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Un approccio ecologico alla percezione visiva

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Un approccio ecologico alla percezione visiva
www.methodejournal.org
Recensione di:
Un approccio ecologico alla
percezione visiva
J AMES J. G IBSON
[Mimesis Edizioni, Milano - Udine, 2013 - in
corso di pubblicazione
Invited Review
pp. 496, ISBN 978-88-150-7172-9, C28,92.]
Keywords:
Percezione visiva, Ecologia, Ambiente, Affordance,
Layout
Pages:
231 – 236
Davide Dal Sasso
LabOnt/Università degli Studi di Torino
[email protected]
Pubblicato nel 1979, il libro dello psicologo americano James J. Gibson (19041979), è considerabile, come hanno scritto gli psicologi Paolo Bozzi e Riccardo
Luccio, nell’introduzione alla prima traduzione italiana del 1999, un «evento di
capitale importanza nella storia non solo delle teorie della percezione, ma in assoluto della storia della psicologia». A distanza di oltre un decennio è una valutazione aggiuntiva quella che oggi ne motiva la ripubblicazione e il suo inserimento
nella collana Nuovo Realismo di Mimesis Edizioni: la consapevolezza dell’impatto che quel testo ha avuto sulla ricerca filosofica – in particolare, in settori quali
la filosofia della mente e della percezione e, non ultima, l’ontologia. Come nota
il curatore Vincenzo Santarcangelo, nell’introduzione di questa nuova edizione,a
la fortuna dell’opera è oggi ancor più evidente data la sua attualità rispetto sia al
dibattito sul realismo sia alla concezione multisensoriale della percezione.
a
L’uscita della nuova edizione del libro è prevista entro la fine del 2013.
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Il libro, esito della più che trentennale ricerca condotta da Gibson sulla percezione, è tutt’oggi considerabile come critica radicale al paradigma cognitivista, sviluppata secondo l’influenza della fenomenologia, della psicologia gestaltista e di un
netto rifiuto verso le posizioni behavioriste dominanti nella psicologia della prima
metà del secolo scorso. Nella sua struttura il volume presenta gradualmente la posizione gibsoniana: dal mondo alla mente, secondo il mutualismo animale-ambiente,
studiando la percezione in rapporto al processo di estrazione delle informazioni
dalla luce, alla locomozione e, infine, alla raffigurazione. Il testo presenta un’insolita ricchezza concettuale che vogliamo menzionare di seguito seguendo l’ordine dei
suoi contenuti.
L’interdipendenza tra agente e mondo è il fondamento dell’«ottica ecologica»,
che mette in discussione i postulati mentalisti e computazionali del cognitivismo a
favore dell’immediatezza della percezione diretta. Tale capovolgimento di prospettiva delle ricerche – non più dal soggetto all’oggetto ma viceversa – è lo sfondo epistemologico su cui poggia l’intera teoria di Gibson. Con il concetto di «affordance»,
un neologismo derivato dal verbo to afford nei limiti traducibile con«consentire»,
«rendere disponibile», «offrire»), Gibson intende descrivere la possibilità che ha
l’animale (quindi anche l’essere umano) di disporre di un’ampia gamma di azioni
consentite dall’ambiente e dagli oggetti che lo circondano. Le affordances possono
essere concepite sia come inviti all’azione, definiti né soltanto nei termini dell’agente né solo in quelli dell’ambiente (Carassa & Tirassa 2005); sia, altrettanto, come
le caratteristiche che mostrano la disponibilità e i potenziali usi degli oggetti del
nostro ambiente (Neisser 1993, introduzione di R. Luccio).
Rispetto all’ambiente, Gibson rileva l’importanza di quello che definisce «layout», ossia il suo aspetto, la sua conformazione, che permette di cogliere la persistenza nel cambiamento, le sue «varianti» e «invarianti». L’ambiente è percepibile
da animali e esseri umani perché entrambi gli sono complementari. A costituire
l’ambiente sono le sostanze, più o meno solide, il mezzo che garantisce la locomozione (l’atmosfera gassosa) e le superfici che separano le sostanze dal mezzo. La
distinzione delle sostanze dal mezzo è possibile mediante l’indagine delle superfici.
Per questo, Gibson sottolinea come il rilievo della persistenza o del cambiamento
dell’ambiente rimandi ad alcune caratteristiche del layout che seguono quelle che
egli chiama «leggi ecologiche della superficie». L’ambiente coincide con il «mondo
della realtà ecologica» dato che consiste di oggetti dotati di significato ed è diverso
dal «mondo della realtà fisica». Mentre nel secondo caso i significati vengono imposti, nel primo sono scoperti poiché messi a disposizione dall’ambiente stesso. Per
esempio: un ciglio, ossia il bordo di un precipizio, è considerabile a sua volta come
un «gradiente di pericolo», un’«affordance lesiva» (Gibson 1999, p. 82).
Con il concetto di «oggetto», Gibson si riferisce invece a una sostanza persistente che ha una superficie chiusa o quasi chiusa, è concreta, può essere attaccata
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oppure staccata, ha colore e layout definiti, tessitura e potere di riflessione. Tra gli
oggetti ve ne sono poi alcuni artificiali, definiti in un primo momento «display», ai
quali lo psicologo dedica particolare attenzione. Si tratta di superfici che supportano qualcosa di iscritto e che forniscono l’affordance di una conoscenza che risulta
mediata, indiretta. «Al giorno d’oggi, abbiamo dovunque immagini e registrazioni.
Un display [. . . ] è una superficie a cui è stata data una forma o che è stata comunque lavorata in modo da mostrare delle informazioni che vanno al di là del fatto di
essere la superficie che è» (Ivi 90).
Le informazioni sono disponibili all’attività percettiva attraverso la luce. L’ambiente e gli oggetti sono conoscibili per via dell’illuminazione. Il processo di «luce
ambiente» mette a disposizione informazioni attraverso (e riguardo a) le superfici riflettenti. La luce ambiente fornisce informazione stimolando i fotorecettori
dell’occhio. In proposito, la tesi di Gibson è che percepire le affordances vuol dire
percepire layouts e superfici, ossia valori e significati che sono esterni al soggetto
percipiente e che hanno un effetto su di lui. Per questo, a differenza del padre del
cognitivismo – lo psicologo americano Ulric Neisser, che scrive: «ciascuno di noi
viene creato dagli atti cognitivi in cui si trova impegnato» (Neisser 1993, p. 32) –
Gibson afferma il suo «più che robusto» realismo diretto.«Per gli animali terrestri
quali noi siamo, la terra e il cielo sono le strutture fondamentali da cui dipendono
tutte le strutture inferiori. Non possiamo cambiarle. Noi tutti, nei vari modi che ci
sono possibili, ci adattiamo alle substrutture dell’ambiente, in quanto siamo tutti,
di fatto, formati da esse. Siamo stati creati dal mondo in cui viviamo» (Gibson 1999,
p. 209). L’indicazione espressa da un’affordance riguarda tanto l’ambiente quanto
l’osservatore. In altre parole, la percezione e le utilità dell’ambiente si accompagnano alle informazioni che specificano l’osservatore, il suo corpo e i suoi arti. Per
questo Gibson afferma che «l’esterocezione è accompagnata dalla propriocezione»:
«percepire il mondo è co-percepire se stessi» (Ivi 226).
La posizione di Gibson si discosta inoltre dalle tradizionali teorie della percezione visiva. Egli contraddice la dottrina secondo la quale sarebbe un processo
di «percezione della profondità» a garantire il recupero dalla realtà tridimensionale mediante immagini bidimensionali. Dichiara l’inadeguatezza della tesi di canali
specifici della sensazione, oltre alla non funzionalità della classica tesi secondo cui
l’immagine retinica sarebbe una figura. Non concorda con le tesi empiriste secondo le quali i significati percepiti e i valori delle cose sarebbero forniti da esperienze
passate dell’osservatore. Non condivide neppure le posizioni innatiste, per cui significati e valori deriverebbero da passate esperienze della specie, o più esattamente
da idee innate. La teoria in grado di spiegare la percezione, afferma lo psicologo,
è dunque quella che si basa sulla raccolta delle informazioni che risiedono nella
«luce-ambiente», secondo lo stimolo distale, definito «assetto ottico».
I «sistemi percettivi» hanno funzioni che si sovrappongono, presentando ognu-
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no sia output in direzione di organi, sia input provenienti da questi ultimi. A
differenza dei sensi, concepiti come passivi e dotati di recettori, i sistemi percettivi sono invece attivi, hanno organi e possono svolgere funzioni quali quelle di
orientare, esplorare, indagare, adattare, ottimizzare e giungere a un equilibrio. Alla
percezione visiva, basata sulla raccolta di informazioni ottiche, viene data particolare importanza, essendo questa un sistema che implica la contemporanea attività
di registrazione della persistenza e del cambiamento. In questo rilievo risiede esattamente il fulcro della tesi di Gibson: «La percezione è qualcosa che l’individuo
ottiene, non un’apparenza nel teatro della sua coscienza. È lo stare a contatto con
il mondo, esperire cose, e non tanto avere esperienze» (Ivi 363). La percezione
viene infatti definita come un «atto psicosomatico», né della mente né del corpo,
piuttosto dell’osservatore vivente, che è coinvolto in un’attività continua e ininterrotta di raccolta delle informazioni. La si può intendere come un flusso basato
su attività di esplorazione, orientamento e adattamento rispetto alle informazioni inesauribili presenti nella luce-ambiente. Nella parte conclusiva del libro, con
il concetto di «raffigurazione», Gibson ritorna sulle sue valutazioni iniziali riguardo ai display. Nell’insieme queste osservazioni valgono come utili riflessioni sulla
percezione di alcune forme di raffigurazione. Rispetto al processo di estrazione
dell’informazione dall’assetto ambiente della luce, valido per gli oggetti ordinari,
le immagini che sono composte di luci e colori, presentano un processo di visione
ben più complesso.
Gibson in quelle pagine intende comprendere «cosa vediamo» attraverso la visione di «immagini ferme» (i dipinti, i disegni e le fotografie) e «immagini animate»
(i film e i video). Vedere un oggetto implica cogliere anche i suoi invarianti. Vedere
la raffigurazione di quel medesimo oggetto vuol dire cogliere i medesimi invarianti,
non prestando attenzione alla «prospettiva cristallizzata della figura». Lo psicologo ritiene che le immagini siano superfici trattate che, se da una parte mettono a
disposizione un assetto ottico di «strutture bloccate», dall’altra permettono di cogliere allo stesso tempo anche in varianti di «strutture soggiacenti». Per ottenere
immagini ferme, gli artisti possono avvalersi di due differenti metodi di raffigurazione: il metodo fotografico e quello chirografico. Al primo corrisponde l’avvalersi
di una macchina fotografica, al secondo l’utilizzo di un determinato strumento
grafico. Per motivi determinati dalla pregnanza prospettica, le immagini fotografiche hanno un punto stazionario unico e fisso di fronte alla superficie, mentre
quelle chirografiche no. Le due immagini risultanti sono ulteriormente differenziabili se considerate dal punto di vista della registrazione. È possibile sostenere che
un’immagine fotografica possa essere una registrazione della percezione di quel che
l’autore stava vedendo nel farla.
Ma questo non vale altrettanto per le immagini chirografiche, poiché un artista
può benissimo dipingere visioni fittizie. Vale a dire che potrebbe dipingere per
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esempio quel che immagina, che ricorda a modo suo o persino il frutto di una sua
allucinazione. La registrazione viene considerata come fondamentale da Gibson,
che riscontra nel disegnare e nello scrivere l’origine per entrambe le attività in
quello che definisce «l’atto grafico fondamentale», ossia, il lasciare tracce su una
superficie esattamente mediante una registrazione progressiva del movimento.
Queste osservazioni sono rilevanti per il ragionamento presentato da Gibson
anche rispetto al concetto di «rappresentazione». Un disegno o un dipinto non sono affatto copie o repliche, semplicemente perché copiare un pezzo di ambiente è
impossibile. L’attività dell’artista, in particolare del disegnatore, è piuttosto quella
di segnare la superficie al fine di mostrare gli invarianti e registrarne una consapevolezza. Gibson in proposito si esprime con chiarezza: «Solo un altro disegno può
essere copiato. Noi siamo stati fuorviati troppo a lungo dall’erronea concezione
per cui una figura è simile a ciò che raffigura, gli somiglia, ne è un’imitazione. Una
figura fornisce alcune delle informazioni di ciò che raffigura, ma ciò non implica che
con questo vi sia una corrispondenza proiettiva.» (Ivi 418T9). Sulla base di questa
analisi Gibson conclude che il termine «rappresentazione» sia del tutto fuorviante.
Una scena, ossia un assetto ottico, non può infatti essere ri-presentato perché non
può essere ricostruito. E questo vale anche per la fotografia. Seppure con essa si
possano ottenere prodotti di altissima qualità, non si può comunque conservare le
informazioni che si danno in un punto di osservazione in un ambiente naturale.
Anche rispetto all’illusione Gibson presenta diverse critiche, mostrando che la sua
elaborazione tende a produrre un inganno valido solo per un occhio e non per l’intero sistema visivo. Anche perché l’osservatore è sempre in grado di distinguere tra
una percezione e un’immagine fisica. Il suo giudizio è secco: l’illusione della realtà
è soltanto un mito.
Il libro si chiude con un’analisi del cinema e della consapevolezza visiva. A
differenza della «figura bloccata» – una superficie trattata che in sostanza rende
disponibile un assetto ottico bloccato – la «figura in progressione», il film, rende disponibile un assetto ottico non arrestato, avente una struttura che sottostà a
continui cambiamenti e trasformazioni. Il film non viene inteso come una serie
di istantanee retiniche a cui si aggiunge la persistenza della visione, bensì come la
forma fondamentale di raffigurazione che più si avvicina all’ottica ecologica, e al
reperimento di informazioni nella realtà.
La «raffigurazione cinematografica» ha lo scopo di produrre nello spettatore la
consapevolezza di una serie di eventi e della loro struttura causale. Così commenta
lo psicologo tale fenomeno: «Sono eventi virtuali e non reali, d’accordo, e nessuno ne viene mai del tutto ingannato, come quando si ha un’allucinazione, ma
la sensazione di essere presente nel mondo che si estende al di là dello schermo è
fortissima» (Ivi 449).
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Riferimenti bibliografici
Carassa, A. & Tirassa, M. (2005), Essere nel mondo, essere nel sogno, in G. Rezzonico & D. Liccione, eds, ‘Sogni e psicoterapia’, Bollati Boringhieri, Torino,
pp. 23–54.
Gibson, J. J. (1999), Un approccio ecologico alla percezione visiva, Il Mulino,
Bologna. Tr. it. di Riccardo Luccio.
Neisser, U. (1993), Conoscenza e realtà. Un esame critico del cognitivismo, Il Mulino,
Bologna. Tr. it. di Maria Baghassi.
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