà
disperatamente di rimanere in piedi il piú a lungo possibile, maledicendo mille volte quel nodo
contratto con l’indomito compagno.
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