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Apollo e Dafne http://www.iconos.it/index.php?id=37 http://numero22.blogspot.com/2009/07/il-primo-amore-di-febo-fu-dafnefiglia.html 455 460 465 470 475 480 Primus amor Phoebi Daphne Peneia: quem non Fors ignara dedit, sed saeua Cupidinis ira. Delius hunc nuper, uicto serpente superbus, Viderat adducto flectentem cornua neruo "Quid" que "tibi, lasciue puer, cum fortibus armis?" Dixerat, "ista decent umeros gestamina nostros, Qui dare certa ferae, dare uulnera possumus hosti, Qui modo pestifero tot iugera uentre prementem Strauimus innumeris tumidum Pythona sagittis. Tu face nescio quos esto contentus amores Inritare tua nec laudes adsere nostras." Filius huic Veneris "figat tuus omnia, Phoebe, Te meus arcus" ait, "quantoque animalia cedunt Cuncta deo, tanto minor est tua gloria nostra". Dixit et eliso percussis aere pennis Inpiger umbrosa Parnasi constitit arce Eque sagittifera prompsit duo tela pharetra Diuersorum operum: fugat hoc, facit illud amorem; Quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta, Quod fugat, obtusum est et habet sub harundine plumbum. Hoc deus in nympha Peneide fixit, at illo Laesit Apollineas traiecta per ossa medullas: Protinus alter amat, fugit altera nomen amantis Siluarum latebris captiuarumque ferarum Exuuiis gaudens innuptaeque aemula Phoebes; Vitta coercebat positos sine lege capillos. Multi illam petiere, illa auersata petentes Inpatiens expersque uiri nemora auia lustrat Nec, quid Hymen, quid Amor, quid sint conubia, curat. Ovidio, Met., I, 452-567 (P. Ovidio Nasone, Metamorfosi, a cura di Mario Ramous ed Emilio Pianezzola, Milano, Garzanti Libri, 1995) Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo, e non fu dovuto al caso, ma all'ira implacabile di Cupido. Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo, vedendolo che piegava l'arco per tendere la corda: 455 «Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?» gli disse. «Questo è peso che s'addice alle mie spalle, a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici, a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone, infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia. 460 Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola, non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi». E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà, ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia». 465 Disse, e come un lampo solcò l'aria ad ali battenti, fermandosi nell'ombra sulla cima del Parnaso, e dalla faretra estrasse due frecce d'opposto potere: l'una scaccia, l'altra suscita amore. La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora, 470 la prima è spuntata e il suo stelo ha l'anima di piombo. Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l'altra colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo. Subito lui s'innamora, mentre lei nemmeno il nome d'amore vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra 475 dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata: solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti. Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi. 480 485 490 495 500 505 510 515 Saepe pater dixit "generum mihi, filia, debes," Saepe pater dixit "debes mihi, nata, nepotes:" Illa uelut crimen taedas exosa iugales Pulchra uerecundo subfuderat ora rubore Inque patris blandis haerens ceruice lacertis "Da mihi perpetua, genitor carissime," dixit "Virginitate frui: dedit hoc pater ante Dianae." Ille quidem obsequitur; sed te decor iste, quod optas, Esse uetat, uotoque tuo tua forma repugnat. Phoebus amat uisaeque cupit conubia Daphnes, Quodque cupit, sperat, suaque illum oracula fallunt; Vtque leues stipulae demptis adolentur aristis, Vt facibus saepes ardent, quas forte uiator Vel nimis admouit uel iam sub luce reliquit, Sic deus in flammas abiit, sic pectore toto Vritur et sterilem sperando nutrit amorem. Spectat inornatos collo pendere capillos Et "quid, si comantur?" ait; uidet igne micantes Sideribus similes oculos, uidet oscula, quae non Est uidisse satis; laudat digitosque manusque Bracchiaque et nudos media plus parte lacertos: Siqua latent, meliora putat. fugit ocior aura Illa leui neque ad haec reuocantis uerba resistit: "Nympha, precor, Penei, mane! non insequor hostis; Nympha, mane! sic agna lupum, sic cerua leonem, Sic aquilam penna fugiunt trepidante columbae, Hostes quaeque suos; amor est mihi causa sequendi. Me miserum! ne prona cadas indignaue laedi Crura notent sentes, et sim tibi causa doloris. Aspera, qua properas, loca sunt: moderatius, oro, Curre fugamque inhibe: moderatius insequar ipse. Cui placeas, inquire tamen; non incola montis, Non ego sum pastor, non hic armenta gregesque Horridus obseruo. nescis, temeraria, nescis Quem fugias, ideoque fugis. mihi Delphica tellus Il padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»; le ripete: «Bambina mia, mi devi dei nipoti»; ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale, il bel volto soffuso da un rossore di vergogna, con tenerezza si aggrappa al collo del padre: 485 «Concedimi, genitore carissimo, ch'io goda», dice, «di verginità perpetua: a Diana suo padre l'ha concesso». E in verità lui acconsentirebbe; ma la tua bellezza vieta che tu rimanga come vorresti, al voto s'oppone il tuo aspetto. E Febo l'ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei, 490 e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l'ingannano. Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie, come s'incendiano le siepi se per ventura un viandante accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce, così il dio prende fuoco, così in tutto il petto 495 divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore. Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo, pensa: 'Se poi li pettinasse?'; guarda gli occhi che sfavillano come stelle; guarda le labbra e mai si stanca di guardarle; decanta le dita, le mani, 500 le braccia e la loro pelle in gran parte nuda; e ciò che è nascosto, l'immagina migliore. Ma lei fugge più rapida d'un alito di vento e non s'arresta al suo richiamo: «Ninfa penea, férmati, ti prego: non t'insegue un nemico; férmati! Così davanti al lupo l'agnella, al leone la cerva, 505 all'aquila le colombe fuggono in un turbinio d'ali, così tutte davanti al nemico; ma io t'inseguo per amore! Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffino le gambe indifese, ch'io non sia causa del tuo male! Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego, 510 rallenta la tua fuga e anch'io t'inseguirò più piano. Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro, non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi come uno zotico. Non sai, impudente, non sai chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi, 515 520 525 530 535 540 545 550 Et Claros et Tenedos Patareaque regia seruit; Iuppiter est genitor. per me, quod eritque fuitque Estque, patet; per me concordant carmina neruis. Certa quidem nostra est, nostra tamen una sagitta Certior, in uacuo quae uulnera pectore fecit. Inuentum medicina meum est, opiferque per orbem Dicor, et herbarum subiecta potentia nobis: Ei mihi, quod nullis amor est sanabilis herbis, Nec prosunt domino, quae prosunt omnibus, artes!" Plura locuturum timido Peneia cursu Fugit cumque ipso uerba inperfecta reliquit, Tum quoque uisa decens; nudabant corpora uenti, Obuiaque aduersas uibrabant flamina uestes, Et leuis inpulsos retro dabat aura capillos, Auctaque forma fuga est. sed enim non sustinet ultra Perdere blanditias iuuenis deus, utque monebat Ipse amor, admisso sequitur uestigia passu. Vt canis in uacuo leporem cum Gallicus aruo Vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem (Alter inhaesuro similis iam iamque tenere Sperat et extento stringit uestigia rostro; Alter in ambiguo est, an sit conprensus, et ipsis Morsibus eripitur tangentiaque ora relinquit): Sic deus et uirgo; est hic spe celer, illa timore. Qui tamen insequitur, pennis adiutus amoris Ocior est requiemque negat tergoque fugacis Inminet et crinem sparsum ceruicibus adflat. Viribus absumptis expalluit illa citaeque Victa labore fugae, spectans Peneidas undas "Fer, pater," inquit "opem, si flumina numen habetis! Qua nimium placui, mutando perde figuram!" Vix prece finita torpor grauis occupat artus: Mollia cinguntur tenui praecordia libro, In frondem crines, in ramos bracchia crescunt; Pes modo tam uelox pigris radicibus haeret, di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara. Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra. Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia è stata quella che m'ha ferito il cuore indifeso. 520 La medicina l'ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe. Ma, ahimè, non c'è erba che guarisca l'amore, e l'arte che giova a tutti non giova al suo signore!». Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire 525 impaurita, lasciandolo a metà del discorso. E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo, spirandole contro gonfiava intorno la sua veste e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino 530 non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore lo sprona, l'incalza inseguendola di passo in passo. Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto una lepre, e scattano l'uno per ghermire, l'altra per salvarsi; questo, sul punto d'afferrarla e ormai convinto 535 d'averla presa, che la stringe col muso proteso, quella che, nell'incertezza d'essere presa, sfugge ai morsi evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla, un fulmine lui per la voglia, lei per il timore. Ma lui che l'insegue, con le ali d'amore in aiuto, 540 corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento. Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, 545 dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; 550 i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici, 555 560 565 Ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa. Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra Sentit adhuc trepidare nouo sub cortice pectus Conplexusque suis ramos, ut membra, lacertis Oscula dat ligno: refugit tamen oscula lignum. Cui deus "at quoniam coniunx mea non potes esse, Arbor eris certe" dixit "mea. semper habebunt Te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae. Tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum Vox canet et uisent longas Capitolia pompas. Postibus Augustis eadem fidissima custos Ante fores stabis mediamque tuebere quercum, Vtque meum intonsis caput est iuuenale capillis, Tu quoque perpetuos semper gere frondis honores". Finierat Paean: factis modo laurea ramis Adnuit utque caput uisa est agitasse cacumen. il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, 555 ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante 560 intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. Fedelissimo custode della porta d'Augusto, starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo. E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa, anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!». 565 Qui Febo tacque; e l'alloro annuì con i suoi rami