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110928-1006 I Love Beethoven
Ludwig van Beethoven Le nove Sinfonie Gianandrea Noseda direttore Orchestra e Coro del Teatro Regio Joseph Karl Stieler (1781-1858), Ritratto di Ludwig van Beethoven. Olio su tela, 1819-1820. Bonn, Beethoven-Haus. Ludwig van Beethoven (1770-1827) Le nove Sinfonie Gianandrea Noseda direttore Orchestra e Coro del Teatro Regio primo concerto Mercoledì 28 Settembre 2011 ore 20.30 Giovedì 29 Settembre 2011 ore 20.30 Sinfonia n. 1 in do maggiore op. 21 Adagio molto - Allegro con brio Andante cantabile con moto Minuetto: Allegro molto e vivace Finale: Adagio - Allegro molto e vivace Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 “Eroica” Allegro con brio Marcia funebre: Adagio assai Scherzo: Allegro vivace Finale: Allegro molto - Poco andante - Presto secondo concerto Venerdì 30 Settembre 2011 ore 20.30 Sabato 1 Ottobre 2011 ore 20.30 Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36 Adagio molto - Allegro con brio Larghetto Scherzo: Allegro Allegro molto Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60 Adagio - Allegro vivace Adagio Allegro molto e vivace - Trio: Un poco meno allegro Allegro ma non troppo Sinfonia n. 5 in do minore op. 67 Allegro con brio Andante con moto - Più moto Allegro Allegro - Presto terzo concerto Domenica 2 Ottobre 2011 ore 17 Martedì 4 Ottobre 2011 ore 20.30 Sinfonia n. 6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale” Allegro ma non troppo Andante molto mosso Allegro Allegro Allegretto Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 Poco sostenuto - Vivace Allegretto Presto - Assai meno presto Allegro con brio quarto concerto Mercoledì 5 Ottobre 2011 ore 20.30 Giovedì 6 Ottobre 2011 ore 20.30 Nicola Beller Carbone soprano Anna Maria Chiuri mezzosoprano Kor-Jan Dusseljee tenore Albert Dohmen basso-baritono Claudio Fenoglio maestro del coro Sinfonia n. 8 in fa maggiore op. 93 Allegro vivace e con brio Allegretto scherzando Tempo di minuetto Allegro vivace Sinfonia n. 9 in re minore op. 125 “Corale” Allegro ma non troppo, un poco maestoso Molto vivace - Presto Adagio molto e cantabile - Andante moderato - Adagio Presto - Allegro ma non troppo - Allegro assai - Presto Recitativo - Allegro assai - Allegro assai vivace alla marcia - Andante maestoso Adagio ma non troppo, ma devoto - Allegro energico, sempre ben marcato Allegro ma non tanto - Poco adagio - Prestissimo RegioLive Per la prima volta è possibile collegarsi gratuitamente, nei foyer del Regio tramite rete Wi-Fi, al sito www.regiolive.it per scaricare il programma di sala e alcuni contenuti extra come le partiture delle Sinfonie e le videointerviste al maestro Gianandrea Noseda. RegioLive è realizzato grazie alla collaborazione con il Settore Servizi Telematici dell’Assessorato ai Sistemi Informativi della Città di Torino. È inoltre possibile esprimere la propria opinione sui concerti collegandosi al calendario presente sul sito www.teatroregio.torino.it 4 Riascoltare le nove Sinfonie Da circa due secoli le nove Sinfonie di Beethoven sono presenti alla mente e al cuore di tutte le generazioni nella singolarità delle loro fisionomie: presenti come individui precisi, compagni di strada, proverbi dell’anima; ma il modo in cui pervengono a rappresentarsi come tali, ogni volta che si considerino da capo, resta misterioso come un evento naturale, terribilmente semplice e tuttavia insondabile. Conviene quindi ascoltare e riascoltare umilmente le nove Sinfonie: ripartono sempre da capo, e noi con loro, perché sempre ci toccano in qualcosa di profondo, fuori dal variare dei tempi e dei gusti. Salvo la Nona Sinfonia, tutte le altre otto sono venute alla luce nello spazio fra il 1800 e il 1812: rispetto ai valori messi in gioco e all’influenza esercitata, si tratta quindi di un corso creativo breve, veloce, quasi rapinoso. Storicamente muovono dalla perfezione delle ultime sinfonie di Mozart e di Haydn, in sostanza ignorando il lento processo di evoluzione della sinfonia settecentesca dalla serenata, dal concerto, dalla sinfonia d’opera: arte, quindi, che tende all’immediato presente, che assume un genere e una sintassi già definiti e a portata di mano. Per contro, l’effetto sulle epoche successive fu pervasivo e condizionante; in qualche modo le sinfonie “romantiche” di Schubert, Weber, Mendelssohn e Schumann, pur avendolo presente, sembrano aggirare il modello, mentre il confronto diventa diretto, alcuni anni dopo, solo con la generazione di Brahms; l’eredità della “sinfonia dopo Beethoven” costituisce un laborioso capitolo della storia musicale dell’Ottocento; un capitolo pieno di passioni e di polemiche, in cui Berlioz, Wagner, Brahms, Bruckner, Čajkovskij, per non citare che i massimi, scriveranno le loro deduzioni, stenderanno i loro paragrafi e i loro commenti. Intanto le nove Sinfonie restano là: separate dai flutti della storia, ma sempre pronte a ricrearsi attraverso le letture delle nuove generazioni che le avvicinano. Tutti siamo d’accordo che considerazioni solo formali, analitiche, che pure hanno riempito volumi e sono importantissime a stringere obiettivi precisi, non saprebbero rendere giustizia all’intera portata dell’edificio; Mozart e Haydn, in quanto a qualità d’invenzioni e sottigliezze formali, avevano già esaurito il campo; il fattore nuovo introdottovi da Beethoven è la capacità di attirare dentro la sfera della musica concetti, idee e sentimenti che non le appartengono in esclusiva, come il pathos della storia, del pensiero o della natura; è un fatto che l’energia di rinnovamento di cui l’Europa è stata spettatrice tra la Rivoluzione francese, l’impero napoleonico e la Restaurazione, ha nell’opera di Beethoven una delle testimonianze più compiute. La concezione romantica della “musica pura”, separata dalla realtà, non basta a Beethoven che sempre, ma nelle Sinfonie in modo particolare, vuole essere eloquente e rappresentare situazioni e caratteri drammaticamente precisi. Usiamo il termine “drammatico” per le Sinfonie di Beethoven in quanto percorse (con l’eccezione della Sinfonia “Pastorale”) da una dialettica di opposti che genera una sorta di azione, e perciò un “dramma”: di cui però i personaggi sono soltanto impulsi affettivi, che a parole potremmo definire soltanto per metafore. Questa qualità drammatica è già presente nelle Sonate per pianoforte, che più volte anticipano il mondo espressivo delle Sinfonie; e in effetti anche le Sonate 5 di Beethoven sono drammi, ma drammi intimi, espressi in un colloquio a tu per tu con lo strumento prediletto; le Sinfonie invece sono drammi rappresentati, in cui l’autore s’identifica con un pubblico sottinteso già all’atto della concezione. Sul loro sfondo infatti sta la trasformazione della società musicale maturata fra il 1780 e il 1820, con l’affermarsi del nuovo pubblico della moderna sala da concerto e la progressiva estinzione delle committenze e della circolazione musicale nelle dimore patrizie; su questa trasformazione il blocco delle nove Sinfonie ha influito in modo incomparabile, fondando la fisionomia stessa del concerto sinfonico moderno; è vero che le prime esecuzioni si svolgevano nei palazzi dell’aristocrazia viennese, con gli strumenti ad arco ridotti spesso a un pugno di esecutori, ma in realtà quelle opere erano destinate a un pubblico universale e pensate per un’orchestra libera dalle limitazioni materiali che ancora la condizionavano negli anni di Beethoven. Questa loro centralità nella vita concertistica moderna può far sorgere un interrogativo: che cosa ci avvicina tanto alla musica di Beethoven, con il suo assoluto ottimismo, il suo messaggio di avanzamento verso una meta positiva, quando oggi ogni atteggiamento eroico o titanico tende a suonare sorpassato, se non falso o retorico? E dov’è nel mondo contemporaneo quella eticità che è tanta parte del carattere beethoveniano? La “lotta contro il destino” sublimata dalla Quinta Sinfonia può risultare chimerica nell’era del progresso tecnologico e scientifico; il connubio fra uomo e natura cantato da Beethoven nella Pastorale sembra essere stato sterilizzato dalla moderna ecologia; Prometeo non ha più nulla da off rire all’uomo della società dei consumi e la fratellanza universale celebrata dalla Nona Sinfonia ha imboccato la via dei grandi viaggi organizzati. Eppure, la società di massa, dei consumi, della tecnologia è assetata di musica di Beethoven tale e più di quella precedente: basta vedere la mobilitazione del pubblico al solo apparire del nome di Beethoven in cartellone; e tutto ciò perché quella musica prospetta un insieme di valori, un mondo ideale e armonioso che qualcuno ha conosciuto e saputo fermare in forme salde e reali: che sono lì, presenti e tangibili, e che noi continuiamo a rincorrere nella loro vergine distanza per riportare nella nostra vita quei valori che non ci sono più e di cui tuttavia sentiamo sempre di più il bisogno. Giorgio Pestelli Giorgio Pestelli è stato professore ordinario di Storia della musica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino ed è critico musicale del quotidiano «La Stampa». Assieme a Lorenzo Bianconi è direttore della Storia dell’Opera italiana (Edt) e fa parte del comitato editoriale per la pubblicazione delle opere di Verdi (Chicago-Milano). Autore di numerosi saggi, ha pubblicato tra l’altro L’età di Mozart e di Beethoven (Edt, Torino 1991²), Canti del destino. Studi su Brahms (Einaudi, Torino 2000, premio Viareggio 2001 per la saggistica), La pulce nell’orecchio (Marsilio, Venezia 2001), Gli immortali (Einaudi, Torino 2004) e Ascoltare la musica classica (Editrice La Stampa, Torino 2008). È socio dell’Accademia delle Scienze di Torino, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e dell’Accademia Nazionale dei Lincei. 6 Un ritratto Di Beethoven questo si può dire: che da una vita praticamente priva di eventi significativi nacque l’insieme di opere più significativo della nostra storia musicale. Fantasia e ricchezza interiore sono le due qualità che fanno grande un artista, e Beethoven le possedeva entrambe in misura eccezionale. Così come un’ostrica riesce a fare di un granello di sabbia una perla, allo stesso modo egli seppe far lievitare nella sua immaginazione e nella sua arte gli stimoli che la sua esistenza tutto sommato banale gli aveva offerto. Ma se del lavoro di un’ostrica quel che ci interessa è solo la perla finale, nel caso di Beethoven, il suo granello di sabbia, cioè la sua biografia, per povera di avvenimenti che possa essere, ci interessa e molto. Questo non è così scontato e non vale per tutti i compositori, infatti è proprio con Beethoven che la musica si arricchisce in modo fino ad allora inaudito di implicazioni morali, costituendosi come l’arte per eccellenza dell’interiorità umana. Se è pur vero che non basta conoscere la vita di un compositore per spiegarne le musiche, nel caso di Beethoven non si riesce quasi a farne a meno, tanto è coinvolgente l’urgenza comunicativa dei suoi lavori e forte l’illusione che in essi egli parli sempre in prima persona. Ci sono opere che non ci spingono particolarmente a indagare nelle vite dei loro autori, i quali sembrano essere sempre esterni ad esse: di Palestrina, di Bach, persino di Haydn, quanti sentono la curiosità di conoscere vita, morte e miracoli? Invece di Beethoven vogliamo sapere tutto, perché la sua musica ci sembra impastata, fin nel profondo, di vita e di passione. E non stupisce quindi che parallelamente al culto della sua musica si sviluppò il culto della sua persona, finché a forza di idealizzazioni egli diventò una sorta di figura archetipica del “compositore per eccellenza”, un modello a cui rifarsi sempre e comunque; un busto di gesso, insomma, in grado di ispirare, ma anche una presenza ingombrante, capace di portare molti musicisti lontano dalla propria vena più naturale. Nella realtà dei fatti Beethoven era una persona molto più contraddittoria, e pertanto infinitamente più simpatica, dell’uomo tutto d’un pezzo che si voleva far credere fino a non molto tempo fa, e che in fondo anche lui pensò di essere per gran parte della sua vita. Se si vanno a leggere le biografie più attendibili o direttamente i suoi quaderni di conversazione, le lettere e i diari, si scoprono tanti dettagli rivelatori dei dissidi interiori di questo grand’uomo: era capace di dire in pubblico “peste e corna” persino dell’imperatore e allo stesso tempo di attendere con un misto di ansia e vanità un riconoscimento ufficiale da Federico Guglielmo di Prussia (che poi tra l’altro non gli arrivò mai); sempre incurante del proprio aspetto fisico e delle buone maniere, andava su tutte le furie se non era considerato come un nobile, quale di fatto non era; scrisse e riscrisse un’opera lirica che esaltava l’amore coniugale e il sacrificio, e poi non se la sentì mai di sposarsi, anzi cercò in tutti i modi di impedire i matrimoni dei suoi due fratelli; allo stesso modo compose il più grande inno alla fratellanza universale che musicista abbia mai concepito, e poi non seppe mettere da parte i suoi complessi, tiranneggiando il suo povero nipote al punto da spingerlo a tentare il suicidio; passò alla storia per aver vissuto la sua vocazione di compositore come una missione e poi sfornò, guadagnandoci un sacco di soldi, opere di circostanza per celebrare il Congresso di Vienna, momento simbolo della restaurazione politica in Europa; si esaltava leggendo Plutarco e gli stoici, e poi, rassegnatosi alla condizione di scapolo, non resisteva se qualche amico gli organizzava un’uscita con una 7 prostituta (anche se poi si pentiva); era capace di scrivere la Grande Fuga, ma non imparò mai a far di conto oltre all’addizione; sognò di andare a far fortuna a Parigi, Londra, persino in America, dove a detta sua lo avrebbero apprezzato di più, e poi non si mosse mai da Vienna; era insofferente verso qualunque ingerenza nel suo lavoro, eppure vagheggiò per tutta la vita un posto fisso da Kapellmeister. Insomma, ce n’è abbastanza per chiedersi come siano usciti dalla sua penna i suoi lavori che, seppur animati da impulsi contrastanti e imprevedibili, hanno sempre l’integrità formale dei classici e testimoniano una lucidità e una presenza di spirito che il loro autore, in molte circostanze della vita, stentava a dimostrare. Se infatti Beethoven veniva considerato dai suoi contemporanei mezzo matto, o quantomeno un tipo bizzarro, egli non perse mai di vista la società in cui gli toccò di vivere e cercò istintivamente di non perdere quel ruolo attivo e positivo che in essa si era conquistato. Così riuscì a trasformare le difese elaborate dal suo carattere in reazione ai traumi della sua esistenza in uno stile, un modo nuovo di concepire le forme della tradizione che andò a soddisfare i nuovi bisogni interiori di un pubblico pronto a celebrarlo e a riconoscersi nelle sue creazioni. Il titanismo beethoveniano, ad esempio, rappresentò certamente una fuga in avanti dai propri irrisolti problemi verso un mondo di sovrumane virtù e imperativi categorici, un’immaginaria compensazione al dramma della propria sordità (peraltro, ragionando in termini reali e non artistici, alquanto sproporzionata, visto che Beethoven diventò effettivamente sordo solo dopo il 1817, cioè ben dopo il suo cosiddetto “periodo eroico”), ma coincise al tempo stesso con il gusto musicale del primo decennio dell’Ottocento per una musica animata da nobili ideali, elevata ed edificante. Allo stesso modo, negli anni critici dal 1812 al 1819, quando le sovrastrutture eroiche di Beethoven andarono in crisi, messe alla prova dalla realtà concreta e ingarbugliata dei rapporti umani (con l’Immortale Amata, con la cognata, il nipote, i fratelli) egli subì un vero e proprio tracollo nervoso, riuscì a mantenersi bene o male in carreggiata grazie alla sua musica, ricercandovi tra mille difficoltà uno stile ancora diverso dal precedente che cristallizzasse, nell’arte prima ancora che nella vita, il nuovo equilibrio della sua personalità: fu il cosiddetto “terzo stile” beethoveniano, un mondo poetico caratterizzato da forme più libere e divaganti, in cui le pretese della volontà si ridimensionarono, lasciando spazio anche ad atteggiamenti più concilianti e persino a squarci di rasserenata trascendenza. Così, se nella vita di Beethoven i problemi potevano trascinarsi e restare irrisolti (ma va detto che negli ultimi anni di vita egli si rappacificò con tutto e con tutti), nella sua musica le sfide sono sempre portate a termine senza residui e l’impressione che ne ricaviamo non è mai quella di una lotta disperata o inconcludente, ma quella tonificante di un uomo che, anche nelle traversie, non perde mai di vista il fine ultimo del suo agire, cioè il bene. Alberto Bosco Alberto Bosco si è formato a Torino, completando all’Università e al Conservatorio gli studi di Storia della musica, Pianoforte e Composizione. Ha frequentato inoltre l’Università di Vienna, l’Università Complutense di Madrid, il Conservatorio Superiore di Lione, l’Università di Oxford (Queen’s College) e la Columbia di New York. Tra le istituzioni che gli hanno conferito borse di studio il Ministero degli Esteri spagnolo, l’Università di Torino, la Commissione Fulbright (Usa-Italia) e la Fondazione Paul Sacher di Basilea. Insegna Storia della musica ai Corsi di formazione musicale della Città di Torino e collabora regolarmente con riviste specializzate, società di concerti e fondazioni liriche. 8 primo concerto Sinfonia n. 1 in do maggiore op. 21 In uno dei suoi scritti critici, Robert Schumann afferma che le “opere prime” di grandi autori destinati a elevare un certo genere artistico a vette di somma grandezza dovrebbero destare un riguardo maggiore rispetto a quello che si accorderebbe loro se tali opere non avessero avuto un seguito glorioso. Questa idea, del tutto condivisibile, può senz’altro valere per la Prima Sinfonia di Beethoven, un’opera al cui ascolto difficilmente si potrebbe immaginare l’impressionante sviluppo e la radicale trasformazione che il genere sinfonico avrebbe subìto nelle mani del compositore da lì a pochissimi anni, ma che nonostante questo conquista tutto il nostro curioso interesse, non fosse altro che per il fatto di essere il primo passo compiuto da Beethoven nel mondo della sinfonia. L’opera ebbe la sua prima esecuzione nel primo anno del nuovo secolo (precisamente il 2 aprile 1800, presso il Burgtheater di Vienna), ma le proporzioni, lo stile e l’idea compositiva sono ancora quelli della sinfonia tardo-settecentesca, tutta animata da uno spirito di evidente ossequio al modello di Haydn. Non è infatti fuori luogo per quest’opera parlare di una certa «angoscia dell’influenza», come il critico letterario Harold Bloom indica l’ambivalente rapporto che lega ogni giovane poeta ai suoi predecessori, i quali finiscono per diventare modelli da cui è necessario liberarsi: nel caso di Beethoven i modelli sono certamente le Sinfonie Londinesi di Haydn e le ultime tre sinfonie di Mozart (cui, per i crediti alla Prima Sinfonia, è da aggiungere anche la Linz), che avevano definitivamente conferito al genere della sinfonia un’aura di nobiltà, di forma musicale in cui esprimere il più alto magistero compositivo. Non stupisce quindi che Beethoven si decida a comporre la sua prima sinfonia solo all’età di trent’anni, e nel farlo rinunci a quella serie di sperimentazioni (all’epoca viste ancora come stravaganze) verso cui si era già indirizzato in altri generi. Tanto più che il concerto al Burgtheater sarebbe stata la prima vera occasione di farsi conoscere a un pubblico più vasto della ristretta cerchia di aristocratici viennesi che frequentava. In realtà, elementi di innovazione e di eccentricità non sono del tutto assenti, ma essi sono riconducibili a quell’estetica dell’arguzia (Witz), della trovata originale, dell’elemento inatteso finalizzato allo stupore dell’ascoltatore che era stato principio fondamentale dello stile di Haydn e che il giovane Beethoven eredita e assorbe completamente. In quest’ottica si può leggere, ad esempio, la stranezza di iniziare l’Introduzione del primo movimento di una sinfonia scritta in do maggiore con una cadenza in fa maggiore, indisciplina che costerà a Beethoven più di un rimprovero da parte di una critica altrimenti molto benevola nei confronti di questa sinfonia. (Del resto Haydn, qualche anno prima, aveva escogitato una mossa altrettanto inaspettata aprendo una delle sue sinfonie con un rullo di timpano). Ma è questa l’unica stravaganza presente nel primo movimento il quale, dopo la breve introduzione lenta, innesca un Allegro con brio di estrema chiarezza e fluidità, nella solare tonalità di do maggiore, ombreggiato solo in un breve passaggio, all’interno del secondo tema, dalle tinte oscure della tonalità minore. È stato recentemente dimostrato come il primo tema di questo Allegro sia fortemente imparentato con una tipologia di motivi che abbondavano nel nutrito repertorio di sinfonie della Rivolu9 zione, da cui Beethoven attingerà largamente anche per le future sinfonie maggiori; la maniera con cui esso viene trattato rivela la già completa e matura acquisizione del linguaggio sonatistico, soprattutto nella capacità di sviluppare e variare gli elementi melodici e inserirli in un discorso musicale continuamente proiettato al progredire, al tendere verso una meta. Al principio della cantabilità è invece votato il secondo movimento, Andante cantabile con moto, percorso da una leggerezza e una grazia ancora tutte settecentesche – si potrebbe dire rococò – già evidenti nel primo tema, la cui costruzione è, però, resa più interessante sotto l’aspetto compositivo dal ricorso a un’imitazione di tipo contrappuntistico, un’arte alla quale il giovane compositore era stato iniziato durante le lezioni viennesi di composizione con il maestro Albrechtsberger. Interessante in questo brano anche il ruolo preponderante del timpano, anticipazione degli sviluppi che lo strumento avrà in alcune sinfonie della maturità. Certamente il movimento più innovativo di tutta la sinfonia è il Minuetto: nonostante la dicitura apposta da Beethoven esso è chiaramente uno Scherzo, ossia una versione accelerata della danza aristocratica settecentesca la quale, sottoposta a questa accelerazione, perde ogni connotato patrizio per acquisire i tratti di un moderno attivismo, di un dinamismo tutto borghese e cittadino. Questa trasformazione della paludata danza di corte era già stata introdotta da Haydn nei suoi quartetti, ma egli aveva evitato di estenderla anche alla sinfonia, genere più celebrativo e quindi meno adatto a stravolgimenti di questo tipo: quello che non fece il maestro lo fece l’allievo, stabilendo una prassi che durerà per tutto il secolo. La sinfonia torna nel binario della convenzione con l’ultimo movimento, l’Allegro molto e vivace: secondo l’abitudine, Beethoven compone un brano in cui dominano brio, spensieratezza festosa ed energia vitale, nel quale è da evitarsi qualsiasi complicazione di scrittura, affidandosi quindi a temi semplici, immediati, dal piglio popolare. Ma prima che quest’ultimo movimento abbia inizio, ancora una trovata di spirito: Beethoven inserisce un Adagio in cui l’orchestra, che si finge spaesata, cerca per ben cinque volte la nota d’attacco, disegnando una scala ascendente che non riesce mai a trovare il suono giusto per partire; solo il sesto tentativo andrà finalmente a segno. È quasi incredibile pensare che da lì a due anni (quando Beethoven inizierà gli abbozzi dell’Eroica) la sinfonia non sarà più luogo di scherzi disimpegnati e di humour scanzonato, ma veicolo di espressione di ben altri ideali. Marco Targa Marco Targa si è laureato in Discipline dell’Arte della Musica e dello Spettacolo presso l’Università di Torino, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia e critica delle culture e dei beni musicali, dedicandosi allo studio dell’opera italiana di fine Ottocento. È diplomato in Pianoforte e ha studiato Composizione presso il Conservatorio di Milano. Ha pubblicato saggi sull’opera italiana e sulla musica vocale da camera giovanile di Debussy. 10 primo concerto Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 “Eroica” Snodo cruciale nella storia del genere e nella parabola creativa beethoveniana, la Sinfonia “Eroica” ebbe una gestazione particolarmente lunga e sofferta, testimoniata da numerosi schizzi, abbozzi e ripensamenti che costellano il percorso verso la redazione definitiva del lavoro. L’opera fu iniziata nell’ottobre del 1802, al culmine di quella crisi personale insorta di fronte all’avanzare di una sordità sempre più menomante, che Beethoven superò attraverso la rottura con gli schemi del passato e la formulazione di un nuovo linguaggio, che in un baleno fece sembrare il Settecento un secolo distante decenni. Nelle originarie intenzioni, come è noto, l’opera doveva essere intitolata a Napoleone Bonaparte, visto da Beethoven come simbolo incarnato di una umanità rinnovata dagli ideali rivoluzionari di libertà e uguaglianza, anche se è sicuro che, almeno in parte, alla dedica del lavoro compartecipasse il concreto progetto, poi naufragato, di un trasferimento a Parigi, la cui pianificazione occupò Beethoven per buona parte del 1803. Le successive vicende politiche e militari d’Europa, con l’invasione dell’Austria da parte delle truppe francesi e l’autoincoronazione di Napoleone a imperatore, portarono a un successivo ripensamento del titolo, che venne sostituito dal celebre Sinfonia eroica [...] per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo che campeggia sul frontespizio della prima edizione, datata 1806. La prima esecuzione pubblica avvenne tuttavia il 7 aprile 1805 al Theater an der Wien, durante un’accademia del violinista Franz Clement, futuro primo interprete del Concerto per violino op. 61. Rispetto alle due sinfonie precedenti, l’opera segna un deciso passo in avanti che non riguarda solo le dimensioni materiali del lavoro – che fanno dell’Eroica la sinfonia più lunga dopo la Nona – o le novità strumentali, che pure sono di notevole portata, come l’utilizzo di tre corni al posto dei consueti due o la divisione delle parti dei violoncelli e dei contrabbassi. Ciò che cambia rispetto al passato è soprattutto la logica costruttiva, che porta a una dilatazione del processo di sviluppo tematico, e l’inserimento di movimenti, come la Marcia funebre, del tutto inconsueti in un lavoro sinfonico. Non vi è opera nel catalogo beethoveniano che, come l’Eroica, abbia portato innumerevoli commentatori a cercare in riferimenti extramusicali i presupposti per una sua completa comprensione e abbia contribuito a consolidare la titanica immagine ottocentesca dell’autore. Era prevedibile che un’opera portatrice di così grandi novità suscitasse non poche resistenze nei suoi primi uditori. Czerny riferisce che la Sinfonia era «considerata troppo lunga, elaborata, incomprensibile, e fin troppo rumorosa», e l’«Allgemeine Musikalische Zeitung» le attribuiva «eccessive stravaganze e novità», suscitando una secca replica dell’autore, secondo cui tali critiche altro non facevano che squalificare il giornale che le pubblicava. Naturalmente autore ed editore erano però ben consci dell’impatto rivoluzionario che l’opera avrebbe avuto sul pubblico viennese, tanto che nella prima edizione si premurarono di specificare, in italiano, che «Questa Sinfonia essendo apposta più lunga delle solite, si deve eseguire più vicino al principio ch’alfine di una Accademia e poco dopo un’Overtura un’Aria ed un Concerto; accioché, sentita troppo tardi, non perda per l’auditore, già faticato dalle precedenti produzioni, il suo proprio, proposto effetto». 11 Due imperiosi accordi di tonica aprono la composizione, quasi a rappresentare il portale di ingresso in una nuova età del genere; segue l’enunciazione da parte dei violoncelli di un primo tema tutto beethoveniano nella semplicità del suo profilo, che si articola sulle note del medesimo accordo, di fronte al quale si contrappone in forte contrasto la fissità del secondo gruppo tematico. La sezione centrale (lo sviluppo) è la più lunga e articolata del movimento e al suo interno l’essenzialità del primo tema mostra tutte le sue potenzialità latenti, condotto com’è in un drammatico percorso di inaudite peripezie armoniche e ritmiche; nello sviluppo, ulteriore deviazione dallo schema del sinfonismo classico, trova posto un terzo gruppo tematico, che ritornerà nella coda del movimento. L’eccezionalità del lavoro appare ancora più evidente nella gigantesca architettura della Marcia funebre. Chiaro è il riferimento esteriore al tempo di marcia, così in uso in Francia durante la Rivoluzione e l’età napoleonica; ma di quell’involucro qui altro non resta che un semplice profilo ritmico, pronto a sfaldarsi nella monumentale sezione fugata che troneggia al centro del movimento. Al confronto con l’ostentazione di potenza esibita nel primo tempo, il brano si presenta come una profonda meditazione sul dolore umano, quasi un corrispettivo sonoro di quel documento autobiografico che è il testamento di Heiligestadt [qui citato nel testo sulla Sinfonia n. 2, n.d.r.], in cui Beethoven abdicava a una vita fatta di relazioni normali per chiudersi nell’isolamento di una creatività rinnovata. Nel terzo movimento Beethoven getta le basi dello Scherzo moderno, caratterizzato dalla sua immateriale leggerezza: nella sua iniziale corsa in punta d’arco si trova il seme che in piena temperie romantica porterà alle fatate suggestioni dell’Ouverture del Sogno di una nozze di mezza estate di Mendelssohn. L’ultimo movimento è costituito da una serie di dodici variazioni su un tema tratto dal balletto Le creature di Prometeo, già precedentemente utilizzato nelle Dodici Contraddanze WoO 14 e poi ancora fatto oggetto delle Variazioni per pianoforte op. 35. Trova qui compimento una nuova concezione formale ed estetica del tema con variazioni, non più visto come una carrellata di pannelli giustapposti, ma inteso come un percorso accumulativo di tensione drammatica che trova il suo culmine nella sezione fugata. Luca Mortarotti Nato a Torino nel 1976, Luca Mortarotti si è laureato in Lettere presso l’Università della sua città, sotto la guida di Giorgio Pestelli, con una tesi dal titolo I Trii per archi di Beethoven. Nel 2010 ha conseguito un dottorato di ricerca presso la medesima Università con un’edizione critica dei Concerti Grossi op. VIII di Giuseppe Torelli. Tra le sue pubblicazioni si ricordano Il problema della datazione del Trio per archi op. 3 di Beethoven (in «Nuova Rivista Musicale Italiana», Rai-Eri 2004) e Le revisioni novecentesche del Requiem (in Interpretare Mozart, Lim 2008). Ha collaborato inoltre al volume I Mozart in Italia a cura di Alberto Basso. 12 secondo concerto Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 36 Heiligenstadt, oggi, è uno dei quartieri settentrionali di Vienna; ma all’inizio dell’Ottocento era una località di campagna, nella quale recarsi d’estate in villeggiatura per sfuggire alla calura e ai fastidi cittadini. Nel 1802 Beethoven vi passò diversi mesi, tra la primavera e l’autunno, nei quali portò a termine, insieme ad altre opere, la Sinfonia n. 2, probabilmente già ideata dal 1800. La sinfonia venne dedicata al principe Karl Lichnowsky ed ebbe la prima esecuzione pubblica quasi un anno dopo, il 5 aprile 1803, al Theater an der Wien, nell’ambito di una serata che incluse anche la Sinfonia n. 1, il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra (con l’autore in veste di solista), l’oratorio Cristo sul monte degli ulivi e altre pagine beethoveniane che, per eccesso di carne al fuoco, dovettero poi essere sacrificate. Nonostante l’amenità del luogo, per Beethoven l’estate 1802 non fu affatto serena: si era infatti recato ad Heiligenstadt, su consiglio del medico, per riposare l’udito e tentare di arrestare la progressiva sordità di cui da tempo aveva avvertito i primi sintomi. Verso la fine della villeggiatura, Beethoven scrisse una lettera (mai spedita) ai propri fratelli, che venne scoperta dopo la morte del musicista ed è nota come “testamento di Heiligenstadt”; leggerne alcuni passi permette di toccare con mano lo stato di desolazione interiore che opprimeva il compositore mentre completava la Seconda Sinfonia: «O voi uomini che mi reputate o definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto! [...] Pur essendo dotato di un temperamento ardente, vivace, e anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la vita in solitudine. [...] Come potevo, ahimè, confessare la debolezza di un senso che in me dovrebbe essere più raffinato che negli altri uomini, e che in me un tempo raggiungeva un grado di perfezione massima [...]. La mia sventura mi fa doppiamente soffrire perché mi porta ad essere frainteso. [...] Se sto in compagnia vengo sopraffatto da un’ansietà cocente, dalla paura di correre il rischio che si noti il mio stato. [...] Tali esperienze mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita – La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre» (trad. di Giorgio Pestelli). Da questa condizione spirituale ci si potrebbe aspettare che nasca un’opera cupa e tormentata; ma nulla di questo compare nella Sinfonia n. 2, e la ragione, a ben vedere, si legge in questi stessi estratti del testamento di Heiligenstadt: per Beethoven, l’arte, che ha la forza di salvarlo dal suicidio, non è uno sfogo delle pulsioni interiori, ma un imperativo morale, il dovere di trascendere la propria condizione personale per donare le proprie composizioni all’umanità. Composizioni il cui significato è quindi autonomo e svincolato dalle situazioni contingenti della vita. Scritta nella ridente tonalità di re maggiore, la Seconda si apre con un’introduzione Adagio molto nella cui atmosfera, dolce ma non esente da qualche accento drammatico, fanno capolino alcuni interventi spiritosi, quasi da opera buffa, affidati ai legni, come la frase discendente a note staccate poche battute dopo l’avvio, o il richiamo trillato del flauto poco prima che si scivoli naturalmente nell’Allegro con brio. Quest’ultimo è 13 costruito in forma-sonata su un frammento rapido e vitalistico (una quartina di semicrome) degli archi gravi e un richiamo come di fanfara proposto dai fiati: temi schietti nei quali qualcuno ha voluto vedere un’eco della musica militare e rivoluzionaria di quegli anni (siamo ancora nel periodo della simpatia di Beethoven per Napoleone, al quale pensava di dedicare la Terza Sinfonia). Al centro dello sviluppo, la quartina di semicrome torna e viene rimpallata tra legni e archi; ma gli archi, concludendo in sforzando, mettono ogni volta a tacere la sezione orchestrale concorrente, come una voce interiore che si vuole negare. Il Larghetto è, anch’esso, strutturato in forma-sonata, ma il tempo lento e la parentela dei temi rendono lo sviluppo un’amabile conversazione tra le sezioni dell’orchestra. Si delinea, in questo movimento, un’atmosfera serena che spazia dall’amenità della campagna (dipinta dal primo tema e, più tardi, da alcuni richiami pastorali del corno) alla grazia molto più cittadina di taluni passaggi, che quasi anticipano gli allegretti brahmsiani. Il vero colpo di scena del movimento si ha però nella brevissima coda, che dissolve la materia come un sogno che si spegne sul far del mattino: alcuni accordi in fortissimo paiono dichiarare una chiusura di sipario, che viene però negata dal ritorno, nelle ultime battute, del sogno in dissolvimento, come se d’un tratto il focus venisse riportato dal sipario alla scena. Una presenza, tra le righe, di quel mondo del teatro musicale cui Beethoven in quegli anni si stava, con molta circospezione, avvicinando. La scelta di usare, per la prima volta in una sinfonia, il termine Scherzo, indica la precisa volontà del compositore di affermare la propria indipendenza dalla tradizione settecentesca del minuetto; già il Minuetto della Prima Sinfonia aveva i tratti di uno Scherzo, ma ora persino la parvenza della danza di corte è abbandonata a favore di un puro impulso ritmico (del quale il Trio è, in fondo, poco più che una variazione). L’Allegro molto finale venne definito da Berlioz «come un secondo Scherzo», e la definizione si comprende ascoltando il motivo impellente degli archi che lo apre e lo sostiene; qua e là fanno poi capolino goffi interventi del fagotto e guizzi dei legni che, con fare molto teatrale, si impongono con insistenza nella coda, prima di giungere alla solarità degli accordi finali, evidenza della volontà beethoveniana di affermare, al di là delle contingenze della vita, e di qualche voce enigmatica che affiora anche in questa partitura, un credo positivo. Marco Leo Marco Leo, laureatosi in Lettere e specializzatosi in Letteratura, fi lologia e linguistica italiana presso l’Università di Torino, con due tesi di laurea riguardanti il melodramma dell’Ottocento (Alzira di Verdi e Pia de’ Tolomei di Donizetti), sta ora svolgendo un dottorato di ricerca su un progetto relativo ai libretti di Salvadore Cammarano. Collabora in qualità di critico musicale con i mensili «Musica» e «Cose Nostre» e con alcune riviste web. In collaborazione con l’associazione Mythos è direttore artistico delle «Aurore Musicali» presso l’Educatorio della Provvidenza di Torino. 14 secondo concerto Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60 Composta rapidamente nell’estate del 1806 su richiesta del conte von Oppersdorf, eseguita privatamente per la prima volta nel marzo dell’anno successivo e pubblicamente in novembre, la Quarta Sinfonia fu elaborata da Beethoven in un momento di straordinaria produttività: stando alle sole opere pubblicate in quel periodo, basti pensare che venne proposta all’editore insieme al Quarto Concerto per pianoforte, ai tre Quartetti Razumovskij, al Concerto per violino e all’Ouverture Coriolano. Gli schizzi beethoveniani ci confermano inoltre che erano già in fieri anche la Quinta e la Sesta Sinfonia. La tonalità di si bemolle maggiore, la stessa di ben quattro delle sei Messe del tardo Haydn, non viene usata con grande frequenza dal compositore; ciononostante, sarà quella di tre suoi capolavori successivi: il Trio “Arciduca” (con cui, secondo Chopin, «Beethoven si beffa di tutto il mondo»), la Sonata per pianoforte “Hammerklavier”, uno dei suoi più complessi lavori pianistici, e la Grande Fuga op. 133, forse la composizione simbolo del gruppo degli ultimi quartetti per archi, incompresi al tempo della loro pubblicazione ma destinati ad avere una profonda influenza sulla musica da camera del primo Novecento. Innumerevoli sono i collegamenti che questa «slanciata fanciulla greca fra due giganti nordici» – celebre definizione che ne diede Robert Schumann, con riferimento alle più note sinfonie Terza e Quinta – riesce a mantenere sia con grandi opere del passato classico sia con il presente (e il futuro) di Beethoven. La presenza dell’Adagio in apertura del primo movimento – come pure nelle prime due sinfonie e nella Settima – non può non rimandare alle tarde sinfonie di Haydn, con cui condivide anche l’espediente di un’ingannevole tonalità introduttiva; questa è però l’unica evidenza formale. Si avvertono rimandi alla Marcia funebre dell’Eroica, prima che irrompa un Allegro vivace (questa volta è chiaro: siamo in si bemolle maggiore), in cui il primo tema è un poderoso slancio verso l’alto in fortissimo sempre, più dal carattere dinamico che melodico; la dolce discesa in piano dei legni non è che un breve intermezzo che rimarca ulteriormente un’ambientazione di prepotente vitalità. La punteggiatura del fagotto e un crescendo orchestrale di fortissimo e sforzato aprono la strada a sincopi disorientanti, un motore ritmico che prelude al piano di un secondo tema, un’elegante figura melodica di due battute in fa maggiore, passata, salendo di registro, dal fagotto all’oboe al flauto; un’anticipazione, per atmosfera e tonalità, della Sinfonia “Pastorale”. Un crescendo degli archi per accordi paralleli in forte sfuma senza soluzione di continuità in un ulteriore tema, dolce: è un canone di fagotto e clarinetto, anch’esso parente della Sesta. Lo sviluppo è incentrato soprattutto sul primo tema, dalle forti tinte dinamiche, nel quale si inserisce anche un nuovo breve elemento tematico. Il crescendo invasivo e continuo del rullo di timpano apre la strada alla ripresa, con il moto perpetuo di violini secondi e viole e le sincopi del primo tema, la ricapitolazione degli elementi pacifici e rilassati, quei temi secondo e quarto che qui vengono trasposti nella tonalità d’impianto. Riecheggiano elementi del primo tema nella coda, che si chiude poco prima di raggiungere la cinquecentesima battuta. L’Adagio – in mi bemolle maggiore, tempo di tre quarti – si apre con l’accompagnamento dei violini secondi, su cui poggia un primo tema, cantabile, esposto prima 15 dai violini primi e controbilanciato, per moto contrario, dalle viole, per poi essere ripreso anche dai legni. Le dinamiche forti degli accompagnamenti degli archi sembrano contraddire la definizione di Adagio; il secondo tema viene esposto dal clarinetto in un crescendo che porta dal pianissimo al forte, per ripiombare nel piano che accoglie un terzo, breve tema, enunciato una prima volta dal fagotto e poi da tutti i fiati, perso nel seguente aumento dinamico dello sviluppo, giocato sul ritmo dell’accompagnamento. Qui si presenta in due occasioni distinte il primo tema variato per diminuzione, ai violini e poi ai flauti. Dopo un turbinio di crescendo e diminuendo, la ripresa propone il secondo tema (ora alla tonica) seguito a ruota dal terzo tema (non trasposto), questa volta annunciato dal corno. La coda inizia con un lento perdendo che porta a una brusca impennata dinamica; il timpano ripropone il ritmo dell’accompagnamento in pianissimo, da solo, per crescere con il medesimo rullo del primo movimento e trascinare tutta l’orchestra alla chiusura in fortissimo. Del Minuetto, in realtà, rimane solo il nome: come se non bastasse l’indicazione di Allegro vivace, inadatta alla danza galante per eccellenza, le figure melodiche di questo movimento contraddicono il metro d’impianto di tre quarti. Questa sinfonia è dunque ricca di falsi indizi: la tonalità iniziale, la scansione ritmica delle sincopi nel primo movimento e un minuetto che tale non è. I sali-scendi melodici si stendono su un continuo alternarsi dinamico di tutta l’orchestra. Tutto viene ripetuto, prima che venga presentato, in piano, il Trio. Si noti che la duplice comparsa del Trio è una novità introdotta qui per la prima volta e che verrà ripresa dal compositore nel Presto dell’altra sinfonia “gioiosa”, la Settima. L’Allegro ma non troppo è caratterizzato dal tumulto di semicrome degli archi, un moto inarrestabile che fa da accompagnamento al primo tema, in cui alla discesa dei violini primi risponde una più ampia figura arcuata dei legni; solo il secondo tema, in fa, più lezioso, esposto da oboi e flauti, interrompe il fiume in piena dell’orchestra, con l’inaspettato accompagnamento in terzine dei clarinetti. Le frasi spezzate della melodia e i poderosi sforzati hanno però la meglio in questo movimento dalle tinte forti, il cui sviluppo mantiene gli entusiasmi e gli slanci dell’esposizione mentre vengono rielaborati alcuni elementi melodici del primo tema; pare anche di udire, agli archi, una vaga ripresa del motivo dell’Adagio con cui la Sinfonia si era aperta. Ai clarinetti torna il delicato secondo tema, che viene riassorbito in un tripudio di tremoli e sedicesimi in fortissimo. Lo sviluppo si schianta su di un accordo di settima diminuita che fa rallentare l’azione e ridurre improvvisamente la dinamica; gli archi riaffermano poi la tonalità d’impianto aprendo la ripresa con il primo tema, cui segue una coda in crescendo che porta alla chiusura con i sei rintocchi finali, sei fuochi d’artificio. Jacopo Conti Jacopo Conti (1985), laureato in Storia della musica contemporanea, è attualmente dottorando di ricerca in Storia e critica delle culture e dei beni musicali a Torino. Ha ricevuto vari riconoscimenti accademici ed è borsista del Master dei Talenti della Fondazione CRT. Musicista e compositore, affianca l’attività musicologica all’insegnamento. 16 secondo concerto Sinfonia n. 5 in do minore op. 67 E il Destino bussò alla porta. Gli avessero detto che ad aprire ci sarebbe stato un tipo come Beethoven, per giunta in pieno periodo eroico, avrebbe forse usato qualche cautela in più: magari annunciandosi con una raccomandata, o mandando avanti un collega più perspicace. Di certo, l’idea di presentarsi al grande compositore con il famoso “ta-ta-ta-taaa” non fu quel che si dice un successo: visto il biglietto da visita così categorico, il Nostro infatti reagì di conseguenza, trasformando i fatali rintocchi in un suo personale trionfo, una grandiosa rimonta la cui storia è scritta a imperitura memoria nei quattro movimenti della Quinta Sinfonia in do minore. E c’è da credere che la batosta ancora bruci all’incauto bussatore di porte, se è vero che da quel fatidico 1808 non c’è chi, uscito da una esecuzione di questa Sinfonia, non si senta in grado a sua volta di fargliela vedere a tutti questi destini avversi: «Da domani, la mia vita sarà come la Quinta di Beethoven!». Poi, si sa, svanito l’effetto della musica, la maggioranza ripiega su più ragionevoli aspirazioni, accontentandosi di condurre senza troppi disastri la propria mesta e dignitosa “Incompiuta”; ma, intanto, quello scatto morale provato allo scoppio del do maggiore nell’ultimo movimento continua a risuonare per tutti come un esempio, un monito a ricercare nella vita la felicità, a conquistarsela nonostante tutto. Nella Quinta, in effetti, lo spirito vince su tutte le avversità; e questo, in modi sempre diversi, avviene in quasi tutte le composizioni di Beethoven. Ma in questa Sinfonia la dinamica interiore che anima la fantasia beethoveniana si realizza in modo così lineare e stringente che si è quasi spinti a credere che rappresenti un valore assoluto: il modo più alto, più nobile, persino l’unico che si confaccia all’uomo che voglia dare un senso alla propria esistenza – o, in altri termini, al compositore che voglia dare forma alla propria opera. Incarnato nelle note della Quinta, l’idealismo tedesco, con la sua spinta a trascendere di continuo le limitazioni del contingente e il suo imperativo a dominare dialetticamente la realtà, sembra la cosa più naturale di questo mondo, un dato di fatto scoperto una volta per tutte e valido universalmente. Già Schumann a proposito diceva: «Per quanto la si ascolti, la Quinta Sinfonia esercita su di noi un effetto possente e invariabile, come quei fenomeni della natura che per quanto frequenti ci riempiono sempre dello stesso stupore». Noi sappiamo bene che il messaggio di questa musica e i mezzi con cui è espresso non sono «natura» ma cultura, nacquero cioè in un contesto storico preciso e furono il prodotto di fattori umani e sociali irripetibili. C’è addirittura chi, ansioso di ridimensionare la portata di una tale opera appiattendola il più possibile al suo contesto, la vede come un’espressione del nazionalismo tedesco per il quale Beethoven in quegli anni aveva mostrato alcune simpatie. Così, le fanfare vittoriose e gli incitamenti all’azione racchiusi nella musica non sarebbero più generici appelli morali, ma militareschi richiami al popolo tedesco perché si liberi dal giogo degli odiati francesi. Più giustamente, si può ricondurre il clima grave e importante che aleggia nella composizione al culto del tempo per gli antichi e per i grandi tragici, di cui Beethoven era imbevuto; o far risalire all’Illuminismo e allo spirito rivoluzionario il senso di fiducia nella positività dell’agire umano e l’esaltazione dell’individuo, così connaturati a questa musica. 17 Pensare però che la Quinta Sinfonia se ne stia lì, buona buona nella casella che le affidano gli storici è pura presunzione. Come tutti i grandi capolavori dell’arte, essa brucia nell’esperienza estetica le contingenze storiche e biografiche che l’hanno vista nascere, per farci toccare con mano, senza troppe mediazioni intellettuali, quella realtà umana che ne è la base. E questa realtà umana è per noi quanto mai attuale e scottante, trattandosi della radice stessa da cui nasce l’era moderna: l’aspirazione alla libertà e alla realizzazione di se stessi quale fondamento della vita sociale, con tutto l’annesso di responsabilità, errori ed eccessi che questo comporta. Ascoltare la Quinta vuol dire quindi abbeverarsi direttamente alla fonte, cogliere allo stato nascente lo spirito che malgrado tutto ancora informa il nostro modo di vivere. Che si consideri quest’utopia come un’ingenuità, una iattura o un nobile traguardo a cui tendere, l’effetto non cambia: la coerenza con cui essa è declinata nella Quinta è tale che, come aveva già intuito Schumann – e con lui i vari Hoffmann, Goethe, Berlioz – non può che sconvolgere, risvegliando in noi la sensazione di essere unici artefici del nostro destino e, volenti o nolenti, l’innato anelito ad andare sempre oltre. Si dice di questa Sinfonia che sia un manuale di determinazione: non una sbavatura, un passo indietro, una distrazione, ma un procedere serrato e sicuro dall’inquietudine dell’inizio alla luce vittoriosa del finale. Viene da chiedersi come un uomo capace di regalare ai posteri un’opera così essenziale e rigorosa, non abbia poi trovato nel quotidiano l’energia e la concentrazione per mettere un po’ di ordine nella propria vita privata, o magari solo dare una sistemata alle quattro pareti del suo studio, perennemente a soqquadro. Comunque sia, è proprio vero che la Quinta si ascolta da cima a fondo senza avere il tempo di guardarsi attorno: il primo movimento è così incalzante che non ci si è ancora seduti e già c’è il ritornello dell’esposizione; nemmeno il tempo lento è di qualche riposo, con quegli squilli improvvisi in cui Beethoven sembra dire: «vincerò!»; lo Scherzo poi, così carico di presagi, non finisce neanche, ma si trasforma in una introduzione al finale, quel finale che erompe già come un fiume in piena e non si capisce come Beethoven abbia fatto a renderlo via via ancora più trascinante. Ma si farebbe un torto all’umanità di Beethoven e alla ricchezza di quest’opera, se accecati dal risultato finale, non si prestasse orecchio anche a quei rari momenti di crisi e di fragilità, a quelle brevi e impagabili divagazioni che vengono però subito ricondotte all’ordine dall’imperativo categorico beethoveniano. Ecco alcuni esempi da non lasciarsi sfuggire: la cadenza dell’oboe nella ripresa del primo movimento; l’improvvisa interruzione della terza variazione nell’Andante quando flauto, oboe e clarinetto iniziano a giocherellare sul primo tema; il lungo pedale in pianissimo alla fine dello Scherzo con quel brivido di incertezza sull’esito della battaglia finale; e, se si vuole, anche l’ultima coda, introdotta da un bonario fagotto: un piacevole scarto dal tono altisonante di quest’opera impegnata, con un Beethoven che, smessi per un momento i panni del condottiero, scende tra di noi, coinvolgendoci in una gioiosa danza piena di vita. Alberto Bosco 18 terzo concerto Sinfonia n. 6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale” Il 22 dicembre 1808, presso il Theater an der Wien, ebbe luogo la prima esecuzione delle beethoveniane Quinta e Sesta Sinfonia, composte contemporaneamente negli anni 1807-1808 e dedicate entrambe al principe von Lobkowitz e al conte Razumovskij. Pur accomunate da analogie di carattere strutturale, nella rispettiva forza espressiva rappresentano una contrapposizione di forze contrastanti: se la Quinta è un’esplorazione «della notte buia dell’anima», la Sesta ne costituisce il contrappeso psicologico, il superamento spirituale. Luminosa e serena, è l’espressione somma di quell’Arte che nella concezione schellinghiana si fa mediatrice tra Natura e Spirito. Una Natura da sempre molto cara a Beethoven: «Non c’è nessuno che possa amare la campagna quanto me. Dai boschi, dagli alberi, dalle rocce sorge l’eco che l’uomo desidera udire»; e nelle lunghe passeggiate nella campagna viennese, attraverso le letture di Schelling, Fichte, e soprattutto Kant, egli andava perseguendo un intimo contatto con la Natura e con il divino in essa manifesto, confidando in una pace rasserenatrice e in quel dialogo ormai impossibile con gli uomini a causa della sordità, e dunque ricercato attraverso un sentire più autentico e profondo, in una dimensione tutta interiore; «Dio Onnipotente, nella foresta! Io sono beato e felice: ogni albero mi parla di te. [...] Chi può esprimere tutto ciò?». Già nel 1803, a pochi mesi di distanza dalla terribile crisi confluita nella stesura del testamento di Heiligenstadt, Beethoven annotava in un quaderno di schizzi spunti tematici riconducibili al secondo e al terzo movimento di quella che inizialmente era la Sinfonia caratteristica, o Ricordi della vita in campagna: forse il tentativo di fissare il prezioso ricordo, l’eco di quanto gli era più caro, in scene non già descrittive, semmai nutrite di sensazioni, interiorizzate e assopite, risvegliate a ogni contatto con i profumi e con la magnificenza della Natura. Scene in cui i suoni musicali fungono da mediatori del creato nelle sue innumerevoli manifestazioni sonore, ponendosi quali elementi costitutivi del processo creativo e della struttura formale. La successione delle tonalità, quasi un rondò, nella novità di una struttura in cinque movimenti, la mancanza di contrasti tematici, i numerosi rimandi tra un tempo e l’altro, lo stile spezzato delle melodie, i lunghi bordoni su quinte vuote, l’iterazione di figure musicali, le frasi variate, i movimenti ondulatori contribuiscono dunque nella Pastorale alla mediazione tra una forma finita, votata alla direzionalità – la sinfonia – e l’esigenza di stasi e di espressione del lento divenire ciclico della Natura. Durante la stesura Beethoven precisava sui taccuini: «Sinfonia Pastorale, nessuna pittura, ma in cui sono espresse le sensazioni che suscita nell’uomo il piacere della campagna, e sono descritti alcuni sentimenti della vita campestre». E pur corredando ogni movimento di una didascalia, si premurò di sottrarre la sua Sinfonia alla connotazione meramente descrittiva tipica dei Tongemälde e dei Portraits musicaux, quadri musicali di carattere pastorale-rappresentativo assai in voga all’epoca, apponendo già sul programma della prima esecuzione la dicitura «Mehr Ausdruck der Empfindung als Malerei», ovvero «Più espressione di sensazioni che pittura». Nella sua serenità la Pastorale inizia e finisce in sordina; i primi due movimenti, in forma-sonata, sono pervasi da uno stato di pienezza spirituale e da una pace estatica: 19 il respiro del tema iniziale dell’Allegro ma non troppo – «Risveglio di piacevoli sensazioni all’arrivo in campagna» – immette l’ascoltatore nel clima di beatitudine che permea l’intera Sinfonia. Morbide linee melodiche si intrecciano in un abile lavorio costruttivo, laddove ai contrasti Beethoven privilegia incantatorie iterazioni e accostamenti armonici, come in un improvviso illuminarsi colmo di stupore. Nell’Andante molto mosso – «Scena al ruscello» – il tempo sembra essersi fermato; un ruscello scorre sul fluire lento e cullante di secondi violini, viole e violoncelli, mentre gli uccelli dialogano in un sottile gioco di rimandi tra piani sonori diversi. Poco prima del finale una sospensione dell’orchestra libera in forma di cadenza le voci di usignolo (flauto), quaglia (oboe) e cuculo (clarinetto), espressamente indicati in partitura: lungi dall’essere semplici figure onomatopeiche, essi anticipano – attraverso l’analogia con il Lied Der Wachtelschlag (Il canto della quaglia): «Loda Iddio, ama Iddio, ringrazia Iddio» – quel sentito ringraziamento che l’ultimo movimento esprime. Negli ultimi tre movimenti, che si susseguono senza soluzione di continuità, il tempo riprende a scorrere, e nell’Allegro – «Allegra riunione di contadini» – entra in gioco in modo festoso l’elemento umano, quel «conforto dell’umana società» che la sordità aveva negato al compositore. Formalmente è uno Scherzo, con una vivace danza contadina per Trio nella parte centrale. Ma la ripresa viene appena accennata, allorché un re bemolle dei contrabbassi annuncia l’arrivo di un temporale: è l’Allegro – «Temporale, tempesta» – in cui fanno il loro ingresso i tromboni; importante tòpos di tanta letteratura musicale descrittiva, questa manifestazione non ha eguali: l’uomo nella sua piccolezza è esposto alla furia delle forze della Natura che si scatenano. Non è possibile reprimere un brivido – indice di superamento del puro intento rappresentativo – che dà ragione all’epigrafe beethoveniana alla Sinfonia. Unico movimento in tonalità minore, si sviluppa magistralmente attraverso una scrittura armonicamente instabile, fino ad approdare a una luminosa scala in do maggiore, un arcobaleno al calmarsi della tempesta, che conduce all’Allegretto – «Canto dei pastori. Sentimenti di gioia e di gratitudine dopo la tempesta». Un clarinetto intona il ranz des vaches delle Alpi svizzere, sopra un bordone di quinta vuota, su cui si modella il canto di ringraziamento dei pastori, continuamente variato. È una grandiosa espressione di giubilo cui sembra partecipare tutto il creato, in una collettiva lode al Creatore che chiude circolarmente la Sinfonia, celebrando la ricongiunzione con lo spirito. La conclusione è di una stupefacente semplicità, con un diminuendo di tutta l’orchestra, un dolce commiato con la voce del corno in lontananza, quasi l’eco dell’Alpenhorn; perduto il contatto con l’umano, è il momento di tornare a una quiete solitaria. Donatella Meneghini Diplomata in Pianoforte, Donatella Meneghini si è laureata in Storia e critica delle culture e dei beni musicali presso l’Università di Torino. All’attività musicologica affianca l’attività concertistica, in particolar modo in formazioni di musica da camera. È docente di Teoria musicale presso l’Istituto Musicale pareggiato della Valle d’Aosta. 20 terzo concerto Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 In quest’opera c’è «la mano di un ubriaco», sosteneva Friedrich Wieck. Vi sono eccessi oltre i quali «non è lecito spingersi», osservava Carl Maria von Weber. È una creazione uscita da «una mente malata», sentenziava «La Revue musicale». Verranno poi le celebri parole di Wagner (in L’opera d’arte dell’avvenire): «Questa sinfonia è l’apoteosi della danza; la danza nella sua suprema essenza, la più beata rappresentazione del movimento del corpo»; e ancora: «Beethoven […] ha portato nella musica il gesto, attuando la fusione tra corpo e mente». Tutto è tensione drammatica, moto inesorabile, dialettica fra luci e ombre, un rincorrersi di domande che si rimbalzano senza risposte: è la vitalità interiore, etica e fisica, il gioco eterno fra materia e spirito, fra estasi e movimento, la contemplazione e la danza. Anche quando si ferma... Come nella musica c’è il silenzio, così alla danza appartiene anche il momento della sosta: è l’arco teso, fremente, prima di scoccare la freccia. Nasceva, la Settima, tra l’autunno del 1811 e l’estate del 1812 – quasi contemporaneamente all’Ottava Sinfonia – e il mondo la conobbe per la prima volta nel dicembre del 1813, presso l’Università di Vienna, in un concerto che celebrava i soldati austriaci vittoriosi sull’esercito napoleonico, insieme ai clangori patriottici della Vittoria di Wellington. La freccia è scoccata: seppure con mezzi espressivi semplificati – mancano tromboni e controfagotto – la sua traiettoria è perfetta. L’asse portante è l’invenzione ritmica, l’iridescenza ritmica, risolta in articolati gesti danzanti, già a partire dal passaggio tra il Poco sostenuto introduttivo e il Vivace del primo movimento, attraverso il ripetersi di una sola nota. Beethoven attinge con piena coscienza alla sinfonia classica, su una musica trasparente e chiara, scandita da un pensiero ritmico costante e da ampie rifrazioni timbriche. L’introduzione, con i suoi accordi a orchestra piena e i suoi brevi motti espressi dai fiati, denuncia un sotterraneo senso del tragico – di origini remote nel creator spiritus dell’artista –, mentre continua la pulsione sotto la trama orchestrale. Si affacciano momenti quasi bucolici, e i crescendo dell’orchestra sono rotti da quella sola nota, che nel suo muoversi ostinato tra archi e fiati subisce come una mutazione genetica, e segna l’ingresso del Vivace. Questa pagina acquista vigore caratterizzandosi per l’alternanza di volumi sonori, di moti acceleranti e deceleranti, improvvisi arresti e repentine riprese al galoppo. Il suo aspetto è estroso, ai limiti della stravaganza, basato più su un gioco vertiginoso di cambi di timbro e registro, piuttosto che sulle abituali contrapposizioni dialettiche dei soggetti. Siamo catturati dalla vitalità della musica, dalla varietà dinamica e coloristica e dall’incalzante pulsazione che, ora ingigantendosi ora frammentandosi, domina ovunque, sviluppo e ripresa. Vi emerge con naturalezza un raffinato dialogo tra oboe e flauto, e tutto si muove sospinto come sotto ipnosi dall’incombente battito. Anche la coda ribadisce l’energia di movimento e l’essenza del materiale tematico. Viole, violoncelli e contrabbassi ripetono una figurazione ritorta dai cromatismi, mentre i violini vagano nell’area di la maggiore: un passo che si rispecchierà nella coda dell’ultimo movimento, a suggellare l’unità dell’opera. E se nel primo movimento festosità e gaudio non sono esenti da ombre, con un “ossimoro” diremo che l’Allegretto è di tono malinconico. Si apre in la minore con un accordo dei fiati e una melodia degli archi dotata di una scansione ritmica precisa: 21 il dattilo (un impulso lungo, due brevi) e il ritmo spondaico (due impulsi lunghi), energia motoria allo stato puro, di cui tutta l’opera è improntata. Sugli archi spira un enigmatico soffio romantico per i continui ripiegamenti cromatici e la crescente onda dinamica. Poi il registro tonale si fa positivo quando le linee melodiche sono sostenute dai fiati sul pizzicato e sullo staccato degli archi. Questo movimento suscitò l’entusiasmo del pubblico dell’epoca a tal punto da essere richiesto un immediato bis. Era quello il tempo in cui il pubblico, più che invitato al silenzio, era chiamato a dire la sua in sede di concerto, acclamando o protestando, in un acceso dialogo con gli interpreti e i compositori... Davvero di rara bellezza e di sottigliezza timbrica impalpabile è il fugato dei soli archi, una pagina che spicca nel firmamento beethoveniano. Dopo un nuovo incresparsi drammatico, il soggetto è nuovamente restituito ai fiati, che ne sfruttano appieno la flessibilità, verso un epilogo gentile, memore ancora una volta, per un gesto degli archi, delle precedenti tensioni. Il Presto in fa maggiore esordisce con una frase rapida, corroborata dai timpani, subito sottoposta a sviluppo, in un gioco fra deviazioni timbriche e crescendo d’aspetto teatrale. Il movimento, che è un vero e proprio Scherzo ricco di sferzate dinamiche, è intercalato da un Trio esposto per due volte: il suo tema di sapore agreste evoca una melodia popolare, da marcia di pellegrini, di cui subiamo una certa fascinazione lirica. Il contrasto tuttavia è mitigato, perché strategicamente il Presto si chiude ogni volta su una nota tenuta ferma per tutta la durata delle due parentesi del Trio. E per due volte, con enfatico annuncio, riprende la galoppata, dalla figurazione continuamente variabile, per sigillare poi il movimento su un motto alquanto enigmatico. L’Allegro con brio manifesta con orgoglio una figurazione di danza più rustica su un ritmo martellante, arricchito di fanfare e improvvise contrazioni del gesto sonoro, con una certa prevalenza timbrica dei fiati. Siamo davanti a un dispiegamento quasi violento dell’impulso che finora si era prodotto nei precedenti movimenti, capace di mostrare un volto dionisiaco, folle e tumultuoso: rulli di timpani preludono alla caotica e continua mutazione degli accenti e all’incalzare di temi secondari e frammenti chiassosi, dando vita a uno stato confusionale che scardina la precisione della metrica classica. Verso la fine la pagina mette in campo una frenesia impazzita, disseminata da temi e frammenti uditi qui forse per la prima volta, e con gli archi in volata. Pare di assistere a uno di quei film corali dove, dopo aver seguito le singole storie, siamo avviluppati dal filo che sottilmente le unisce, costretti a mettere rapidamente sotto un unico sguardo ogni soggetto, ogni storia. Le fugaci linee dei fiati, le travolgenti ondate degli archi: sono tutti affluenti di quel fiume in piena che è la vita, tradotta, come in una pellicola di Altman, in una sinfonia di Beethoven. Monica Luccisano Giornalista, musicologa e autrice, vive e lavora a Torino. Ha collaborato con Oft, Osn Rai, MiTo, Unione Musicale, Settimane Musicali di Stresa, GhislieriMusica di Pavia e Teatro Regio. Tra le sue collaborazioni figurano le testate giornalistiche «Sistema Musica», «Giornale del Piemonte», «Giornale della Musica», «Effetto Arte» e gli editori Rugginenti, Musica Practica, Paravia, Loescher ed Edt, dove da diversi anni si occupa di editing nel settore musica. Ha collaborato con il Comitato Italia 150 in occasione di Esperienza Italia. Per il teatro ha scritto Dalla musica al silenzio (2004), Tracce di Amleto (2006), L’arte della suggestione (2008), La Memoria del bene. Canti dal Giardino dei Giusti (2010), Parole inCrociera (2011), Il canto degli Italiani (2011), spettacoli realizzati, tra gli altri, allo Stresa Festival e al Piccolo Regio Puccini. 22 quarto concerto Sinfonia n. 8 in fa maggiore op. 93 L’Ottava Sinfonia è un’opera cui è difficile assegnare un ruolo preciso all’interno della produzione beethoveniana. A causa del suo linguaggio estremamente cristallino e dei suoi numerosi stilemi pre-romantici, essa è infatti apparentemente estranea all’instancabile evoluzione stilistica che il compositore intese aff rontare tra la Terza e la Settima Sinfonia (1804-1812), mentre al contempo il gioioso e per molti inusuale chiarore che irraggia sicuro da ogni più piccolo anfratto della partitura è talmente intenso da abbagliare quasi l’ascoltatore, impedendogli così di vedere come in realtà, al pari degli altri numeri del corpus sinfonico del Maestro di Bonn, tale composizione in apparenza “facile” si erga anch’essa su fondamenta intrise fino al midollo di puro, indiscutibile spirito beethoveniano. L’opera vide la luce nel 1812, in un periodo non poco funesto per il compositore. Da qualche tempo infatti i suoi già gravi problemi di udito stavano sfociando in una completa e irreversibile sordità; inoltre, la stesura della celebre Lettera all’amata immortale – che Beethoven siglò di suo pugno nel luglio dello stesso anno indirizzandola al suo amore terreno più grande e più segreto – rappresentava l’ultima speranza di poter realizzare in questo Mondo quell’ideale romantico a lui tanto caro dell’Amore come condivisione universale tra due esseri, speranza che purtroppo non si sarebbe mai concretizzata, gettando così il compositore in un isolamento ancor più cupo e doloroso. Eppure, come nel più usuale dei cliché, al crescere dei problemi la creatività beethoveniana si innalzava anch’essa in maniera puntuale e a tratti vertiginosa. Quanto a gestazione infatti l’Ottava Sinfonia fu coeva della Settima che, caratterizzata da una vitalità altrettanto dirompente e da una luminosità a tratti egualmente debordante, la precedette di una sola stagione. Tuttavia, se la Settima si presentò fin da subito sotto l’egida di un’aura in tutto e per tutto beethoveniana, l’Ottava, bollata dai più come gratuitamente semplice, faticò non poco a ingraziarsi il favore del pubblico e della critica. Un’ottantina d’anni dopo la morte del compositore però, il critico tedesco Max Chop si invaghì a tal punto di quest’opera da riuscire a superarne la fulgida esteriorità, consegnandone ai posteri un’analisi estremamente lucida ed esaustiva. In tale analisi, Chop sottolinea come anche alla base dell’Ottava, al pari della Settima, non vi sia altro che un’appassionata celebrazione dell’umana gioia di vivere, «se non che, nel concetto e nell’espressione di questa gioia, ci sono parecchie gradazioni». Di certo il compositore aveva già avuto modo di sperimentare una gioia simile nella Quarta Sinfonia (1806), ma in quel caso la sua incapacità di annientarsi completamente in tale estasi poetica emergeva chiaramente da alcune ombre che continuavano a velargli l’anima, mentre qui l’intimo sentimento raggiunge finalmente «una sua espressione solare, e spumeggiando dalle profondità del cuore si riversa libero come limpida fonte». L’opera si apre senza alcuna introduzione su un radioso Allegro vivace e con brio in forma-sonata: l’euforia incandescente della Settima diventa qui un’occasione gioiosa o, se vogliamo, una festa per pochi amici e familiari priva di inutili formalità alla quale Beethoven ci invita con piacere e in cui «gli ospiti non sono valutati dall’abbigliamento, ma dalla bontà del cuore». Gli elementi tematici si susseguono veloci: dapprima i legni, poi i corni, quindi gli archi e infine il fagotto, il tutto apparentemente senza 23 soluzioni di continuità; l’aura armonica della sezione è però incerta, poiché partendo da una tonalità di impianto di fa maggiore, lo sviluppo tematico porta a un re maggiore invece che alla più consueta dominante (do), quasi uno “scivolone” dettato dall’eccessiva confidenza del clima familiare instauratosi. Altra cosa curiosa è poi il raggiungimento del climax non durante lo sviluppo bensì nel corso della ripresa, come se un ritorno del primo tema nel finale fosse da giudicarsi anch’esso eccessivamente formale (una trovata della quale pochi direttori della vecchia guardia compresero l’ironia, e che lo stesso Mahler non si trattenne dal riarrangiare assegnando il tema “mancante” ai timpani). Segue quindi un Allegretto scherzando che, anziché porsi in contrasto con il primo tempo, si erge anch’esso in una felicità innocente e a tratti ingenua di reminiscenze vagamente rossiniane. Qualche critico, in effetti, ritiene che qui Beethoven abbia voluto proprio burlarsi di Rossini e della musica italiana del suo tempo; altri invece credono a un divertente aneddoto secondo il quale il compositore concepì il movimento come elegante canzonatura dell’amico Johann Mälzel, celebre inventore di strumenti automatici e perfezionatore del metronomo, che il ritmo compìto della sezione vorrebbe imitare e del quale gli umoristici inserti puntati di fine sezione simulerebbero un’ilare rottura. Viene poi il Tempo di minuetto, rievocazione nostalgica di gusto haydniano, che probabilmente Beethoven sostituì al più usuale Scherzo per cristallizzare con maggior efficacia quel che Chop definisce «il misto delizioso di amorevole attaccamento al buon umore e di quella divina atmosfera patriarcale che oggi possiamo comprendere più a fondo, in quanto l’epoca veloce e affannata ci ha separati dal suo palpito tranquillo». Quanto al Trio, capolavoro di stile puramente barocco, il delicato incanto dei corni e del clarinetto si invola attraverso figure leggere e sognanti, mentre ai violoncelli e ai contrabbassi è demandato un commento di terzine staccate e pizzicato che nel suo lieve nervosismo invita a guardarsi dall’assumere una velocità eccessivamente contraria allo stile, pena il bruciarsi prematuro dell’effetto orchestrale riservato al finale. Ed eccoci infatti all’Allegro vivace (che Čajkovskij identificava come uno dei più grandi momenti sinfonici di Beethoven). Concepito in forma di rondò-sonata, il movimento riprende l’eccentrica armonia del primo tempo: breve incipit in tonalità, secondo soggetto dapprima alla dominante, ripresa alla tonica, ecc. Al contempo sognante e dirompente – le sferzate dei legni sembrano preludere agli incanti musicali delle sinfonie e del Sogno di Mendelssohn –, qui la drammaturgia orchestrale si snoda attraverso rimandi tematici così vividi da costituire quasi personaggi a sé stanti e impazienti di esprimersi autonomamente sul battere primordiale di timpani accordati in ottave (similmente a quelli dello Scherzo della Nona Sinfonia), mentre lo sviluppo e la ripresa lasciano quasi subito il passo a una lunga coda, capace di elevare la quieta giocosità dei movimenti precedenti in un’apoteosi conclusiva che è pura estasi del sublime. Michele René Mannucci Michele René Mannucci si è laureato in Storia della musica moderna e contemporanea al Dams di Torino, sotto la guida di Ernesto Napolitano, con una tesi dedicata a L’interpretazione come ipertesto: la Sonata in si minore di Franz Liszt. Da anni si divide tra la ricerca nel settore delle tecnologie dell’informazione e l’attività di saggista in ambito musicale. 24 quarto concerto Sinfonia n. 9 in re minore op. 125 “Corale” Sulla Nona Sinfonia di Beethoven pesa da sempre uno strano carico di odio-amore. Alla prima esecuzione, avvenuta a Vienna il 7 maggio del 1824 presso il Teatro di Porta Carinzia, il pubblico rimase interdetto: qualcuno propose addirittura di eliminare «quel bizzarro finale corale». E l’opinione critica nei confronti dell’ultimo capolavoro sinfonico di Beethoven si sarebbe prolungata per molto tempo. Giuseppe Verdi avrebbe detto: «Non mi sorprenderei affatto se qualcuno venisse a dirmi che la Nona è scritta male»; e il testimone delle illustri stroncature sarebbe passato nelle mani di François-Joseph Fétis, che si rifiutava di analizzare il finale corale, o di Andrea Della Corte, che riteneva la lunghezza dell’ultimo movimento non giustificabile alla luce dei contenuti musicali («Purtroppo, esaurita l’ispirazione, Beethoven continuò a scrivere»). Anche per un personaggio fittizio, come lo stravagante professore Mondrian Killroy – il protagonista del recente film di Alessandro Baricco, Lezione 21 – la Nona Sinfonia andrebbe gettata nell’enorme cestino dei lavori sopravvalutati. Il rovescio della medaglia lo hanno scritto nomi altrettanto illustri, a partire da Richard Wagner, forse il più grande sostenitore della Nona nel corso dell’Ottocento: a lui si deve un’esecuzione, quella del 1846, che a molti sembrava la riesumazione di un cadavere seppellito da tempo; e a lui si devono descrizioni memorabili dell’ultima sinfonia di Beethoven, quale l’immagine di un «ponte gettato verso lo stato mistico». Un simile stato di eccitazione non poteva certo rimanere isolato nel corso del XIX secolo: non a caso per Schumann e Mendelssohn i problemi incontrati con la scrittura sinfonica erano venuti tutti dalla necessità di andare oltre Beethoven. E in fondo ci avrebbe pensato Johannes Brahms a chiudere il cerchio scrivendo una sinfonia (la Prima) che molti non esitarono a definire la “Decima” di Beethoven: proprio perché ancora alla fine dell’Ottocento scrivere un’opera sinfonica significava prima di tutto ripensare al modello della Nona. Odio o amore che sia, quello che orbita da sempre attorno all’ultima sinfonia di Beethoven è il normale sentimento che accompagna sempre le opere di rottura: quelle che si portano sulle spalle nello stesso tempo un po’ di passato e un po’ di futuro. Naturalmente la pietra dello scandalo era il finale corale, quasi una sorta di affronto a quella che fino a quel momento era sembrata la conditio sine qua non del genere sinfonico: affidare ogni contenuto a un verbo puramente strumentale. Ma il punto è che la Nona è un’opera che tende per gran parte del suo percorso all’autodistruzione, e che incomincia a parlare proprio quando sembra non avere più niente da dire. Il baritono nell’ultimo movimento canta: «O amici, non questi suoni! Piuttosto intoniamone altri, più piacevoli e gioiosi». Dopodiché esplode il celebre inno Alla gioia (An die Freude), e poco importa il fatto che i versi di Friedrich Schiller, tutto sommato, non siano un granché; perché quello che Beethoven cerca è un percorso dal basso verso l’alto, un itinerario in grado di collegare i poli elementari dell’esistenza. Un testo troppo raffinato o contorto non sarebbe stato in grado di esprimere un punto di vista che sembra – per usare le parole di Giorgio Pestelli – «riconsiderare tutto dall’origine». Più che Schiller, in fondo, viene in mente Hegel ascoltando la Nona: l’Io che prende coscienza di sé. Beethoven pensava da tempo a un modo per rappresentare 25 musicalmente la sofferta dialettica che porta un individuo a ottenere la consapevolezza dell’esistenza: uno scontro tra Io e non-Io che si risolve solo con l’ausilio della ragione. Ecco, la Nona è la miglior rappresentazione possibile di una lotta tra forze opposte, che trova una sintesi solo nella forza abbagliante della bellezza, unica vera musa del genio beethoveniano, nonché chiara stigmate dello sguardo divino. Tutto l’inno Alla gioia non è altro che un pretesto per portare l’individuo a guardarsi intorno, e a vedere nella fratellanza tra gli uomini una straordinaria opportunità per condividere i rigeneranti valori dell’arte («Percorrete, fratelli, la vostra strada, gioiosi come un eroe verso la vittoria»). In questo senso il finale della Nona appare come una sintesi tra poli opposti: da una parte le oscure tribolazioni su cui si apre il primo movimento, dall’altra le luminose aperture al trascendente dell’Adagio; l’inno Alla gioia si colloca tra questi due estremi come una sorta di medium in grado di portare l’uomo a rivolgere gli occhi al cielo con serenità, senza dimenticarsi tuttavia di avere i piedi ben piantati per terra. Ecco perché si può pensare che i primi tre movimenti della Nona siano una sorta di introduzione al finale. L’Allegro ma non troppo è un brano che ci fa perdere in continuazione l’orientamento: le tensioni e il dramma sono evidenti, ma il tracciato non è mai rettilineo e la fine del movimento non svela nessuna via di uscita dall’oscuro labirinto. Lo Scherzo è una sorta di alter ego del movimento iniziale: un distacco umoristico dalle inquietudini del presente, che strappò applausi immediati alla prima esecuzione (l’unica pagina veramente apprezzata della Nona in quell’occasione), grazie a uno spettacolare uso del timpano. Mentre l’Adagio molto e cantabile snocciola una serie di variazioni su due episodi distinti, il primo dei quali spicca per un’intensa spiritualità. Poi si cambia registro: il Finale è introdotto da una ricapitolazione dei temi ascoltati nei movimenti precedenti che ha il sapore del commiato; quasi come se Beethoven volesse voltarsi per un’ultima volta ad osservare il passato, prima di intraprendere un nuovo percorso. Il baritono si fa portatore del suo pensiero, invocando l’intonazione di nuovi e «più gioiosi» pensieri; e quella che segue è una monumentale prova di forza, fatta di libere variazioni che ruotano attorno al celebre tema dell’inno Alla gioia: una pagina forse imperfetta per alcuni, ma ideale per trasmettere tutta l’eccitazione di un compositore che, proprio alla fine della sua esperienza creativa, vedeva l’inizio di una strada inesplorata. Andrea Malvano Andrea Malvano, diplomato in Pianoforte e laureato in Lettere moderne, ha conseguito un master a Lione e un dottorato di ricerca presso le Università di Torino e Milano. È autore di numerosi saggi e ha pubblicato due volumi, rispettivamente su Schumann e Debussy, nella collana Edt - De Sono. Giornalista pubblicista, scrive su «Torino Sette», «Amadeus», «Il Giornale della Musica» e «Sistema Musica». Ha insegnato Storia ed estetica musicale al Conservatorio di Torino. Attualmente è titolare di un assegno di ricerca post-dottorato presso l’Università di Torino. 26 quarto concerto An die Freude Alla gioia O Freunde, nicht diese Töne! Sondern lasst uns Angenehmere anstimmen, und freudenvollere. (Ludwig van Beethoven) O amici, non questi suoni! Piuttosto intoniamone altri, più piacevoli e gioiosi. Freude, schöner Götterfunken, Tochter aus Elysium, Wir betreten feuertrunken, Himmlische, dein Heiligtum! Deine Zauber binden wieder, Was die Mode streng geteilt; Alle Menschen werden Brüder, Wo dein sanfter Flügel weilt. Wem der große Wurf gelungen, Eines Freundes Freund zu sein, Wer ein holdes Weib errungen, Mische seinen Jubel ein! Ja – wer auch nur eine Seele Sein nennt auf dem Erdenrund! Und wer’s nie gekonnt, der stehle Weinend sich aus diesem Bund. Freude trinken alle Wesen An den Brüsten der Natur, Alle Guten, alle Bösen Folgen ihrer Rosenspur. Küsse gab sie uns und Reben, Einen Freund, geprüft in Tod, Wollust ward dem Wurm gegeben, Und der Cherub steht vor Gott. Froh, wie seine Sonnen fliegen Durch des Himmels prächt’gen plan, Laufet, Brüder, eure Bahn Freudig wie ein Held zum Siegen. Seid umschlungen, Millionen! Diesen Kuß der ganzen Welt! Brüder – überm Sternenzelt Muß ein lieber Vater wohnen. Ihr stürzt nieder, Millionen? Ahnest du den Schöpfer, Welt? Such’ihn überm Sternenzelt! Über Sternen muß er wohnen. Friedrich von Schiller Gioia, bella scintilla divina, figlia dell’Elisio, ebbri di fuoco noi entriamo, o Dea, nel tuo sacrario! La tua magia ricongiunge ciò che la moda ha crudelmente diviso; tutti gli uomini diventano fratelli ovunque si sofferma la tua dolce ala. Chi abbia avuto l’enorme fortuna di essere amico di un amico, e chi abbia conquistato una nobile sposa, si aggiunga al nostro giubilo! Sì, chiunque possa dire sua anche una sola anima al mondo! E chi ciò non ha mai potuto, piangendo si allontani furtivo da questa assemblea. Tutte le creature bevono la gioia dal seno della natura, tutti i buoni, tutti i cattivi seguono la sua orma di rose. Ella ci ha dato baci e viti, e un amico leale fino alla morte, voluttà è stata concessa al verme, e il cherubino sta innanzi a Dio. Gioiosi, come i suoi soli volano attraverso il meraviglioso spazio celeste, percorrete, fratelli, la vostra via pieni di gioia, come un eroe va alla vittoria. Abbracciatevi, moltitudini! Questo bacio vada al mondo intero! Fratelli, sopra la volta stellata deve abitare un padre amoroso. Vi prosternate, moltitudini? Intuisci tu il Creatore, o mondo? Cercalo al di là della volta stellata! Egli deve abitare sopra le stelle. 27 Studio e pianoforte di Beethoven nella Schwartzspanierhaus. Litografia. Vienna, Historisches Museum der Stadt Wien. 28 Negli ultimi anni Gianandrea Noseda si è imposto come uno dei più importanti direttori d’orchestra del panorama internazionale ed è regolarmente ospite delle maggiori orchestre in Europa e negli Stati Uniti. Direttore musicale del Teatro Regio, Direttore ospite principale dell’Orchestra Filarmonica di Israele, Laureate Conductor della Bbc Philharmonic, “Victor De Sabata Guest Chair” della Pittsburgh Symphony, Gianandrea Noseda è Direttore artistico del Festival di Stresa dal 2001. È stato inoltre il primo Direttore ospite principale straniero nella storia del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo e Direttore ospite principale della Rotterdam Philharmonic e dell’Osn Rai. Nato a Milano, dove ha compiuto gli studi musicali, Gianandrea Noseda dirige le più importanti orchestre del mondo: la Filarmonica di New York e le orchestre sinfoniche di Chicago, Pittsburgh e Boston, la London Symphony e la London Philharmonic, la Filarmonica di Oslo, l’Orchestre de Paris e la National de France, l’Orchestra di Santa Cecilia e la Filarmonica della Scala. Nella stagione 2012-13 farà il suo debutto con due grandi orchestre americane come la Cleveland Orchestra e la Filarmonica di Los Angeles. Con i complessi del Teatro Regio ha diretto nuove produzioni di Don Giovanni, Salome (per la regia di Robert Carsen), Thaïs (in dvd per Arthaus Musik), La dama di picche e La traviata – che nell’estate 2010 ha presentato nella prima tournée della storia del Teatro Regio in Giappone e a Shanghai per l’Expo 2010 –, Boris Godunov (per la regia di Andrei Konchalovsky), che per la prima volta sarà presentato nei cinema di tutto il mondo. Nel maggio 2011 ha guidato i complessi del Teatro Regio in Spagna e al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi. Intensa e felice la collaborazione con il Metropolitan di New York dove ha debuttato nel 2002 e diretto nuove produzioni de Il trovatore (2009) e La traviata (2010) oltre a importanti riprese de La forza del destino e Un ballo in maschera. Nel giugno 2011 è stato l’unico direttore ospite per la tournée del Met in Giappone. Come Chief Conductor della Bbc Philharmonic ha guidato l’orchestra in tournée in Giappone (per due volte, nel 2004 e nel 2008), Italia, Cecoslovacchia, Spagna, Germania e Austria. Nel 2005 Gianandrea Noseda e la Bbc Philharmonic hanno scritto una pagina storica quando un milione e mezzo di utenti hanno scaricato dalla rete le nove Sinfonie di Beethoven. Dal 2002 Gianandrea Noseda è legato all’etichetta discografica Chandos: ha registrato musiche di Prokof ’ev, Respighi, Karlowicz, Dvořák, Šostakovič, Liszt (l’integrale dei poemi sinfonici), Smetana, Mahler, Bartók e un’ampia panoramica della musica di Rachmaninov (le tre opere e l’integrale della produzione sinfonica). Ha avviato inoltre la collana «Musica Italiana», dedicata a compositori italiani del XX secolo come Dallapiccola, WolfFerrari (“Diapason d’or” in Francia) e Casella (la prima registrazione assoluta della Seconda Sinfonia). Per Deutsche Grammophon ha inciso il debutto discografico di Anna Netrebko con la Filarmonica di Vienna e un album mozartiano con Ildebrando D’Arcangelo e l’Orchestra del Teatro Regio. Attento ai giovani musicisti, ha collaborato con l’Orchestra del Royal College of Music di Londra, con la National Youth Orchestra of United Kingdom, con l’Orchestra Giovanile Italiana; nell’estate 2010 ha portato la European Union Youth Orchestra in tournée in Europa. Gianandrea Noseda è Cavaliere Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana. Nicola Beller Carbone, nata in Germania, ha vissuto a lungo in Spagna e attualmente risiede in Toscana. Dopo aver studiato recitazione a Saragozza, si è diplomata presso l’Escuela superior de canto di Madrid e ha continuato gli studi a Monaco con Astrid Varnay e Josef Loibl. Ha vinto diversi premi in Spagna e in Germania, tra cui lo Staatlicher Förderpreis für Darstellende Künstler 1996. A partire dal 1993 è stata invitata da diverse istituzioni, quali il Gärtnerplatztheater e la Bayerische Staatsoper a Monaco, la Kölner e la Bonner Philharmonie e la Zdf (canale televisivo pubblico della Germania). Dal 1996 al 2001 è solista nel Nationaltheater Mannheim ed è ospite frequente dell’Aaltotheater Essen, della Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf e della Semperoper Dresden. Ha cantato diversi ruoli mozartiani (Fiordiligi, Contessa, Donna Anna), ai quali si aggiungono le grandi interpretazioni di Mimì, Liù, Violetta e, in molti teatri tra i quali il Regio, Salome. Si è esibita nella Sinfonia n. 14 di Šostakovič alla Berliner Philharmonie, ha debuttato nel ruolo di Diemut in Feuersnot di Richard Strauss al Prinzregententheater di Monaco e in Evgenij Onegin alla Staatsoper della stessa città; nel 2004 ha esordito in Tosca e in Cavalleria rusticana, nel 2005 in Ariadne auf Naxos a Darmstadt, in Wozzeck all’Aalto Theater Essen, in Caduta e ascesa della città di Mahagonny alla Deutsche Oper Berlin, in Lady Macbeth del distretto Mcensk a San Gallo; ha debuttato inoltre nella Turandot di Busoni a Macerata e in Karl V di Krenek a Bregenz, Erwartung a Toronto, Die Fledermaus a Lione, Götterdammerung alla Fenice, Senso di Marco Tutino alla prima rappresentazione assoluta di Palermo. 29 Originaria dell’Alto Adige, Anna Maria Chiuri si è diplomata al Conservatorio “Arrigo Boito” di Parma sotto la guida del soprano Jenny Anvelt; parallelamente si è perfezionata con Franco Corelli. Ha vinto alcuni concorsi quali Cascina Lirica, “Mario Del Monaco”, “Mario Basiola”, “Francesco Paolo Tosti”, “Gianfranco Masini” e il Concorso Internazionale “Čajkovskij” a Mosca (unica italiana classificatasi nella sezione Canto dall’istituzione del concorso). Il timbro brunito e l’ampia estensione vocale le hanno permesso di debuttare in importanti ruoli verdiani: oltre che nella Messa da requiem, come Amneris, Azucena, Quickly, Fenena, Preziosilla, Federica (Luisa Miller), Maddalena, Ulrica. È stata inoltre Adalgisa,Santuzza,la Zia Principessa (Suor Angelica), la Principessa di Bouillon (Adriana Lecouvreur), la Cieca e Laura (La Gioconda). Per ciò che riguarda il repertorio in lingua francese è stata Carmen, Ragonde (Le Comte Ory) e Dalila; del repertorio tedesco ha rivestito i panni di Ortrud (Lohengrin) e Floßhilde (Das Rheingold). Svolge un’intensa attività concertistica per la diffusione del Lied tedesco e russo. Ha collaborato con i maggiori teatri e con i principali festival operistici italiani, ed è regolarmente presente all’estero, da Ginevra a Mosca, da Palm Beach a Tel Aviv, da Tokyo a Zurigo. Ha cantato tra gli altri sotto la bacchetta di Chailly, Fournillier, Muti, Renzetti, Solti; ha preso parte a spettacoli con regie di Bussotti, Cobelli, Lavia, Miller, Olmi, Pizzi, Ronconi, Stefanutti e von Hoeke. Ha inciso l’opera contemporanea Pasqua Fiorentina di Isidoro Capitanio, la Messa in sol di Bellini e Pezzi sacri di Sammartini per Bongiovanni; ha inoltre preso parte al dvd di Un ballo in maschera con la direzione di Chailly. Nelle ultime stagioni Kor-Jan Dusseljee ha ottenuto grande successo per le sue interpretazioni in Otello (Dresda) e La dama di picche (Komische Oper Berlin e Teatro Regio). Ha cantato molte volte nella Nona Sinfonia di Beethoven sotto la direzione delle più prestigiose bacchette, tra le quali Christoph von Dohnányi (concerto di apertura dello SchleswigHolstein Musik Festival 2009) e Riccardo Chailly (con l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia per il Concerto di Capodanno 2011). Ha debuttato in Wagner come Lohengrin per poi prendere parte come Walther von Stolzing ne I maestri cantori di Norimberga presso l’Opera di Lipsia, dove è stato interprete anche in Caduta e ascesa della città di Mahagonny di Weill. Intervenuto nella Messa glagolitica di Janáček con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, ha interpretato a Praga e Braunschweig Florestano nel Fidelio di Beethoven, ruolo che tornerà a ricoprire nella prossima pro- 30 duzione del Teatro Regio sotto la direzione di Gianandrea Noseda e per la regia di Mario Martone (dicembre 2011). Tenore di consolidata fama, ha collaborato con diversi rinomati direttori quali, oltre ai già citati, Kirill Petrenko e Valery Gergiev. La lunga carriera internazionale di Albert Dohmen è costellata di importanti successi: il Wozzeck del Festival di Salisburgo nel 1997 con le Filarmoniche di Vienna e Berlino dirette da Abbado, per la regia di Peter Stein; la Salome ( Jochanaan) che ha segnato il suo debutto al Metropolitan di New York nella stagione 2003-04; le innumerevoli interpretazioni di Wotan, di cui è oggi uno dei maggiori esecutori, a Bayreuth, Berlino, Vienna, Amsterdam e New York, oltre che in Italia. La sua galleria di ruoli (Kurwenal, Pizarro, Amfortas, Holländer, Scarpia, Blaubart, Hans Sachs) lo ha visto cantare sotto la direzione di maestri come Zubin Mehta, Giuseppe Sinopoli, Claudio Abbado, Christian Thielemann e James Conlon, sui migliori palcoscenici mondiali, dall’Opéra Bastille al Covent Garden, dalla Bayerische Staatsoper ai teatri di Zurigo, Amsterdam, Barcellona, Vienna (Staatsoper), Los Angeles, ecc. Affermato anche in campo lirico-sinfonico, ha cantato l’intero repertorio da Bach a Schönberg nelle principali sale da concerto. Tra i tanti episodi si ricordano la Nona Sinfonia di Beethoven con Kurt Masur e la New York Philharmonic, Ein deutsches Requiem sempre con Masur, l’Ottava Sinfonia di Mahler con Valery Gergiev, i Gurrelieder e ancora la Nona di Beethoven con James Levine. Tra le incisioni cui ha preso parte, Eine florentinische Tragödie di Zemlinsky con l’Orchestra del Concertgebouw diretta da Riccardo Chailly e le tre registrazioni con Sir Georg Solti: Die Frau ohne Schatten, Fidelio e Maestri cantori. Claudio Fenoglio, nato nel 1976, si è diplomato con il massimo dei voti e la lode in Pianoforte e in Musica corale e direzione di coro; si è inoltre laureato in Composizione. Ha studiato principalmente con Laura Richaud, Franco Scala, Giorgio Colombo Taccani e Gilberto Bosco, frequentando numerosi corsi di perfezionamento. Parallelamente agli studi accademici ha iniziato l’attività in ambito operistico come Maestro sostituto per poi specializzarsi nella direzione di coro. È stato Aiuto Maestro del coro presso il Teatro Massimo di Palermo affiancando per due anni Franco Monego. Nel 2002 è stato chiamato al Teatro Regio come Assistente del Maestro del coro Claudio Marino Moretti e successivamente di Roberto Gabbiani. A partire dal 2007 ha cominciato l’attività come Altro Direttore del coro, alternandosi al Direttore principale in alcune produzioni della Stagione del Regio e collaborando con il Coro Filarmonico dello stesso Teatro. Nel novembre 2010 è stato nominato Direttore del Coro del Teatro Regio, incarico che mantiene tuttora accanto a quello di Maestro del Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi” di Torino. L’Orchestra del Teatro Regio è l’erede del complesso fondato alla fine dell’Ottocento da Arturo Toscanini, sotto la cui direzione vennero eseguiti numerosissimi concerti e molte storiche produzioni operistiche, quali la prima italiana del Crepuscolo degli dei di Wagner (1895) e la prima assoluta della Bohème di Puccini (1896). Nella sua attività l’Orchestra ha dimostrato una spiccata duttilità nell’affrontare il grande repertorio così come molti titoli del Novecento. Dal 1967 è l’Orchestra stabile della Fondazione lirica torinese. Tra i maggiori spettacoli dei quali è stata protagonista si ricordano La Damnation de Faust di Berlioz (regia di Ronconi), insignito nel 1992 del premio “Abbiati”, La bohème “del centenario” con Pavarotti e Freni (trasmessa anche in diretta tv), Fedora di Giordano con Freni e Domingo. Ha eseguito in prima assoluta Carmen 2, le Retour di Jérôme Savary (2001) e, entrambe in prima italiana, Lear di Aribert Reimann e A Streetcar Named Desire di André Previn. Ha ricevuto il Premio Internazionale “Viotti d’Oro” nel 2000. In ambito lirico l’Orchestra si è esibita con i solisti più celebri e alla guida del complesso si sono alternati direttori di fama internazionale come Roberto Abbado, Ahronovič, Bartoletti, Bychkov, Campanella, Gelmetti, Maag, Oren, Pidò, Sado, Steinberg, Tate e infine Gianandrea Noseda, che dal 2007 ricopre il ruolo di Direttore musicale del Teatro Regio. Ha inoltre accompagnato grandi compagnie di balletto come quelle del Bol’šoj di Mosca e del Mariinskij di San Pietroburgo. Ospite di vari festival e teatri stranieri, nel 2000 ha portato a Nizza Sly di Wolf-Ferrari e Zazà di Leoncavallo; nel 2001 ha tenuto una grande tournée sinfonica in Francia; nel 2008 è stata ospite a Wiesbaden con Rigoletto sotto la direzione di Noseda. Sempre con il maestro Noseda, l’Orchestra e il Coro hanno tenuto una trionfale tournée in Giappone (a Tokyo e Yokohama) e in Cina (a Shanghai) nell’estate del 2010. Nello scorso mese di maggio, sempre sotto la guida del Direttore musicale del Regio, l’Orchestra e il Coro hanno tenuto una tournée, tutta dedicata a Giuseppe Verdi, che ha toccato diverse città della Spagna, Parigi e il festival di Wiesbaden in Germania. Accanto a diverse incisioni storiche, l’Orchestra e il Coro del Teatro figurano oggi nei video di alcune delle più interessanti produzioni delle ultime Stagioni del Regio: Medea di Cherubini diretta da Evelino Pidò, Edgar di Puccini (nella versione originale in quattro atti) diretta da Yoram David, Thaïs di Massenet diretta da Gianandrea Noseda nell’allestimento di Stefano Poda, Adriana Lecouvreur di Cilea, sul podio Renato Palumbo, e infine Boris Godunov, con il maestro Noseda e la regia di Andrei Konchalovsky. Nel 2003 i componenti dell’Orchestra hanno dato vita alla Filarmonica ’900 del Teatro Regio, organismo autonomo impegnato in numerosi progetti oltre che nella stagione di concerti del Regio. Fin dalla fine dell’Ottocento, con la presenza al Regio di Arturo Toscanini, il Coro del Teatro Regio è uno dei maggiori cori teatrali europei. Ricostituito nel 1945 dopo il secondo conflitto mondiale, divenne nel 1967 Coro stabile dell’Ente lirico torinese. Dal 1994 al 2002 è stato guidato dal maestro Bruno Casoni raggiungendo un alto livello internazionale, dimostrato anche dall’esecuzione dell’Otello di Verdi sotto la guida di Claudio Abbado e dalla stima di Semyon Bychkov che, dopo aver diretto al Regio nel 2002 la Messa in si minore di Bach, ha invitato il Coro a Colonia per la registrazione della Messa da requiem di Verdi. Il Coro è stato diretto successivamente dal maestro Claudio Marino Moretti e dal maestro Roberto Gabbiani, che ne ha incrementato ulteriormente lo sviluppo artistico. Regolarmente impegnato nelle produzioni della Stagione d’Opera, il Coro del Regio svolge inoltre una significativa attività concertistica, sia lirico-sinfonica sia a cappella, anche in collaborazione con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. La produzione di Aleko diretta da Noseda ed eseguita allo Stresa Festival e a Mito Settembre Musica nel 2009 con la Bbc Philharmonic è stata occasione per iniziare una proficua collaborazione con Chandos Records, che ha registrato quell’esecuzione e, nel luglio 2010, i Quattro pezzi sacri di Verdi con l’Orchestra del Regio. 31 Teatro Regio Walter Vergnano, Sovrintendente Gianandrea Noseda, Direttore musicale Orchestra Violini primi Serguei Galaktionov • Stefano Vagnarelli • Marina Bertolo Monica Tasinato Claudia Zanzotto Elio Lercara Roberto Lini Carmen Lupoli Enrico Luxardo Miriam Maltagliati Alessio Murgia Laura Quaglia Daniele Soncin Kim Soyeon Grazyna Teodorek Giuseppe Tripodi Violini secondi Cecilia Bacci • Marco Polidori • Tomoka Osakabe Bartolomeo Angelillo Silvana Balocco Paola Bettella Maurizio Dore Anna Rita Ercolini Silvio Gasparella Fation Hoxolli Roberto Lirelli Anselma Martellono Paolo Mulazzi Ivana Nicoletta Valentina Rauseo Viole Armando Barilli • Alessandro Cipolletta Gustavo Fioravanti Rita Bracci Nicola Calzolari Maria Elena Eusebietti Alma Mandolesi Franco Mori Roberto Musso Claudio Vignetta Giuseppe Zoppi 32 Violoncelli Relja Lukic • Umberto Clerici • Davide Eusebietti Giulio Arpinati Augusto Gasbarri Alfredo Giarbella Armando Matacena Luisa Miroglio Marco Mosca Paola Perardi Contrabbassi Davide Botto • Davide Ghio • Atos Canestrelli Fulvio Caccialupi Giulio Guarini Michele Lipani Stefano Schiavolin Flauti Federico Giarbella • Andrea Manco • Maria Siracusa Roberto Baiocco Corni Ugo Favaro • Natalino Ricciardo • Evandro Merisio Fabrizio Dindo Eros Tondella Pierluigi Filagna Trombe Ivano Buat • Enrico Negro Marco Rigoletti Tromboni Gianluca Scipioni • Enrico Avico Marco Tempesta Timpani Carlo Cantone • Percussioni Ranieri Paluselli • Lavinio Carminati Fiorenzo Sordini Oboi Luigi Finetto • Giovanni Deangeli • Alessandro Cammilli Stefano Simondi Clarinetti Alessandro Dorella • Luigi Picatto • Luciano Meola Edmondo Tedesco Fagotti Andrea Azzi • Andrea Zucco • Orazio Lodin Sergio Pochettino • Prime parti Coro Soprani Sabrina Amè Nicoletta Baù Anna Beretta Chiara Bongiovanni Anna Maria Borri Caterina Borruso Sabrina Boscarato Eugenia Braynova Serafina Cannillo Cristina Cogno Cristiana Cordero Eugenia Degregori Alessandra Di Paolo Manuela Giacomini Azusa Kubo Rita La Vecchia Laura Lanfranchi Chiara Lazzari Paola Isabella Lopopolo Maria de Lourdes Martins Pierina Trivero Giovanna Zerilli Tenori Pierangelo Aimé Janos Buhalla Marino Capettini Gian Luigi Cara Antonio Coretti Diego Cossu Luis Odilon Dos Santos Alejandro Escobar Giancarlo Fabbri Sabino Gaita Mauro Ginestrone Roberto Guenno Leopoldo Lo Sciuto Vito Martino Matteo Mugavero Matteo Pavlica Dario Prola Gualberto Silvestri Tiziano Tassi Sandro Tonino Franco Traverso Valerio Varetto Mezzosoprani / Contralti Cristiana Arri Angelica Buzzolan Shiow-hwa Chang Ivana Cravero Corallina Demaria Maria Di Mauro Roberta Garelli Rossana Gariboldi Anna Giumentaro Elena Induni Antonella Martin Raffaella Riello Myriam Rossignol Marina Sandberg Teresa Uda Daniela Valdenassi Tiziana Valvo Barbara Vivian Baritoni / Bassi Leonardo Baldi Mauro Barra Enrico Bava Massimo Di Stefano Umberto Ginanni Tolunay Gumus Vladimir Jurlin Desaret Lika Paolo Lovera Riccardo Mattiotto Davide Motta Fré Brian Nickel Gheorghe Valentin Nistor Franco Rizzo Enrico Speroni Marco Sportelli Marco Tognozzi Vincenzo Vigo 33 Fondazione Teatro Regio di Torino Pubblicazione realizzata dalla Direzione Comunicazione e Pubbliche Relazioni A cura di Simone Solinas Stampato nel mese di settembre 2011 presso la tipografia Stargrafica srl - San Mauro Torinese © Copyright, Fondazione Teatro Regio di Torino copia omaggio Prezzo: € 2 (iva inclusa) TEATRO REGIO Sabato 12 Novembre 2011 ore 20.30 PINCHAS STEINBERG Orchestra e Coro del Teatro Regio Musiche di Mendelssohn-Bartholdy, Brahms Lunedì 12 Dicembre 2011 ore 20.30 GIANMARIA TESTA Lunedì 19 Dicembre 2011 ore 20.30 GIANANDREA NOSEDA Filarmonica ’900 del Teatro Regio Musiche di Rota Venerdì 30 Dicembre 2011 ore 20.30 Sabato 31 Dicembre 2011 ore 17.30 GIANANDREA NOSEDA Orchestra e Coro del Teatro Regio Musiche di Verdi Lunedì 16 Gennaio 2012 ore 20.30 KRZYSZTOF PENDERECKI Filarmonica ’900 del Teatro Regio Musiche di Penderecki, Dvořák Sabato 11 Febbraio 2012 ore 20.30 VALERY GERGIEV Orchestra del Teatro Regio Lunedì 19 Marzo 2012 ore 20.30 YUTAKA SADO Filarmonica ’900 del Teatro Regio Musiche di Takemitsu, Šostakovič Sabato 24 Marzo 2012 ore 20.30 YUTAKA SADO Orchestra del Teatro Regio Musiche di Mozart Lunedì 16 Aprile 2012 ore 20.30 CHRISTOPHER FRANKLIN Filarmonica ’900 del Teatro Regio Torino Jazz Orchestra Musiche di Adams, Gershwin Venerdì 25 Maggio 2012 ore 20.30 UMBERTO BENEDETTI MICHELANGELI Orchestra del Teatro Regio Musiche di Mozart Main Partner Media Partner