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Il “risveglio islamico” e le sue radici

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Il “risveglio islamico” e le sue radici
Il “risveglio islamico” e le sue radici1
(Ercole De Angelis)
Indice preliminare degli argomenti
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I termini del problema
La questione d’Oriente
L’illusione disillusa: l’equivoco nazionalista
La deriva autoritaria
Nulla di nuovo sotto il sole
Scontro di civiltà!?
Tutti sacerdoti?
Conclusione
I termini del problema
Il cosiddetto risveglio islamico sembrerebbe essere, da un lato, un’anacronistico rigurgito di
medioevo sorto, nel 20° secolo, nell’ambito del complesso mondo mussulmano – una specie di
regressione collettiva nel porto sicuro della sua tradizione politico-religiosa, in un’epoca storica
caratterizzata da un interscambio economico multilaterale pressoché inarrestabile e ormai
totalmente globalizzato, in una dimensione postcoloniale e posteriore al crollo dei blocchi
geopolitici, verificatosi in Europa col crollo del Muro di Berlino, all’inizio del “terzo dopoguerra”.
Si tratta di un’epoca sempre più problematica nelle sue implicazioni politiche ed economiche,
che ha favorito, fra le inquietudini di fine millennio, l’insorgere di facili contaminazioni culturali tra
diverse aree del mondo, coinvolgendo direttamente quelle caratterizzate dal possesso di materie
prime e delle fonti di energia dipendenti dall’approvigionamento e dall’erogazione petrolifera.
Contro i timori di perdita della propria modellatura culturale, le reazioni si profilerebbero a
flusso incrociato:
 in Occidente il timore, non infondato né peregrino, di una conquista islamica dell’Europa
con conseguente cancellazione, per sovrascrittura, della sua identità radicale, cristiana;

nel mondo orientale e mediorientale la paura di assumere quelle forme di vita e quei valori
che sono il correlato morale e civile del credo cristiano e che, seppur laicizzate o
secolarizzate, ispirano e motivano comportamenti ostili all’Islam e alla sua tradizionale
assimilazione di religione e politica.
Per altro verso, il cosiddetto rinascimento islamico sembra imporsi non come un momentaneo
riflusso di oscurantismo medievale, ma come una realtà durevole dei nostri tempi, nata negli ultimi
decenni del ‘900, oltre la questione della novità o arretratezza dei modelli culturali che abbia
adottato a sostegno della propria causa.
La questione d’Oriente
Per maggiore completezza, va osservato, a dire il vero, che il rapporto tra Occidente e civiltà
mussulmana, e più in particolare con l’Islam, è sempre stato un rapporto complesso: non privo di
ambiguità e di tensioni. In Maometto e Calomagno, lo storico Heny Pirenne sosteneva che la vera e
decisiva causa della caduta dell’Impero Romano d’Occidente e del suo mondo – l’unità del
Mediterraneo – andasse cercata non tanto nelle invasioni dei popoli germanici sulle sempre più
fragili strutture dello stato romano, bensì successivamente nell’espansione araba del VII-VIII sec.
D.C. che avrebbe interposto un cuneo notevole fra i due mondi preesistenti – quello latinogermanico, sotto l’egida del cattolicesimo e quello greco-bizantino - che vi si affacciavano,
pregiudicandone la continuità.
Questo evento avrebbe aperto una vera e propria faglia culturale tra l’erede storico dell’impero
romano d’Occidente, ossia il Sacro Romano Impero – la Respublica christiana - e il prorompente
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Materiale autoprodotto dai docenti di Filosofia e storia del liceo classico “Omero”
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Islam, quand’anche nella prima fase della sua espansione la civiltà mussulmana esprimesse un
rigoglio civile, scientifico e un’apertura intellettuale, allora ancora sconosciute alla civiltà europea.
La Reconquista spagnola, all’insegna del Cattolicesimo, con la definitiva espugnazione del
mussulmano Regno di Granata nel 1492 ad opera dei sovrani iberici, Isabella di Castiglia e
Ferdinando d’Aragona, segnò una ripresa e un allargamento dei confini della cristianità europea, un
suo riscatto parziale, purtroppo a scapito di quella che era, allora, la parte più progredita, raffinata e
tollerante dell’Islam.
Quella conquista definitiva in terra di Spagna avrebbe poi consentito ai suoi sovrani di
diffondere ben oltre i confini dell’Europa, nelle Indie Occidentali, la civiltà e il credo cristiano,
interpretando quella nuova espansione come prosieguo della recente “reconquista” e connotandola
di non-lodevoli atti, quasi fossero dei puri succedanei (o “effetti secondari”) dell’espansione
medesima, che portarono all’estinzione delle civiltà precolombiane.
Nel corso dell’Evo moderno il senso della frattura fra le due culture si è acuito nuovamente con
la caduta della Seconda Roma – l’impero bizantino (1453) - e con la crescente espansione turcoottomana sulla penisola balcanica ai danni dell’Europa cristiana: Gli Asburgo, Venezia, Ungheresi e
Polacchi fra ‘500 e ‘600 vi fecero da muro di contenimento in modo simile a quanto aveva saputo
fare Carlo Martello a Poitiers nel 732 D. C.
Tra nuove conquiste e arretramenti, in pieno ‘600, dopo la prima guerra austro-ottomana
(1683-99) e la seconda (1716-18), le pressioni dell’Islam ottomano sulle regioni sud-orientali
dell’Europa si spensero progressivamente, fino ad evidenziare la sua malcelata fragilità interna, non
solo politica ma anche economica e morale, e dare inizio al suo ripiegamento su stesso: ne sarebbe
seguita la strisciante e inarrestabile autonomizzazione delle sue sterminate province lungo tutte le
direttrici, esponendo queste stesse province, come ad es. l’Africa mediterranea (il Magreb, la Libia
e l’Egitto) ai progetti di espansione e alle attenzioni coloniali delle sempre più aggressive potenze
europee e di quell’impero eurasiatico che fu l’impero russo. Nell’immediato, ai danni dell’impero
ottomano si sarebbe manifestato l’effetto combinato del crescente antagonismo territoriale della
cristianità cattolica (impero asburgico) con quella ortodossa (impero russo, la “Terza Roma”).
Con le paci che pongono fine rispettivamente alle due guerre appena accennate, ossia con la
pace di Carlovitz (1699) e di Passarovitz (1717), l’impero ottomano arretrerà sempre più dai
Balcani, lungo un percorso che segnerà per due secoli esatti la sua storia fino alla sua dissoluzione,
sopraggiunta con la Prima guerra Mondiale, parallelamente al processo che porterà gli Stati
europei, dapprima, all’egemonia sul mondo e, in seguito – dopo decenni di rivalità coloniali e
tensioni crescenti fra le loro rispettive cancellerie, ormai diverse non solo per riferimenti dinastici
ma contrapposte come vere e proprie nazioni rivali – alla loro conflagrazione nel 1917-18:
un’ecatombe “globale” che vedrà la dissoluzione di altri tre imperi (russo, ausburgico e prussiano)
nonché la perdita del primato sul mondo da parte del Vecchio Continente.
Il ‘700 e soprattutto l’800, in quanto secolo delle rivoluzioni per antonomasia, saranno perciò
segnati dalla cosiddetta Questione d’Oriente, in uno sconvolgimento profondo degli assetti euroasiatici che avverrà fin nei loro più intimi equilibri.
Sebbene forse meno eclatante dei tre grandi eventi che segnano l’esordio della moderna Età
delle rivoluzioni - la Rivoluzione francese, quella industriale e la nascita degli USA – la caduta di
un impero anacronistico e incapace di rinnovarsi, qual era quello ottomano (“la Sublime Porta”),
produsse un evento foriero di conseguenze non solo per i suoi sudditi ma anche per la stessa
Europa: non è una semplice coincidenza se in quelle regioni, un tempo sottomesse al sultano di
Costantinopoli, oggi si concentrano le aree più calde del pianeta: Iraq, l’Iran, Palestina, Israele,
penisola balcanica ecc.
Nel corso dell’800 i risorgimenti nazionali riportano in vita antichi stati come la Grecia, la
Bulgaria e l’Egitto, sottraendoli a quell’impero che, come un gigante ormai moribondo, diventerà
terra di conquista e di spartizione da parte delle potenze europee: Francia, G.B., Russia, AustriaUngheria e infine della stessa Italia, con la conquista della Libia. L’istanza patriottica prima e
nazionalista poi, nel corso dell’800, contaminò anche quel gigante, annodandone i destini in modo
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pressoché simbiotico con quelli della sua secolare antagonista, cioè dell’Europa degli Stati:
incapace di ogni pur minima modernizzazione, da secoli immunizzato dal contagio dei valori
culturali dei popoli che aveva assoggettato, rinserrato in una plurisecolare purezza delle sue
strutture, vedrà sempre più limitata la sua libertà d’azione: al suo interno, per la resistenza delle
caste militari e burocratiche; all’estero per via delle ambizioni coloniali europee. Vani e tardivi
saranno i tentativi di riforma affidati a funzionari di origine europea, per quanto estranei ai
costumi dell’impero e delle sue etnie e, in certa misura, immuni da essi.
Dal suo sfaldamento nascerà il moderno stato turco ispirato al nazionalismo di stampo europeo,
dei “Giovani Turchi”, guidati da Mustafà Kemal, detto Ataturk, padre dei Turchi, di carattere laico
e fondato sul mito di una creduta superiorità della razza turca su tutte le altre etnie costituenti
l’impero – Arabi, Curdi, Armeni, Greci, Serbi, Bulgari e Albanesi. Esse non potranno riconoscersi
nel nuovo stato monoetnico, portando così alla luce la drammatica questione delle minoranze
territoriali, irrisolta nei Balcani a tutt’oggi. Quel violento nazionalismo approfitterà della Grande
Guerra per consumare uno dei più efferati crimini contro l’umanità con cui si è aperto il XX secolo
- secolo dell’odio assassino e dei genocidi: il programmato sterminio di cinque milioni di persone,
forse i 2/3 della popolazione armena che viveva nella parte orientale dell’attuale Turchia.
L’illusione disillusa: l’equivoco nazionalista
Quello che nasce in quest’area nei primi lustri del ‘900 è uno stato nazionale laico, che
riconosce al popolo la sovranità repubblicana, la separazione tra potere religioso e potere politico;
che adotta l’alfabeto latino, abolisce la poligamia, il velo delle donne, riconoscendo nella famiglia
pari dignità tra uomo e donna, introducendo il suffragio universale per entrambi i sessi, così da
sovvertire d’un colpo secoli di immobilismo giuridico islamico. Cosa ci si poteva attendere di
meglio da questo evento rivoluzionario e risorgimentale nello stesso tempo, paladino della laicità
dello Stato che ha fatto nascere?
Nello stesso tempo, tuttavia, non accetta né riconosce minoranze di nessuna sorta: la lingua
ufficiale è unicamente il turco, con cui gestisce l’istruzione nazionale, riorganizzando soprattutto lo
studio della storia e riscrivendo nei nuovi caratteri i testi del passato, dando vita ad un’epopea della
nazione turca.
Nonostante il suo essere fuori del tempo, come del resto gli altri imperi europei, la Sublime
Porta basava la sua esistenza almeno sul rispetto e sulla tolleranza delle diverse religioni: non
affermava intenzionalmente l’assolutizzazione di una di esse che potesse portare alla negazione
delle altre, nonostante la non facile convivenza, protratta per secoli.
La inattualità di questo impero si potrebbe ritenere analoga a quella di una sua storica grande
vittima prima e rivale poi, ossia all’impero d’Austria-Ungheria. Come quello, questo era troppo
vecchio per avere un plausibile futuro e troppo giovane per ricevere effettualità storica: in altre
parole l’impero asburgico, come Sacro Romano Impero, quando si dissolse col cataclisma della
Grande Guerra, si era già avvitato su se stesso, sepolto sotto il peso e le pieghe contorte delle sue
secolari tensioni interne: il tradizionale paternalismo della corte viennese, più o meno illuminato nei
confronti delle nazionalità oppresse, non poté arginare lo slancio patriottico che da esse promanava
con effetti sempre più pronunciati in senso centrifugo. Il suo stesso carattere sopranazionale,
d’altronde, costituiva pur sempre quel modello storicamente riconoscibile di Europa che, fondata
più di dieci secoli prima dai suoi grandi padri, quali S. Benedetto e Carlo Magno, avrebbe trovato
solo dopo la tragedia della Seconda G. M. la sua prima definizione istituzionale nell’Unione
Europea o, se si vuole, in quella che potremmo chiamare la Lega dei Popoli Europei.
Analogamente l’impero turco non riuscì a salvaguardare il suo carattere di entità
sopranazionale sotto l’urto dei diversi, legittimi e virulenti nazionalismi che lo agitavano; eppure
avrebbe potuto costituire il precedente storico più prossimo per quella Lega Araba che, nata
all’indomani di quella stessa tragedia, rimase semplicemente sulla carta, non riuscendo a creare quel
Mercato Comune che l’Europa, pur tra mille difficoltà e indugi, è riuscita a porre in essere a partire
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da quella data, fino a coinvolgere e riscattare nel suo ambito la dignità di quell’Altra Europa che la
Guerra fredda aveva segregato oltre le sue barriere politiche e militari.
La lega Araba o meglio Lega degli Stati arabi (Egitto, Iraq, Giordania, Libano Arabia Saudita,
Siriia e Yemen, poi allargata anche alla Libia, al Marocco, alla Tunisia, Kuwait e al Sudan e, dopo
la sua sanguinosa indipendenza, all’Algeria) non sarà l’unico tentativo di aggregazione e di
coordinamento fra gli stati arabi: quelli che gli succederanno saranno destinati al fallimento fra le
rivalità e i contrasti che dividevano le élite di ciascuno degli stati membri.
Questo mancato coordinamento non è tuttavia l’effetto più nefasto della dissoluzione
dell’impero ottomano. Dalle sue ceneri si sarebbe sprigionato l’intricato groviglio balcanico e
l’annosa questione palestinese-istraeliana, che ancor oggi costituiscono drammi irrisolti e
ricorrenti, sia per l’Europa sia per il Medio Oriente – vere e proprie zavorre che condizionano e
ostacolano la dinamica dei rapporti internazionali.
La deriva autoritaria
Quello che nasce in Turchia nei primi lustri del ‘900 non è che uno stato autoritario,
tendenzialmente monopartitico, ove il processo di modernizzazione e di laicizzazione – nelle stesse
forme emergenti in tutte le dittature totalitarie o tendenzialmente tali - è scrupolosamente guidato
dall’alto con l’ausilio dell’esercito che, pur rappresentando la punta più avanzata della società, resta
in ogni caso una realtà che sovrasta il popolo, lasciando crescere enfaticamente e nondimeno
ideologicamente l’illusione che la tormentata Questione d’Oriente, ossia il destino dell’area
mediorientale ed ex ottomana in genere avesse trovato la sua risoluzione.
Come tutte le dittature e i totalitarismi che sotto diverse simbologie ammorberanno il secolo,
il regime turco coltivava l’illusione di una necessaria armonia prestabilita fra la nobiltà degli
scopi – la libertà del popolo turco, la sua emancipazione politica economica e culturale - e la
spietatezza dei mezzi messi in campo per attuarli, come il ricorso ai campi di concentramento,
nonché di sterminio.
Questa machiavellica presunzione di legittimità dei mezzi in ordine alla genuinità dei fini, che
portò al genocidio armeno - per molto tempo marginalizzato dalla storiografia convenzionale –
quella che di solito regola la compilazione dei manuali di storia - deve far riflettere: si può pensare
di affermare ragionevolmente la propria libertà con la segregazione e la lagherizzazione della
libertà altrui, decretando così l’ostracismo ad ogni possibile inibizione di ordine morale, con
l’accusa che qualsiasi freno all’azione di pulizia etnica sarebbe controrivoluzionaria e quindi
degna di essere tacitata con la forza?
Agli occhi degli ex sudditi della Sublime porta questa soluzione finiva per apparire una
forzatura: una occidentalizzazione forzata. Quella che decenni prima poteva apparire in Turchia una
lodevole utopia finì per trasformarsi in utopia omicida. Sembra essere il destino di tutte le utopie,
quando smettono di essere tali e diventano realtà. Va precisato, a scanso di possibili equivoci, che
un simile macroscopico equivoco non è, beninteso, solo della vicenda dell’allora neonata
repubblica Turca, ma insanguina il ‘900 per tutto il suo decorso.
Per riflettervi sopra, proviamo a relazionarlo ad un contro-esempio, ossia ad una verità che gli
storici chiamano “controfattuale”,2 chiedendoci cosa avrebbe potuto comportare un contegno
politico ben diverso. Il semplice sforzo educativo in senso patriottico, con l’accettazione o
quantomeno la tolleranza delle altre culture, avrebbe potuto richiedere certamente più tempo per
insegnare la Nazione; avrebbe richiesto un ampliamento analogico e includente delle nazionalità,
ossia la sua realistica trasformazione in una più ampia ed articolata Comunità Nazionale.
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Si tratta di una finzione esplicativa simile a quella che consiste nel chiedersi, as es., se Cesare dovesse per forza
passare il Rubiconemnel momento in cui lo fece e cosa sarebbe potuto succedere se non l’avesse oltrepassato violando
un preciso divieto del senato romano e finendo per dare inizio, nel 49. A. C. alla Guerra Civile.
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Ma i frutti, seppur tardi a vedersi, sarebbero stati forse più solidi e durevoli: la Nazione, infatti,
non si può pensare di insegnarla ad altri con qualsiasi mezzo (anche a bastonate) finché non l’abbia
appresa, come se se ne potesse imporre un unico modello, magari di importazione. Se è vero, come
sosteneva Renan, che “la nazione è un plebiscito ogni giorno”, la nazione non si può insegnare ex
cathedra vel manu militari: la si insegna costruendola insieme con chi si ritiene sia intenzionato ad
apprenderla e meritevole di apprenderla, ossia esige il consenso libero e consapevole di chi si pensa
di cooptare con pari diritto nella sua costruzione. Altrimenti il risultato finale potrebbe essere la
miopia di un localismo angusto e idiota, che tende all’esclusione e alla discriminazione, piuttosto
che riporre tenace fiducia su un possibile coinvolgimento dell’altro in senso comunitario: senza
libertà non c’è identità, perché non c’è anche differenza. La riconquista del territorio turco
avrebbe estromesso e perseguito tutti coloro che, seppur nati colà, erano di diversa nazionalità,
come i greci.
Si tratta di un peccato comune ai più diversi regimi totalitari e dittatoriali che connotano il
secolo dell’odio: una tentazione ricorrente che è forse l’elemento eziologico più sottile e sfumato,
attivo ancor oggi nelle divisioni culturali e politiche che contrassegnano lo scenario internazionale
del 21° secolo.
Nulla di nuovo sotto il sole
La storia spesso si ripete, seppur sotto mentite spoglie. A partire dai primi anni ’70 del ‘900 si
verifica quello che alcuni studiosi del mondo islamico ritengono che sia un evento ciclico che lo
caratterizza: il ritorno a periodi di stretta osservanza religiosa da altri di “rilassatezza
devozionale”, un ritorno che si insinua indossando le vesti del censore morale e del riformatore
giurisdizionale contro diversi nemici: la corruzione dei tempi e dei sovrani, le ingerenze straniere
sugli interessi e sui costumi islamici, l’opportunismo politico e l’oblio dei testi sacri.
Il ribaltamento dell’approccio all’occidentalizzazione avutasi in Turchia dopo la Grande Guerra
e in Persia o Iran, poi, a partire dal 1951 fino alla rivoluzione islamica del 1979, è l’effetto di una
re-islamizzazione divulgata in diversi paesi arabi in senso transnazionale. Essa, dopo aver avuto
alcuni precursori nei primi decenni del ‘900, ebbe un grande successo fra gli sciiti, fra i quali
l’ayatollah Khomeini, guida della rivoluzione islamica iraniana del 1979, basata sulla
interpretazione “pura” del Corano, per la quale dietro l’apparenza rituale della democrazia
occidentale espressa da “libere” elezioni, viene garantita e tutelata fin nei minimi dettagli, con
un’apposita milizia indottrinata e fedele, la stretta corrispondenza delle leggi vigenti con gli
insegnamenti islamici della Sharia, la legge dell’Islam.
A partire dal 1978 in Iran, nell’ex Persia, con il sequestro di un’intera ambasciata – quella degli
USA – iniziava a prendere forma l’attuazione più eclatante del cosiddetto Risveglio Islamico: la
rivoluzione operata dalla maggioranza sciita contro il regime della minoranza sunnita, retta dallo
Shah (pr. scià) Mohammed Reza Pahalavi, per l’attuazione di uno Stato islamico, politicamente
guidato dalle élites religiose, le uniche che conoscano in modo sicuro e affidabile la Sharia. Questa
“rinascita” islamica non poteva non essere indirettamente favorita dalla crescente integrazione delle
società del mondo attraverso una più immediata comunicazione, l’utilizzo dei mezzi di
informazione di massa, i viaggi, le migrazioni delle genti mussulmane che diffondono l’idea
apparentemente assodata di un‘unica identità mussulmana, un unico Islam praticato in forme
simili in tutto il mondo e che trascende le diverse etnie, gli stati nazionali e le loro stesse dogane.
Si tratta della chiamata al fondamentalismo o essenzialismo, antica quanto l’islam stesso e
sempre nuova perché sempre storicamente insoddisfatta e certamente destinata allo scontro diretto
con tradizioni culturali, giuridiche ed etiche diverse, prim’ancora che religiose: coinvolge la classe
media, intellettuali, studenti universitari, professionisti, funzionari, commercianti e persino
banchieri: non si tratta affatto di un fenomeno di marginalità sociale. Ad es. al-Ziwahari, figura
principale di Al-Qaeda, è un medico egiziano che ha fondato la Jhad islamica egiziana, coinvolto in
vari attentati e assassini politici fin dal 1981.
La forza aggregante del risveglio non sarà un semplice assunto ideologico, che in ogni caso
procurava facili adepti per la semplicità e l’immediatezza della sua formula: proverrà da altra
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via, precisamente dalla svolta intrapresa agli inizi degli anni ’70 dall’O.P.E.C. – organizzazione
dei paesi esportatori di petrolio – un’organizzazione internazionale fondata nel 1960 dai
rappresentanti di Iran, Iraq, Arabia Saudita e Venezuela, poi ampliata ad altri paesi. Essa
inizialmente non intendeva contrastare gli interessi delle grandi imprese occidentali (le cosiddette
Sette Sorelle) che controllavano l’estrazione, la raffinazione e la commercializzazione del petrolio,
ma si prefiggeva di spuntare migliori condizioni commerciali per i paesi produttori: il prezzo del
petrolio, infatti, fino alla fine degli anni ’60 si manterrà basso quando addirittura non scenderà.
La resistenza e la reazione all’occidentalizzazione dei paesi ex-ottomani passano per la
radicalizzazione del conflitto arabo-israeliano. È un conflitto di lungo periodo e ancora non risolto
– un eterno casus belli che si consuma nel susseguirsi di tragici eventi a partire dalla crisi di Suez
del 1956, poi con la guerra dei sei giorni (5-12 giugno 1967) assai umiliante per gli arabi, mentre si
acuisce lo stato di tensione e il triste destino del popolo palestinese che prorompe sulla scena
internazionale con l’attentato di un gruppo terroristico palestinese il quale, durante le olimpiadi di
Monaco di Baviera, nell’estate del 1972, sequestra e uccide 11 atleti israeliani. A questi fatti seguirà
nell’ottobre del 1973 la guerra del Kippur nella quale, in poche settimane l’esercito israeliano,
attaccato a sorpresa da quelli siriano ed egiziano, riesce a contrattaccare e bloccarne l’avanzata.
La pace di compromesso che ne segue ha un unico grande effetto duraturo: la rinascita del
radicalismo islamico entro l’Egitto del presidente Nasser, il quale aveva sempre represso la corrente
islamica radicale e antigovernativa dei cosiddetti Fratelli Mussulmani e continuerà a farlo facendo
condannare e impiccare il 29 agosto 1966, Sayyd Qutb, il letterato-studioso già componente del
Ministero dell’Istruzione egiziano, che - dopo un periodo trascorso negli USA, in cui vide l’essenza
della corruzione propria dell’Occidente - aveva aderito e guidato il movimento islamico radicale.
Il suo martirio e gli insuccessi militari dell’Egitto faranno proseliti filoislamici nelle scuole e
nelle università. La breve guerra del Kippur ha un’altra vistosa conseguenze, non solo nei rapporti
fra arabi e israeliani, ma per l’intero mondo: nel corso del conflitto, l’Opec decide di sostenere lo
sforzo economico di Egitto e Siria aumentando il prezzo del barile di petrolio greggio con la
esplicita intenzione di danneggiare l’economia dei paesi occidentali filoisraeliani per scelta
politica o perché alleati degli USA. È un evento imprevisto e carico di insidie per il futuro.
Scontro di civiltà!?
Questa decisione, da semplice contingenza bellica, si trasforma poi in una strategia permanente,
tanto che il prezzo del greggio passa da 1,60 dollari al Barile nel 1970 a 3 dollari al barile nel 1973,
a 9 dollari al barile nel 1975 variando del 460% in cinque anni. Il terremoto finanziario che ne
segue avrà effetti irreversibili sull’economia del pianeta: si chiude un ciclo di crescita e di
espansione, peraltro già in via di esaurimento, e se ne apre un altro caratterizzato da grave crisi
economica con fenomeni inediti che richiederanno decisioni inedite. Inizia la sfida tra l’Occidente e
le aree “arretrare” del mondo, non più ritenute “ininfluenti”.
Il Risveglio islamico finisce così per inserirsi, oltre che nello scontro fra Est e Owest, anche e
soprattutto nello scontro fra Nord e Sud trasformandolo da semplice sfida culturale in una sfida a
tutto campo. Nel mondo islamico, dove non esiste il detto:”Date a Dio ciò che è di Dio e a Cesare
ciò che è di Cesare”, proprio della nostra tradizione, il nazionale, il religioso e il sociale non si
distinguono. Il versetto 110 della terza Sura del Corano suonerebbe così: “Voi siete la migliore
nazione che possa unire gli uomini, voi invero praticate il bene, impedite il male giacché credete in
Dio”. È una professione di integralismo che non va bollata come semplicemente intrisa di elementi
culturali oscuri e retrogradi; sarebbe ugualmente incauto vedere, nelle manifestazioni di massa dei
fautori del Risveglio, l’aspirazione ad un rinnovamento spirituale.
Il vettore religioso è spiccatamente politico, dipende dal cosiddetto Islam militante, cioè da
una compagine di individui che scelgono l’impegno politico in nome di un Islam visto come una
sorta di Internazionale mussulmana con intendimenti “controsociali”.
Questi adepti, i “partigiani di Dio”, che agiscono pressoché in tutti i paesi arabi, pensano di
attuare l’utopia di un unico Stato mussulmano: questo stato non potrebbe avere dei confini precisi
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ma dovrebbe potersi diffondere per tutta l’ecuméne, essendo modellato sul governo che Maometto
instaurò alla Medina tra il 621 e il 631 D. C. Secondo questa forma mentis, estremamente
arrogante e banalizzante, questo stato andrebbe costruito come una sorta di immensa Città del
Vaticano mussulmana senza limiti fisici.
Sotto il profilo psicoanalitico si potrebbe dire che la struttura mentale inconscia di costoro è
quella della famiglia-banda tenuta insieme da un’unica convergente “identificazione proiettiva”
verso l’altro perché diverso e quindi pericoloso, ricettacolo di tutti i sentimenti di odio e distruttivi
che albergano nelle loro menti. Questi fideisti islamici, indifferentemente politici o religiosi, non
sono in grado di assumere un qualsiasi punto di vista dif-ferente, incapaci della benché minima
“identificazione introiettiva” e quindi di provare stupore per ciò che essi non sono, non riuscendo
peraltro a con-dividere nessuna comune eredità valoriale, storicamente riconoscibile. Di là dai
semplici convenevoli e ritualismi, non riescono, in altre parole, ad accogliere l’altro, qualsiasi altro
così com’è, cioè come altro: l’intolleranza è alla radice delle loro menti accecate e disgregate.
Quell’evento – il breve governo di Maometto a Medina - per noi assolutamente insignificante,
è per loro, invece, il presente (e il futuro): la Rivoluzione islamica in Iran è una loro creazione;
come pure la guerra civile siriana tra “basisti” e Fratelli mussulmani che portò nel 1982 alla morte
di 20mila persone, nonché vari complotti fra gli emirati del Golfo persico, pubbliche esecuzioni in
Iraq; causò anche solo per reazione il regime di terrore in Algeria, con diversi massacri, la guerra
islamica in Afghanistan, ove i famosi talebani sarebbero solo una delle settantasette “sette”
islamiche del Pakistan.
Anche in Turchia, nella patria della modernizzazione, si registra tuttora un ritorno al passato,
lontano da Istambul, soprattutto nelle zone rurali, dove il nazionalismo turco ha attecchito meno: lì
le donne sono tutte velate.
Perché - si potrebbe obiettare - si tratterebbe di una semplificazione arrogante, banale e
ipocrita? Per il fatto che questo modo di vedere la politica è solo impositivo (e non in positivo):
non conosce né riconosce reciprocità e comunanza con il diverso. Pretende di imporsi come
unicità onnivora e nello stesso tempo è estremamente frantumato al suo interno: non c’è un solo
islam: ce ne sono due- trecento; non esiste un’unica autorità religiosa, un leader assoluto che
possa fare da referente unico. Esiste forse un Islam più moderato in Indonesia, uno molto tollerante
in Tunisia, un Islam aggressivo in Iran e uno apparentemente “tradizionale” in Arabia Saudita:
mancando un referente unico non si può trattare con nessuno, non potendo così individuare nessun
accordo di collaborazione e sviluppo. Non esiste nemmeno una struttura islamica, per così dire a
raggiera, che abbia al centro un particolare stato mussulmano: una sorta di piovra dai mille tentacoli
senza testa. Il nazionalismo si converte e si dissimula integralmente nel purismo islamico.
Il fondamentalismo o essenzialismo islamico, nel suo stesso presunto risveglio, denota
invece l’evidenza di un rovinoso fallimento politico: l’abbaglio del nazionalismo laico o
laicizzante e soprattutto del suo modernismo etico-politico, importati dall’Occidente - idee che
tentarono il mondo islamico: un fallimento che esso stesso nella sua ventata polemica e distruttiva
finisce per ribadire piuttosto che diradare.
Nazionalismo e fondamentalismo, apparentemente agli antipodi, sono lo stesso identico
fenomeno: l’uno e l’altro infatti tendono all’esclusione e all’omologazione. Se voleva essere una
cura contro la patologia nazionalista, il risveglio si è rivelato il suo stesso omologo – un rimedio
peggiore del male, se non altro per la portata della sua intolleranza e l’estensione della violenza
terroristica ed omicida che pone in essere, rafforzando diabolicamente lo stesso male sotto altre
forme. Del resto non ci può essere azione risanatrice dove imperversano misologia (cecità
intellettuale) e spregiudicatezza morale.
Il cauto riformismo mutuato da Ataturk ha ispirato vari riformatori in Iran, in Egitto, con
Nasser, che, ad es., pensava di importare in l’Egitto un’organizzazione del mondo del lavoro che a
lui sembrava interessante e che desumeva dal diritto corporativo del nostro passato regime fascista:
egli fu aspramente osteggiato per questo. Il neocolonialismo economico, l’emarginazione culturale,
l’urbanizzazione selvaggia sul modello europeo e occidentale, insieme con l’arroganza e il distacco
- tutto islamico - dei quadri dirigenti “filo-modernisti”, frettolosamente illusi di poter colmare ogni
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diversità esistente con un ostinato decisionismo innovatore, operato non con i loro stessi
connazionali ma su di essi, hanno solo prodotto un sottosviluppo generalizzato, che non è estraneo
nemmeno ai più ricchi e progrediti paesi del Golfo.
Le masse arabe e islamiche hanno così finito per credere che le disfatte contro Israele - da
sempre visto come un corpo estraneo nel cuore dell’Islam, un avamposto dell’odiato Occidente e da
ritenere, perciò, un tumore da estirpare per lo stesso riscatto islamico – dipendessero dalla intrinseca
debolezza e iniquità delle ideologie laiche occidentali di importazione, incapaci di realizzare le
aspettative popolari.
In questo quadro generale la rivoluzione di Khomeini arrivò come un fulmine a ciel sereno,
assestando il colpo finale a quella prassi decisionista e catalizzando il purismo mussulmano. L’Iran
divenne il punto di convergenza di delle forze di opposizione unite nei vari paesi arabi dalla
medesima tensione islamica: di qui la fiammata integralista.
La persecuzione dello scrittore iraniano Salman Rushdi, l’appello al confessionalismo del
famigerato Al Turabi, capo spirituale del Sudan; l’ostentata arroganza di quel Rodomonte che è
stato Saddam Hussein, pur nella loro gravità, sono solo scopi secondari, espedienti “teatrali”. Dietro
le quinte, il vero scopo era ed è destabilizzare l’Occidente, quel Diverso che non potrà mai essere
ridotto a Identico e che pertanto dev’essere eliminato. L’odio per Israele, gli Usa e l’Europa si è
totalizzato come odio contro l’Occidente cristiano.
Ebbene a questo punto, lo scontro procurato, seppur unilateralmente, con una massiccia,
ripetuta e devastante demonizzazione operata da varie emittenti televisive e radiofoniche arabe,
viene facilmente interpretato e spacciato come uno scontro di civiltà: l’Islam non riesce a vedere
nella cristianità dell’Occidente una realtà esistente da tollerare, rispettare e accettare; pensa di
doverle essere antagonista, quasi che il senso del suo esserci dipenda dalla riuscita di questo
ostinato proposito: uno scontro epocale e apocalittico, regolato dal principio mors tua vita mea come se in passato lo scontro non si fosse già consumato, con alterne e dolorose vicende per i due
contendenti e in modo tale da non lasciare insegnamenti utili per il tempo presente.
Nelle università islamiche non sono bene accetti anche eventuali teologi cristiani, impegnati
in un dialogo interconfessionale, che ci si augura divenga il presupposto per la costruzione di una
rete di pacifiche relazioni internazionali fra diversi che sappiano riconoscersi parimenti “uguali”. Al
contrario, da anni teologi islamici, che spesso sono semplici agitatori, dato che i testi sacri, non
essendoci un’autorità suprema che ne preservi il dogma, possono essere manipolati come si vuole,
vi imperversano facendo agevolmente proseliti per la loro causa.
Tutti sacerdoti?
Sotto tale aspetto, agli occhi dei cristiani di confessione cattolica, l’Islam rappresenta la più
colossale forma di protestantesimo diffusa nel mondo, nella quale le conseguenze nefaste del
proclamato sacerdozio universale sono di un’evidenza sconvolgente: tutti i credenti, fedeli di Allah,
possono spacciarsi per maestri e tutti possono allevare una gioventù frustrata e stanca di vivere nei
campi profughi, dove si confeziona l’odio etnico-religioso e dove analfabetismo e latitanza
delsapere – e di quel sapere pubblico che è la scienza - si intrecciano rovinosamente. Quegli
invasati sembrano dei Templari cambiati di segno (e di senno): brandiscono il Corano invece del
Vecchio e del Nuovo testamento. Inattuali nella loro disarmante attualità.
Un fenomeno tipico degli ultimi anni da tenere presente, sebbene fosse iniziato alla fine
della seconda guerra mondiale e dai risvolti decisamente preoccupanti, è stato l'enorme afflusso di
manodopera straniera nei Paesi Europei, con un’alta percentuale di Musulmani. Circa 15 milioni di
Musulmani oggi risiedono legalmente in Europa. I mussulmani zelanti, non “moderati” non esitano
ivi a dichiarare che il loro scopo finale è di guadagnare potenza politica come base sulla quale
introdurre successivamente nella società occidentale europea tutele le peculiarità giuridiche
dell'islam: il loro scopo non è di integrarsi con la cultura dei paesi ospiti, ma di integrarla nella
tradizione islamica dell’Islam e quindi di snaturarla. I cosiddetti moderati, ammesso che ci siano
e siano in buon numero, si eclissano regolarmente, a prescindere da qualche sporadica ed eroica
eccezione.
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Questa prospettiva, intenzionalmente belligerante, non si presenta, ovviamente, come fonte
di pace e di reciproco rispetto per il futuro, tanto più che le Chiese cristiane in Europa risultano
essere indebolite e divise, quasi incapaci di scorgere nell’Islam - con lo spirito di accoglienza che le
connota - la più grande sfida trascurata a livello mondiale dai cristiani medesimi, e in continua
avanzata nelle modalità espresse e dirette dal risveglio islamico.
Alla cui radice serpeggia comunque un madornale equivoco: il miscuglio di fede, violenza e
avventurismo volto a distruggere tutti gli ismi che la cristianità storica ha realizzato con le sue
svolte: modernista, liberale o democratica, perfino socialista che fossero. Il tradizionalismo insito
in quel risveglio pretende all’opposto di essere lo strumento per il recupero dei valori
“progressisti”, bollando come “infedeli”, e oscurandoli, i pensatori mussulmani contemporanei (il
marocchino Abdallah Lakaoni, il tunisino Hisem Djaait, il persiano Alì Shareatì) che si sforzano di
recuperare i valori mussulmani del passato in una prospettiva consona all’attualità etico-politica,
attraverso un’ermeneutica della conciliazione e della convivenza.
Questi pensatori sono consapevoli, al pari dei loro colleghi cristiani o semplicemente laici,
che il progresso civile, religioso e culturale richiede un’osmosi continua, un dialogo che non scada
semplicemente a collage multiculturale, ma richiede un radicale e costante ripensamento
dell’attualità delle proprie radici valoriali e della loro conciliabilità con le altre: non ci si può
illudere di condividere spazi e tempi coi diversi facendo semplicemente antropologia culturale come propongono certe forze politiche sedicenti ”illuminate e progressiste”; non si può nemmeno
cedere al delirante abbaglio di vivere e condividere il presente pensando di sostare presso la tenda
di Maometto, o alla corte di Carlomagno.
L’integralismo insito in quel presunto risveglio è stato ed è tale da coltivare l’assurda
certezza che persone competenti nelle loro professioni, ma non osservanti nei confronti dei precetti
coranici, non debbano partecipare alla gestione del potere: basta essere osservanti e ubbidienti,
benché ignoranti, per aver parte nel Palazzo: solo i puri e gli ortodossi, possiedono la verità, la
fede, quindi la virtù e la legge. Nient’altro che catarismo islamico. Ogni mussulmano, secondo
questa aberrazione, avrebbe l’obbligo missionario di liberare la terra dal Grande Satana. Non è un
caso, infatti, che in paesi come l’Egitto, ma non solo, la lotta ad Israele è sempre stata preceduta
dall’epurazione violenta dei “corrotti” come Sadat, accusato di attuare la politica della porta aperta
al capitale straniero e all’occidente.
“A questo punto ci potremmo chiedere - dice il giornalista e scrittore Igor Mann in Il risveglio
islamico e le sue conseguenze, da cui lo scrivente ha tratto parte del materiale documentario ivi
utilizzato - chi sono i combattenti di questa Jihad (Jihad non vuol dire Guerra Santa, bensì "sforzo",
anche se noi, oramai, interpretiamo questo termine come Guerra Santa) tesa a sostituire i governi
corrotti del mondo musulmano con la Repubblica Islamica ispirata al governo di Maometto alla
Medina. Un professore israeliano, storico della civiltà musulmana, Emanuel Sivan, in un'analisi dei
rapporti fra teologia islamica e politica, fa notare che il sessanta per cento dei duecentottantasei
integralisti portati in giudizio per l'assassinio di Sadat erano universitari. Fra questi, la maggioranza
erano studenti o laureati in scienza e soltanto cinque avevano studiato teologia alla famosissima
Università Coranica al-Azhar del Cairo.
La guerra santa contro il nuovo paganesimo non è condotta da uomini formatisi in scuole
religiose, bensì in Università paradossalmente fondate sul pensiero pagano del quale questi
intendono servirsi per castigarlo. In altri termini, "io imparo la tua filosofia, il tuo modo di essere,
per capirti e poi ucciderti”.
“I predicatori islamici vengono soltanto in minima parte dalla Università Coranica di Qom in
Iran, per lo più questi predicatori sono studenti della famosissima Università Americana di Beirut e
hanno frequentato la Sorbona o anche Perugia”.
Conclusione
La carica destabilizzatrice del risveglio islamico potrà avere effetti devastanti per l’Occidente, le
cui reazioni potrebbero essere anche esasperate e non meno devastanti delle reiterate provocazioni
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islamiche. Chi potrebbe veramente scongiurarlo? Le opinioni sui possibili esiti tendenziali della
presenza islamica in Occidente non sembrano confortanti.
Scrive Pino Carella nella sua Breve storia dell’Islam del 2005: “L’invasione è in atto da
moltissimo tempo, ma non da parte degli alieni, bensì da parte dei seguaci di costoro, che ormai
sono milioni. È un’invasione capillare ed apparentemente silenziosa: li troviamo ai lati delle
strade, ai semafori, ecc… ricoprono un ruolo ben studiato ed assimilato nel profondo, seguono
tutti, uomini, donne, vecchi e bambini, un piano preciso ed obbediscono ciecamente ad ordini
impartiti “dall’alto”, fino al sacrificio estremo di se stessi pur di arrivare allo scopo prefissato. È
vero che le motivazioni di carattere religioso sono in grado di spingere uomini ad atti di estremo
coraggio o di fanatica disperazione, ma qui c’è molto di più: sul tavolo da gioco c’è la conquista di
tutto il pianeta ed in palio è il potere mondiale”.
L’opinione di Igor Mann - altro profondo conoscitore del mondo islamico, per anni
corrispondente dalle sue capitali - è che la chiave di tutto è sempre il conflitto israelo-palestinese:
“se non si risolve questo contenzioso sarà la tragedia”. Ma diverse forze e movimenti islamici,
oltre alla compagine conservatrice di Israele, hanno interesse per opposte ragioni a che non si
risolva, dato che, per i primi, sembra essere l’unico vessillo sulle rovine di un mondo mussulmano
polverizzato e profondamente diviso, l’unico collante in grado di protrarre la “missione” dell’intero
Islam, mentre per i secondi, l’inizio della fine dello stato stesso di Israele. Finché dureranno i
proventi derivanti dal petrolio, ed in particolare da quello iraniano, quella missione verrà con ogni
probabilità protratta sine die.
La pace del popolo palestinese, una terra e uno stato, sono la contropartita della stessa
possibile pacificazione dell’Islam con l’Occidente. Se Islam e terrorismo internazionale dovessero
sempre più fare tutt’uno, come già avviene da tempo, nell’immaginario della gente comune in
Europa e in America, a scapito di quella che comunque rimane una grande civiltà di fede e di
cultura, le conseguenze non potrebbero essere che assolutamente imprevedibili, o se si vuole
facilmente pronosticabili nei loro desolanti e durevoli effetti sulla convivenza civile del mondo
intero.
Cosa deprime la civiltà islamica, così come si atteggia nella presunzione del suo risveglio?
L’assenza di quella umanissima inquietudine e sottile sensibilità, sbocciata secoli or sono in quella
grande stagione dello spirito italico ed europeo che è l’umanesimo. Quella temperie culturale che
genererà il nostro Rinascimento – ispirata, da lontano, dall’umanismo ellenico e, più da vicino dalla
tradizione biblica (in particolare dal Nuovo Testamento) - acquisisce proprio in età rinascimentale
una fisionomia autonoma e laica che affianca ma non osteggia, pur nella sua versione più atea o
agnostica, l’umanesimo cristiano e l’attenzione all’uomo che liberamente il Lieto Annuncio, con la
tradizione apostolica e quella dei Padri della Chiesa custodiscono e proclamano per ogni dove,
senza esclusioni e senza pregiudizi di ordine culturale, con ben altri intenti missionari.
Non ci può essere umanesimo in quel presunto risveglio islamico, invece, perché il suo stesso
annuncio comporta l’estinzione della libertà (e quindi della responsabilità) sia di chi emette
l’annuncio, sia di chi lo riceve: un annunciò che è un’istigazione alla lotta.
Sarebbe veramente impraticabile, allora, un’interpretazione del Corano che possa accogliere
questa attenzione all’uomo e all’umano? Si tratta di quell’aver-cura, che prende su di sé e rende
saliente, dietro storia della salvezza, la stessa storicità umana, il carattere multiforme e quindi non
assolutizzabile dei diversi assetti socio-politici esistenti, e quella stessa laicità, tanto idealizzata che,
per essere esercitata, non chiede nulla di così macroscopico: chiede solo di potersi distinguere da un
clericalismo gigantesco, arrogante, insidioso e soprattutto contraffatto, qual è quello ostentato del e
dal risveglio islamico: un risveglio senza Rinascimento, ignaro della perenne profondità e verità
del De digitate et excellentiae hominis di un umanista qual è Pico della Mirandola. Un risveglio quasi fosse un’anestesia del dolore per chi usa violenza o se l’aspetta - che ottunde coloro che
vorrebbe scuotere dal profondo, per annegarli in un’ideologia dogmatica che idealizza le sue radici
culturali demonizzando le altre, fino alla giustificazione del Terrore e della sua sistematica
attuazione.
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Se il mondo arabo-mussulmano non riuscirà a scorgere la sottile ma essenziale differenza che
intercorre fra la Cristianità e il Cristianesimo, quindi fra storia e fede, difficilmente riuscirà a
scorgere il valore universale e non negoziabile della loro comune istanza umanistica e umanitaria
che, sola, può farla uscire dalle secche del fraintendimento nazionalista e fondamentalista. Cosa
potrebbe promettere, in altro modo, un Islam così violento ai suoi posteri: pace e sicurezza?
Al seguito del saggio Aristotele, per la cui scoperta a quel mondo dobbiamo riconoscenza, in
quello stesso mondo islamico si dovrebbe invece andare al fondamento: un andare che accomuna
tutti gli uomini che pensano. Vi si dovrebbe poter gridare : “L’essere si dice in tanti sensi, sebbene
tutti in riferimento ad un senso fondamentale”- il senso della sostanza prima, ovvero della persona
in carne ed ossa, che non può mancare o essere soppresso o ridotto – pena un atto di gratuita
violenza – agli altri sensi, che sono solo contingenti e cangianti quali, appunto la sua lingua, il
colore della sua pelle, i suoi connotati individuali psicofisici, nonché la sua stessa appartenenza
etnico-religiosa. Tutti questi accidenti, sa soli, non valgono la sostanza.
Milano, 3 novembre 2010
Ercole
De Angelis
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