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110928-1006 I Love Beethoven

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110928-1006 I Love Beethoven
Ludwig van Beethoven
Le nove Sinfonie
Gianandrea Noseda direttore
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Joseph Karl Stieler (1781-1858), Ritratto di Ludwig van Beethoven. Olio su tela, 1819-1820. Bonn,
Beethoven-Haus.
Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Le nove Sinfonie
Gianandrea Noseda direttore
Orchestra e Coro del Teatro Regio
primo concerto
„ Mercoledì 28 Settembre 2011 ore 20.30
„Giovedì 29 Settembre 2011 ore 20.30
Sinfonia n. 1 in do maggiore op. 21
Adagio molto - Allegro con brio
Andante cantabile con moto
Minuetto: Allegro molto e vivace
Finale: Adagio - Allegro molto e vivace
Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 “Eroica”
Allegro con brio
Marcia funebre: Adagio assai
Scherzo: Allegro vivace
Finale: Allegro molto - Poco andante - Presto
secondo concerto
„ Venerdì 30 Settembre 2011 ore 20.30
„Sabato 1 Ottobre 2011 ore 20.30
Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36
Adagio molto - Allegro con brio
Larghetto
Scherzo: Allegro
Allegro molto
Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60
Adagio - Allegro vivace
Adagio
Allegro molto e vivace - Trio: Un poco meno allegro
Allegro ma non troppo
Sinfonia n. 5 in do minore op. 67
Allegro con brio
Andante con moto - Più moto
Allegro
Allegro - Presto
terzo concerto
„ Domenica 2 Ottobre 2011 ore 17
„Martedì 4 Ottobre 2011 ore 20.30
Sinfonia n. 6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale”
Allegro ma non troppo
Andante molto mosso
Allegro
Allegro
Allegretto
Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92
Poco sostenuto - Vivace
Allegretto
Presto - Assai meno presto
Allegro con brio
quarto concerto
„ Mercoledì 5 Ottobre 2011 ore 20.30
„Giovedì 6 Ottobre 2011 ore 20.30
Nicola Beller Carbone soprano
Anna Maria Chiuri mezzosoprano
Kor-Jan Dusseljee tenore
Albert Dohmen basso-baritono
Claudio Fenoglio maestro del coro
Sinfonia n. 8 in fa maggiore op. 93
Allegro vivace e con brio
Allegretto scherzando
Tempo di minuetto
Allegro vivace
Sinfonia n. 9 in re minore op. 125 “Corale”
Allegro ma non troppo, un poco maestoso
Molto vivace - Presto
Adagio molto e cantabile - Andante moderato - Adagio
Presto - Allegro ma non troppo - Allegro assai - Presto
Recitativo - Allegro assai - Allegro assai vivace alla marcia - Andante maestoso
Adagio ma non troppo, ma devoto - Allegro energico, sempre ben marcato
Allegro ma non tanto - Poco adagio - Prestissimo
RegioLive
Per la prima volta è possibile collegarsi gratuitamente, nei foyer del Regio tramite rete Wi-Fi, al sito
www.regiolive.it per scaricare il programma di sala e alcuni contenuti extra come le partiture delle
Sinfonie e le videointerviste al maestro Gianandrea Noseda.
RegioLive è realizzato grazie alla collaborazione con il Settore Servizi Telematici dell’Assessorato ai
Sistemi Informativi della Città di Torino.
È inoltre possibile esprimere la propria opinione sui concerti
collegandosi al calendario presente sul sito www.teatroregio.torino.it
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Riascoltare le nove Sinfonie
Da circa due secoli le nove Sinfonie di Beethoven sono presenti alla mente e al cuore di tutte le generazioni nella singolarità delle loro fisionomie: presenti come individui precisi, compagni di strada, proverbi dell’anima; ma il modo in cui pervengono a
rappresentarsi come tali, ogni volta che si considerino da capo, resta misterioso come
un evento naturale, terribilmente semplice e tuttavia insondabile. Conviene quindi
ascoltare e riascoltare umilmente le nove Sinfonie: ripartono sempre da capo, e noi
con loro, perché sempre ci toccano in qualcosa di profondo, fuori dal variare dei tempi
e dei gusti.
Salvo la Nona Sinfonia, tutte le altre otto sono venute alla luce nello spazio fra
il 1800 e il 1812: rispetto ai valori messi in gioco e all’influenza esercitata, si tratta
quindi di un corso creativo breve, veloce, quasi rapinoso. Storicamente muovono dalla
perfezione delle ultime sinfonie di Mozart e di Haydn, in sostanza ignorando il lento
processo di evoluzione della sinfonia settecentesca dalla serenata, dal concerto, dalla
sinfonia d’opera: arte, quindi, che tende all’immediato presente, che assume un genere e una sintassi già definiti e a portata di mano. Per contro, l’effetto sulle epoche
successive fu pervasivo e condizionante; in qualche modo le sinfonie “romantiche”
di Schubert, Weber, Mendelssohn e Schumann, pur avendolo presente, sembrano
aggirare il modello, mentre il confronto diventa diretto, alcuni anni dopo, solo con
la generazione di Brahms; l’eredità della “sinfonia dopo Beethoven” costituisce un
laborioso capitolo della storia musicale dell’Ottocento; un capitolo pieno di passioni
e di polemiche, in cui Berlioz, Wagner, Brahms, Bruckner, Čajkovskij, per non citare
che i massimi, scriveranno le loro deduzioni, stenderanno i loro paragrafi e i loro
commenti.
Intanto le nove Sinfonie restano là: separate dai flutti della storia, ma sempre
pronte a ricrearsi attraverso le letture delle nuove generazioni che le avvicinano. Tutti
siamo d’accordo che considerazioni solo formali, analitiche, che pure hanno riempito
volumi e sono importantissime a stringere obiettivi precisi, non saprebbero rendere
giustizia all’intera portata dell’edificio; Mozart e Haydn, in quanto a qualità d’invenzioni e sottigliezze formali, avevano già esaurito il campo; il fattore nuovo introdottovi da Beethoven è la capacità di attirare dentro la sfera della musica concetti, idee e
sentimenti che non le appartengono in esclusiva, come il pathos della storia, del pensiero o della natura; è un fatto che l’energia di rinnovamento di cui l’Europa è stata
spettatrice tra la Rivoluzione francese, l’impero napoleonico e la Restaurazione, ha
nell’opera di Beethoven una delle testimonianze più compiute. La concezione romantica della “musica pura”, separata dalla realtà, non basta a Beethoven che sempre, ma
nelle Sinfonie in modo particolare, vuole essere eloquente e rappresentare situazioni
e caratteri drammaticamente precisi. Usiamo il termine “drammatico” per le Sinfonie
di Beethoven in quanto percorse (con l’eccezione della Sinfonia “Pastorale”) da una
dialettica di opposti che genera una sorta di azione, e perciò un “dramma”: di cui però
i personaggi sono soltanto impulsi affettivi, che a parole potremmo definire soltanto
per metafore. Questa qualità drammatica è già presente nelle Sonate per pianoforte,
che più volte anticipano il mondo espressivo delle Sinfonie; e in effetti anche le Sonate
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di Beethoven sono drammi, ma drammi intimi, espressi in un colloquio a tu per tu
con lo strumento prediletto; le Sinfonie invece sono drammi rappresentati, in cui
l’autore s’identifica con un pubblico sottinteso già all’atto della concezione.
Sul loro sfondo infatti sta la trasformazione della società musicale maturata fra il
1780 e il 1820, con l’affermarsi del nuovo pubblico della moderna sala da concerto e
la progressiva estinzione delle committenze e della circolazione musicale nelle dimore
patrizie; su questa trasformazione il blocco delle nove Sinfonie ha influito in modo
incomparabile, fondando la fisionomia stessa del concerto sinfonico moderno; è vero
che le prime esecuzioni si svolgevano nei palazzi dell’aristocrazia viennese, con gli
strumenti ad arco ridotti spesso a un pugno di esecutori, ma in realtà quelle opere
erano destinate a un pubblico universale e pensate per un’orchestra libera dalle limitazioni materiali che ancora la condizionavano negli anni di Beethoven. Questa
loro centralità nella vita concertistica moderna può far sorgere un interrogativo: che
cosa ci avvicina tanto alla musica di Beethoven, con il suo assoluto ottimismo, il suo
messaggio di avanzamento verso una meta positiva, quando oggi ogni atteggiamento eroico o titanico tende a suonare sorpassato, se non falso o retorico? E dov’è nel
mondo contemporaneo quella eticità che è tanta parte del carattere beethoveniano?
La “lotta contro il destino” sublimata dalla Quinta Sinfonia può risultare chimerica
nell’era del progresso tecnologico e scientifico; il connubio fra uomo e natura cantato
da Beethoven nella Pastorale sembra essere stato sterilizzato dalla moderna ecologia;
Prometeo non ha più nulla da off rire all’uomo della società dei consumi e la fratellanza universale celebrata dalla Nona Sinfonia ha imboccato la via dei grandi viaggi
organizzati. Eppure, la società di massa, dei consumi, della tecnologia è assetata di
musica di Beethoven tale e più di quella precedente: basta vedere la mobilitazione
del pubblico al solo apparire del nome di Beethoven in cartellone; e tutto ciò perché quella musica prospetta un insieme di valori, un mondo ideale e armonioso che
qualcuno ha conosciuto e saputo fermare in forme salde e reali: che sono lì, presenti e
tangibili, e che noi continuiamo a rincorrere nella loro vergine distanza per riportare
nella nostra vita quei valori che non ci sono più e di cui tuttavia sentiamo sempre di
più il bisogno.
Giorgio Pestelli
Giorgio Pestelli è stato professore ordinario di Storia della musica alla Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Torino ed è critico musicale del quotidiano «La Stampa». Assieme a Lorenzo Bianconi è direttore della Storia dell’Opera italiana (Edt) e fa parte del comitato editoriale per la pubblicazione delle opere di Verdi (Chicago-Milano). Autore di numerosi saggi, ha pubblicato tra l’altro L’età
di Mozart e di Beethoven (Edt, Torino 1991²), Canti del destino. Studi su Brahms (Einaudi, Torino 2000,
premio Viareggio 2001 per la saggistica), La pulce nell’orecchio (Marsilio, Venezia 2001), Gli immortali (Einaudi, Torino 2004) e Ascoltare la musica classica (Editrice La Stampa, Torino 2008). È socio
dell’Accademia delle Scienze di Torino, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e dell’Accademia
Nazionale dei Lincei.
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Un ritratto
Di Beethoven questo si può dire: che da una vita praticamente priva di eventi significativi nacque l’insieme di opere più significativo della nostra storia musicale. Fantasia e
ricchezza interiore sono le due qualità che fanno grande un artista, e Beethoven le possedeva entrambe in misura eccezionale. Così come un’ostrica riesce a fare di un granello
di sabbia una perla, allo stesso modo egli seppe far lievitare nella sua immaginazione e
nella sua arte gli stimoli che la sua esistenza tutto sommato banale gli aveva offerto. Ma
se del lavoro di un’ostrica quel che ci interessa è solo la perla finale, nel caso di Beethoven,
il suo granello di sabbia, cioè la sua biografia, per povera di avvenimenti che possa essere, ci interessa e molto. Questo non è così scontato e non vale per tutti i compositori, infatti è proprio con Beethoven che la musica si arricchisce in modo fino ad allora
inaudito di implicazioni morali, costituendosi come l’arte per eccellenza dell’interiorità
umana. Se è pur vero che non basta conoscere la vita di un compositore per spiegarne le
musiche, nel caso di Beethoven non si riesce quasi a farne a meno, tanto è coinvolgente
l’urgenza comunicativa dei suoi lavori e forte l’illusione che in essi egli parli sempre in
prima persona. Ci sono opere che non ci spingono particolarmente a indagare nelle vite
dei loro autori, i quali sembrano essere sempre esterni ad esse: di Palestrina, di Bach,
persino di Haydn, quanti sentono la curiosità di conoscere vita, morte e miracoli? Invece
di Beethoven vogliamo sapere tutto, perché la sua musica ci sembra impastata, fin nel
profondo, di vita e di passione. E non stupisce quindi che parallelamente al culto della
sua musica si sviluppò il culto della sua persona, finché a forza di idealizzazioni egli diventò una sorta di figura archetipica del “compositore per eccellenza”, un modello a cui
rifarsi sempre e comunque; un busto di gesso, insomma, in grado di ispirare, ma anche
una presenza ingombrante, capace di portare molti musicisti lontano dalla propria vena
più naturale.
Nella realtà dei fatti Beethoven era una persona molto più contraddittoria, e pertanto infinitamente più simpatica, dell’uomo tutto d’un pezzo che si voleva far credere fino
a non molto tempo fa, e che in fondo anche lui pensò di essere per gran parte della sua
vita. Se si vanno a leggere le biografie più attendibili o direttamente i suoi quaderni di
conversazione, le lettere e i diari, si scoprono tanti dettagli rivelatori dei dissidi interiori
di questo grand’uomo: era capace di dire in pubblico “peste e corna” persino dell’imperatore e allo stesso tempo di attendere con un misto di ansia e vanità un riconoscimento
ufficiale da Federico Guglielmo di Prussia (che poi tra l’altro non gli arrivò mai); sempre
incurante del proprio aspetto fisico e delle buone maniere, andava su tutte le furie se non
era considerato come un nobile, quale di fatto non era; scrisse e riscrisse un’opera lirica
che esaltava l’amore coniugale e il sacrificio, e poi non se la sentì mai di sposarsi, anzi
cercò in tutti i modi di impedire i matrimoni dei suoi due fratelli; allo stesso modo compose il più grande inno alla fratellanza universale che musicista abbia mai concepito, e
poi non seppe mettere da parte i suoi complessi, tiranneggiando il suo povero nipote al
punto da spingerlo a tentare il suicidio; passò alla storia per aver vissuto la sua vocazione
di compositore come una missione e poi sfornò, guadagnandoci un sacco di soldi, opere
di circostanza per celebrare il Congresso di Vienna, momento simbolo della restaurazione politica in Europa; si esaltava leggendo Plutarco e gli stoici, e poi, rassegnatosi alla
condizione di scapolo, non resisteva se qualche amico gli organizzava un’uscita con una
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prostituta (anche se poi si pentiva); era capace di scrivere la Grande Fuga, ma non imparò
mai a far di conto oltre all’addizione; sognò di andare a far fortuna a Parigi, Londra,
persino in America, dove a detta sua lo avrebbero apprezzato di più, e poi non si mosse
mai da Vienna; era insofferente verso qualunque ingerenza nel suo lavoro, eppure vagheggiò per tutta la vita un posto fisso da Kapellmeister.
Insomma, ce n’è abbastanza per chiedersi come siano usciti dalla sua penna i suoi
lavori che, seppur animati da impulsi contrastanti e imprevedibili, hanno sempre l’integrità formale dei classici e testimoniano una lucidità e una presenza di spirito che il loro
autore, in molte circostanze della vita, stentava a dimostrare. Se infatti Beethoven veniva
considerato dai suoi contemporanei mezzo matto, o quantomeno un tipo bizzarro, egli
non perse mai di vista la società in cui gli toccò di vivere e cercò istintivamente di non
perdere quel ruolo attivo e positivo che in essa si era conquistato. Così riuscì a trasformare le difese elaborate dal suo carattere in reazione ai traumi della sua esistenza in uno
stile, un modo nuovo di concepire le forme della tradizione che andò a soddisfare i nuovi
bisogni interiori di un pubblico pronto a celebrarlo e a riconoscersi nelle sue creazioni.
Il titanismo beethoveniano, ad esempio, rappresentò certamente una fuga in avanti dai
propri irrisolti problemi verso un mondo di sovrumane virtù e imperativi categorici,
un’immaginaria compensazione al dramma della propria sordità (peraltro, ragionando
in termini reali e non artistici, alquanto sproporzionata, visto che Beethoven diventò
effettivamente sordo solo dopo il 1817, cioè ben dopo il suo cosiddetto “periodo eroico”),
ma coincise al tempo stesso con il gusto musicale del primo decennio dell’Ottocento
per una musica animata da nobili ideali, elevata ed edificante. Allo stesso modo, negli
anni critici dal 1812 al 1819, quando le sovrastrutture eroiche di Beethoven andarono
in crisi, messe alla prova dalla realtà concreta e ingarbugliata dei rapporti umani (con
l’Immortale Amata, con la cognata, il nipote, i fratelli) egli subì un vero e proprio tracollo nervoso, riuscì a mantenersi bene o male in carreggiata grazie alla sua musica, ricercandovi tra mille difficoltà uno stile ancora diverso dal precedente che cristallizzasse,
nell’arte prima ancora che nella vita, il nuovo equilibrio della sua personalità: fu il cosiddetto “terzo stile” beethoveniano, un mondo poetico caratterizzato da forme più libere
e divaganti, in cui le pretese della volontà si ridimensionarono, lasciando spazio anche
ad atteggiamenti più concilianti e persino a squarci di rasserenata trascendenza. Così,
se nella vita di Beethoven i problemi potevano trascinarsi e restare irrisolti (ma va detto
che negli ultimi anni di vita egli si rappacificò con tutto e con tutti), nella sua musica le
sfide sono sempre portate a termine senza residui e l’impressione che ne ricaviamo non è
mai quella di una lotta disperata o inconcludente, ma quella tonificante di un uomo che,
anche nelle traversie, non perde mai di vista il fine ultimo del suo agire, cioè il bene.
Alberto Bosco
Alberto Bosco si è formato a Torino, completando all’Università e al Conservatorio gli studi di Storia
della musica, Pianoforte e Composizione. Ha frequentato inoltre l’Università di Vienna, l’Università
Complutense di Madrid, il Conservatorio Superiore di Lione, l’Università di Oxford (Queen’s College)
e la Columbia di New York. Tra le istituzioni che gli hanno conferito borse di studio il Ministero degli
Esteri spagnolo, l’Università di Torino, la Commissione Fulbright (Usa-Italia) e la Fondazione Paul
Sacher di Basilea. Insegna Storia della musica ai Corsi di formazione musicale della Città di Torino e
collabora regolarmente con riviste specializzate, società di concerti e fondazioni liriche.
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primo concerto
Sinfonia n. 1 in do maggiore op. 21
In uno dei suoi scritti critici, Robert Schumann afferma che le “opere prime” di
grandi autori destinati a elevare un certo genere artistico a vette di somma grandezza
dovrebbero destare un riguardo maggiore rispetto a quello che si accorderebbe loro
se tali opere non avessero avuto un seguito glorioso. Questa idea, del tutto condivisibile, può senz’altro valere per la Prima Sinfonia di Beethoven, un’opera al cui ascolto
difficilmente si potrebbe immaginare l’impressionante sviluppo e la radicale trasformazione che il genere sinfonico avrebbe subìto nelle mani del compositore da lì a pochissimi anni, ma che nonostante questo conquista tutto il nostro curioso interesse,
non fosse altro che per il fatto di essere il primo passo compiuto da Beethoven nel
mondo della sinfonia.
L’opera ebbe la sua prima esecuzione nel primo anno del nuovo secolo (precisamente il 2 aprile 1800, presso il Burgtheater di Vienna), ma le proporzioni, lo stile
e l’idea compositiva sono ancora quelli della sinfonia tardo-settecentesca, tutta animata da uno spirito di evidente ossequio al modello di Haydn. Non è infatti fuori
luogo per quest’opera parlare di una certa «angoscia dell’influenza», come il critico
letterario Harold Bloom indica l’ambivalente rapporto che lega ogni giovane poeta ai
suoi predecessori, i quali finiscono per diventare modelli da cui è necessario liberarsi:
nel caso di Beethoven i modelli sono certamente le Sinfonie Londinesi di Haydn e le
ultime tre sinfonie di Mozart (cui, per i crediti alla Prima Sinfonia, è da aggiungere
anche la Linz), che avevano definitivamente conferito al genere della sinfonia un’aura
di nobiltà, di forma musicale in cui esprimere il più alto magistero compositivo. Non
stupisce quindi che Beethoven si decida a comporre la sua prima sinfonia solo all’età
di trent’anni, e nel farlo rinunci a quella serie di sperimentazioni (all’epoca viste ancora come stravaganze) verso cui si era già indirizzato in altri generi. Tanto più che il
concerto al Burgtheater sarebbe stata la prima vera occasione di farsi conoscere a un
pubblico più vasto della ristretta cerchia di aristocratici viennesi che frequentava.
In realtà, elementi di innovazione e di eccentricità non sono del tutto assenti,
ma essi sono riconducibili a quell’estetica dell’arguzia (Witz), della trovata originale,
dell’elemento inatteso finalizzato allo stupore dell’ascoltatore che era stato principio fondamentale dello stile di Haydn e che il giovane Beethoven eredita e assorbe
completamente. In quest’ottica si può leggere, ad esempio, la stranezza di iniziare
l’Introduzione del primo movimento di una sinfonia scritta in do maggiore con una
cadenza in fa maggiore, indisciplina che costerà a Beethoven più di un rimprovero da
parte di una critica altrimenti molto benevola nei confronti di questa sinfonia. (Del
resto Haydn, qualche anno prima, aveva escogitato una mossa altrettanto inaspettata
aprendo una delle sue sinfonie con un rullo di timpano).
Ma è questa l’unica stravaganza presente nel primo movimento il quale, dopo la
breve introduzione lenta, innesca un Allegro con brio di estrema chiarezza e fluidità,
nella solare tonalità di do maggiore, ombreggiato solo in un breve passaggio, all’interno del secondo tema, dalle tinte oscure della tonalità minore. È stato recentemente
dimostrato come il primo tema di questo Allegro sia fortemente imparentato con una
tipologia di motivi che abbondavano nel nutrito repertorio di sinfonie della Rivolu9
zione, da cui Beethoven attingerà largamente anche per le future sinfonie maggiori;
la maniera con cui esso viene trattato rivela la già completa e matura acquisizione del
linguaggio sonatistico, soprattutto nella capacità di sviluppare e variare gli elementi
melodici e inserirli in un discorso musicale continuamente proiettato al progredire,
al tendere verso una meta.
Al principio della cantabilità è invece votato il secondo movimento, Andante cantabile con moto, percorso da una leggerezza e una grazia ancora tutte settecentesche
– si potrebbe dire rococò – già evidenti nel primo tema, la cui costruzione è, però,
resa più interessante sotto l’aspetto compositivo dal ricorso a un’imitazione di tipo
contrappuntistico, un’arte alla quale il giovane compositore era stato iniziato durante
le lezioni viennesi di composizione con il maestro Albrechtsberger. Interessante in
questo brano anche il ruolo preponderante del timpano, anticipazione degli sviluppi
che lo strumento avrà in alcune sinfonie della maturità.
Certamente il movimento più innovativo di tutta la sinfonia è il Minuetto: nonostante la dicitura apposta da Beethoven esso è chiaramente uno Scherzo, ossia una
versione accelerata della danza aristocratica settecentesca la quale, sottoposta a questa accelerazione, perde ogni connotato patrizio per acquisire i tratti di un moderno
attivismo, di un dinamismo tutto borghese e cittadino. Questa trasformazione della
paludata danza di corte era già stata introdotta da Haydn nei suoi quartetti, ma egli
aveva evitato di estenderla anche alla sinfonia, genere più celebrativo e quindi meno
adatto a stravolgimenti di questo tipo: quello che non fece il maestro lo fece l’allievo,
stabilendo una prassi che durerà per tutto il secolo.
La sinfonia torna nel binario della convenzione con l’ultimo movimento, l’Allegro
molto e vivace: secondo l’abitudine, Beethoven compone un brano in cui dominano
brio, spensieratezza festosa ed energia vitale, nel quale è da evitarsi qualsiasi complicazione di scrittura, affidandosi quindi a temi semplici, immediati, dal piglio popolare. Ma prima che quest’ultimo movimento abbia inizio, ancora una trovata di spirito:
Beethoven inserisce un Adagio in cui l’orchestra, che si finge spaesata, cerca per ben
cinque volte la nota d’attacco, disegnando una scala ascendente che non riesce mai a
trovare il suono giusto per partire; solo il sesto tentativo andrà finalmente a segno.
È quasi incredibile pensare che da lì a due anni (quando Beethoven inizierà gli
abbozzi dell’Eroica) la sinfonia non sarà più luogo di scherzi disimpegnati e di humour
scanzonato, ma veicolo di espressione di ben altri ideali.
Marco Targa
Marco Targa si è laureato in Discipline dell’Arte della Musica e dello Spettacolo presso l’Università di Torino, dove
ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia e critica delle culture e dei beni musicali, dedicandosi allo studio
dell’opera italiana di fine Ottocento. È diplomato in Pianoforte e ha studiato Composizione presso il Conservatorio di Milano. Ha pubblicato saggi sull’opera italiana e sulla musica vocale da camera giovanile di Debussy.
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primo concerto
Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 “Eroica”
Snodo cruciale nella storia del genere e nella parabola creativa beethoveniana, la
Sinfonia “Eroica” ebbe una gestazione particolarmente lunga e sofferta, testimoniata da
numerosi schizzi, abbozzi e ripensamenti che costellano il percorso verso la redazione definitiva del lavoro. L’opera fu iniziata nell’ottobre del 1802, al culmine di quella crisi personale insorta di fronte all’avanzare di una sordità sempre più menomante, che Beethoven
superò attraverso la rottura con gli schemi del passato e la formulazione di un nuovo linguaggio, che in un baleno fece sembrare il Settecento un secolo distante decenni.
Nelle originarie intenzioni, come è noto, l’opera doveva essere intitolata a Napoleone
Bonaparte, visto da Beethoven come simbolo incarnato di una umanità rinnovata
dagli ideali rivoluzionari di libertà e uguaglianza, anche se è sicuro che, almeno in
parte, alla dedica del lavoro compartecipasse il concreto progetto, poi naufragato, di
un trasferimento a Parigi, la cui pianificazione occupò Beethoven per buona parte
del 1803. Le successive vicende politiche e militari d’Europa, con l’invasione dell’Austria da parte delle truppe francesi e l’autoincoronazione di Napoleone a imperatore,
portarono a un successivo ripensamento del titolo, che venne sostituito dal celebre
Sinfonia eroica [...] per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo che campeggia sul frontespizio della prima edizione, datata 1806. La prima esecuzione pubblica avvenne
tuttavia il 7 aprile 1805 al Theater an der Wien, durante un’accademia del violinista
Franz Clement, futuro primo interprete del Concerto per violino op. 61.
Rispetto alle due sinfonie precedenti, l’opera segna un deciso passo in avanti che
non riguarda solo le dimensioni materiali del lavoro – che fanno dell’Eroica la sinfonia più lunga dopo la Nona – o le novità strumentali, che pure sono di notevole
portata, come l’utilizzo di tre corni al posto dei consueti due o la divisione delle parti
dei violoncelli e dei contrabbassi. Ciò che cambia rispetto al passato è soprattutto
la logica costruttiva, che porta a una dilatazione del processo di sviluppo tematico,
e l’inserimento di movimenti, come la Marcia funebre, del tutto inconsueti in un
lavoro sinfonico. Non vi è opera nel catalogo beethoveniano che, come l’Eroica, abbia
portato innumerevoli commentatori a cercare in riferimenti extramusicali i presupposti per una sua completa comprensione e abbia contribuito a consolidare la titanica
immagine ottocentesca dell’autore.
Era prevedibile che un’opera portatrice di così grandi novità suscitasse non poche resistenze nei suoi primi uditori. Czerny riferisce che la Sinfonia era «considerata troppo lunga, elaborata, incomprensibile, e fin troppo rumorosa», e l’«Allgemeine
Musikalische Zeitung» le attribuiva «eccessive stravaganze e novità», suscitando una
secca replica dell’autore, secondo cui tali critiche altro non facevano che squalificare
il giornale che le pubblicava. Naturalmente autore ed editore erano però ben consci
dell’impatto rivoluzionario che l’opera avrebbe avuto sul pubblico viennese, tanto che
nella prima edizione si premurarono di specificare, in italiano, che «Questa Sinfonia
essendo apposta più lunga delle solite, si deve eseguire più vicino al principio ch’alfine
di una Accademia e poco dopo un’Overtura un’Aria ed un Concerto; accioché, sentita
troppo tardi, non perda per l’auditore, già faticato dalle precedenti produzioni, il suo
proprio, proposto effetto».
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Due imperiosi accordi di tonica aprono la composizione, quasi a rappresentare
il portale di ingresso in una nuova età del genere; segue l’enunciazione da parte dei
violoncelli di un primo tema tutto beethoveniano nella semplicità del suo profilo, che
si articola sulle note del medesimo accordo, di fronte al quale si contrappone in forte
contrasto la fissità del secondo gruppo tematico. La sezione centrale (lo sviluppo) è
la più lunga e articolata del movimento e al suo interno l’essenzialità del primo tema
mostra tutte le sue potenzialità latenti, condotto com’è in un drammatico percorso
di inaudite peripezie armoniche e ritmiche; nello sviluppo, ulteriore deviazione dallo
schema del sinfonismo classico, trova posto un terzo gruppo tematico, che ritornerà
nella coda del movimento.
L’eccezionalità del lavoro appare ancora più evidente nella gigantesca architettura
della Marcia funebre. Chiaro è il riferimento esteriore al tempo di marcia, così in uso
in Francia durante la Rivoluzione e l’età napoleonica; ma di quell’involucro qui altro
non resta che un semplice profilo ritmico, pronto a sfaldarsi nella monumentale sezione fugata che troneggia al centro del movimento. Al confronto con l’ostentazione di
potenza esibita nel primo tempo, il brano si presenta come una profonda meditazione
sul dolore umano, quasi un corrispettivo sonoro di quel documento autobiografico
che è il testamento di Heiligestadt [qui citato nel testo sulla Sinfonia n. 2, n.d.r.], in cui
Beethoven abdicava a una vita fatta di relazioni normali per chiudersi nell’isolamento
di una creatività rinnovata.
Nel terzo movimento Beethoven getta le basi dello Scherzo moderno, caratterizzato dalla sua immateriale leggerezza: nella sua iniziale corsa in punta d’arco si trova
il seme che in piena temperie romantica porterà alle fatate suggestioni dell’Ouverture
del Sogno di una nozze di mezza estate di Mendelssohn.
L’ultimo movimento è costituito da una serie di dodici variazioni su un tema tratto dal balletto Le creature di Prometeo, già precedentemente utilizzato nelle Dodici
Contraddanze WoO 14 e poi ancora fatto oggetto delle Variazioni per pianoforte op. 35.
Trova qui compimento una nuova concezione formale ed estetica del tema con variazioni, non più visto come una carrellata di pannelli giustapposti, ma inteso come un
percorso accumulativo di tensione drammatica che trova il suo culmine nella sezione
fugata.
Luca Mortarotti
Nato a Torino nel 1976, Luca Mortarotti si è laureato in Lettere presso l’Università della sua città,
sotto la guida di Giorgio Pestelli, con una tesi dal titolo I Trii per archi di Beethoven. Nel 2010 ha conseguito un dottorato di ricerca presso la medesima Università con un’edizione critica dei Concerti Grossi
op. VIII di Giuseppe Torelli. Tra le sue pubblicazioni si ricordano Il problema della datazione del Trio
per archi op. 3 di Beethoven (in «Nuova Rivista Musicale Italiana», Rai-Eri 2004) e Le revisioni novecentesche del Requiem (in Interpretare Mozart, Lim 2008). Ha collaborato inoltre al volume I Mozart in
Italia a cura di Alberto Basso.
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secondo concerto
Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36
Heiligenstadt, oggi, è uno dei quartieri settentrionali di Vienna; ma all’inizio
dell’Ottocento era una località di campagna, nella quale recarsi d’estate in villeggiatura per sfuggire alla calura e ai fastidi cittadini. Nel 1802 Beethoven vi passò diversi
mesi, tra la primavera e l’autunno, nei quali portò a termine, insieme ad altre opere, la
Sinfonia n. 2, probabilmente già ideata dal 1800. La sinfonia venne dedicata al principe Karl Lichnowsky ed ebbe la prima esecuzione pubblica quasi un anno dopo, il
5 aprile 1803, al Theater an der Wien, nell’ambito di una serata che incluse anche la
Sinfonia n. 1, il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra (con l’autore in veste di solista),
l’oratorio Cristo sul monte degli ulivi e altre pagine beethoveniane che, per eccesso di
carne al fuoco, dovettero poi essere sacrificate.
Nonostante l’amenità del luogo, per Beethoven l’estate 1802 non fu affatto serena:
si era infatti recato ad Heiligenstadt, su consiglio del medico, per riposare l’udito e
tentare di arrestare la progressiva sordità di cui da tempo aveva avvertito i primi sintomi. Verso la fine della villeggiatura, Beethoven scrisse una lettera (mai spedita) ai
propri fratelli, che venne scoperta dopo la morte del musicista ed è nota come “testamento di Heiligenstadt”; leggerne alcuni passi permette di toccare con mano lo stato
di desolazione interiore che opprimeva il compositore mentre completava la Seconda
Sinfonia: «O voi uomini che mi reputate o definite astioso, scontroso o addirittura
misantropo, come mi fate torto! [...] Pur essendo dotato di un temperamento ardente, vivace, e anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad
appartarmi, a trascorrere la vita in solitudine. [...] Come potevo, ahimè, confessare la
debolezza di un senso che in me dovrebbe essere più raffinato che negli altri uomini, e che in me un tempo raggiungeva un grado di perfezione massima [...]. La mia
sventura mi fa doppiamente soffrire perché mi porta ad essere frainteso. [...] Se sto in
compagnia vengo sopraffatto da un’ansietà cocente, dalla paura di correre il rischio
che si noti il mio stato. [...] Tali esperienze mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita – La mia arte, soltanto essa
mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di
aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre» (trad. di
Giorgio Pestelli).
Da questa condizione spirituale ci si potrebbe aspettare che nasca un’opera cupa e
tormentata; ma nulla di questo compare nella Sinfonia n. 2, e la ragione, a ben vedere,
si legge in questi stessi estratti del testamento di Heiligenstadt: per Beethoven, l’arte,
che ha la forza di salvarlo dal suicidio, non è uno sfogo delle pulsioni interiori, ma
un imperativo morale, il dovere di trascendere la propria condizione personale per
donare le proprie composizioni all’umanità. Composizioni il cui significato è quindi
autonomo e svincolato dalle situazioni contingenti della vita.
Scritta nella ridente tonalità di re maggiore, la Seconda si apre con un’introduzione
Adagio molto nella cui atmosfera, dolce ma non esente da qualche accento drammatico,
fanno capolino alcuni interventi spiritosi, quasi da opera buffa, affidati ai legni, come
la frase discendente a note staccate poche battute dopo l’avvio, o il richiamo trillato
del flauto poco prima che si scivoli naturalmente nell’Allegro con brio. Quest’ultimo è
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costruito in forma-sonata su un frammento rapido e vitalistico (una quartina di semicrome) degli archi gravi e un richiamo come di fanfara proposto dai fiati: temi schietti
nei quali qualcuno ha voluto vedere un’eco della musica militare e rivoluzionaria di
quegli anni (siamo ancora nel periodo della simpatia di Beethoven per Napoleone,
al quale pensava di dedicare la Terza Sinfonia). Al centro dello sviluppo, la quartina
di semicrome torna e viene rimpallata tra legni e archi; ma gli archi, concludendo in
sforzando, mettono ogni volta a tacere la sezione orchestrale concorrente, come una
voce interiore che si vuole negare.
Il Larghetto è, anch’esso, strutturato in forma-sonata, ma il tempo lento e la parentela dei temi rendono lo sviluppo un’amabile conversazione tra le sezioni dell’orchestra. Si delinea, in questo movimento, un’atmosfera serena che spazia dall’amenità
della campagna (dipinta dal primo tema e, più tardi, da alcuni richiami pastorali del
corno) alla grazia molto più cittadina di taluni passaggi, che quasi anticipano gli allegretti brahmsiani. Il vero colpo di scena del movimento si ha però nella brevissima
coda, che dissolve la materia come un sogno che si spegne sul far del mattino: alcuni
accordi in fortissimo paiono dichiarare una chiusura di sipario, che viene però negata
dal ritorno, nelle ultime battute, del sogno in dissolvimento, come se d’un tratto il
focus venisse riportato dal sipario alla scena. Una presenza, tra le righe, di quel mondo del teatro musicale cui Beethoven in quegli anni si stava, con molta circospezione,
avvicinando.
La scelta di usare, per la prima volta in una sinfonia, il termine Scherzo, indica la
precisa volontà del compositore di affermare la propria indipendenza dalla tradizione
settecentesca del minuetto; già il Minuetto della Prima Sinfonia aveva i tratti di uno
Scherzo, ma ora persino la parvenza della danza di corte è abbandonata a favore di un
puro impulso ritmico (del quale il Trio è, in fondo, poco più che una variazione).
L’Allegro molto finale venne definito da Berlioz «come un secondo Scherzo», e la
definizione si comprende ascoltando il motivo impellente degli archi che lo apre e lo
sostiene; qua e là fanno poi capolino goffi interventi del fagotto e guizzi dei legni che,
con fare molto teatrale, si impongono con insistenza nella coda, prima di giungere alla
solarità degli accordi finali, evidenza della volontà beethoveniana di affermare, al di là
delle contingenze della vita, e di qualche voce enigmatica che affiora anche in questa
partitura, un credo positivo.
Marco Leo
Marco Leo, laureatosi in Lettere e specializzatosi in Letteratura, fi lologia e linguistica italiana presso
l’Università di Torino, con due tesi di laurea riguardanti il melodramma dell’Ottocento (Alzira di
Verdi e Pia de’ Tolomei di Donizetti), sta ora svolgendo un dottorato di ricerca su un progetto relativo
ai libretti di Salvadore Cammarano. Collabora in qualità di critico musicale con i mensili «Musica» e
«Cose Nostre» e con alcune riviste web. In collaborazione con l’associazione Mythos è direttore artistico delle «Aurore Musicali» presso l’Educatorio della Provvidenza di Torino.
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secondo concerto
Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60
Composta rapidamente nell’estate del 1806 su richiesta del conte von Oppersdorf,
eseguita privatamente per la prima volta nel marzo dell’anno successivo e pubblicamente in novembre, la Quarta Sinfonia fu elaborata da Beethoven in un momento di straordinaria produttività: stando alle sole opere pubblicate in quel periodo, basti pensare
che venne proposta all’editore insieme al Quarto Concerto per pianoforte, ai tre Quartetti
Razumovskij, al Concerto per violino e all’Ouverture Coriolano. Gli schizzi beethoveniani
ci confermano inoltre che erano già in fieri anche la Quinta e la Sesta Sinfonia.
La tonalità di si bemolle maggiore, la stessa di ben quattro delle sei Messe del tardo
Haydn, non viene usata con grande frequenza dal compositore; ciononostante, sarà
quella di tre suoi capolavori successivi: il Trio “Arciduca” (con cui, secondo Chopin,
«Beethoven si beffa di tutto il mondo»), la Sonata per pianoforte “Hammerklavier”, uno
dei suoi più complessi lavori pianistici, e la Grande Fuga op. 133, forse la composizione
simbolo del gruppo degli ultimi quartetti per archi, incompresi al tempo della loro
pubblicazione ma destinati ad avere una profonda influenza sulla musica da camera
del primo Novecento.
Innumerevoli sono i collegamenti che questa «slanciata fanciulla greca fra due giganti nordici» – celebre definizione che ne diede Robert Schumann, con riferimento
alle più note sinfonie Terza e Quinta – riesce a mantenere sia con grandi opere del
passato classico sia con il presente (e il futuro) di Beethoven. La presenza dell’Adagio
in apertura del primo movimento – come pure nelle prime due sinfonie e nella Settima – non può non rimandare alle tarde sinfonie di Haydn, con cui condivide anche
l’espediente di un’ingannevole tonalità introduttiva; questa è però l’unica evidenza
formale. Si avvertono rimandi alla Marcia funebre dell’Eroica, prima che irrompa un
Allegro vivace (questa volta è chiaro: siamo in si bemolle maggiore), in cui il primo
tema è un poderoso slancio verso l’alto in fortissimo sempre, più dal carattere dinamico
che melodico; la dolce discesa in piano dei legni non è che un breve intermezzo che
rimarca ulteriormente un’ambientazione di prepotente vitalità. La punteggiatura del
fagotto e un crescendo orchestrale di fortissimo e sforzato aprono la strada a sincopi
disorientanti, un motore ritmico che prelude al piano di un secondo tema, un’elegante
figura melodica di due battute in fa maggiore, passata, salendo di registro, dal fagotto
all’oboe al flauto; un’anticipazione, per atmosfera e tonalità, della Sinfonia “Pastorale”.
Un crescendo degli archi per accordi paralleli in forte sfuma senza soluzione di continuità in un ulteriore tema, dolce: è un canone di fagotto e clarinetto, anch’esso parente
della Sesta. Lo sviluppo è incentrato soprattutto sul primo tema, dalle forti tinte dinamiche, nel quale si inserisce anche un nuovo breve elemento tematico. Il crescendo invasivo e continuo del rullo di timpano apre la strada alla ripresa, con il moto perpetuo
di violini secondi e viole e le sincopi del primo tema, la ricapitolazione degli elementi
pacifici e rilassati, quei temi secondo e quarto che qui vengono trasposti nella tonalità
d’impianto. Riecheggiano elementi del primo tema nella coda, che si chiude poco
prima di raggiungere la cinquecentesima battuta.
L’Adagio – in mi bemolle maggiore, tempo di tre quarti – si apre con l’accompagnamento dei violini secondi, su cui poggia un primo tema, cantabile, esposto prima
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dai violini primi e controbilanciato, per moto contrario, dalle viole, per poi essere
ripreso anche dai legni. Le dinamiche forti degli accompagnamenti degli archi sembrano contraddire la definizione di Adagio; il secondo tema viene esposto dal clarinetto in un crescendo che porta dal pianissimo al forte, per ripiombare nel piano che
accoglie un terzo, breve tema, enunciato una prima volta dal fagotto e poi da tutti i
fiati, perso nel seguente aumento dinamico dello sviluppo, giocato sul ritmo dell’accompagnamento. Qui si presenta in due occasioni distinte il primo tema variato per
diminuzione, ai violini e poi ai flauti. Dopo un turbinio di crescendo e diminuendo, la
ripresa propone il secondo tema (ora alla tonica) seguito a ruota dal terzo tema (non
trasposto), questa volta annunciato dal corno. La coda inizia con un lento perdendo
che porta a una brusca impennata dinamica; il timpano ripropone il ritmo dell’accompagnamento in pianissimo, da solo, per crescere con il medesimo rullo del primo
movimento e trascinare tutta l’orchestra alla chiusura in fortissimo.
Del Minuetto, in realtà, rimane solo il nome: come se non bastasse l’indicazione
di Allegro vivace, inadatta alla danza galante per eccellenza, le figure melodiche di
questo movimento contraddicono il metro d’impianto di tre quarti. Questa sinfonia
è dunque ricca di falsi indizi: la tonalità iniziale, la scansione ritmica delle sincopi nel
primo movimento e un minuetto che tale non è. I sali-scendi melodici si stendono
su un continuo alternarsi dinamico di tutta l’orchestra. Tutto viene ripetuto, prima
che venga presentato, in piano, il Trio. Si noti che la duplice comparsa del Trio è una
novità introdotta qui per la prima volta e che verrà ripresa dal compositore nel Presto
dell’altra sinfonia “gioiosa”, la Settima.
L’Allegro ma non troppo è caratterizzato dal tumulto di semicrome degli archi, un
moto inarrestabile che fa da accompagnamento al primo tema, in cui alla discesa dei
violini primi risponde una più ampia figura arcuata dei legni; solo il secondo tema, in
fa, più lezioso, esposto da oboi e flauti, interrompe il fiume in piena dell’orchestra, con
l’inaspettato accompagnamento in terzine dei clarinetti. Le frasi spezzate della melodia e i poderosi sforzati hanno però la meglio in questo movimento dalle tinte forti,
il cui sviluppo mantiene gli entusiasmi e gli slanci dell’esposizione mentre vengono
rielaborati alcuni elementi melodici del primo tema; pare anche di udire, agli archi,
una vaga ripresa del motivo dell’Adagio con cui la Sinfonia si era aperta. Ai clarinetti
torna il delicato secondo tema, che viene riassorbito in un tripudio di tremoli e sedicesimi in fortissimo. Lo sviluppo si schianta su di un accordo di settima diminuita che
fa rallentare l’azione e ridurre improvvisamente la dinamica; gli archi riaffermano
poi la tonalità d’impianto aprendo la ripresa con il primo tema, cui segue una coda in
crescendo che porta alla chiusura con i sei rintocchi finali, sei fuochi d’artificio.
Jacopo Conti
Jacopo Conti (1985), laureato in Storia della musica contemporanea, è attualmente dottorando di ricerca in Storia e critica delle culture e dei beni musicali a Torino. Ha ricevuto vari riconoscimenti accademici ed è borsista del Master dei Talenti della Fondazione CRT. Musicista e compositore, affianca
l’attività musicologica all’insegnamento.
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secondo concerto
Sinfonia n. 5 in do minore op. 67
E il Destino bussò alla porta. Gli avessero detto che ad aprire ci sarebbe stato un
tipo come Beethoven, per giunta in pieno periodo eroico, avrebbe forse usato qualche
cautela in più: magari annunciandosi con una raccomandata, o mandando avanti un
collega più perspicace. Di certo, l’idea di presentarsi al grande compositore con il famoso “ta-ta-ta-taaa” non fu quel che si dice un successo: visto il biglietto da visita così
categorico, il Nostro infatti reagì di conseguenza, trasformando i fatali rintocchi in un
suo personale trionfo, una grandiosa rimonta la cui storia è scritta a imperitura memoria nei quattro movimenti della Quinta Sinfonia in do minore. E c’è da credere che la
batosta ancora bruci all’incauto bussatore di porte, se è vero che da quel fatidico 1808
non c’è chi, uscito da una esecuzione di questa Sinfonia, non si senta in grado a sua volta
di fargliela vedere a tutti questi destini avversi: «Da domani, la mia vita sarà come la
Quinta di Beethoven!». Poi, si sa, svanito l’effetto della musica, la maggioranza ripiega su
più ragionevoli aspirazioni, accontentandosi di condurre senza troppi disastri la propria
mesta e dignitosa “Incompiuta”; ma, intanto, quello scatto morale provato allo scoppio
del do maggiore nell’ultimo movimento continua a risuonare per tutti come un esempio,
un monito a ricercare nella vita la felicità, a conquistarsela nonostante tutto.
Nella Quinta, in effetti, lo spirito vince su tutte le avversità; e questo, in modi sempre diversi, avviene in quasi tutte le composizioni di Beethoven. Ma in questa Sinfonia
la dinamica interiore che anima la fantasia beethoveniana si realizza in modo così
lineare e stringente che si è quasi spinti a credere che rappresenti un valore assoluto: il
modo più alto, più nobile, persino l’unico che si confaccia all’uomo che voglia dare un
senso alla propria esistenza – o, in altri termini, al compositore che voglia dare forma
alla propria opera. Incarnato nelle note della Quinta, l’idealismo tedesco, con la sua
spinta a trascendere di continuo le limitazioni del contingente e il suo imperativo a
dominare dialetticamente la realtà, sembra la cosa più naturale di questo mondo, un
dato di fatto scoperto una volta per tutte e valido universalmente. Già Schumann a
proposito diceva: «Per quanto la si ascolti, la Quinta Sinfonia esercita su di noi un effetto possente e invariabile, come quei fenomeni della natura che per quanto frequenti
ci riempiono sempre dello stesso stupore».
Noi sappiamo bene che il messaggio di questa musica e i mezzi con cui è espresso
non sono «natura» ma cultura, nacquero cioè in un contesto storico preciso e furono
il prodotto di fattori umani e sociali irripetibili. C’è addirittura chi, ansioso di ridimensionare la portata di una tale opera appiattendola il più possibile al suo contesto,
la vede come un’espressione del nazionalismo tedesco per il quale Beethoven in quegli anni aveva mostrato alcune simpatie. Così, le fanfare vittoriose e gli incitamenti
all’azione racchiusi nella musica non sarebbero più generici appelli morali, ma militareschi richiami al popolo tedesco perché si liberi dal giogo degli odiati francesi. Più
giustamente, si può ricondurre il clima grave e importante che aleggia nella composizione al culto del tempo per gli antichi e per i grandi tragici, di cui Beethoven era
imbevuto; o far risalire all’Illuminismo e allo spirito rivoluzionario il senso di fiducia
nella positività dell’agire umano e l’esaltazione dell’individuo, così connaturati a questa musica.
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Pensare però che la Quinta Sinfonia se ne stia lì, buona buona nella casella che le
affidano gli storici è pura presunzione. Come tutti i grandi capolavori dell’arte, essa
brucia nell’esperienza estetica le contingenze storiche e biografiche che l’hanno vista nascere, per farci toccare con mano, senza troppe mediazioni intellettuali, quella
realtà umana che ne è la base. E questa realtà umana è per noi quanto mai attuale e
scottante, trattandosi della radice stessa da cui nasce l’era moderna: l’aspirazione alla
libertà e alla realizzazione di se stessi quale fondamento della vita sociale, con tutto
l’annesso di responsabilità, errori ed eccessi che questo comporta. Ascoltare la Quinta
vuol dire quindi abbeverarsi direttamente alla fonte, cogliere allo stato nascente lo
spirito che malgrado tutto ancora informa il nostro modo di vivere. Che si consideri
quest’utopia come un’ingenuità, una iattura o un nobile traguardo a cui tendere, l’effetto non cambia: la coerenza con cui essa è declinata nella Quinta è tale che, come
aveva già intuito Schumann – e con lui i vari Hoffmann, Goethe, Berlioz – non può
che sconvolgere, risvegliando in noi la sensazione di essere unici artefici del nostro
destino e, volenti o nolenti, l’innato anelito ad andare sempre oltre.
Si dice di questa Sinfonia che sia un manuale di determinazione: non una sbavatura, un passo indietro, una distrazione, ma un procedere serrato e sicuro dall’inquietudine dell’inizio alla luce vittoriosa del finale. Viene da chiedersi come un uomo
capace di regalare ai posteri un’opera così essenziale e rigorosa, non abbia poi trovato
nel quotidiano l’energia e la concentrazione per mettere un po’ di ordine nella propria
vita privata, o magari solo dare una sistemata alle quattro pareti del suo studio, perennemente a soqquadro. Comunque sia, è proprio vero che la Quinta si ascolta da cima a
fondo senza avere il tempo di guardarsi attorno: il primo movimento è così incalzante
che non ci si è ancora seduti e già c’è il ritornello dell’esposizione; nemmeno il tempo
lento è di qualche riposo, con quegli squilli improvvisi in cui Beethoven sembra dire:
«vincerò!»; lo Scherzo poi, così carico di presagi, non finisce neanche, ma si trasforma
in una introduzione al finale, quel finale che erompe già come un fiume in piena e non
si capisce come Beethoven abbia fatto a renderlo via via ancora più trascinante.
Ma si farebbe un torto all’umanità di Beethoven e alla ricchezza di quest’opera,
se accecati dal risultato finale, non si prestasse orecchio anche a quei rari momenti
di crisi e di fragilità, a quelle brevi e impagabili divagazioni che vengono però subito
ricondotte all’ordine dall’imperativo categorico beethoveniano. Ecco alcuni esempi
da non lasciarsi sfuggire: la cadenza dell’oboe nella ripresa del primo movimento;
l’improvvisa interruzione della terza variazione nell’Andante quando flauto, oboe e
clarinetto iniziano a giocherellare sul primo tema; il lungo pedale in pianissimo alla
fine dello Scherzo con quel brivido di incertezza sull’esito della battaglia finale; e, se
si vuole, anche l’ultima coda, introdotta da un bonario fagotto: un piacevole scarto
dal tono altisonante di quest’opera impegnata, con un Beethoven che, smessi per un
momento i panni del condottiero, scende tra di noi, coinvolgendoci in una gioiosa
danza piena di vita.
Alberto Bosco
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terzo concerto
Sinfonia n. 6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale”
Il 22 dicembre 1808, presso il Theater an der Wien, ebbe luogo la prima esecuzione delle beethoveniane Quinta e Sesta Sinfonia, composte contemporaneamente
negli anni 1807-1808 e dedicate entrambe al principe von Lobkowitz e al conte
Razumovskij. Pur accomunate da analogie di carattere strutturale, nella rispettiva forza espressiva rappresentano una contrapposizione di forze contrastanti: se la Quinta
è un’esplorazione «della notte buia dell’anima», la Sesta ne costituisce il contrappeso
psicologico, il superamento spirituale. Luminosa e serena, è l’espressione somma di
quell’Arte che nella concezione schellinghiana si fa mediatrice tra Natura e Spirito.
Una Natura da sempre molto cara a Beethoven: «Non c’è nessuno che possa amare la
campagna quanto me. Dai boschi, dagli alberi, dalle rocce sorge l’eco che l’uomo desidera udire»; e nelle lunghe passeggiate nella campagna viennese, attraverso le letture
di Schelling, Fichte, e soprattutto Kant, egli andava perseguendo un intimo contatto
con la Natura e con il divino in essa manifesto, confidando in una pace rasserenatrice
e in quel dialogo ormai impossibile con gli uomini a causa della sordità, e dunque
ricercato attraverso un sentire più autentico e profondo, in una dimensione tutta interiore; «Dio Onnipotente, nella foresta! Io sono beato e felice: ogni albero mi parla di
te. [...] Chi può esprimere tutto ciò?».
Già nel 1803, a pochi mesi di distanza dalla terribile crisi confluita nella stesura
del testamento di Heiligenstadt, Beethoven annotava in un quaderno di schizzi spunti tematici riconducibili al secondo e al terzo movimento di quella che inizialmente
era la Sinfonia caratteristica, o Ricordi della vita in campagna: forse il tentativo di fissare
il prezioso ricordo, l’eco di quanto gli era più caro, in scene non già descrittive, semmai
nutrite di sensazioni, interiorizzate e assopite, risvegliate a ogni contatto con i profumi e con la magnificenza della Natura. Scene in cui i suoni musicali fungono da
mediatori del creato nelle sue innumerevoli manifestazioni sonore, ponendosi quali
elementi costitutivi del processo creativo e della struttura formale. La successione
delle tonalità, quasi un rondò, nella novità di una struttura in cinque movimenti, la
mancanza di contrasti tematici, i numerosi rimandi tra un tempo e l’altro, lo stile
spezzato delle melodie, i lunghi bordoni su quinte vuote, l’iterazione di figure musicali, le frasi variate, i movimenti ondulatori contribuiscono dunque nella Pastorale alla
mediazione tra una forma finita, votata alla direzionalità – la sinfonia – e l’esigenza di
stasi e di espressione del lento divenire ciclico della Natura.
Durante la stesura Beethoven precisava sui taccuini: «Sinfonia Pastorale, nessuna
pittura, ma in cui sono espresse le sensazioni che suscita nell’uomo il piacere della
campagna, e sono descritti alcuni sentimenti della vita campestre». E pur corredando
ogni movimento di una didascalia, si premurò di sottrarre la sua Sinfonia alla connotazione meramente descrittiva tipica dei Tongemälde e dei Portraits musicaux, quadri
musicali di carattere pastorale-rappresentativo assai in voga all’epoca, apponendo già
sul programma della prima esecuzione la dicitura «Mehr Ausdruck der Empfindung
als Malerei», ovvero «Più espressione di sensazioni che pittura».
Nella sua serenità la Pastorale inizia e finisce in sordina; i primi due movimenti, in
forma-sonata, sono pervasi da uno stato di pienezza spirituale e da una pace estatica:
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il respiro del tema iniziale dell’Allegro ma non troppo – «Risveglio di piacevoli sensazioni all’arrivo in campagna» – immette l’ascoltatore nel clima di beatitudine che
permea l’intera Sinfonia. Morbide linee melodiche si intrecciano in un abile lavorio
costruttivo, laddove ai contrasti Beethoven privilegia incantatorie iterazioni e accostamenti armonici, come in un improvviso illuminarsi colmo di stupore.
Nell’Andante molto mosso – «Scena al ruscello» – il tempo sembra essersi fermato;
un ruscello scorre sul fluire lento e cullante di secondi violini, viole e violoncelli, mentre
gli uccelli dialogano in un sottile gioco di rimandi tra piani sonori diversi. Poco prima
del finale una sospensione dell’orchestra libera in forma di cadenza le voci di usignolo
(flauto), quaglia (oboe) e cuculo (clarinetto), espressamente indicati in partitura: lungi
dall’essere semplici figure onomatopeiche, essi anticipano – attraverso l’analogia con
il Lied Der Wachtelschlag (Il canto della quaglia): «Loda Iddio, ama Iddio, ringrazia
Iddio» – quel sentito ringraziamento che l’ultimo movimento esprime.
Negli ultimi tre movimenti, che si susseguono senza soluzione di continuità, il
tempo riprende a scorrere, e nell’Allegro – «Allegra riunione di contadini» – entra
in gioco in modo festoso l’elemento umano, quel «conforto dell’umana società» che
la sordità aveva negato al compositore. Formalmente è uno Scherzo, con una vivace
danza contadina per Trio nella parte centrale. Ma la ripresa viene appena accennata,
allorché un re bemolle dei contrabbassi annuncia l’arrivo di un temporale: è l’Allegro
– «Temporale, tempesta» – in cui fanno il loro ingresso i tromboni; importante tòpos
di tanta letteratura musicale descrittiva, questa manifestazione non ha eguali: l’uomo
nella sua piccolezza è esposto alla furia delle forze della Natura che si scatenano. Non
è possibile reprimere un brivido – indice di superamento del puro intento rappresentativo – che dà ragione all’epigrafe beethoveniana alla Sinfonia. Unico movimento in
tonalità minore, si sviluppa magistralmente attraverso una scrittura armonicamente
instabile, fino ad approdare a una luminosa scala in do maggiore, un arcobaleno al
calmarsi della tempesta, che conduce all’Allegretto – «Canto dei pastori. Sentimenti
di gioia e di gratitudine dopo la tempesta». Un clarinetto intona il ranz des vaches delle
Alpi svizzere, sopra un bordone di quinta vuota, su cui si modella il canto di ringraziamento dei pastori, continuamente variato. È una grandiosa espressione di giubilo
cui sembra partecipare tutto il creato, in una collettiva lode al Creatore che chiude
circolarmente la Sinfonia, celebrando la ricongiunzione con lo spirito. La conclusione
è di una stupefacente semplicità, con un diminuendo di tutta l’orchestra, un dolce
commiato con la voce del corno in lontananza, quasi l’eco dell’Alpenhorn; perduto il
contatto con l’umano, è il momento di tornare a una quiete solitaria.
Donatella Meneghini
Diplomata in Pianoforte, Donatella Meneghini si è laureata in Storia e critica delle culture e dei beni
musicali presso l’Università di Torino. All’attività musicologica affianca l’attività concertistica, in particolar modo in formazioni di musica da camera. È docente di Teoria musicale presso l’Istituto Musicale pareggiato della Valle d’Aosta.
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terzo concerto
Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92
In quest’opera c’è «la mano di un ubriaco», sosteneva Friedrich Wieck. Vi sono
eccessi oltre i quali «non è lecito spingersi», osservava Carl Maria von Weber. È una creazione uscita da «una mente malata», sentenziava «La Revue musicale». Verranno poi
le celebri parole di Wagner (in L’opera d’arte dell’avvenire): «Questa sinfonia è l’apoteosi
della danza; la danza nella sua suprema essenza, la più beata rappresentazione del movimento del corpo»; e ancora: «Beethoven […] ha portato nella musica il gesto, attuando
la fusione tra corpo e mente».
Tutto è tensione drammatica, moto inesorabile, dialettica fra luci e ombre, un rincorrersi di domande che si rimbalzano senza risposte: è la vitalità interiore, etica e fisica,
il gioco eterno fra materia e spirito, fra estasi e movimento, la contemplazione e la danza. Anche quando si ferma... Come nella musica c’è il silenzio, così alla danza appartiene anche il momento della sosta: è l’arco teso, fremente, prima di scoccare la freccia.
Nasceva, la Settima, tra l’autunno del 1811 e l’estate del 1812 – quasi contemporaneamente all’Ottava Sinfonia – e il mondo la conobbe per la prima volta nel dicembre del
1813, presso l’Università di Vienna, in un concerto che celebrava i soldati austriaci vittoriosi sull’esercito napoleonico, insieme ai clangori patriottici della Vittoria di Wellington.
La freccia è scoccata: seppure con mezzi espressivi semplificati – mancano tromboni
e controfagotto – la sua traiettoria è perfetta. L’asse portante è l’invenzione ritmica,
l’iridescenza ritmica, risolta in articolati gesti danzanti, già a partire dal passaggio tra il
Poco sostenuto introduttivo e il Vivace del primo movimento, attraverso il ripetersi di una
sola nota. Beethoven attinge con piena coscienza alla sinfonia classica, su una musica
trasparente e chiara, scandita da un pensiero ritmico costante e da ampie rifrazioni timbriche. L’introduzione, con i suoi accordi a orchestra piena e i suoi brevi motti espressi
dai fiati, denuncia un sotterraneo senso del tragico – di origini remote nel creator spiritus dell’artista –, mentre continua la pulsione sotto la trama orchestrale. Si affacciano
momenti quasi bucolici, e i crescendo dell’orchestra sono rotti da quella sola nota, che
nel suo muoversi ostinato tra archi e fiati subisce come una mutazione genetica, e segna
l’ingresso del Vivace. Questa pagina acquista vigore caratterizzandosi per l’alternanza
di volumi sonori, di moti acceleranti e deceleranti, improvvisi arresti e repentine riprese
al galoppo. Il suo aspetto è estroso, ai limiti della stravaganza, basato più su un gioco
vertiginoso di cambi di timbro e registro, piuttosto che sulle abituali contrapposizioni
dialettiche dei soggetti. Siamo catturati dalla vitalità della musica, dalla varietà dinamica e coloristica e dall’incalzante pulsazione che, ora ingigantendosi ora frammentandosi, domina ovunque, sviluppo e ripresa. Vi emerge con naturalezza un raffinato
dialogo tra oboe e flauto, e tutto si muove sospinto come sotto ipnosi dall’incombente
battito. Anche la coda ribadisce l’energia di movimento e l’essenza del materiale tematico. Viole, violoncelli e contrabbassi ripetono una figurazione ritorta dai cromatismi,
mentre i violini vagano nell’area di la maggiore: un passo che si rispecchierà nella coda
dell’ultimo movimento, a suggellare l’unità dell’opera.
E se nel primo movimento festosità e gaudio non sono esenti da ombre, con un
“ossimoro” diremo che l’Allegretto è di tono malinconico. Si apre in la minore con un
accordo dei fiati e una melodia degli archi dotata di una scansione ritmica precisa:
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il dattilo (un impulso lungo, due brevi) e il ritmo spondaico (due impulsi lunghi),
energia motoria allo stato puro, di cui tutta l’opera è improntata. Sugli archi spira un
enigmatico soffio romantico per i continui ripiegamenti cromatici e la crescente onda
dinamica. Poi il registro tonale si fa positivo quando le linee melodiche sono sostenute
dai fiati sul pizzicato e sullo staccato degli archi. Questo movimento suscitò l’entusiasmo del pubblico dell’epoca a tal punto da essere richiesto un immediato bis. Era
quello il tempo in cui il pubblico, più che invitato al silenzio, era chiamato a dire la
sua in sede di concerto, acclamando o protestando, in un acceso dialogo con gli interpreti e i compositori... Davvero di rara bellezza e di sottigliezza timbrica impalpabile
è il fugato dei soli archi, una pagina che spicca nel firmamento beethoveniano. Dopo
un nuovo incresparsi drammatico, il soggetto è nuovamente restituito ai fiati, che ne
sfruttano appieno la flessibilità, verso un epilogo gentile, memore ancora una volta,
per un gesto degli archi, delle precedenti tensioni.
Il Presto in fa maggiore esordisce con una frase rapida, corroborata dai timpani,
subito sottoposta a sviluppo, in un gioco fra deviazioni timbriche e crescendo d’aspetto
teatrale. Il movimento, che è un vero e proprio Scherzo ricco di sferzate dinamiche, è
intercalato da un Trio esposto per due volte: il suo tema di sapore agreste evoca una
melodia popolare, da marcia di pellegrini, di cui subiamo una certa fascinazione lirica. Il contrasto tuttavia è mitigato, perché strategicamente il Presto si chiude ogni volta su una nota tenuta ferma per tutta la durata delle due parentesi del Trio. E per due
volte, con enfatico annuncio, riprende la galoppata, dalla figurazione continuamente
variabile, per sigillare poi il movimento su un motto alquanto enigmatico.
L’Allegro con brio manifesta con orgoglio una figurazione di danza più rustica su
un ritmo martellante, arricchito di fanfare e improvvise contrazioni del gesto sonoro,
con una certa prevalenza timbrica dei fiati. Siamo davanti a un dispiegamento quasi
violento dell’impulso che finora si era prodotto nei precedenti movimenti, capace di
mostrare un volto dionisiaco, folle e tumultuoso: rulli di timpani preludono alla caotica e continua mutazione degli accenti e all’incalzare di temi secondari e frammenti
chiassosi, dando vita a uno stato confusionale che scardina la precisione della metrica
classica. Verso la fine la pagina mette in campo una frenesia impazzita, disseminata
da temi e frammenti uditi qui forse per la prima volta, e con gli archi in volata. Pare
di assistere a uno di quei film corali dove, dopo aver seguito le singole storie, siamo
avviluppati dal filo che sottilmente le unisce, costretti a mettere rapidamente sotto un
unico sguardo ogni soggetto, ogni storia. Le fugaci linee dei fiati, le travolgenti ondate
degli archi: sono tutti affluenti di quel fiume in piena che è la vita, tradotta, come in
una pellicola di Altman, in una sinfonia di Beethoven.
Monica Luccisano
Giornalista, musicologa e autrice, vive e lavora a Torino. Ha collaborato con Oft, Osn Rai, MiTo, Unione
Musicale, Settimane Musicali di Stresa, GhislieriMusica di Pavia e Teatro Regio. Tra le sue collaborazioni
figurano le testate giornalistiche «Sistema Musica», «Giornale del Piemonte», «Giornale della Musica»,
«Effetto Arte» e gli editori Rugginenti, Musica Practica, Paravia, Loescher ed Edt, dove da diversi anni si
occupa di editing nel settore musica. Ha collaborato con il Comitato Italia 150 in occasione di Esperienza
Italia. Per il teatro ha scritto Dalla musica al silenzio (2004), Tracce di Amleto (2006), L’arte della suggestione
(2008), La Memoria del bene. Canti dal Giardino dei Giusti (2010), Parole inCrociera (2011), Il canto degli
Italiani (2011), spettacoli realizzati, tra gli altri, allo Stresa Festival e al Piccolo Regio Puccini.
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quarto concerto
Sinfonia n. 8 in fa maggiore op. 93
L’Ottava Sinfonia è un’opera cui è difficile assegnare un ruolo preciso all’interno
della produzione beethoveniana. A causa del suo linguaggio estremamente cristallino e dei suoi numerosi stilemi pre-romantici, essa è infatti apparentemente estranea
all’instancabile evoluzione stilistica che il compositore intese aff rontare tra la Terza
e la Settima Sinfonia (1804-1812), mentre al contempo il gioioso e per molti inusuale
chiarore che irraggia sicuro da ogni più piccolo anfratto della partitura è talmente
intenso da abbagliare quasi l’ascoltatore, impedendogli così di vedere come in realtà,
al pari degli altri numeri del corpus sinfonico del Maestro di Bonn, tale composizione
in apparenza “facile” si erga anch’essa su fondamenta intrise fino al midollo di puro,
indiscutibile spirito beethoveniano.
L’opera vide la luce nel 1812, in un periodo non poco funesto per il compositore.
Da qualche tempo infatti i suoi già gravi problemi di udito stavano sfociando in una
completa e irreversibile sordità; inoltre, la stesura della celebre Lettera all’amata immortale – che Beethoven siglò di suo pugno nel luglio dello stesso anno indirizzandola
al suo amore terreno più grande e più segreto – rappresentava l’ultima speranza di
poter realizzare in questo Mondo quell’ideale romantico a lui tanto caro dell’Amore
come condivisione universale tra due esseri, speranza che purtroppo non si sarebbe
mai concretizzata, gettando così il compositore in un isolamento ancor più cupo e
doloroso. Eppure, come nel più usuale dei cliché, al crescere dei problemi la creatività beethoveniana si innalzava anch’essa in maniera puntuale e a tratti vertiginosa.
Quanto a gestazione infatti l’Ottava Sinfonia fu coeva della Settima che, caratterizzata
da una vitalità altrettanto dirompente e da una luminosità a tratti egualmente debordante, la precedette di una sola stagione. Tuttavia, se la Settima si presentò fin da
subito sotto l’egida di un’aura in tutto e per tutto beethoveniana, l’Ottava, bollata dai
più come gratuitamente semplice, faticò non poco a ingraziarsi il favore del pubblico e
della critica. Un’ottantina d’anni dopo la morte del compositore però, il critico tedesco
Max Chop si invaghì a tal punto di quest’opera da riuscire a superarne la fulgida esteriorità, consegnandone ai posteri un’analisi estremamente lucida ed esaustiva. In tale
analisi, Chop sottolinea come anche alla base dell’Ottava, al pari della Settima, non vi
sia altro che un’appassionata celebrazione dell’umana gioia di vivere, «se non che, nel
concetto e nell’espressione di questa gioia, ci sono parecchie gradazioni». Di certo il
compositore aveva già avuto modo di sperimentare una gioia simile nella Quarta Sinfonia (1806), ma in quel caso la sua incapacità di annientarsi completamente in tale estasi poetica emergeva chiaramente da alcune ombre che continuavano a velargli l’anima,
mentre qui l’intimo sentimento raggiunge finalmente «una sua espressione solare,
e spumeggiando dalle profondità del cuore si riversa libero come limpida fonte».
L’opera si apre senza alcuna introduzione su un radioso Allegro vivace e con brio in
forma-sonata: l’euforia incandescente della Settima diventa qui un’occasione gioiosa o,
se vogliamo, una festa per pochi amici e familiari priva di inutili formalità alla quale
Beethoven ci invita con piacere e in cui «gli ospiti non sono valutati dall’abbigliamento, ma dalla bontà del cuore». Gli elementi tematici si susseguono veloci: dapprima
i legni, poi i corni, quindi gli archi e infine il fagotto, il tutto apparentemente senza
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soluzioni di continuità; l’aura armonica della sezione è però incerta, poiché partendo da una tonalità di impianto di fa maggiore, lo sviluppo tematico porta a un re
maggiore invece che alla più consueta dominante (do), quasi uno “scivolone” dettato
dall’eccessiva confidenza del clima familiare instauratosi. Altra cosa curiosa è poi il
raggiungimento del climax non durante lo sviluppo bensì nel corso della ripresa, come
se un ritorno del primo tema nel finale fosse da giudicarsi anch’esso eccessivamente
formale (una trovata della quale pochi direttori della vecchia guardia compresero
l’ironia, e che lo stesso Mahler non si trattenne dal riarrangiare assegnando il tema
“mancante” ai timpani).
Segue quindi un Allegretto scherzando che, anziché porsi in contrasto con il primo
tempo, si erge anch’esso in una felicità innocente e a tratti ingenua di reminiscenze vagamente rossiniane. Qualche critico, in effetti, ritiene che qui Beethoven abbia voluto
proprio burlarsi di Rossini e della musica italiana del suo tempo; altri invece credono a
un divertente aneddoto secondo il quale il compositore concepì il movimento come elegante canzonatura dell’amico Johann Mälzel, celebre inventore di strumenti automatici
e perfezionatore del metronomo, che il ritmo compìto della sezione vorrebbe imitare e
del quale gli umoristici inserti puntati di fine sezione simulerebbero un’ilare rottura.
Viene poi il Tempo di minuetto, rievocazione nostalgica di gusto haydniano, che
probabilmente Beethoven sostituì al più usuale Scherzo per cristallizzare con maggior
efficacia quel che Chop definisce «il misto delizioso di amorevole attaccamento al buon
umore e di quella divina atmosfera patriarcale che oggi possiamo comprendere più a
fondo, in quanto l’epoca veloce e affannata ci ha separati dal suo palpito tranquillo».
Quanto al Trio, capolavoro di stile puramente barocco, il delicato incanto dei corni e
del clarinetto si invola attraverso figure leggere e sognanti, mentre ai violoncelli e ai
contrabbassi è demandato un commento di terzine staccate e pizzicato che nel suo lieve
nervosismo invita a guardarsi dall’assumere una velocità eccessivamente contraria allo
stile, pena il bruciarsi prematuro dell’effetto orchestrale riservato al finale.
Ed eccoci infatti all’Allegro vivace (che Čajkovskij identificava come uno dei più grandi momenti sinfonici di Beethoven). Concepito in forma di rondò-sonata, il movimento
riprende l’eccentrica armonia del primo tempo: breve incipit in tonalità, secondo soggetto dapprima alla dominante, ripresa alla tonica, ecc. Al contempo sognante e dirompente – le sferzate dei legni sembrano preludere agli incanti musicali delle sinfonie e del
Sogno di Mendelssohn –, qui la drammaturgia orchestrale si snoda attraverso rimandi
tematici così vividi da costituire quasi personaggi a sé stanti e impazienti di esprimersi
autonomamente sul battere primordiale di timpani accordati in ottave (similmente a
quelli dello Scherzo della Nona Sinfonia), mentre lo sviluppo e la ripresa lasciano quasi
subito il passo a una lunga coda, capace di elevare la quieta giocosità dei movimenti
precedenti in un’apoteosi conclusiva che è pura estasi del sublime.
Michele René Mannucci
Michele René Mannucci si è laureato in Storia della musica moderna e contemporanea al Dams di
Torino, sotto la guida di Ernesto Napolitano, con una tesi dedicata a L’interpretazione come ipertesto: la
Sonata in si minore di Franz Liszt. Da anni si divide tra la ricerca nel settore delle tecnologie dell’informazione e l’attività di saggista in ambito musicale.
24
quarto concerto
Sinfonia n. 9 in re minore op. 125 “Corale”
Sulla Nona Sinfonia di Beethoven pesa da sempre uno strano carico di odio-amore.
Alla prima esecuzione, avvenuta a Vienna il 7 maggio del 1824 presso il Teatro di
Porta Carinzia, il pubblico rimase interdetto: qualcuno propose addirittura di eliminare «quel bizzarro finale corale». E l’opinione critica nei confronti dell’ultimo capolavoro sinfonico di Beethoven si sarebbe prolungata per molto tempo. Giuseppe Verdi
avrebbe detto: «Non mi sorprenderei affatto se qualcuno venisse a dirmi che la Nona
è scritta male»; e il testimone delle illustri stroncature sarebbe passato nelle mani di
François-Joseph Fétis, che si rifiutava di analizzare il finale corale, o di Andrea Della
Corte, che riteneva la lunghezza dell’ultimo movimento non giustificabile alla luce
dei contenuti musicali («Purtroppo, esaurita l’ispirazione, Beethoven continuò a scrivere»). Anche per un personaggio fittizio, come lo stravagante professore Mondrian
Killroy – il protagonista del recente film di Alessandro Baricco, Lezione 21 – la Nona
Sinfonia andrebbe gettata nell’enorme cestino dei lavori sopravvalutati.
Il rovescio della medaglia lo hanno scritto nomi altrettanto illustri, a partire da
Richard Wagner, forse il più grande sostenitore della Nona nel corso dell’Ottocento:
a lui si deve un’esecuzione, quella del 1846, che a molti sembrava la riesumazione di
un cadavere seppellito da tempo; e a lui si devono descrizioni memorabili dell’ultima
sinfonia di Beethoven, quale l’immagine di un «ponte gettato verso lo stato mistico».
Un simile stato di eccitazione non poteva certo rimanere isolato nel corso del XIX
secolo: non a caso per Schumann e Mendelssohn i problemi incontrati con la scrittura
sinfonica erano venuti tutti dalla necessità di andare oltre Beethoven. E in fondo ci
avrebbe pensato Johannes Brahms a chiudere il cerchio scrivendo una sinfonia (la
Prima) che molti non esitarono a definire la “Decima” di Beethoven: proprio perché
ancora alla fine dell’Ottocento scrivere un’opera sinfonica significava prima di tutto
ripensare al modello della Nona.
Odio o amore che sia, quello che orbita da sempre attorno all’ultima sinfonia di
Beethoven è il normale sentimento che accompagna sempre le opere di rottura: quelle
che si portano sulle spalle nello stesso tempo un po’ di passato e un po’ di futuro.
Naturalmente la pietra dello scandalo era il finale corale, quasi una sorta di affronto a
quella che fino a quel momento era sembrata la conditio sine qua non del genere sinfonico: affidare ogni contenuto a un verbo puramente strumentale. Ma il punto è che la
Nona è un’opera che tende per gran parte del suo percorso all’autodistruzione, e che
incomincia a parlare proprio quando sembra non avere più niente da dire. Il baritono
nell’ultimo movimento canta: «O amici, non questi suoni! Piuttosto intoniamone altri,
più piacevoli e gioiosi». Dopodiché esplode il celebre inno Alla gioia (An die Freude),
e poco importa il fatto che i versi di Friedrich Schiller, tutto sommato, non siano un
granché; perché quello che Beethoven cerca è un percorso dal basso verso l’alto, un itinerario in grado di collegare i poli elementari dell’esistenza. Un testo troppo raffinato
o contorto non sarebbe stato in grado di esprimere un punto di vista che sembra – per
usare le parole di Giorgio Pestelli – «riconsiderare tutto dall’origine».
Più che Schiller, in fondo, viene in mente Hegel ascoltando la Nona: l’Io che
prende coscienza di sé. Beethoven pensava da tempo a un modo per rappresentare
25
musicalmente la sofferta dialettica che porta un individuo a ottenere la consapevolezza dell’esistenza: uno scontro tra Io e non-Io che si risolve solo con l’ausilio della
ragione. Ecco, la Nona è la miglior rappresentazione possibile di una lotta tra forze
opposte, che trova una sintesi solo nella forza abbagliante della bellezza, unica vera
musa del genio beethoveniano, nonché chiara stigmate dello sguardo divino. Tutto
l’inno Alla gioia non è altro che un pretesto per portare l’individuo a guardarsi intorno, e a vedere nella fratellanza tra gli uomini una straordinaria opportunità per
condividere i rigeneranti valori dell’arte («Percorrete, fratelli, la vostra strada, gioiosi
come un eroe verso la vittoria»).
In questo senso il finale della Nona appare come una sintesi tra poli opposti: da
una parte le oscure tribolazioni su cui si apre il primo movimento, dall’altra le luminose aperture al trascendente dell’Adagio; l’inno Alla gioia si colloca tra questi due
estremi come una sorta di medium in grado di portare l’uomo a rivolgere gli occhi al
cielo con serenità, senza dimenticarsi tuttavia di avere i piedi ben piantati per terra.
Ecco perché si può pensare che i primi tre movimenti della Nona siano una sorta
di introduzione al finale. L’Allegro ma non troppo è un brano che ci fa perdere in continuazione l’orientamento: le tensioni e il dramma sono evidenti, ma il tracciato non
è mai rettilineo e la fine del movimento non svela nessuna via di uscita dall’oscuro
labirinto. Lo Scherzo è una sorta di alter ego del movimento iniziale: un distacco
umoristico dalle inquietudini del presente, che strappò applausi immediati alla prima esecuzione (l’unica pagina veramente apprezzata della Nona in quell’occasione),
grazie a uno spettacolare uso del timpano. Mentre l’Adagio molto e cantabile snocciola
una serie di variazioni su due episodi distinti, il primo dei quali spicca per un’intensa
spiritualità.
Poi si cambia registro: il Finale è introdotto da una ricapitolazione dei temi ascoltati nei movimenti precedenti che ha il sapore del commiato; quasi come se Beethoven
volesse voltarsi per un’ultima volta ad osservare il passato, prima di intraprendere un
nuovo percorso. Il baritono si fa portatore del suo pensiero, invocando l’intonazione
di nuovi e «più gioiosi» pensieri; e quella che segue è una monumentale prova di forza,
fatta di libere variazioni che ruotano attorno al celebre tema dell’inno Alla gioia: una
pagina forse imperfetta per alcuni, ma ideale per trasmettere tutta l’eccitazione di un
compositore che, proprio alla fine della sua esperienza creativa, vedeva l’inizio di una
strada inesplorata.
Andrea Malvano
Andrea Malvano, diplomato in Pianoforte e laureato in Lettere moderne, ha conseguito un master
a Lione e un dottorato di ricerca presso le Università di Torino e Milano. È autore di numerosi saggi
e ha pubblicato due volumi, rispettivamente su Schumann e Debussy, nella collana Edt - De Sono.
Giornalista pubblicista, scrive su «Torino Sette», «Amadeus», «Il Giornale della Musica» e «Sistema
Musica». Ha insegnato Storia ed estetica musicale al Conservatorio di Torino. Attualmente è titolare
di un assegno di ricerca post-dottorato presso l’Università di Torino.
26
quarto concerto
An die Freude
Alla gioia
O Freunde, nicht diese Töne!
Sondern lasst uns
Angenehmere anstimmen,
und freudenvollere.
(Ludwig van Beethoven)
O amici, non questi suoni!
Piuttosto intoniamone altri,
più piacevoli
e gioiosi.
Freude, schöner Götterfunken,
Tochter aus Elysium,
Wir betreten feuertrunken,
Himmlische, dein Heiligtum!
Deine Zauber binden wieder,
Was die Mode streng geteilt;
Alle Menschen werden Brüder,
Wo dein sanfter Flügel weilt.
Wem der große Wurf gelungen,
Eines Freundes Freund zu sein,
Wer ein holdes Weib errungen,
Mische seinen Jubel ein!
Ja – wer auch nur eine Seele
Sein nennt auf dem Erdenrund!
Und wer’s nie gekonnt, der stehle
Weinend sich aus diesem Bund.
Freude trinken alle Wesen
An den Brüsten der Natur,
Alle Guten, alle Bösen
Folgen ihrer Rosenspur.
Küsse gab sie uns und Reben,
Einen Freund, geprüft in Tod,
Wollust ward dem Wurm gegeben,
Und der Cherub steht vor Gott.
Froh, wie seine Sonnen fliegen
Durch des Himmels prächt’gen plan,
Laufet, Brüder, eure Bahn
Freudig wie ein Held zum Siegen.
Seid umschlungen, Millionen!
Diesen Kuß der ganzen Welt!
Brüder – überm Sternenzelt
Muß ein lieber Vater wohnen.
Ihr stürzt nieder, Millionen?
Ahnest du den Schöpfer, Welt?
Such’ihn überm Sternenzelt!
Über Sternen muß er wohnen.
Friedrich von Schiller
Gioia, bella scintilla divina,
figlia dell’Elisio,
ebbri di fuoco noi entriamo,
o Dea, nel tuo sacrario!
La tua magia ricongiunge
ciò che la moda ha crudelmente diviso;
tutti gli uomini diventano fratelli
ovunque si sofferma la tua dolce ala.
Chi abbia avuto l’enorme fortuna
di essere amico di un amico,
e chi abbia conquistato una nobile sposa,
si aggiunga al nostro giubilo!
Sì, chiunque possa dire sua
anche una sola anima al mondo!
E chi ciò non ha mai potuto, piangendo
si allontani furtivo da questa assemblea.
Tutte le creature bevono la gioia
dal seno della natura,
tutti i buoni, tutti i cattivi
seguono la sua orma di rose.
Ella ci ha dato baci e viti,
e un amico leale fino alla morte,
voluttà è stata concessa al verme,
e il cherubino sta innanzi a Dio.
Gioiosi, come i suoi soli volano
attraverso il meraviglioso spazio celeste,
percorrete, fratelli, la vostra via
pieni di gioia, come un eroe va alla vittoria.
Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
Fratelli, sopra la volta stellata
deve abitare un padre amoroso.
Vi prosternate, moltitudini?
Intuisci tu il Creatore, o mondo?
Cercalo al di là della volta stellata!
Egli deve abitare sopra le stelle.
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Studio e pianoforte di Beethoven nella Schwartzspanierhaus. Litografia. Vienna, Historisches Museum der
Stadt Wien.
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Negli ultimi anni Gianandrea Noseda si è imposto come uno dei più importanti direttori d’orchestra del panorama internazionale ed è regolarmente
ospite delle maggiori orchestre in Europa e negli
Stati Uniti. Direttore musicale del Teatro Regio,
Direttore ospite principale dell’Orchestra Filarmonica di Israele, Laureate Conductor della Bbc
Philharmonic, “Victor De Sabata Guest Chair”
della Pittsburgh Symphony, Gianandrea Noseda è
Direttore artistico del Festival di Stresa dal 2001.
È stato inoltre il primo Direttore ospite principale
straniero nella storia del Teatro Mariinskij di San
Pietroburgo e Direttore ospite principale della
Rotterdam Philharmonic e dell’Osn Rai.
Nato a Milano, dove ha compiuto gli studi musicali, Gianandrea Noseda dirige le più importanti
orchestre del mondo: la Filarmonica di New York e
le orchestre sinfoniche di Chicago, Pittsburgh e Boston, la London Symphony e la London Philharmonic, la Filarmonica di Oslo, l’Orchestre de Paris e la
National de France, l’Orchestra di Santa Cecilia e la
Filarmonica della Scala. Nella stagione 2012-13 farà
il suo debutto con due grandi orchestre americane
come la Cleveland Orchestra e la Filarmonica di Los
Angeles.
Con i complessi del Teatro Regio ha diretto nuove produzioni di Don Giovanni, Salome
(per la regia di Robert Carsen), Thaïs (in dvd per
Arthaus Musik), La dama di picche e La traviata
– che nell’estate 2010 ha presentato nella prima
tournée della storia del Teatro Regio in Giappone e
a Shanghai per l’Expo 2010 –, Boris Godunov (per la
regia di Andrei Konchalovsky), che per la prima volta
sarà presentato nei cinema di tutto il mondo. Nel
maggio 2011 ha guidato i complessi del Teatro Regio
in Spagna e al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi.
Intensa e felice la collaborazione con il Metropolitan di New York dove ha debuttato nel 2002 e
diretto nuove produzioni de Il trovatore (2009) e
La traviata (2010) oltre a importanti riprese de La
forza del destino e Un ballo in maschera. Nel giugno
2011 è stato l’unico direttore ospite per la tournée
del Met in Giappone. Come Chief Conductor della
Bbc Philharmonic ha guidato l’orchestra in tournée
in Giappone (per due volte, nel 2004 e nel 2008),
Italia, Cecoslovacchia, Spagna, Germania e Austria.
Nel 2005 Gianandrea Noseda e la Bbc Philharmonic hanno scritto una pagina storica quando un milione e mezzo di utenti hanno scaricato dalla rete le
nove Sinfonie di Beethoven.
Dal 2002 Gianandrea Noseda è legato all’etichetta discografica Chandos: ha registrato musiche di Prokof ’ev, Respighi, Karlowicz, Dvořák,
Šostakovič, Liszt (l’integrale dei poemi sinfonici),
Smetana, Mahler, Bartók e un’ampia panoramica
della musica di Rachmaninov (le tre opere e l’integrale della produzione sinfonica). Ha avviato inoltre
la collana «Musica Italiana», dedicata a compositori italiani del XX secolo come Dallapiccola, WolfFerrari (“Diapason d’or” in Francia) e Casella (la
prima registrazione assoluta della Seconda Sinfonia).
Per Deutsche Grammophon ha inciso il debutto
discografico di Anna Netrebko con la Filarmonica
di Vienna e un album mozartiano con Ildebrando
D’Arcangelo e l’Orchestra del Teatro Regio.
Attento ai giovani musicisti, ha collaborato con
l’Orchestra del Royal College of Music di Londra,
con la National Youth Orchestra of United Kingdom, con l’Orchestra Giovanile Italiana; nell’estate
2010 ha portato la European Union Youth Orchestra in tournée in Europa.
Gianandrea Noseda è Cavaliere Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana.
Nicola Beller Carbone, nata in Germania, ha
vissuto a lungo in Spagna e attualmente risiede in
Toscana. Dopo aver studiato recitazione a Saragozza, si è diplomata presso l’Escuela superior de canto
di Madrid e ha continuato gli studi a Monaco con
Astrid Varnay e Josef Loibl. Ha vinto diversi premi
in Spagna e in Germania, tra cui lo Staatlicher Förderpreis für Darstellende Künstler 1996. A partire
dal 1993 è stata invitata da diverse istituzioni, quali
il Gärtnerplatztheater e la Bayerische Staatsoper a
Monaco, la Kölner e la Bonner Philharmonie e la
Zdf (canale televisivo pubblico della Germania).
Dal 1996 al 2001 è solista nel Nationaltheater
Mannheim ed è ospite frequente dell’Aaltotheater
Essen, della Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf e della Semperoper Dresden.
Ha cantato diversi ruoli mozartiani (Fiordiligi, Contessa, Donna Anna), ai quali si aggiungono
le grandi interpretazioni di Mimì, Liù, Violetta e,
in molti teatri tra i quali il Regio, Salome. Si è esibita nella Sinfonia n. 14 di Šostakovič alla Berliner
Philharmonie, ha debuttato nel ruolo di Diemut in
Feuersnot di Richard Strauss al Prinzregententheater di Monaco e in Evgenij Onegin alla Staatsoper
della stessa città; nel 2004 ha esordito in Tosca e in
Cavalleria rusticana, nel 2005 in Ariadne auf Naxos
a Darmstadt, in Wozzeck all’Aalto Theater Essen, in
Caduta e ascesa della città di Mahagonny alla Deutsche
Oper Berlin, in Lady Macbeth del distretto Mcensk a
San Gallo; ha debuttato inoltre nella Turandot di
Busoni a Macerata e in Karl V di Krenek a Bregenz, Erwartung a Toronto, Die Fledermaus a Lione,
Götterdammerung alla Fenice, Senso di Marco Tutino
alla prima rappresentazione assoluta di Palermo.
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Originaria dell’Alto Adige, Anna Maria Chiuri
si è diplomata al Conservatorio “Arrigo Boito” di
Parma sotto la guida del soprano Jenny Anvelt; parallelamente si è perfezionata con Franco Corelli. Ha
vinto alcuni concorsi quali Cascina Lirica, “Mario
Del Monaco”, “Mario Basiola”, “Francesco Paolo Tosti”, “Gianfranco Masini” e il Concorso Internazionale “Čajkovskij” a Mosca (unica italiana classificatasi
nella sezione Canto dall’istituzione del concorso). Il
timbro brunito e l’ampia estensione vocale le hanno
permesso di debuttare in importanti ruoli verdiani:
oltre che nella Messa da requiem, come Amneris,
Azucena, Quickly, Fenena, Preziosilla, Federica
(Luisa Miller), Maddalena, Ulrica. È stata inoltre
Adalgisa,Santuzza,la Zia Principessa (Suor Angelica),
la Principessa di Bouillon (Adriana Lecouvreur), la
Cieca e Laura (La Gioconda). Per ciò che riguarda il
repertorio in lingua francese è stata Carmen, Ragonde
(Le Comte Ory) e Dalila; del repertorio tedesco ha
rivestito i panni di Ortrud (Lohengrin) e Floßhilde
(Das Rheingold). Svolge un’intensa attività concertistica per la diffusione del Lied tedesco e russo.
Ha collaborato con i maggiori teatri e con i principali festival operistici italiani, ed è regolarmente presente all’estero, da Ginevra a Mosca, da Palm Beach
a Tel Aviv, da Tokyo a Zurigo. Ha cantato tra gli
altri sotto la bacchetta di Chailly, Fournillier, Muti,
Renzetti, Solti; ha preso parte a spettacoli con regie
di Bussotti, Cobelli, Lavia, Miller, Olmi, Pizzi, Ronconi, Stefanutti e von Hoeke. Ha inciso l’opera contemporanea Pasqua Fiorentina di Isidoro Capitanio,
la Messa in sol di Bellini e Pezzi sacri di Sammartini
per Bongiovanni; ha inoltre preso parte al dvd di Un
ballo in maschera con la direzione di Chailly.
Nelle ultime stagioni Kor-Jan Dusseljee ha ottenuto grande successo per le sue interpretazioni in
Otello (Dresda) e La dama di picche (Komische Oper
Berlin e Teatro Regio). Ha cantato molte volte nella
Nona Sinfonia di Beethoven sotto la direzione delle
più prestigiose bacchette, tra le quali Christoph von
Dohnányi (concerto di apertura dello SchleswigHolstein Musik Festival 2009) e Riccardo Chailly
(con l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia per il
Concerto di Capodanno 2011).
Ha debuttato in Wagner come Lohengrin per
poi prendere parte come Walther von Stolzing ne I
maestri cantori di Norimberga presso l’Opera di Lipsia, dove è stato interprete anche in Caduta e ascesa
della città di Mahagonny di Weill. Intervenuto nella
Messa glagolitica di Janáček con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, ha interpretato a Praga e
Braunschweig Florestano nel Fidelio di Beethoven,
ruolo che tornerà a ricoprire nella prossima pro-
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duzione del Teatro Regio sotto la direzione di Gianandrea Noseda e per la regia di Mario Martone
(dicembre 2011). Tenore di consolidata fama, ha
collaborato con diversi rinomati direttori quali, oltre
ai già citati, Kirill Petrenko e Valery Gergiev.
La lunga carriera internazionale di Albert
Dohmen è costellata di importanti successi: il Wozzeck del Festival di Salisburgo nel 1997 con le Filarmoniche di Vienna e Berlino dirette da Abbado, per
la regia di Peter Stein; la Salome ( Jochanaan) che ha
segnato il suo debutto al Metropolitan di New York
nella stagione 2003-04; le innumerevoli interpretazioni di Wotan, di cui è oggi uno dei maggiori esecutori, a Bayreuth, Berlino, Vienna, Amsterdam e
New York, oltre che in Italia. La sua galleria di ruoli
(Kurwenal, Pizarro, Amfortas, Holländer, Scarpia,
Blaubart, Hans Sachs) lo ha visto cantare sotto la
direzione di maestri come Zubin Mehta, Giuseppe
Sinopoli, Claudio Abbado, Christian Thielemann
e James Conlon, sui migliori palcoscenici mondiali,
dall’Opéra Bastille al Covent Garden, dalla Bayerische Staatsoper ai teatri di Zurigo, Amsterdam,
Barcellona, Vienna (Staatsoper), Los Angeles, ecc.
Affermato anche in campo lirico-sinfonico, ha
cantato l’intero repertorio da Bach a Schönberg nelle principali sale da concerto. Tra i tanti episodi si
ricordano la Nona Sinfonia di Beethoven con Kurt
Masur e la New York Philharmonic, Ein deutsches
Requiem sempre con Masur, l’Ottava Sinfonia di
Mahler con Valery Gergiev, i Gurrelieder e ancora la
Nona di Beethoven con James Levine.
Tra le incisioni cui ha preso parte, Eine florentinische Tragödie di Zemlinsky con l’Orchestra del
Concertgebouw diretta da Riccardo Chailly e le
tre registrazioni con Sir Georg Solti: Die Frau ohne
Schatten, Fidelio e Maestri cantori.
Claudio Fenoglio, nato nel 1976, si è diplomato
con il massimo dei voti e la lode in Pianoforte e in
Musica corale e direzione di coro; si è inoltre laureato in Composizione. Ha studiato principalmente
con Laura Richaud, Franco Scala, Giorgio Colombo
Taccani e Gilberto Bosco, frequentando numerosi
corsi di perfezionamento.
Parallelamente agli studi accademici ha iniziato
l’attività in ambito operistico come Maestro sostituto
per poi specializzarsi nella direzione di coro. È stato
Aiuto Maestro del coro presso il Teatro Massimo di
Palermo affiancando per due anni Franco Monego.
Nel 2002 è stato chiamato al Teatro Regio come
Assistente del Maestro del coro Claudio Marino
Moretti e successivamente di Roberto Gabbiani. A
partire dal 2007 ha cominciato l’attività come Altro
Direttore del coro, alternandosi al Direttore principale in alcune produzioni della Stagione del Regio
e collaborando con il Coro Filarmonico dello stesso
Teatro. Nel novembre 2010 è stato nominato Direttore del Coro del Teatro Regio, incarico che mantiene tuttora accanto a quello di Maestro del Coro di
voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio
“G. Verdi” di Torino.
L’Orchestra del Teatro Regio è l’erede del
complesso fondato alla fine dell’Ottocento da
Arturo Toscanini, sotto la cui direzione vennero
eseguiti numerosissimi concerti e molte storiche
produzioni operistiche, quali la prima italiana del
Crepuscolo degli dei di Wagner (1895) e la prima assoluta della Bohème di Puccini (1896).
Nella sua attività l’Orchestra ha dimostrato
una spiccata duttilità nell’affrontare il grande repertorio così come molti titoli del Novecento. Dal
1967 è l’Orchestra stabile della Fondazione lirica
torinese. Tra i maggiori spettacoli dei quali è stata
protagonista si ricordano La Damnation de Faust
di Berlioz (regia di Ronconi), insignito nel 1992
del premio “Abbiati”, La bohème “del centenario”
con Pavarotti e Freni (trasmessa anche in diretta tv), Fedora di Giordano con Freni e Domingo.
Ha eseguito in prima assoluta Carmen 2, le Retour
di Jérôme Savary (2001) e, entrambe in prima
italiana, Lear di Aribert Reimann e A Streetcar
Named Desire di André Previn. Ha ricevuto il Premio Internazionale “Viotti d’Oro” nel 2000.
In ambito lirico l’Orchestra si è esibita con i solisti più celebri e alla guida del complesso si sono
alternati direttori di fama internazionale come Roberto Abbado, Ahronovič, Bartoletti, Bychkov,
Campanella, Gelmetti, Maag, Oren, Pidò, Sado,
Steinberg, Tate e infine Gianandrea Noseda, che
dal 2007 ricopre il ruolo di Direttore musicale del
Teatro Regio. Ha inoltre accompagnato grandi compagnie di balletto come quelle del Bol’šoj di Mosca e
del Mariinskij di San Pietroburgo.
Ospite di vari festival e teatri stranieri, nel 2000
ha portato a Nizza Sly di Wolf-Ferrari e Zazà di
Leoncavallo; nel 2001 ha tenuto una grande tournée
sinfonica in Francia; nel 2008 è stata ospite a Wiesbaden con Rigoletto sotto la direzione di Noseda.
Sempre con il maestro Noseda, l’Orchestra e il Coro
hanno tenuto una trionfale tournée in Giappone (a
Tokyo e Yokohama) e in Cina (a Shanghai) nell’estate del 2010.
Nello scorso mese di maggio, sempre sotto la
guida del Direttore musicale del Regio, l’Orchestra
e il Coro hanno tenuto una tournée, tutta dedicata
a Giuseppe Verdi, che ha toccato diverse città della
Spagna, Parigi e il festival di Wiesbaden in Germania.
Accanto a diverse incisioni storiche, l’Orchestra
e il Coro del Teatro figurano oggi nei video di alcune delle più interessanti produzioni delle ultime
Stagioni del Regio: Medea di Cherubini diretta da
Evelino Pidò, Edgar di Puccini (nella versione originale in quattro atti) diretta da Yoram David, Thaïs
di Massenet diretta da Gianandrea Noseda nell’allestimento di Stefano Poda, Adriana Lecouvreur
di Cilea, sul podio Renato Palumbo, e infine Boris
Godunov, con il maestro Noseda e la regia di Andrei
Konchalovsky.
Nel 2003 i componenti dell’Orchestra hanno
dato vita alla Filarmonica ’900 del Teatro Regio, organismo autonomo impegnato in numerosi progetti
oltre che nella stagione di concerti del Regio.
Fin dalla fine dell’Ottocento, con la presenza al
Regio di Arturo Toscanini, il Coro del Teatro Regio è uno dei maggiori cori teatrali europei. Ricostituito nel 1945 dopo il secondo conflitto mondiale,
divenne nel 1967 Coro stabile dell’Ente lirico torinese. Dal 1994 al 2002 è stato guidato dal maestro
Bruno Casoni raggiungendo un alto livello internazionale, dimostrato anche dall’esecuzione dell’Otello
di Verdi sotto la guida di Claudio Abbado e dalla
stima di Semyon Bychkov che, dopo aver diretto al
Regio nel 2002 la Messa in si minore di Bach, ha
invitato il Coro a Colonia per la registrazione della Messa da requiem di Verdi.
Il Coro è stato diretto successivamente dal maestro Claudio Marino Moretti e dal maestro Roberto
Gabbiani, che ne ha incrementato ulteriormente lo
sviluppo artistico. Regolarmente impegnato nelle produzioni della Stagione d’Opera, il Coro del
Regio svolge inoltre una significativa attività concertistica, sia lirico-sinfonica sia a cappella, anche in
collaborazione con l’Orchestra Sinfonica Nazionale
della Rai.
La produzione di Aleko diretta da Noseda ed
eseguita allo Stresa Festival e a Mito Settembre
Musica nel 2009 con la Bbc Philharmonic è stata
occasione per iniziare una proficua collaborazione
con Chandos Records, che ha registrato quell’esecuzione e, nel luglio 2010, i Quattro pezzi sacri di Verdi
con l’Orchestra del Regio.
31
Teatro Regio
Walter Vergnano, Sovrintendente
Gianandrea Noseda, Direttore musicale
Orchestra
Violini primi
Serguei Galaktionov •
Stefano Vagnarelli •
Marina Bertolo
Monica Tasinato
Claudia Zanzotto
Elio Lercara
Roberto Lini
Carmen Lupoli
Enrico Luxardo
Miriam Maltagliati
Alessio Murgia
Laura Quaglia
Daniele Soncin
Kim Soyeon
Grazyna Teodorek
Giuseppe Tripodi
Violini secondi
Cecilia Bacci •
Marco Polidori •
Tomoka Osakabe
Bartolomeo Angelillo
Silvana Balocco
Paola Bettella
Maurizio Dore
Anna Rita Ercolini
Silvio Gasparella
Fation Hoxolli
Roberto Lirelli
Anselma Martellono
Paolo Mulazzi
Ivana Nicoletta
Valentina Rauseo
Viole
Armando Barilli •
Alessandro Cipolletta
Gustavo Fioravanti
Rita Bracci
Nicola Calzolari
Maria Elena Eusebietti
Alma Mandolesi
Franco Mori
Roberto Musso
Claudio Vignetta
Giuseppe Zoppi
32
Violoncelli
Relja Lukic •
Umberto Clerici •
Davide Eusebietti
Giulio Arpinati
Augusto Gasbarri
Alfredo Giarbella
Armando Matacena
Luisa Miroglio
Marco Mosca
Paola Perardi
Contrabbassi
Davide Botto •
Davide Ghio •
Atos Canestrelli
Fulvio Caccialupi
Giulio Guarini
Michele Lipani
Stefano Schiavolin
Flauti
Federico Giarbella •
Andrea Manco •
Maria Siracusa
Roberto Baiocco
Corni
Ugo Favaro •
Natalino Ricciardo •
Evandro Merisio
Fabrizio Dindo
Eros Tondella
Pierluigi Filagna
Trombe
Ivano Buat •
Enrico Negro
Marco Rigoletti
Tromboni
Gianluca Scipioni •
Enrico Avico
Marco Tempesta
Timpani
Carlo Cantone •
Percussioni
Ranieri Paluselli •
Lavinio Carminati
Fiorenzo Sordini
Oboi
Luigi Finetto •
Giovanni Deangeli •
Alessandro Cammilli
Stefano Simondi
Clarinetti
Alessandro Dorella •
Luigi Picatto •
Luciano Meola
Edmondo Tedesco
Fagotti
Andrea Azzi •
Andrea Zucco •
Orazio Lodin
Sergio Pochettino
• Prime parti
Coro
Soprani
Sabrina Amè
Nicoletta Baù
Anna Beretta
Chiara Bongiovanni
Anna Maria Borri
Caterina Borruso
Sabrina Boscarato
Eugenia Braynova
Serafina Cannillo
Cristina Cogno
Cristiana Cordero
Eugenia Degregori
Alessandra Di Paolo
Manuela Giacomini
Azusa Kubo
Rita La Vecchia
Laura Lanfranchi
Chiara Lazzari
Paola Isabella Lopopolo
Maria de Lourdes Martins
Pierina Trivero
Giovanna Zerilli
Tenori
Pierangelo Aimé
Janos Buhalla
Marino Capettini
Gian Luigi Cara
Antonio Coretti
Diego Cossu
Luis Odilon Dos Santos
Alejandro Escobar
Giancarlo Fabbri
Sabino Gaita
Mauro Ginestrone
Roberto Guenno
Leopoldo Lo Sciuto
Vito Martino
Matteo Mugavero
Matteo Pavlica
Dario Prola
Gualberto Silvestri
Tiziano Tassi
Sandro Tonino
Franco Traverso
Valerio Varetto
Mezzosoprani / Contralti
Cristiana Arri
Angelica Buzzolan
Shiow-hwa Chang
Ivana Cravero
Corallina Demaria
Maria Di Mauro
Roberta Garelli
Rossana Gariboldi
Anna Giumentaro
Elena Induni
Antonella Martin
Raffaella Riello
Myriam Rossignol
Marina Sandberg
Teresa Uda
Daniela Valdenassi
Tiziana Valvo
Barbara Vivian
Baritoni / Bassi
Leonardo Baldi
Mauro Barra
Enrico Bava
Massimo Di Stefano
Umberto Ginanni
Tolunay Gumus
Vladimir Jurlin
Desaret Lika
Paolo Lovera
Riccardo Mattiotto
Davide Motta Fré
Brian Nickel
Gheorghe Valentin Nistor
Franco Rizzo
Enrico Speroni
Marco Sportelli
Marco Tognozzi
Vincenzo Vigo
33
Fondazione Teatro Regio di Torino
Pubblicazione realizzata dalla
Direzione Comunicazione e Pubbliche Relazioni
A cura di Simone Solinas
Stampato nel mese di settembre 2011
presso la tipografia Stargrafica srl - San Mauro Torinese
© Copyright, Fondazione Teatro Regio di Torino
copia omaggio
Prezzo: € 2 (iva inclusa)
TEATRO REGIO
Sabato 12 Novembre 2011 ore 20.30
PINCHAS STEINBERG
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Musiche di Mendelssohn-Bartholdy, Brahms
Lunedì 12 Dicembre 2011 ore 20.30
GIANMARIA TESTA
Lunedì 19 Dicembre 2011 ore 20.30
GIANANDREA NOSEDA
Filarmonica ’900 del Teatro Regio
Musiche di Rota
Venerdì 30 Dicembre 2011 ore 20.30
Sabato 31 Dicembre 2011 ore 17.30
GIANANDREA NOSEDA
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Musiche di Verdi
Lunedì 16 Gennaio 2012 ore 20.30
KRZYSZTOF PENDERECKI
Filarmonica ’900 del Teatro Regio
Musiche di Penderecki, Dvořák
Sabato 11 Febbraio 2012 ore 20.30
VALERY GERGIEV
Orchestra del Teatro Regio
Lunedì 19 Marzo 2012 ore 20.30
YUTAKA SADO
Filarmonica ’900 del Teatro Regio
Musiche di Takemitsu, Šostakovič
Sabato 24 Marzo 2012 ore 20.30
YUTAKA SADO
Orchestra del Teatro Regio
Musiche di Mozart
Lunedì 16 Aprile 2012 ore 20.30
CHRISTOPHER FRANKLIN
Filarmonica ’900 del Teatro Regio
Torino Jazz Orchestra
Musiche di Adams, Gershwin
Venerdì 25 Maggio 2012 ore 20.30
UMBERTO BENEDETTI MICHELANGELI
Orchestra del Teatro Regio
Musiche di Mozart
Main Partner
Media Partner
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