Itinerario della commedia goldoniana e analisi de “La locandiera
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Itinerario della commedia goldoniana e analisi de “La locandiera
Itinerario della commedia goldoniana e analisi de “La locandiera” (liberamente tratto da Baldi-Giusso La Letteratura vol. 3) Sfondo culturale Commedia dell’arte Cultura barocca: gusto per stravaganza e per l’artificio la Testo teatrale Canovaccio, in forma narrativa, che dà indicazioni sommarie sull’intreccio Recitazione Improvvisata sulla base di un canovaccio Stereotipati e ripetitivi, incentrati su vicende avventurose o sentimentali e sviluppati con scarsa attenzione alla coerenza e alla verisimiglianza Maschere tradizionali, che incarnano tipi fissi e stereotipati Intrecci Personaggi Comicità Buffonesca e volgare, basata sui lazzi, adatta ad un pubblico popolare Lingua Plurilinguismo giocato sullo scontro fra dialetti diversi; forzatura del linguaggio in chiave espressionistica Finalità Divertimento Commedia goldoniana Cultura arcadica e razionalismo settecentesco: aspirazione alla semplicità e alla naturalezza Copione che presenta informazioni essenziali sulla messa in scena e tutte le battute che gli attori dovranno recitare Recitazione delle battute del copione memorizzate dall’attore Vicende lineari, verisimili e coerenti nel loro svolgimento, ispirate ai senti mementi e alle situazioni della vita quotidiana Caratteri, rappresentati nella varietà di sfumature che li connotano come individui unici e irripetibili Misurata e caratterizzata dal buon gusto, adatta ad un pubblico borghese Unilinguismo basato sull’uso di un unico dialetto o della lingua italiana; il linguaggio riproduce con naturalezza la conversazione ordinaria Intento moralistico: correggere i vizi e proporre modelli positivi di virtù. La prima fase: la celebrazione del mercante Il “Mondo” che si riflette nella commedia goldoniana è essenzialmente la società veneziana contemporanea. Se G. è l’interprete di una più generale visione “borghese” della realtà, egli vi perviene attraverso l’analisi di un campione particolare e ristretto, quello spaccato di società che egli ha sotto gli occhi quotidianamente a Venezia (anche se i suoi frequenti spostamenti avevano allargato i suoi orizzonti mentali consentendogli di arricchire le sue conoscenze con dati provenienti da diverse situazioni sociali). Venezia è una repubblica oligarchica in cui il potere è in mano ad una ristretta cerchia di famiglie nobili, che lo esercitano in senso fortemente conservatore, ma possiede anche un solido ceto borghese, formatosi nella lunga tradizione mercantile della Repubblica, e che, almeno nella prima parte del secolo, gode di notevole floridezza economica. Degli ideali e degli interessi di questo ceto G. è il consapevole interprete e celebratore. Nella prima fase della sua commedia il mercante veneziano ha un rilievo centrale nei suoi copioni: si presenta ancora con la maschera di Pantalone, ma assume già una sua concreta fisionomia individuale, è una figura positiva, portatrice di tutta una serie di valori: schiettezza, puntualità e rispetto degli impegni, buon senso e concretezza nel valutare le cose, moralità ineccepibile e forte attaccamento alla famiglia, laboriosità e senso dell’economia, culto della reputazione, del buon nome, dell’onorabilità. In questa celebrazione del mercante si manifesta anche una contrapposizione polemica alla nobiltà; il senso della contrapposizione è ben espresso in questa battuta rivolta da un mercante ad un nobile ne “Il cavaliere e la dama” (1749): “ La mercatura è una professione industriosa, che è sempre stata ed è anche al di d’oggi esercitata da cavalieri di rango molto più di lei. La mercatura è utile al mondo, necessaria al commercio delle nazioni, e a chi l’esercita onoratamente, come fo io, non si dice uomo plebeo; ma più plebeo è quegli che per aver ereditato un titolo e poche terre, consuma i giorni nell’ozio, e crede che gli sia lecito di calpestare tutti e di viver di prepotenza. L’uomo vile è quello che non sa conoscere i suoi doveri, e che volendo a forza d’ingiustizie incensata la sua superbia, fa altrui conoscere che è nato nobile per accidente, e meritava di nascer plebeo.” La nobiltà è colpita dalla critica goldoniana in quanto superba e prepotente, oziosa, dissipatrice e parassitaria, inutile al corpo sociale, attaccata ai suoi titoli vuoti che non garantiscono il valore autentico dell’individuo. G. non è tuttavia da scambiare per un rivoluzionario giacobino, ma, seguendo le linee che sono proprie dell’Illuminismo moderato del suo tempo, vorrebbe piuttosto “smuovere i nobili dall’inerzia e riportarli alla dignità di una vita attiva, ricordando loro la funzione sociale degli antenati” (Fido). Egli ritiene che i nobili abbiano il dovere di partecipare alla vita economica del loro paese, contribuendo così alla pubblica felicità. G. non mette dunque in discussione le gerarchie sociali esistenti, ma le accetta pienamente. In questo riflette le posizioni della borghesia veneziana; il mercante tende a “definirsi in una polemica diversità dalla classe aristocratica, ma non in contrasto con essa nell’ordine sociale” (Baratto), mira semplicemente alla riuscita individuale nel suo campo, il lavoro, la famiglia, la reputazione, ma non vuole trasformare l’ordine sociale esistente, elaborare una nuova, organica civiltà; non vuole imporre una sua egemonia nello Stato, ma al massimo affermare un’egemonia etica, far trionfare la sua moralità ed i suoi valori. La seconda fase: incertezze e soluzioni eclettiche La seconda fase della commedia goldoniana (1753-1758, teatro San Luca) è più eclettica e più incerta a seguito di varie difficoltà: una sala molto più vasta, meno adatta alla rappresentazione della vita quotidiana e di interni familiari, attori meno noti e meno bravi,, un impresario non facile da trattare come il nobile Vendramin, le polemiche con gli avversari, la volubilità dei gusti del pubblico che, dopo aver accolto con favore il “ragionevole” ed il “verisimile” della commedia riformata, sembra tornare a preferire un teatro più fantasioso (>>trilogia persiana). Alla figura del mercante guardato con affettuosa e bonaria simpatia, G. preferisce sostituire una galleria di “personaggi tarati, infermi, maniaci” (Baratto) (I puntigli domestici, La donna vendicativa, Il vecchio bizzarro ecc.). tutti questi personaggi non hanno quella ”socievolezza” che G. tanto ammira nei mercanti, tendono a rifiutare i rapporti con il prossimo, astenendosi dalla vita sociale, sono nevrastenici e misantropi (riflettendo forse quelle crisi nervose da cui G. stesso in quel periodo era colpito). In questa fase si collocano però anche varie commedie di ambiente popolare (Le massère, Il campiello, Le morbinose), in cui l’azione nasce da esili pretesti, equivoci, chiacchiere, pettegolezzi. Questa attenzione al popolo anticipa quello che sarà pochi anni dopo uno dei testi più rilevanti di G. : Le baruffe chiozzotte. I testi più maturi La crisi anche psicologica degli anni 1753-1757 trova sfogo in un viaggio a Roma, dopo il quale G. torna con entusiasmo alla sua commedia “nuova”. Tra il ’59 ed il ’62 si collocano così alcuni dei testi più maturi, in cui G. torna ad occuparsi, ma con uno sguardo diverso, della borghesia veneziana. La crisi che nella seconda metà del secolo aveva colpito la Serenissima per la perdita dei possedimenti d’oltremare, induceva ad orientarsi verso attività agricole. Di conseguenza il mercante perde il suo slancio energico, tende a ripiegarsi su se stesso, ad evitare rischi ed imprese e a chiudersi nel più tranquillo investimento terriero. Al dinamismo succede l’inerzia, all’orgogliosa affermazione della propria visione della vita la difesa gretta del proprio interesse. Quelle che erano virtù della borghesia si trasformano in vizi, il senso dell’economia diventa avarizia, la rigorosa difesa della reputazione diventa superbia, la puntualità diventa ostinazione. G. coglie con lucidità questi processi: “All’avarizia i ghe dise economia, alla superbia i ghe dise punto d’onor, e all’ustinazion parola, pontualità” (Sior Todero brontolon). Secondo Mario Baratto e Franco Fido, infatti, G., dopo aver elogiato un decennio prima la figura del mercante, la guarda ora con occhio più critico e severo: al Pantalone aperto e illuminato, che contrappone il suo pacato buon senso ai puntigli oziosi e alle convenzioni assurde della nobiltà, si sostituisce il “rustego”, chiuso nel proprio ambiente familiare, attaccato al proprio meschino tornaconto, grettamente conservatore, lodatore del passato, ottusamente autoritario e incapace di aprirsi alle esigenze dei tempi. Con questa figura asociale si scontrano invece i giovani e le donne, portatori di un’idea più aperta di socialità, che rivendicano il diritto ad una vita più libera e gioiosa, svincolata dalla cappa oppressiva dell’ambiente familiare. Di questa svolta della commedia goldoniana Giuseppe Petronio (1986) fornisce una diversa interpretazione: la svolta non rifletterebbe una crisi involutiva della borghesia veneziana, che non sussisterebbe (ma Petronio trascura il contraccolpo sui commerci derivante dalla decadenza dell0’impero veneziano); semplicemente, nella sua prima fase, quella della celebrazione del mercante, G. rappresenterebbe, in termini astratti, un’immagine ideologica della borghesia, quale dovrebbe essere, in questa seconda fase, invece, coglierebbe la realtà qual è, con i suoi difetti ed i suoi limiti, vale a dire il permanere di un mondo vecchio e retrogrado in contrasto con le idee moderne. Ci sarebbe dunque un passaggio dall’utopia alla realtà, una consapevolezza della distanza della borghesia veneziana reale dall’ideale del mercante, quale G. idoleggiava sul modello della borghesia olandese ed inglese. In ogni caso G. sembra voler uscire da questo mondo così asfittico ed opprimente con la riscoperta del popolo: del 1762 sono Le baruffe chiozzotte in cui rappresenta la vita dei pescatori di Chioggia. Il popolo viene rappresentato con quella vitalità, quella spontaneità di sentimenti, quella capacità di relazioni sociali che la borghesia veneziana, ripiegata su se stessa, sembra aver perdute; non solo, ma nel popolo sembrano sopravvivere allo stato genuino quei valori fondamentali che nella borghesia si sono come atrofizzati o rovesciati di segno, la schiettezza, la laboriosità, il senso della famiglia e dell’onore. La fase parigina A Parigi G. trovò ancora in piena voga gli scenari improvvisati e le maschere della Commedia dell’arte e dovette ricominciare da principio a lottare per la sua riforma. Il pubblico parigino, abituato ai lazzi dei comici, dimostrò freddezza per le novità di G. ( anche a causa del problema della lingua), perciò G. dovette adattarsi a tornare agli scenari che da tempo aveva abbandonato. Al “carattere” lo scrittore ritorna con “Le bourru bienfaisant” (Il burbero benefico, 1771), ma il protagonista è ben lontano dai “rusteghi” e dal “sior Todero brontolon”: non esiste più alcun nesso organico tra l’individuo e l’ambiente sociale, il carattere è isolato allo stato puro. Gli anni della vecchiaia sono occupati dalla stesura dei Mémoires (1783-87), in cui la ricostruzione a posteriori della riforma viene presentata come un percorso rettilineo e coerente. Oggi sappiamo che non è così e possiamo anche cogliere errori nelle date e nella ricostruzione dei fatti. La locandiera (1753) Nella commedia sono perfettamente realizzate le direttrici della riforma; anche se a livello di personaggi si possono ancora cogliere tracce della vecchia Commedia dell’arte (Mirandolina>> servetta, Fabrizio>> Brighella ecc.), tuttavia proprio questi tenui legami fanno risaltare la distanza che separa la scrittura drammatica goldoniana dagli scenari fissi della Commedia dell’arte. Mirandolina non è più un ruolo o una maschera fissa o stereotipata, ma un carattere, nella multiforme varietà di sfumature che lo connotano come individuo irripetibile e lo stesso vale anche per gli altri personaggi, che sono tutti caratteri perfettamente individuati e inconfondibili. Caratteri e ambiente sociale La locandiera non si limita a tratteggiare psicolgie individuali, ma le colloca anche in un preciso contesto sociale, offrendo uno spaccato della società contemporanea, colta in tutte le sue articolazioni. La locanda, dove si incontrano personaggi delle più varie classi, si pone dunque come un luogo emblematico per eccellenza di questo campione stratificato di società. I vari personaggi sono tutti rappresentativi dei fondamentali ceti: il marchese di Forlipopoli rappresenta la nobiltà ormai decaduta, attaccata solo alle vacue apparenze del suo stato, che pretende ancora, pur non avendone più i mezzi materiali, di godere degli antichi privilegi, il conte di Albafiorita, al contrario, ha le caratteristiche inconfondibili del parvenu che, pur non potendo contare sul prestigio del sangue, cerca una rivalsa nell’ostentazione continua e smaccata della ricchezza. Ma anche il cavaliere di Ripafratta non è solo il tipo psicologico del misogino burbero e scontroso: il personaggio è socialmente individuato da tutta una serie di comportamenti che rivelano la sua alterigia nobiliare, il suo disprezzo autoritario per i subalterni, che vengono da lui brutalmente ridotti al rango di cose e di strumenti, la sua convinzione che tutto gli sia dovuto in quanto è nobile. Una fisionomia sociale ben definita possiede anche Mirandolina: la padrona di locanda accorta, attenta ai suoi interessi, abile ed energica nella conduzione del suo esercizio, rimanda al tipo del “mercante”, che ha un rilievo fondamentale nella stratificazione della società veneziana. Mirandolina: l’attaccamento all’interesse materiale Innanzi tutto ciò che connota Mirandolina è l’attaccamento all’interesse materiale: è una persona scaltra e calcolatrice, una profitattrice sfrontata fino al cinismo. In questo rivela le caratteristiche tipiche del suo ceto: la “locandiera” in quanto “vende” un servizio appartiene al ceto mercantile e, se di esso presenta le caratteristiche positive, laboriosità, senso pratico, fermezza di carattere, possiede in maggior misura quelle negative. Mirandolina specula sulla sua bellezza e sul suo fascino per attrarre nobili clienti nella sua locanda, ma non solo, con questi mezzi fa anche loro accettare un trattamento alberghiero che si intuisce alquanto scadente. Per raggiungere tale obiettivo arriva a “vendersi” e, con estrema scaltrezza, facendo un uso tutto strumentale della sua bellezza, gioca sul limite che separa l’onorabilità e la reputazione della commerciante piccolo borghese dalla degradazione della prostituta: si fa comperare in pubblico, ma solo metaforicamente, si vende psicologicamente, non fisicamente (Alonge); e proprio attraverso questo ambiguo offrirsi senza concedersi ottiene il massimo del profitto, in quanto i nobili spasimanti affollano la sua locanda, stabilendovisi a tempo indeterminato. Questo suo cinismo calcolatore si rivela appieno negli a parte: quando parla ai suoi interlocutori è sempre educata e garbata, ma quando parla fra sé manifesta la sua vera natura, la sua sostanziale volgarità di piccola borghese attaccata al denaro. Ciò rivela come tutto il suo contegno si regga sulla finzione e sulla dissimulazione, accortamente manovrate per il raggiungimento dei suoi fini. Narcisismo e smania di dominio Mirandolina tuttavia non si riduce a questo cinismo disinteressato. Non è un personaggio semplice, facilmente catalogabile, ma una figura complessa, ricca di sfumature. Ciò vale innanzi tutto per le motivazioni dell’impresa che costituisce la trama della commedia: che cosa la spinge a far innamorare il cavaliere? Non è solo una rivalsa “sessista” (l’orgoglio offeso, il desiderio di rivalsa e di ripicca non solo per se stessa ma anche per tutto il sesso femminile ingiuriato), ma anche una rivalsa “classista”, sociale. La donna di umile condizione, è abituata, grazie al suo fascino, a trattare alla pari e con familiarità con i nobili. L’alterigia tracotante del cavaliere, che la vuole degradare ad una condizione servile, ferisce il suo orgoglio, stimola il suo spirito di rivalsa. Per questo vuole punire ed umiliare pubblicamente il membro della classe superiore. Ma ci sono anche implicazioni più profonde; M. confessa nel suo primo monologo “…Tutto il mio piacere consiste nel vedermi riverita, vagheggiata, adorata…..(Atto I, sc.9)” il tratto forse più rilevante della sua personalità: uno sfrenato narcisismo, che trova soddisfazione nella propria corte di innamorati adoranti. La misoginia del cavaliere la ferisce proprio per questo aspetto, quindi il proposito di vendicare tutto il suo sesso è una copertura, un alibi: M. vuole affermare essenzialmente se stessa, la propria prepotente individualità. Il dominio esercitato sugli uomini appaga il suo narcisismo perché in lei c’è una sorta di ossessione del potere sugli altri, perciò la molla segreta che la spinge a sedurre il cavaliere, più che l’orgoglio femminile, è questa smania dell’esercizio del potere, che non tollera che alcuno vi si sottragga. Trionfo e sconfitta di Mirandolina Nel finale l’impresa di M. raggiunge perfettamente il suo obiettivo: non solo il cavaliere si innamora perdutamente, ma è costretto anche a confessare in pubblico il suo cedimento, con sua somma vergogna. Si è parlato, quindi, di un “trionfo di M.” nell’Atto III, ma non è del tutto vero, perché, vincitrice nel suo proposito di umiliare la misoginia e l’alterigia di un nobile, M. è sconfitta su un altro terreno (Alonge): ha infatti rischiato troppo e il cavaliere, folle d’amore e di gelosia, perde il controllo di sé e sta per usarle addirittura violenza. M. rischia di perdere la sua onorabilità, la sua reputazione, che sono valori irrinunciabili per il borghese, il mercante. Con il suo onore, anche quello dell’azienda, la locanda, sarebbe irrimediabilmente compromesso, con inevitabili ripercussioni economiche. Allora M. è obbligata a rinunciare alla tanto amata “libertà” e accettare il matrimonio con Fabrizio, se vuole salvare l’onorabilità e trovare l’indispensabile protezione maschile, l’unica che la può preservare dai pericoli che ha appena corso. Il matrimonio segna anche la fine del “sistema” della locandiera, comporta un cambiamento di vita e di costume: nel congedare i suoi spasimanti M. rinuncia ai ricchi regali e alla soddisfazione del suo narcisismo, promette di non indulgere più a certi “spassi” (il divertimento alle spalle del cavaliere) ed arriva addirittura a presentarsi come esempio negativo che può salvare gli amanti incauti dalle insidie di qualche seduttrice. Il finale, quindi, segna la sconfitta di M, della sua volontà di potenza, che riduce le persone a strumenti del suo gusto del dominio. A M. resta soltanto un ambito in cui esercitare il potere: il marito-subalterno. Fabrizio, prima di acconsentire al matrimonio, vorrebbe far patti chiari, ma M tronca brutalmente le sue richieste ristabilendo in modo inequivocabile i rapporti di potere. Ancora una volta l’a parte (“Anche questa è fatta”) rivela il suo volgare cinismo: M non ha cambiato costume, semplicemente ha smesso il gioco rischioso con il mondo aristocratico e si contenta di saziare la sua libido di potere nel più sicuro ambito familiare.