In poltrona bovis, equi, asini e muli nelle “res mancipi” di Gaio ed il
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In poltrona bovis, equi, asini e muli nelle “res mancipi” di Gaio ed il
12-03-2007 Muli 14:59 Pagina 139 Tratto da: bovis, equi, asini e muli nelle “res mancipi” di Gaio ed il loro ruolo economico nella Roma antica Michele Di Gerio Il mulo non esiste in natura. È il frutto di una pratica zootecnica, l’incrocio, che prevede l’accoppiamento di due animali non molto dissimili fra loro: un asino ed una cavalla. Gli scopi essenziali che l’allevatore si propone di raggiungere mediante l’incrocio sono due: la produzione di animali che presentino associati nel modo migliore le caratteristiche somatiche e funzionali di due razze, e che siano nel complesso più robusti od adattabili a particolari ambienti dei soggetti di razza pura; e la sostituzione graduale di una razza preesistente con una razza di nuova importazione. Dagli albori della domesticazione l’uomo non ha mai cessato di trasformare la fisionomia dei propri animali, cercando di adattarli alle proprie esigenze economiche. Con Columella risulta chiaro che i romani conoscevano e praticavano l’incrocio: – Mula autem non solum ex equa et asino, sed et asina et equo itemque onagro et equa generatur – e – Qui ex equo et asini concepti generantur, quamvis a patre nomen traxerint, quod hinni vocantur, matri per omniamagis simili sunt. Itaque commodissimum est asinum destinare mularum generi seminando, cuius ut dixi species experimento est speciosior –. È molto importante evidenziare che il bardotto, prodotto dell’accoppiamento fra un cavallo ed un’asina, non compare fra gli animali di grossa taglia elencati nelle “res mancipi” di Gaio. È difficile pensare che il giureconsulto romano lo assimili alla voce “equi” o alla voce “asini” o alla voce “muli”. Il termine bardotto ha un corrispondente ben preciso nella lingua latina: hinnus. Inoltre, è un soggetto animale ben conosciuto alla cultura scientifica latina. Infatti, Varrone, dapprima, delinea geneticamente il mulo ed il bardotto, definendo la differenza di base che distingue i due soggetti: – Nam muli et item (hinni) rigeneri atque insiticii, non suopte genere ab radicibus. Ex equa enim et asino fit mulus, contra ex equo et asina hinnus – e successivamente, soffermandosi sul bardotto, fornisce dati zootecnici ed ostetrici: – Hinnus qui appellatur, est ex equo et asina, minor quam mulus corpore, plerumque rubicundior, auriobus ut equinis,iubam et caudam (habet) similem asini. Item in ventre est, ut equus, menses duodecim. Hosce item ut eculos et educant et alunt et aetatem eorum ex dentibus cognoscunt –. Le Fonti, quindi, già nel II secolo a.C., attribuiscono al bardotto caratteristiche anatomo-fisiologiche utili alla produzione di forza-lavoro. Ma, Gaio, vissuto circa due secoli dopo le suddette Fonti, non lo colloca nelle “res mancipi”. Perché? Invece, la figura e ruolo del mulo, nel contesto socio-economico romano, erano ben definite. Nella letteratura del I secolo d.C., Fedro descrive due muli che camminano trasportando i loro rispettivi carichi sul dorso. L’autore, pur antropomorfizzando i due animali, li evidenzia focalizzando la loro principale funzione: il trasporto. I muli, essendo forti, docili e resistenti, erano considerati validi per il trasporto di carichi molto pesanti per lunghe e brevi distanze, riuscendo a sopportare la fatica anche attraverso terreni montagnosi e desertici. Sottoposti a sforzi eccezionali, diventavano insostituibili poiché nessun altro animale addomesticato riusciva ad equiparare le loro prestazioni lavorative. Con andatura camminata, lenta ed accelerata, sotto forma di tiro e soma, erano utilizzati nel settore agricolo, commerciale, industriale e militare. Inoltre, molto spesso, le scoperte archeologiche rendono maggiormente veritiera e materializzano qualsiasi fonte, sia essa letteraria, epigrafica, numismatica o iconografica. È il caso della Casa dei Casti Amanti a Pompei. Ubicata in Via dell’Abbondanza, si estende per circa 1000 m2 e costituisce una costruzione estremamente interessante dal 3 / 139 punto di vista architettonico, artistico e sociale. Il proprietario, un certo Caio Giulio Polibio, era un ricco e famoso produttore di pane. Annessi alla casa, sono stati individuati due locali per la lavorazione del pane, un grande forno e quattro macine per la frantumazione del grano. Nella stalla principale sono venuti alla luce cinque scheletri di equidi. Lo studio morfologico e morfometrico condotto sui reperti ossei ha permesso di identificare quattro asini ed un mulo, utilizzati per il trasporto e come forza-lavoro per le macine. In questo caso si può differenziare il ruolo del mulo e dell’asino. I muli erano utilizzati per operazioni lavorative che richiedevano grande fatica e sacrificio. Si ricorreva agli asini per lavori meno impegnativi. Il grano, proveniente dalle aree rurali, giungeva alla Casa dei Casti Amanti sul dorso dei muli o con carri trainati dagli stessi muli. Anche se Varrone sostiene che: – Hisci enim binis coniunctis omnia vehicula in viis ducuntur –, oltre ai muli, si impiegavano, se pur in misura minore, anche buoi ed asini. Infatti, Catone consiglia di avere tanti carri per quante coppie di buoi, muli ed asini si posseggono – Quot iuga boverum, mulorum, asinorum habebis, totidem prostra esse oportet –. Il plaustrum ed il serracum erano i veicoli maggiormente utilizzati. Il primo si muoveva su due ruote. Il secondo, impiegato per carichi più pesanti, derrate alimentari, sale, materiale edilizio, etc., presentava quattro ruote più basse e più solide. Nelle aree urbane della Roma antica il transito dei carri era consentito soltanto in alcune strade, con doppio senso o con senso unico di marcia. In altre e nel Foro, invece, la circolazione era completamente vietata; alti gradini e paracarri ne impedivano l’accesso. La bibliografia è consultabile sul sito: www.ilprogressoveterinario.it In poltrona 03_marzo_2007.qxp