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Fabrizio De André: per sempre contro
Fabrizio De André
per sempre contro
A cura di Francesco Mendozzi - V A - a.s. 2002/03
Liceo Scientifico Statale Convitto Vittorio Emanuele II - Roma
ƒ
Indice
La vita
pag. 3
L’idea
pag. 6
Volume 1
- Il suicidio
pag. 8
Tutti morimmo a stento
- L’angoscia
pag. 12
Volume 3
- Il pacifismo
pag. 18
Nuvole barocche
- Robert Burns
pag. 23
La buona novella
- I Vangeli apocrifi
pag. 27
Non al denaro non all’amore né al cielo
- Ossigeno e idrogeno
pag. 32
Storia di un impiegato
- Lo stragismo politico dopo il ‘68
pag. 39
Canzoni
- Umberto Saba
pag. 47
Volume 8
- La vita in mare
pag. 53
Rimini
- La rivoluzione cubana
pag. 58
L’indiano
- La vita nei campi
pag. 64
Creuza de mä
- La morte di un figlio
pag. 68
Le nuvole
- Il pentitismo
pag. 72
Anime salve
- L’alienazione
pag. 76
Conclusione
pag. 81
Bibliografia
pag. 82
2
ƒ
La vita
Subito dopo la nascita di Fabrizio Cristiano (Bicio, per i suoi familiari), il 18 febbraio
1940, i suoi genitori Giuseppe De André e Luigia Amerio decidono di trasferirsi da Genova
a Revignano d’Asti, ove la famiglia possiede un cascinale (Cascina dell’Orto), per sfuggire
ai pericoli della guerra. Nel 1944 il padre Giuseppe, professore all’Istituto Palazzi, è
costretto a vivere “clandestinamente” per qualche mese per aver aiutato i suoi alunni ebrei
a rifugiarsi in campagna. Finita la guerra torna dal campo di concentramento di Manheim
lo zio Francesco Amerio, il quale racconta al piccolo Bicio ed a suo fratello Mauro le
vicende di fame e terrore vissute nel lager; tutto ciò rimane impresso in Fabrizio, tanto che
egli stesso nella sua carriera canterà spesso storie di diseredati e umili, perché colpito da
queste tragiche vicende. Alla fine del settembre 1945 la famiglia De André torna a Genova
e nell’ottobre 1946 Fabrizio viene iscritto alla prima elementare all’Istituto delle suore
Marcelline. In una vacanza a Pocol Fabrizio conosce Paolo Villaggio, con cui scriverà
parecchie canzoni e condividerà moltissimi anni della sua vita. Nell’ottobre 1948 il piccolo
Bicio comincia a studiare violino: da subito mostra grande orecchio musicale.
Contemporaneamente mostra però tutta la sua inquietudine, la sua semplicità e la sua
indole ribelle: molesta le domestiche, prende a parolacce le suore del suo istituto,
comincia a frequentare la strada ed i bassifondi di Genova, viene molestato prima da un
maniaco di quartiere poi da un sacerdote durante la
confessione.
Nell’estate del 1950 la famiglia De André trascorre la
sua ultima vacanza alla Cascina dell’Orto, dato che il
professor Giuseppe la mette in vendita; da allora Fabrizio
deciderà che, una volta adulto, avrebbe riacquistato il
cascinale: questo sentimento di frugalità lo accompagnerà per
tutta la vita, soprattutto nella sua avventura in Sardegna. Le
prime esperienze sessuali fanno entrare bruscamente
Fabrizio nel mondo dell’adolescenza; anche qui brucerà le tappe, come continuerà a fare
nel corso di tutta la vita. Intanto Giuseppe De Andrè, divenuto vicesindaco, tiene spesso
comizi nel suo quartiere ed, esponendo schiettamente la sua avversione all’idea
comunista, susciterà colorite rimostranze, tanto che i comunisti affiggeranno per tutta la
città di Genova manifesti con un fotomontaggio rappresentante il professore con in testa
un cappello da prete. Il professore rimarrà adirato dal fatto, per la sua nota avversione
anche alla classe clericale (anche per l’avvenimento delle molestie al figlio). Lo stesso
Fabrizio più tardi dirà del padre: «È un repubblicano anticlericale di destra».
Nel settembre 1954 Fabrizio, invitato ad una festa mondana, preso dalla noia,
imbraccia per la prima volta una chitarra, iniziando a strimpellare con discreta abilità
qualche brano del suo tempo. Inoltre, a questa festa Fabrizio conosce il petroliere
Abelardo Remo Borzini, colto e raffinato imprenditore nonché poeta per hobby, che
seminerà nell’animo di Bicio l’amore per la lettura, e Riccardo Mannerini, filosofo
anarchico, che morirà anni dopo suicida. Dopo aver preso serie lezioni di chitarra, nel
dicembre 1955 Fabrizio fa il suo esordio in pubblico al teatro Carlo Felice di Genova con il
suo gruppo “The Crazy Cowboys”. All’inizio del 1956 Fabrizio comincia ad ascoltare i
grandi della musica francese: Edith Piaf, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud e Georges
Brassens. Nell’ottobre del 1956 Fabrizio inizia il primo anno di liceo classico e comincia ad
essere realmente trasgressivo con i docenti, sui quali riversa la sua avversione alla
caratura culturale del padre e del fratello Mauro.
L’autentico nemico di Fabrizio è il professor Decio Pierantozzi, che rappresenta per
lui il potere, e che egli contrasta con sistematica, continua e quotidiana ribellione. L’unico
professore che rimarrà nel cuore di Bicio sarà don Giacomino Piana (don Birillo),
3
insegnante di religione, che mostrerà al suo alunno l’umanità di Gesù e che ispirerà la
canzone “Si chiamava Gesù”. Fabrizio inizia nel 1957 ad avere una coscienza politica, e
partecipa alle riunioni dei militanti comunisti della sezione Mariscotti e della Federazione
anarchica di Carrara. Questi sono anche gli anni in cui esplode uno scandalo per il
“peccaminoso” amplesso di Fabrizio con una ragazza nella parrocchia di quartiere; inoltre
ha un’appassionata relazione con una prostituta di Via del Campo.
Nell’estate del 1960 Fabrizio, insieme a Clelia
Petracchi scrive quella che ha sempre considerato la sua
prima canzone: “La ballata del Michè”, sull’onda della vena
esistenzialista francese. L’anno dopo conosce il grande
Luigi Tenco in una strana circostanza. A Luigi Tenco era
giunta voce che Fabrizio andava in giro dicendo che
“Quando” l’aveva scritta lui: Tenco non ci pensò due volte e andò a cercarlo; una sera
finalmente lo incontrò e gli chiese il perché. Fabrizio rispose: «Guarda, ero con una donna
alla quale piaceva “Quando”; le ho detto che l’avevo scritta io e me la sono fatta!», al che
Tenco, scoppiando a ridere: «Beh, se le cose stanno così…». Per poter vantare una
propria autonomia economica Fabrizio De André e Paolo Villaggio si imbarcano su diverse
crociere (Costa) come animatori musicali, e proprio su una di queste navi nasce l’amicizia
con Silvio Berlusconi, anch’egli animatore per soldi.
Verso fine giugno del 1961 Fabrizio conosce Enrica (Puny) Rignon, sua futura
moglie, più grande di lui di sette anni; i due si sposeranno l’anno dopo e avranno un
bambino: Cristiano. Dal ’64 al ’68 De André prende in affitto una casa in campagna a
Savignone, nell’entroterra ligure, con un orto ed un porcile. La scelta ha una tripla valenza:
portare Cristiano fuori città; coltivare la sua passione per la terra e rimanere a portata di
Villa Bozano ove tutta la sua cricca fa la “bella vita”. Proprio in questa casa Bicio conosce
Ave Ninchi e Anna Magnani: la stessa Magnani lo colpirà per la sua introversione, ma
riuscirà a farla divertire.
ll 27 gennaio 1967, durante la 17ª edizione del Festival di Sanremo, il suo amico
Luigi Tenco si toglie la vita per protestare contro l’esclusione del suo brano, troppo duro
per la società benpensante del festival. Quest’avvenimento ispirerà la “Preghiera in
gennaio”. Il ’67 è però anche l’anno in cui conosce Francesco Guccini con cui accennerà
un progetto comune, poi mai realizzatosi. Intanto i pezzi di Fabrizio destano scandalo fra i
benpensanti per il loro contenuto e la Rai decide di censurare alcuni brani: come spesso
avviene, ciò che è proibito è più desiderato, e i giovani fanno di quelle canzoni una
bandiera. La Radio Vaticana, mostrando maggior sensibilità e apertura, trasmette proprio i
pezzi censurati, tanto che i giovani cattolici cantano le sue canzoni durante i loro incontri.
Nel dicembre 1967 a Fabrizio viene notificata la citazione per comparire al Tribunale di
Milano quale imputato ai sensi degli artt. 110 e 528 del C.P. per avere “in concorso
prodotto e posto in commercio dischi di contenuto osceno” (la canzone in questione è
“Carlo Martello”). Intorno a lui si viene a formare l’alone di artista maledetto.
Nel 1969 il cantautore genovese costruisce una casa
in Gallura (Sardegna), con la precisa volontà di farne
un’azienda agricola. Quattro anni dopo Fabrizio De André
verrà a lungo pedinato dalla Squadra 50 dei servizi segreti
perché sospettato di eversione e di istigazione al terrorismo.
Nella primavera del 1973 accade uno dei più importanti
incontri: quello con Francesco De Gregori. Fabrizio De André
rimane impressionato dalla bravura e dalla genialità di questo
giovane artista, con cui in seguito condividerà un intero album. Iniziano però i problemi con
l’alcol, che lo porterà al divorzio con la moglie Puny, e, associato al numero esorbitante di
sigarette fumate, alla morte. Difatti nel 1974 Fabrizio si invaghisce di Dori Ghezzi,
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affermata cantante in coppia con Wess, incontrata davanti ad un distributore automatico:
si sposeranno qualche anno dopo. Il 1° aprile 1976 i De André firmano l’acquisto
dell’Agnata, piccolo pianoro sardo, al prezzo di cinquantadue milioni: Fabrizio rimarrà qui a
Portobello di Gallura per quasi 24 anni. Rifugio, momento di aggregazione, contatto con la
natura, fatica, ma tanta soddisfazione; un lavoro accurato, una bella stalla, un bosco ricco
di funghi, prati, giardini, orti curatissimi, pascoli irrigui e una diga. Questo è ciò che serve
al geniale cantautore per scrivere i suoi meravigliosi testi. Nel 1977 nasce Luisa Vittoria
(Luvi).
27 agosto 1979. Tempio Pausania, Portobello di Gallura, proprietà De André
sull’Agnata. Intorno alle 17.00 la sorella di Dori, Fiore, insieme al marito, al padre e alla
madre lasciano la tenuta per far ritorno a Porto San Paolo, dove stanno trascorrendo le
vacanze. Insieme a loro parte anche la piccola Luvi. L’ultima a lasciare l’Agnata è la
domestica. Sono le 21.30, Bicio si trova davanti un uomo incappucciato e armato di
pistola; per un attimo pensa ad uno scherzo. Non è così. Fabrizio e Dori vengono
imbavagliati e, dopo esser stati costretti ad indossare dei giacconi, vengono fatti salire su
un’auto. Sono stati rapiti.
È l’estate più drammatica nella storia del
banditismo sardo, con i De André sono ben dieci le
persone tenute in ostaggio. Dopo essere stati tenuti
incappucciati per diverso tempo, i due ostaggi riescono ad
ottenere di rimanere legati ad un albero a volto scoperto;
pian piano, con i rapitori si instaura un rapporto rispettoso
e confidenziale: ai due coniugi viene dato del lei. Uno dei
rapitori, di sinistra, si mostra dispiaciuto che anche Dori,
figlia di operai, fosse stata rapita. Spiega che quella è la sua unica possibilità di lavoro. De
André capisce che ciò che dice è vero. Giuseppe De Andrè, padre di Bicio, deve pagare
seicento milioni per rivedere i due coniugi, ritrovati in due giorni differenti, fra il 20 ed il 21
dicembre dello stesso anno, lungo una strada del Goceano. Prima di liberare Fabrizio uno
dei banditi gli chiede di perdonarlo: il cantautore acconsente. Infatti nelle interviste
conseguenti al rapimento, Fabrizio mostrerà riconoscenza verso chi lo ha trattato così
“umanamente”. L’amore per i sardi e per la Sardegna rimarrà immutato.
Il 18 luglio 1985 muore a Genova Giuseppe De André, allora presidente della
Eridania Zuccheri. Quattro anni dopo a Bogotà, in Colombia, muore suo fratello Mauro.
Dopo anni di successi e riconoscimenti vari, De André conosce Vasco Rossi e Ivano
Fossati con i quali prima abbozzerà un’opera sulla cultura mongola, poi, esclusivamente
con Fossati comporrà diversi album. Appassionato di pittura (Barocchetto), amante del
bello come delle cose e delle persone vere, Fabrizio preferisce però i libri, (Sciascia, Eco,
Bufalino, Stendhal) e le sigarette. Nel 1993 Cristiano, figlio di Fabrizio, arriva secondo con
“Dietro la porta” alla 43ª edizione del Festival di Sanremo. Il 3 gennaio 1995 muore anche
Luigia Amerio, madre di Bicio. Sabato 1° marzo 1996 Fabrizio è a Genova per il primo
concerto del tour “Anime salve”. A Palazzo Tursi il sindaco di Genova Adriano Sansa gli
assegna il premio “Gilberto Govi”: fra tutti i riconoscimenti ottenuti nella lunga carriera
questo è il più apprezzato perché simbolo dell’amore della città di Genova verso i suoi figli.
Nel 1997 Fabrizio De André canta in duo con Mina “La canzone di Marinella”.
Nel suo penultimo concerto dice pubblicamente sul palco: «La ‘ndrangheta dà
lavoro!». Il giorno dopo in tutta Italia si alza un coro di vibrante protesta, in un periodo di
restaurazione dovuto a “Mani pulite”. Fabrizio capisce e attacca, risveglia le coscienze dei
giovani. Durante lo stesso tour del 1998 Bicio si sente male e viene portato in ospedale.
La tac non lascia speranze: tumore ai polmoni. A Natale la situazione precipita e l’11
gennaio 1999 muore Fabrizio Cristiano De André, accanto a lui come sempre, Dori, Luvi e
Cristiano. La sua famiglia.
5
ƒ
L’idea
Fabrizio ha sempre avuto un istintivo e spontaneo senso di rivolta, era un
contestatore naturale, non mediato da trame culturali complesse, né politiche né
filosofiche; lo era spontaneamente, non per posa. La caratteristica più tipica di Fabrizio era
proprio questa straordinaria autenticità, era un ribelle innato, in tutte le sue manifestazioni.
Per cui anticonformista nel vestire, nel muoversi, nell’atteggiarsi, nel fare “casino”, nel non
farlo, nel prendere le cose sul serio sostanzialmente. Era un borghese di nascita che però
non voleva esserlo, era molto critico in maniera viscerale, ma non estremista. Pur
vestendo in giacca era l’anticonformista per
eccellenza, non per scelta; era una sua dote
naturale che poi è venuta fuori anche nella
musica, nei temi che ha toccato. Fra i sedici e i
diciassette anni De André inizia a documentarsi
politicamente leggendo Bakunin. Aderisce con
tutto sé stesso all’ideale anarchico che,
evidentemente, garantisce alla sua inquietudine
esistenziale il giusto orizzonte di libertà,
l’affrancamento da ideologie, preconcetti, da tutto
ciò che è sovrastruttura, falsità, ipocrisia. In un
certo senso si potrebbe dire che l’anarchia di De
André si radica nelle sue insofferenze adolescenziali, al di qua delle letture e della
compatibilità ideale con l’anarchia “storica”. Non solo. A fronte di quanti si sono domandati
come poteva conciliare il suo essere anarchico con l’appartenenza a una delle famiglie più
benestanti di Genova, emerge con limpidezza la fatica, la sofferenza di una maturazione
antiborghese proprio all’interno di un universo che, prima di tutto attraverso la figura
paterna, incarna il suo disagio ed il suo obiettivo polemico. Per quasi trent’anni Fabrizio ha
continuato a parlare del potere, non facendo politica ma lanciando messaggi attraverso le
proprie composizioni poetiche e musicali.
L’essere anarchico di Fabrizio è passato attraverso mille esperienze: la vita in
campagna, le bande di quartiere, le contraddizioni tra quello che i suoi avrebbero voluto lui
fosse e quello che lui era, per quello che sceglieva e cercava di essere. Vivendo la
drammatica schizofrenia di chi si trova contemporaneamente da entrambi i lati della
barricata. Attraverso le letture De André capisce che gli anarchici sono dei miserabli che
aiutano chi è più miserabile di loro. Ma scopre anche che quei miserabili che vivono ai
margini della società (prostitute, omosessuali, ladruncoli, ubriaconi) sanno essere più
solidali e autentici di quelle “piccole femmine agghindate”, come lui le definisce, che egli
trova nelle feste della Genova bene. Perché anarchico individualista? Perché anziché
scegliere e cercare la gente con cui vivere certe idee, Fabrizio sceglie di viversele da solo,
cercando di farlo con una coerenza che passa anche attraverso le contraddizioni di un
essere umano. Essere anarchici è una categoria dello
spirito, della propria mente. Eccolo allora suonare per
il PCI, per gruppi dell’estrema sinistra e magari proprio
in quei concerti davanti a qualche “femmina
agghindata”, eccolo votare un caro amico nelle liste
DC perché onesto; oppure avere nel gruppo dei
musicisti con idee politiche molto diverse dalle sue. Un
libertario tollerante. Fabrizio dimostra di aver sempre
avuto, sin da giovane, pochissime idee, ma in
compenso fisse, soprattutto che c’è ben poco merito
nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Per Fabrizio bisogna aspettare che i valori si
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storicizzino, in quanto i valori di una generazione non vengono considerati giusti dalla
generazione precedente. Lo diverranno più tardi.
Curiosa è la causa per cui De André tifava il Genoa. La passione per i “grifoni”
nacque quando era ancora bambino e più precisamente quando, assieme al padre e al
fratello, era andato allo stadio a vedere l’incontro Genoa - Torino. La squadra torinese
aveva sconfitto il Genoa, e, forse per la sua predisposizione a prendere le difese dei più
deboli, Fabrizio decise da allora di tifare per i rossoblù.
Nel 1967 la rivista “Rossana” invia una giornalista a parlare con Fabrizio per un
articolo che verrà poi chiamato “La mosca bianca della piccola musica”: il cantautore
accoglie la giornalista ma inizialmente non vuole concederle l’intervista. Il motivo è
l’anonimato; Fabrizio è infatti convinto che finché rimane nell’anonimato può fare ciò che
vuole. In seguito ad una domanda sull’idea politica De André risponderà che non si
occupa di politica, ma che è la politica ad occuparsi di tutti noi; comunque secondo il suo
punto di vista la politica dovrebbe essere fatta da
tecnici.
Il cantautore vive il ’68 a contatto con gruppi
di estrema sinistra, partecipando al tentativo di
rinnovamento: non li segue, però. Difatti, secondo
Fabrizio, un artista, indipendentemente dall’ideologia,
è un “coniglio” individualista. De André non avrebbe
mai fatto la lotta armata, ma condivideva quelli che
oggi vengono chiamati gli eccessi sessantottini, anche
perché li aveva quasi promossi attraverso le sue
canzoni. Condivideva la rivolta contro un certo modo
di gestire la società. Il ’68, per lui, è stata una rivolta
spontanea, ma è un bene che non sia andata a buon
fine, visto che il grosso problema di ogni rivoluzione è che, una volta preso il potere, i
rivoluzionari cessano di essere tali per diventare amministratori.
Una cosa è certa: Fabrizio De André ha avuto una vita intensissima, che gli ha dato,
in termini di esperienza, molti più anni di quelli anagrafici. Il prezzo pagato è stato alto, la
sua non è stata un’esistenza facile; ha sempre imboccato strade tortuose e anche il
destino non lo ha certo aiutato. Vista da fuori, sembra quasi la vita di un artista maledetto,
in realtà è la vita di un uomo che di maledetto non ha nulla. Sul suo sequestro Fabrizio ha
dovuto concedere parecchie interviste. In una di queste afferma che nel caso del
sequestro di persona non bisogna non giustificare i rapitori, altrimenti si esce mal ridotti
dall’esperienza. Bisogna invece vedere il rapimento come una punizione ai propri peccati,
in modo da diventare un espiazione psicologica. Dopo lo spiacevole avvenimento, il
cantastorie genovese ne uscirà più concreto e adulto. In lui c’è la trasgressione, la voglia
di non fare cose ovvie, cose scontate, ed avere come punto di riferimento la sua cultura e
la
sua
intelligenza.
In
occasione
della
presentazione alla stampa De André viene
interpellato a proposito della Lega, il fenomeno
politico di allora (è il 1992). Le sue risposte, con
molta superficialità e provincialismo, verranno
interpretate da alcuni giornalisti come un’adesione
al movimento di Bossi. Fabrizio precisò di aver
simpatizzato per qualcosa che somigliava molto
alla Lega, ovvero il Partito Sardo d’Azione, e che la
Lega era un movimento centrista. La risposta di De
André sarà: «Io sono talmente favorevole al
decentramento che darei autonomie speciali persino ad un condominio!».
7
ƒ
Volume 1
Anno di pubblicazione
1967
Casa discografica
Bluebell
Produzione
Reverberi - Malcotti
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
PREGHIERA IN GENNAIO
MARCIA NUZIALE
SPIRITUAL
SI CHIAMAVA GESÙ
BARBARA
VIA DEL CAMPO
CARO AMORE
LA STAGIONE DEL TUO AMORE
BOCCA DI ROSA
LA MORTE
CARLO MARTELLO (ritorna dalla battaglia di Poitiers)
Il discografico Antonio Casetta permise a Fabrizio di scegliere gli uomini con cui
lavorare. Anziché Federico Monti Arduini, all’epoca preposto a curare le produzioni
Bluebell Records, De André impose Giampiero Reverberi, con il quale si era trovato bene
artisticamente ed umanamente. Nel primo disco, che verrà intitolato “Volume 1”, prendono
parte due canzoni tratte dal repertorio di Brassens: “Marcia nuziale” e “La morte”, insieme
ad una nuova versione di “Carlo Martello”. Il resto del materiale è inedito, e tutto di
altissimo livello. Due, in particolare, i brani che faranno presa sul pubblico: “Via del
Campo” e “Bocca di rosa”, nelle quali Fabrizio racconta storie e situazioni vissute e
ascoltate nei carruggi genovesi. Impressiona la facilità descrittiva, la capacità di affrontare
temi per quell’epoca assai delicati; “Bocca di rosa” punta sul divertito ribaltamento della
morale comune mettendo in scena l’Italia sessuofoba, la provincia ipocrita ridicolizzata dal
trionfo dell’”amor profano”, “Via del Campo” è segnata da una profonda pietas per quei
personaggi drop-out ai quali De André rimarrà sempre legato. Il contenuto delle canzoni
appaga certa morbosità, contribuisce certamente al successo di De André.
In “Volume 1” sono presenti due composizioni che, seppure all’epoca oscurate da
brani di maggior presa, si collocano fra le perle deandreiane. “Preghiera in gennaio” è
un’invocazione a Dio perché accolga in paradiso l’anima di un suicida; dedicata a Luigi
Tenco, venne scritta nelle due notti successive alla sua morte. L’altra, “Si chiamava Gesù”,
prende spunto, come si è detto, da una lezione dell’insegnate di religione del liceo, don
Piana, nella quale De André era rimasto particolarmente colpito dall’umanità della figura di
Cristo. Infine il “duello” fra “Caro amore” e “La stagione del tuo amore”, brani che si sono
contesi per anni il posto nell’album. Prima della pubblicazione del disco, Casetta ebbe la
grande intuizione di inserire i testi dei brani, cosa per quegli anni inusuale. Fu una mossa
importantissima, che permise a tanti ragazzi di ripetere sulle loro chitarre quelle nuove ed
insolite canzoni, dando l’avvio a una sorta di passaparola che contribuì non poco
all’affermazione di Fabrizio. I giornali parlavano con sempre maggiore insistenza del
nuovo fenomeno musicale, che suscitò l’interesse di due riviste cattoliche: “Il focolare” e
“Rimini studenti”, le quali diedero ampio risalto a “Si chiamava Gesù”, lodandone il testo.
8
- Il suicidio
La “Preghiera in gennaio” è stata scritta nelle due notti successive al suicidio di
Luigi Tenco, grande amico di Fabrizio. Tenco si tolse la vita nel 1967 per protestare contro
la non ammissione alla fase finale del festival di Sanremo del suo brano “Ciao, amore
ciao”, perché ritenuto inadatto ad una manifestazione classica come quella: lui, che
fortemente aveva preso parte alla contestazione del ’68. Quella di De André è
un’invocazione a Dio perché accetti nel suo regno l’anima di un suicida; le parole
colpiscono il cuore e la musica accompagna languidamente il testo. Fabrizio ha già
cantato una canzone sul suicidio: “La ballata del Michè”. Ho deciso di analizzare tre
differenti cause di suicidio attraverso le morti di Catone Uticense, grande politico romano
che si uccise per non cadere nella dittatura cesariana; Ian Palack, giovane studente ceco
che si diede fuoco in piazza per protestare contro l’ingresso dei carri armati sovietici nel
suo Stato; e Primo Levi, suicida per non essere riuscito ad accettare la tremenda
esperienza del lager nazista.
- Il suicidio dei classici (Marco Porcio Catone Uticense)
Pronipote di Catone Censore, fu tribuno militare in Macedonia e legato di Pompeo
per la guerra contro i pirati del 67, questore nel 64 e tribuno della plebe nel 62. Dopo aver
osteggiato le ambizioni di Pompeo al potere personale, vide in Cesare il vero pericolo per
le
istituzioni
repubblicane e, allo
scoppio della guerra
civile (49), si schierò
con
i
pompeiani,
ritenendoli i difensori
della legalità senatoria.
Quando Pompeo fu
sconfitto a Farsalo,
Catone, che l’aveva
seguito in Oriente, si
rifugiò in Africa dove i
pompeiani
ricostruirono
un
esercito, debellato poi
da Cesare a Tapso nel
46. Catone, che era
rimasto al comando
del presidio di Utica,
alla
notizia
della
disfatta, vista spenta
ogni speranza, non
volle cadere nelle mani
del vincitore e si diede
la morte.
Strenuamente
avverso ad ogni forma
di potere personale e
attaccato ai valori della
libertà repubblicana, la
scarsa duttilità politica
e il momento storico,
privarono di efficacia la
battaglia che improntò
la sua vita; in sostanza
fu il rappresentante di un conservatorismo chiuso non solo a qualsiasi compromesso con
le nuove forze che si andavano affermando, ma anche ad una comprensione della nuova
realtà. Fu molto presto idealizzato dagli ambienti repubblicani e anticesariani, soprattutto
in epoca neroniana, come simbolo dell’opposizione irriducibile alla tirannide.
Dante Alighieri pone nel “Purgatorio” Catone Uticense a guardiano del regno del
Purgatorio, come simbolo della difesa della libertà a costo della vita. Catone, nel dialogo
con Virgilio, è concepito come lo stoico, l’uomo del dovere per il dovere, il severo custode
che ammonisce le anime a non lasciarsi sedurre dai ricordi del mondo, ricordando loro che
duro è il cammino dell’espiazione. Il suicida Catone ha staccato col corpo ogni legame dal
mondo e, uscendo dal Limbo, ha accettato la legge divina che mette un netto distacco fra
gli eletti e i reprobi. La magnanimità di Catone, se fu rinuncia alla vita in quanto esempio di
libertà agli uomini, è anche umiltà, che è l’unico mezzo per salire alla grazia.
9
Vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli semigliante
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quettro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ l’ vedea come ‘l sol fosse davante.
«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss’el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna?,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d’abisso così rotte?
O è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».
«Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei, se d’esser
mentovato là giù degni».
«Marzia piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più mover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’uscì fora.»
- Il suicidio contro l’oppressione (Ian Palack)
Non c’è praghese che non ricordi Ian Palack con un misto di affetto e di strazio: in
fondo aveva poco più di vent’anni, quando una sera di fine agosto 1968, proprio in quel
giardinetto affollato dai suoi coetanei nell’ora di punta, si cosparse di benzina e poi si
diede fuoco, bruciando come un bonzo. Lo fece per protesta, per una protesta politica, e
ciò può sembrare sciocco o grande, dipende dal punto di vista e forse dalla generazione di
appartenenza. Non si può quindi affermare che sia stato un povero illuso o un santo
martire. La “primavera” di Praga era iniziata molto presto, in gennaio, quando il segretario
del Partito Comunista Cecoslovacco al potere, Novotny, un superstite dell’era staliniana, fu
sostituito da Dubcek, esponente della dissidenza interna e favorevole ad una progressiva
liberalizzazione del regime. Riassumeva il senso del suo revisionismo nella formula di un
socialismo dal “volto umano”, un tentativo di conciliare ciò che di buono vi è nella
tradizione marxista con il rispetto delle minime libertà individuali. Timorosi che questo
processo di liberalizzazione politica si estendesse agli altri Paesi del blocco sovietico, le
truppe dell’URSS e di quattro Stati del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia,
occuparono Praga, arrestarono Dubcek, misero al
suo posto un governo fantoccio filosovietico e
iniziarono la “normalizzazione”, ossia la caccia ai
cosiddetti “elementi” antisovietici, antisocialisti, o
meglio nazionalisti borghesi.
Tuttavia conta il fatto che né Palack, né
Dubcek erano “elementi” antisovietici o antisocialisti,
ma credevano grosso modo nelle stesse cose in cui
credevano i giovani carristi dell’Armata Rossa. Il che
trasforma l’invasione di Praga in una planetaria
guerra civile interna alla sinistra, con effetti devastanti
nella coscienza di chi allora ci credeva. E quei giovani
carristi erano palesemente imbarazzati, addirittura
spesso piangevano anche loro mentre spingevano il
carro armato in mezzo ad una folla immensa, pacifica e “popolare”. Piangevano tutti,
aggressori ed aggrediti, e la folla saliva fin sopra, fin dentro al carro armato per spiegare
che non era possibile, era un equivoco, perché avevano tutti gli stessi ideali. Difatti anche
Ian Palack era un comunista, lo era stato con orgoglio fino a pochi mesi prima e forse quel
suo gesto disperato era l’unico modo per rimanerlo senza vergogna.
- Il suicidio per un trauma vissuto (Primo Levi)
È difficile capire il perché del suicidio di Primo Levi: è
stato il peso della sua tremenda esperienza nel lager, con il
suo sforzo di non dimenticare, che ha, alla fine, distrutto la sua
voglia di vivere? Oppure è stato un raptus improvviso che lo ha
scaraventato giù in quella tromba delle scale? Oppure un
incidente? Non c’è risposta certa a questi interrogativi. Non è
possibile trovarla nei suoi scritti che non lasciano trasparire
nulla che possa spiegare quello che è capitato. Riguardo al
suicidio vi si trovano considerazioni di segno opposto. Primo
Levi se ne distanzia come da una soluzione disperata, da
comprendere, ma non da imitare, quando parla dei suicidi Jean
Amery ne “I sommersi e i salvati”, nonché di Trakl e Celan ne
“L’altrui mestiere”. Invece nel racconto “Verso occidente” che
narra dei lemming, roditori che si dirigono in massa a morire annegati nel mare, affronta il
dilemma del suicidio con coinvolgimento e partecipazione, tanto da far supporre che il
problema in qualche modo lo tormentasse.
Neppure aiutano le testimonianze delle persone che lo hanno conosciuto. Alcuni
amici molto vicini a lui affermano che negli ultimi tempi Primo Levi fosse terribilmente
depresso per cui il suicidio non li ha sorpresi. Altri invece pensano il contrario: lo scrittore
Ferdinando Camon, per esempio, riferisce di aver ricevuto il giorno dopo la morte di Primo
Levi una sua lettera ottimistica piena di progetti per il futuro. Rita Levi Montalcini, in
un’intervista, dice di non credere assolutamente al suicidio. Lo scrittore Mario Rigoni Stern
pensa invece che Primo Levi abbia sentito tutt’a un tratto l’imperioso richiamo “Wstawac”,
la sveglia del lager, che per anni, dopo la liberazione, ha perseguitato i suoi sonni.
Primo Levi ha voluto, in primo luogo, essere un testimone, una fonte di
informazione sui lager nazisti. Questo ha saputo farlo con efficacia e con una grande
carica di umanità, senza aggredire il lettore buttandogli in faccia l’orrore, ma riferendo i fatti
pacatamente con precisione e onestà, astenendosi dall’emettere condanne, ma deferendo
il giudizio a chi ascolta la sua testimonianza. In seguito però Primo Levi ha continuato ad
approfondire la riflessione su tutti gli aspetti che riguardano i lager e la società che li ha
prodotti, e di riflesso sul comportamento umano. Egli ha voluto capire, e far capire, perché
Auschwitz è stato possibile.
11
ƒ
Tutti morimmo a stento
Anno di pubblicazione
1968
Casa discografica
Bluebell
Produzione
De André
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
CANTICO DEI DROGATI
PRIMO INTERMEZZO
LEGGENDA DI NATALE
SECONDO INTERMEZZO
BALLATA DEGLI IMPICCATI
INVERNO
GIROTONDO
TERZO INTERMEZZO
RECITATIVO (2 invocazioni e 1 atto di accusa)
CORALE (leggenda del re infelice)
Insieme a Mannerini, Fabrizio stava lavorando ad alcuni testi da adattare alle sue
musiche. Colui che è stato il suo maestro di pensiero di lì a pochi anni se ne sarebbe
andato via appeso ad una corda. Si tratta del primo concept-album realizzato in Italia,
inciso con un’orchestra di ottanta elementi. Questa cantata in si minore per coro e
orchestra venne registrata negli studi Rca di via Tiburtina in un caldissimo agosto del
1968. Casetta, a cui piaceva rischiare, o meglio investire, negli artisti in cui credeva, cercò
di creare tutti i presupposti per realizzare una produzione che fosse all’altezza di quelle
angloamericane. I risultati furono eccellenti dal punto di vista artistico, seppur penalizzati
da problemi tecnici. L’album contiene alcune composizioni come “Cantico dei drogati”,
“Leggenda di Natale”, “Inverno” e “Ballata degli impiccati”, nelle quali è assai difficile
tracciare il confine fra poesia e canzone. Di assoluta eleganza il lavoro musicale del
maestro Reverberi, che darà un tono di continuità alle composizioni, sia in termini di
missaggio che di arrangiamento. In brani come “Cantico dei drogati”, scritto insieme a
Riccardo Mannerini, Fabrizio cercò una catarsi dalla schiavitù dell’alcol. Il disco fu
pubblicato nel mese di settembre e le note di copertina presero spunto da una bozza
scritta dal professor De André. Furono quelli giorni molto intensi, dedicati alla realizzazione
di nuovi dischi, ad un progetto con i New Trolls e alle registrazioni di altre canzoni che
Casetta volle preparare per sfruttare il successo de “La canzone di Marinella”.
“Tutti morimmo a stento” o “Volume 2” venne presentato a Roma alla libreria
Rinascita; nonostante la presenza della chitarra, Fabrizio preferì ricorrere al giradischi.
L’album in breve tempo arrivò al secondo posto in classifica. De André passò buona parte
della seconda metà del 1968 insieme a Giampiero Reverberi. Dovevano realizzare l’album
d’esordio per i New Trolls e per fine anno uscire con un LP che contenesse nuove versioni
delle canzoni più popolari di Fabrizio. Come se non bastasse, i due ai primi di aprile
incisero a Milano la colonna sonora del programma televisivo per ragazzi “I viaggi di
Gulliver”. Su testi di Umberto Simonetta ed Enrico Vaime, De André e Reverberi
composero le musiche, ispirate alle liriche dei trovatori provenzali. È in questo periodo che
Fabrizio si appassiona alla musica brasiliana, in particolare a João Gilberto e a Caetano
Veloso, del quale seguirà con partecipazione le vicende artistiche e politiche.
12
- L’angoscia
Il “Cantico dei drogati”, scritto a quattro mani col poeta anarchico Riccardo
Mannerini, è il ritratto dello stato d’angoscia, di disperazione e di infelicità in cui il drogato
si trova nel rapportarsi al mondo e a Dio, a Cui chiede invano che la morte lo colpisca
presto per liberarlo dalle sofferenze. Egli maledice la sua vita e le sue azioni chiedendosi
come potrà venir giustificato da sua madre, anche lei disperata per la condizione del figlio.
Per analizzare questo sentimento, che è comunque parte dell’animo umano, ho cercato il
suo significato nel pensiero e nelle opere di tre grandi artisti: Giacomo Leopardi, cha nella
sua “teoria del piacere” ha seguito, molto realisticamente, un filo logico per arrivare a dire
che l’angoscia è un sentimento innato nell’uomo. Il secondo personaggio da me analizzato
è il filosofo danese Kierkegaard, il quale ha sostenuto il concetto dell’angoscia come stato
principale dell’essere nella vita di chi non crede; infine il pittore norvegese Edvard Munch,
che attraverso il suo capolavoro, “Il grido”, ha scovato il sentimento di malessere che una
visione, reale o presunta, può provocare su un uomo qualunque.
- L’angoscia come infelicità eterna (Giacomo Leopardi)
Tutta l’opera leopardiana si fonda su un sistema di idee
continuamente meditate e sviluppate, il cui processo, prima
dell’approdo ai testi compiuti, si può seguire attraverso le
migliaia di pagine dello “Zibaldone”. La ricostruzione almeno
sommaria di questo sistema nella sua evoluzione nel tempo è
quindi una premessa indispensabile alla lettura della poesia e
della prosa leopardiane.
Al centro della meditazione di Leopardi si pone subito un
motivo pessimistico, l’infelicità dell’uomo. Egli arriva a
individuare la causa prima di questa infelicità in alcune pagine
fondamentali dello “Zibaldone” del luglio 1820. Restando fedele
ad un indirizzo di pensiero settecentesco e sensistico, identifica
la felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l’uomo non
desidera “un” piacere, bensì “il“ piacere: aspira cioè a un piacere che sia infinito, per
estensione e per durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall’uomo
può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un
vuoto incolmabile dell’anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che
sempre gli sfugge nasce per Leopardi l’infelicità dell’uomo, il senso della nullità di tutte le
cose, E Leopardi si preoccupa di sottolineare che ciò va inteso non in senso religioso e
metafisico, come tensione verso un’infinità divina al di là delle cose contingenti, ma in
senso puramente materiale.
L’uomo è dunque, per Leopardi, necessariamente infelice, per la sua stessa
costituzione. Ma la natura, che in questa prima fase è concepita dal poeta come madre
benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature, ha voluto sin dalle origini
offrire un rimedio all’uomo: l’immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato agli
occhi della misera creatura le sue effettive condizioni. Per questo gli uomini primitivi e gli
antichi greci e romani, che erano più vicini alla natura, e quindi capaci di illudersi e di
immaginare, erano felici, perché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà,
opera della ragione, ha allontanato l’uomo da quella condizione privilegiata, ha messo
crudelmente sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso angosciato. La prima fase del pensiero
leopardiano è tutta costruita su questa antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni.
Gli antichi, nutriti di generose illusioni, erano capaci di azioni eroiche e magnanime; erano
anche più forti fisicamente, e questo favoriva la loro forza morale; la loro vita era più attiva
e intensa, e ciò contribuiva a far dimenticare il nulla ed il vuoto dell’esistenza. Perciò essi
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erano più grandi di noi sia nella vita civile, ricca di esempi eroici e di grandi virtù, sia nella
vita culturale. Il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le illusioni, ha spento
ogni slancio magnanimo, ha reso i moderni incapaci di eroiche azioni, ha generato viltà,
meschinità, calcolo gretto ed egoistico, corruzione dei costumi. La colpa dell’infelicità
presente è dunque attribuita all’uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla
natura benigna.
Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, la vede dominata
dall’inerzia e dal tedio; ciò vale soprattutto per l’Italia, miserevolmente decaduta dalla
grandezza del passato. Scaturisce di qui la tematica civile e patriottica che caratterizza le
prime canzoni leopardiane. E ne deriva anche un atteggiamento titanico: il poeta, come
unico depositario della virtù antica, si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha
condannato l’Italia a tanta abiezione, e sferza violentemente la sua “codarda” età. Questa
fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula del pessimismo “storico”:
nel senso che la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo
storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria
di felicità e pienezza vitale.
Questa concezione di una natura benigna entra però in crisi. Leopardi si rende
conto che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla conservazione della
specie, e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza.
Ne deduce che il male non è un semplice accidente, ma rientra nel piano stesso della
natura. Si rende conto inoltre del fatto che è la natura che ha messo nell’uomo quel
desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. In una fase intermedia,
Leopardi cerca di uscire da queste contraddizioni attribuendo la responsabilità del male al
“fato”; propone quindi una concezione dualistica, natura benigna contro fato maligno. Ma
ben presto arriva alla soluzione delle contraddizioni rovesciando la sua concezione della
natura. Questo punto d’approdo, nella sua opera, emerge all’improvviso, chiarissimo, nel
“Dialogo della Natura e di un islandese”, del maggio 1824; ma questo sbocco è in realtà
preceduto da un lungo travaglio, testimoniato dallo “Zibaldone”. Il poeta di Recanati
concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo
cieco, indifferente alla sorte delle sue creature; meccanismo anche crudele, in cui la
sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale, perché gli individui devono
perire per consentire la conservazione del mondo. È una concezione non più finalistica ma
meccanicistica e materialistica. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso, ma solo
della natura. L’uomo non è che vittima innocente della sua crudeltà.
Se filosoficamente Leopardi rappresenta la natura come meccanismo
inconsapevole, somma di leggi oggettive non regolate da una mente provvidenziale,
miticamente e poeticamente ama però rappresentarla come una sorta di divinità malvagia,
che opera deliberatamente per far soffrire e distruggere le sue creature. Viene così
superato il dualismo natura-fato: alla natura vengono attribuite le caratteristiche che prima
erano del fato, la malvagità crudele e persecutoria. Coerentemente con l’approdo
materialistico, muta anche il senso dell’infelicità umana: prima, in termini sensistici, era
concepita come assenza di piacere, in una dimensione psicologica ed esistenziale; ora
l’infelicità, materialisticamente, è dovuta soprattutto ai mali “esterni”, a cui nessuno può
sfuggire: malattie, elementi atmosferici, cataclismi, vecchiaia, morte.
Se causa dell’infelicità è la natura stessa, nel suo cieco meccanismo immutabile,
tutti gli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, in ogni tipo di
società, sono necessariamente infelici; anche gli antichi, pur essendo capaci di illudersi,
erano vittime di quei terribili mali. Al pessimismo “storico” subentra così un pessimismo
“cosmico”: nel senso che l’infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa
dell’uomo, ma ad una condizione assoluta, diviene un dato eterno e immutabile di natura,
vane sono la protesta e la lotta e non resta che la contemplazione lucida e disperata della
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verità. Subentra infatti in Leopardi un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e
rassegnato, suo ideale non è più l’eroe antico, teso a generose imprese, ma il saggio
antico, soprattutto quello stoico, la cui caratteristica è l’”atarassia”, il distacco
imperturbabile dalla vita.
Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza
nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più
materiale che spirituale. […] La malinconia, il sentimentale moderno ec., perciò appunto sono così dolci,
perché immergono l’anima in un abisso di pensieri indeterminati, de’ quali non sa vedere il fondo né i
contorni.
- L’angoscia di chi non crede (Sören Aabye Kierkegaard)
Al problema dell’angoscia come modo di essere della
esistenza del Singolo, il filosofo danese Kierkegaard dedica “Il
concetto dell’angoscia”, che è del 1844. «L’angoscia è la
possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la
fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge
tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni». L’angoscia
forma “il discepolo della possibilità” e prepara il “cavaliere della
fede”. Sempre nel 1844 Kierkegaard pubblica l’importante
volume “Briciole filosofiche”, in cui l’autore esamina l’idea di
maieutica religiosa ed analizza il significato della categoria del
possibile. Ma, intanto, l’anno avanti, nel 1843, egli aveva dato
alle stampe “La ripetizione” dove, all’ideale estetico della vita,
viene contrapposta la riconquista di sé, vale a dire dell’esistenza autentica attraverso la
fede. Anche gli “Studi nel cammino della vita” (1845) esaminano lo stesso tema. E ne “La
malattia mortale” (1849) Kierkegaard, sfruttando i risultati delle opere precedenti,
contrappone alla disperazione, che è la vera “malattia mortale”, la salvezza della fede; e
sostiene che fuori della fede non c’è che disperazione.
La caratteristica dell’uomo in quanto spirito è quella per cui il Singolo, diversamente
che nelle specie animali, è superiore alla specie. L’animale ha un’”essenza”, ed è quindi
determinato, giacché l’essenza è il regno del necessario, di cui la scienza ricerca le leggi.
L’esistenza, in breve, è il regno della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, è quello
che diventa. Questo vuol dire che il modo di essere dell’esistenza non è la realtà o la
necessita, bensì la “possibilità”. Ma, scrive Kierkegaard ne “Il concetto dell’angoscia”: «La
possibilità è la più pesante delle categorie». Infatti, nella “possibilità” tutto è egualmente
possibile, e chi fu realmente educato mediante la “possibilità”, ha compreso anche il suo
lato terribile e sa che egli dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che questo
lato terribile (la perdizione, l’annientamento) vive al fianco dell’uomo.
L’esistenza è libertà, poter-essere, cioè possibilità: possibilità di non scegliere, di
restare nella paralisi, di scegliere e di perdersi; possiblità come “minaccia del nulla”. La
realtà è che l’esistenza è possibilità e quindi “angoscia”. L’angoscia è il puro sentimento
del possibile; è il senso di quel che può accadere e che può essere molto più terribile della
realtà. Perché, se uno esce dalla scuola della possibilità e se ha tratto vantaggi
dall’esperienza dell’angoscia, allora darà alla realtà una nuova spiegazione; esalterà la
realtà, e anche quando essa pesa grave sopra di lui, si ricorderà che essa è molto più
“leggera” di quanto non fosse la possiblità.
Il possibile, afferma Kierkegaard, corrisponde perfettamente al futuro. Il possibile è,
per la libertà, il futuro, e il futuro, per il tempo, è il possibile. Per questo, angoscia e futuro
sono congiunti. L’angoscia caratterizza la condizione umana: chi vive nel peccato è
angosciato dalla possibilità del pentimento; chi vive, essendosi liberato dal peccato, vive
nell’angoscia di ricadervi. Ma l’importante è capire che l’angoscia “forma”: essa, infatti,
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distrugge tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni. È in questo modo che Dio, che
vuole essere amato, discende con l’aiuto dell’inquietudine, a caccia dell’uomo.
E se l’angoscia è tipica dell’uomo nel suo rapportarsi al mondo, la “disperazione” è
propria dell’uomo nel suo rapporto con se stesso. La disperazione è, per Kierkegaard, la
colpa dell’uomo che non sa accettare se stesso nella sua profondità. E la disperazione è la
“malattia mortale”: un eterno morire senza tuttavia morire, un’impotente autodistruzione.
Dal punto di vista cristiano, neanche la morte è “malattia mortale”, e tanto meno lo è
qualsiasi sofferenza terrestre e temporale come la povertà, la malattia, la miseria, la
tribolazione, le avversità, i tormenti, le pene spirituali, il lutto o l’affanno. La morte può
essere la fine di una malattia, ma, nel senso cristiano, la morte non è la fine: il disperato è
quindi un “malato a morte”. La disperazione è il vivere la morte dell’io. E ogni uomo è
disperato e forse più di ogni altro lo è colui che non sente in sé nessuna disperazione. Ma,
precisa il filosofo, ogni uomo è disperato eccetto quando guardandosi dentro, e volendo
essere se stesso, l’io si “immerge”, attraverso la propria trasparenza, nella potenza che
l’ha posto.
La scaturigine della disperazione sta nel non volersi accettare dalle mani di Dio, è
allora chiaro che l’esistenza autentica è quella disponibile all’amore di Dio, quella di colui
che non crede più a se stesso ma soltanto a Dio. E questa fede in Dio, questo
testimoniare la verità dalla parte del Signore, porta il cristiano ad entrare in diretto conflitto
con questo mondo, e simultaneamente gli fa capire che, dal punto di vista cristiano, lo
scopo della vita terrena è di essere portati al più alto grado di noia della vita. E quando si è
giunti a questo punto, allora si sostiene in modo cristiano la “prova” della vita e si è maturi
per l’eternità.
Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in
cui la fine sarebbe la morte e la morte sarebbe la fine. E questa è precisamente la disperazione.
- L’angoscia di una visione (Edvard Munch)
Per mettere a fuoco il senso della più famosa opera di Munch, “Il grido”, nessuna
descrizione è più efficace delle parole dello stesso pittore: «Una sera passeggiavo per un
sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e
guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue.
Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro,
dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando». Munch come tutti gli
espressionisti sente così profondamente la sofferenza umana, la miseria, la violenza e la
passione, da considerare poco onesta l’insistenza sull’armonia e la bellezza nell’arte.
Affronta la cruda realtà dell’esistenza esprimendo compassione per i diseredati,
trasformando l’opera in denuncia, scandalizzando e scuotendo l’atteggiamento
benpensante e borghese.
Nulla di esterno suggerisce l’angoscia che induce il personaggio, probabilmente
una donna, ad urlare. Il suo sguardo atterrito non è diretto all’eventuale osservatore, non
ne invoca l’aiuto. Le mani premute alle orecchie per non sentire nulla, nemmeno il
possibile conforto dei passi della coppia alle spalle, che del resto cammina in direzione
opposta; a raggiungere quest’ultima è invece lo steccato, ma con una fuga talmente
vertiginosa da non lasciare alcuno spazio all’idea di un suo, per quanto tardivo, ritorno. La
vita, se per vita si intende la quiete, è irrimediabilmente lontana e perduta, nei profili
azzurrati delle barche e nella sagoma tenue del campanile, miraggio di un senso del
vivere di cui si è smarrita finanche la memoria. In questo intenso capolavoro l’esperienza
emotiva si dilata in malessere universale e tutto concorre a manifestare questo dramma: il
paesaggio del fiordo, il taglio diagonale e ascendente del ponte, la ringhiera che anziché
difendere imprigiona, il tramonto insanguinato come un gorgo che risucchia il mondo, e
16
infine la figura, strana creatura col volto da teschio, che grida e corre incontro allo
spettatore.
Come le onde sonore, le pennellate accese si propagano all’intorno della donna
ma, a differenza di queste, conformi soltanto all’imprevedibilità di un impulso emotivo
talmente violento da mutarsi, per tragico paradosso, nel suo esatto contrario; la lacerante
assenza di emozioni. È questo che forse colpisce e deturpa la figura e che ci spinge a
ricordare che essa era, e non è più, una persona. Il prevalere delle tinte scure e del grigiobruno nella parte bassa del dipinto lo confermano, così come la scarna e deformata
sagoma del volto della donna, assai più simile ad un teschio che al viso di una persona
viva. Nella litografia de “L’urlo”, eseguita dall’artista due anni dopo il dipinto (1895),
l’aggressività del segno risulterà ancor più accentuata e risolverà in pura tensione
disegnativa quel disarmonico rapporto con la realtà naturalistica dei colori: l’acqua azzurra,
la terra bruna, la vegetazione verde e il sole rosso. Pur intimamente legato al simbolismo,
come dimostrano la ricerca di un’analogia tra suono e colore e la sostanziale fluidità del
segno, Munch seppe tuttavia imprimere alla propria arte un’inedita intensità emotiva, cui
guarderanno come un modello i “fauves” e soprattutto gli espressionisti tedeschi, uniti al
maestro norvegese da un’altrettanto tragica visione del vivere.
Edvard Munch, Il grido, 1893
olio, tempera e pastello su cartone, 91x73,5 cm
Oslo, Nasjonalgalleriet
17
ƒ
Volume 3
Anno di pubblicazione
1968
Casa discografica
Bluebell
Produzione
De André - Reverberi
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
LA CANZONE DI MARINELLA
IL GORILLA
LA BALLATA DELL’EROE
S’I’ FOSSE FOCO
AMORE CHE VIENI AMORE CHE VAI
LA GUERRA DI PIERO
IL TESTAMENTO
NELL’ACQUA DELLA CHIARA FONTANA
LA BALLATA DEL MICHÈ
IL RE FA RULLARE I TAMBURI
Questa uscita, avvenuta nel mese di dicembre, si rivelò strategicamente
azzeccatissima; grazie alle nuove versioni de “La canzone di Marinella”, “Amore che vieni
amore che vai”, “La guerra di Piero”, Casetta mise sul mercato un album ad altissimo
potenziale di vendite. Fabrizio propose inoltre la traduzione di uno dei classici di Brassens,
“Il gorilla”, destinato a diventare uno dei pezzi forti del suo repertorio. Accanto ad essi, tre
perle: “S’i’ fosse foco”, tratta da un sonetto di Cecco Angiolieri, “Nell’acqua della chiara
fontana”, altra traduzione brassensiana, e “Il re fa rullare i tamburi”, canzone popolare
francese del XIV secolo. Il successo è strepitoso; con “Tutti morimmo a stento” ancora al
diciannovesimo posto, “Volume 3” raggiunge i vertici, ed entrambi rimangono in classifica
per circa due anni. Tra il ’68 ed il ’69, oltre che con “Senza orario senza bandiera” dei New
Trolls, Fabrizio De André è sul mercato con due nuovi album, cinque 45 giri e un’ulteriore
edizione su 33 giri del materiale Karim (la precedente etichetta). Casetta era riuscito a
lavorare bene su De André, grazie anche a brillanti collaboratori come Rosanna Mani, sua
addetta stampa per i primi dischi e poi futura codirettrice di “Sorrisi e canzoni TV”. L’idea di
inserire i testi, alcune coincidenze fortunate, le cause penali e la censura avevano
contribuito a formare il culto di Fabrizio. La sua assenza dalle scene favorì la curiosità dei
fan, desiderosi di sapere qualcosa di più sul suo conto, aumentando così l’interesse della
stampa nei suoi confronti.
Per consentire al nuovo lp la migliore penetrazione sui mercati, Toni Casetta decide
di far uscire, a breve distanza l’uno dall’altro, tre singoli. Il primo, che precederà l’album,
sarà “Carlo Martello”, abbinato a “Il testamento”. A esso seguirà l’attesissimo e
vendutissimo “La canzone di Marinella” / ”Amore che vieni amore che vai”, unitamente ad
un altro dei più venduti 45 giri deandreiani contenente “La ballata del Michè” / “La guerra di
Piero”. Questi singoli, a conferma del successo di “Volume 3”, avranno un fortunatissimo
seguito con “Il gorilla” / “Nell’acqua della chiara fontana”, pubblicato nel 1969 oltre a
“Leggenda di Natale” / “Inverno”, tratto da “Tutti morimmo a stento”. “La ballata del Michè”,
prima vera canzone di Fabrizio, narra del suicidio di un uomo recluso perché omicida per
amore: De André riesce però meravigliosamente a dimostrare come il Michè fosse un
individuo “quasi innocente” perché innamorato.
18
- Il pacifismo
Canzone tuttora simbolo dei movimenti pacifisti italiani, “La guerra di Piero” venne
incisa a Roma tra il 18 e il 25 luglio 1964 agli studi Dirmaphon. Questo brano è entrato
quattro anni dopo nei repertori dei militanti di sinistra e dei cattolici, egualmente impegnati
a ridefinire il proprio ruolo nel sociale. La storia, emblematica, è quella di un giovane
soldato che viene ucciso da un suo coetaneo, anch’egli militare, solo perché “aveva la
divisa di un altro colore”; realismo, crudezza, ma soprattutto denuncia è ciò che
caratterizza una delle canzoni più belle e significative della nostra cultura musicale. Oltre a
questo brano, Fabrizio ha composto, per sottolineare la stupidità e la pazzia che
caratterizzano le guerre, “Girotondo”, “Andrea” e “La ballata dell’eroe”. Mai come oggi il
movimento pacifista si sta facendo strada: dopo aver vissuto anni di dure lotte contro
molte guerre, il numero di pacifisti nel mondo sta esponenzialmente crescendo, forse
perché i popoli sono sempre più convinti dell’inutilità della guerra come metodo di
risoluzione per le incomprensioni internazionali. Ho deciso quindi di portare a
testimonianza del sentimento di pace le idee di tre grandi personaggi: Kant, che nel suo
trattato “Per la pace perpetua” ha teoricamente costruito le basi del pacifismo moderno,
Ungaretti e la sua “Non gridate più”, disperata richiesta di cessazione della guerra per
rispettare la pace dei morti; infine il grande poeta romano Trilussa, che nei suoi arditi e un
po’ cinici versi ha spesso evidenziato la fratellanza innata degli uomini e il tragitto che la
pace deve compiere attraverso la guerra (fatta dai potenti) per attuarsi.
- La pace perpetua (Karl Immanuel Kant)
Per quanto riguarda il concetto della storia, Kant
condivide il punto di vista illuministico sulla civiltà come sforzo
verso una società umana universale o cosmopolitica, di cui
detta le condizioni nel breve ma importante scritto “Per la pace
perpetua”. In quest’opera Kant riconosce il suo pensiero retto
su alcuni punti fondamentali. Gli Stati nei loro rapporti esterni
vivono in uno stato giuridico provvisorio; lo Stato di natura è
uno Stato di guerra e perciò uno Stato ingiusto; essendo
questo Stato ingiusto, gli Stati hanno il dovere di uscirne e di
fondare una federazione di Stati secondo l’idea di un contratto
sociale originario, vale a dire un’unione dei popoli per mezzo
della quale essi si obbligano a non immischiarsi nelle discordie
intestine gli uni degli altri ma a proteggersi però contro gli
assalti di un nemico esterno. Questa federazione non istituisce un potere sovrano ma
assume la figura di un’associazione in cui i singoli componenti rimangono su un piano di
collaborazione tra uguali.
La costituzione di ogni Stato, per Kant, deve essere repubblicana. La repubblica
non è soltanto la miglior forma di governo per quel che riguarda i rapporti fra lo Stato e il
cittadino, ma anche per quel che riguarda i rapporti tra gli Stati. Essa garantisce, meglio di
ogni altra forma, la libertà e la pace: è dunque la principale condizione di quella
coesistenza pacifica nella libertà che costituisce l’ideale morale della specie umana. Inoltre
il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati. Non basta che
gli Stati diventino repubblicani: la repubblica è una condizione necessaria ma non
sufficiente per la pace perpetua. È necessario quindi che le repubbliche così costituite
diano vita ad una federazione, cioè si obblighino ad entrare in una costituzione analoga
alla costituzione civile nella quale si possa garantire a ogni membro il proprio diritto.
Questa federazione si deve distinguere da un lato da un super-Stato ma dall’altro si deve
distinguere da un puro e semplice trattato di pace, perché quest’ultimo si propone di porre
19
termine a una guerra, mentre quella si propone di porre termine a tutte le guerre e per
sempre.
Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di una universale
ospitalità. Mentre il diritto internazionale regola il rapporto tra gli Stati e il diritto interno
regola i rapporti fra lo Stato e i suoi cittadini, il diritto cosmopolitico regola i rapporti tra uno
Stato e i cittadini degli altri Stati. La massima fondamentale del diritto cosmopolitico è che
uno straniero che si reca nel territorio di un altro Stato non deve essere trattato ostilmente
sino a che non abbia commesso atti ostili allo Stato ospitante. Kant giustifica questa
massima col diritto spettante a tutti gli uomini di entrare in società coi loro simili in virtù del
possesso comune originario di tutta la superficie terrestre. Ma in quest’ultimo articolo del
suo progetto di pace perpetua Kant stabilisce un limite a questo diritto di ospitalità o
perlomeno vuol definire l’ambito entro cui esso possa esercitarsi, dicendo che non può
estendersi oltre le condizioni di una universale ospitalità: vuol dire che colui che è ospite di
uno Stato straniero non può approfittare di questa sua posizione per disgregare lo Stato o
per minacciarne l’esistenza. Questa clausola è chiaramente diretta contro l’ingerenza dei
cittadini degli Stati colonizzatori nei Paesi indigeni; per il filosofo russo è quindi implicito
che il diritto cosmopolitico contenga il rifiuto di ogni forma di razzismo e schiavismo. Il
dovere dell’ospitalità si lega alla necessità di favorire la reciproca conoscenza e
cooperazione, quindi di pacifici rapporti tra i popoli.
Lo Stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno status naturalis. Questo è piuttosto uno
Stato di guerra, nel senso che, se anche non vi sono ostilità dichiarate, è però continua la minaccia che esse
abbiano a prodursi. Dunque lo Stato di pace dev’essere istituito.
- La pace nel rispetto dei morti (Giuseppe Ungaretti)
Quel clima di morte, di guerra e di dolore, presente in
“Non gridate più” di Giuseppe Ungaretti, viene evidenziato
dall’uso dell’imperativo (con accenti di preghiera) rivolto alla
collettività per invitare al rispetto dei morti, all’ascolto della loro
voce e de loro messaggio. Il dolore segna l’apertura del poeta
al senso della storia e del tempo, nonché al recupero della
metrica tradizionale. Sono oramai lontani i tempi della
sperimentazione, della ricerca della parola “pura” volta a
svelare e illuminare la verità che si cela oltre l’apparenza e il
mondo sensibile. Le sofferenze individuali, l’accostamento ai
classici, la riflessione sulla fede religiosa, l’esperienza terribile
del secondo conflitto mondiale (il poeta aveva già combattuto la
Grande Guerra), spingono alla solidarietà, alla pietà, all’impegno civile per fermare le
barbarie. Di grande forza espressiva l’adynaton del primo verso, così come la
contrapposizione tra le urla e il fragore provocato dai vivi e il sussurro impercettibile dei
defunti. Ma proprio in quel sussurro è risposta la speranza dell’umanità, la lezione di vita,
l’insegnamento volto ad evitare il reiterarsi dell’orrore e della distruzione.
I valori di civiltà eternati dalla poesia sono ancora una volta affidati alle tombe,
come già insegnava Foscolo ne “I sepolcri”. Il rispetto per i defunti, la capacità di coglierne
il messaggio dando ascolto alle voci interiori, la dolente consapevolezza che perfino la
natura evita il novello Attila, costituiscono i nuclei concettuali della lirica. È piuttosto
interessante notare come l’elemento caratteristico della guerra posto in risalto da
Ungaretti sia il rumore (le urla). L’effetto immediato della cessazione del conflitto, dopo il
fragore delle armi, dei proclami, dei pianti, è il silenzio, eco di morte e distruzione, ma
anche invito alla riflessione, alla pietà, alla ricerca di messaggi altrimenti impercettibili.
Lasciare i defunti nella loro pace, nelle case diventate tombe, significa attribuire loro un
ruolo simbolico, di “monumentum”, che predispone all’attesa e all’ascolto di un messaggio.
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L’indifferenza alle voci sussurrate è una reiterazione dell’uccisione, dello strazio, perché
rende il sacrificio inutile.
Ungaretti sperimenta, nel dopoguerra, la ricerca di nuove forme espressive: dallo
stile ermetico, individualistico, rarefatto delle prime raccolte, si assiste alla graduale
conquista di nuove soluzioni espressive, più accessibili e comunicative, aperte verso l’altro
e verso la storia. La considerazione del dolore che non è più solo intimo e personale
(Ungaretti subisce, tra l’altro, la perdita di un figlio amatissimo), ma coinvolge tutti gli
uomini nella catastrofe immane del conflitto mondiale, conferisce al dettato poetico del
poeta una decisa connotazione etica, civile, umanitaria e socialmente impegnata.
Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.
- La pace dopo la guerra (Trilussa)
Trilussa dava voce al sentimento e alla mentalità piccoloborghese perché tale era egli stesso; la sua satira non risparmiava
nessuno perché era lui per primo a non risparmiarsi. Mascherate le
proprie emozioni, nascondere una lacrima tra le risate, togliere il velo ai
buoni sentimenti e alle ideologie di tutti i coloro, rivoltare i buoni
propositi per scoprire che la fratellanza fa sempre rima con “panza”:
questo faceva Trilussa con i suoi versi e le sue favole. Aristocratici,
intellettuali, politici, preti, gente del popolo: ce n’era per tutti. Durante
una campagna elettorale, i socialdemocratici affissero sui muri di Roma
i versi de “La cornacchia libberale”, sonetto che metteva a nudo le
contraddizioni dell’idea liberale; detto fatto, un’ora dopo i liberali
rispondevano con un’altra affissione, quella de “Er compagno
scompagno”, favola sul socialismo. Il mondo di Trilussa (o Carlo
Alberto Salustri) è un mondaccio, la gente è “gentaglia e gentarella”: gli uomini sono
ipocriti come quel bottegaio che un momento prima era decisissimo a chiamare la polizia e
un momento dopo è tutto inchini e sorrisi per il cliente che gli ha saldato il debito; hanno la
memoria corta come quell’innamorato che dopo qualche tempo risponde, a chi gli
domanda della donna del cuore, di non ricordarsi più chi fosse.
Chi, dopo il Belli, ha saputo come Trilussa adattar così spesso entro la ferrea
cornice del sonetto quadri tutti essenziali, senza superfluità e né ritagli né sforature, con
quei versi precisi e cadenzati nei quali la frase combacia nativamente e logicamente con la
misura dell’endecasillabo? Dissacrare, smontare, smascherare. Trilussa prende spunto
dalle favole di La Fontaine per rovesciarne il finale riportandolo alla sua ben nota morale.
Dopo aver riveduto e corretto le favole della tradizione Trilussa si slanciò nell’invenzione
originale con una vera parata di fuochi d’artificio: polli, oche, somari e cavalli, piccioni e
aquile, sorci e gatti, leoni, pecore e maiali, tutti intenti a disquisire, a sentenziare, a litigare
nel comune segno del tornaconto, della “panza”. Tutti portatori di una filosofia che
potremmo chiamare della “Maria Tegami”, il fortunato personaggio scaturito
dall’inesauribile fantasia trilussiana che, sulle colonne del Travaso, commentava fatti della
cronaca e della politica con velleità letterarie inversamente proporzionali alla mancanza di
cultura; tale fu il successo degli articoli che l’editore li raccolse in un volumetto, da regalare
ai lettori, che si apriva con un’autobiografia dell’autrice.
21
Per la sua attenzione verso la cronaca, il suo “cavalcare” la cronaca, sembrarono
creare un contrasto piuttosto vistoso con la quasi totale assenza di poesie ispirate ai fatti
della Prima e, più tardi, della Seconda Guerra Mondiale. Ciò che, del resto, gli fu
rimproverato da molti critici. In realtà c’è “Il Natale della guerra” o la “Ninna nanna de la
guerra”, a riprova del cordone ombelicale che lega Trilussa ai romani. Leggere ora quelle
poesie vuol dire provare un brivido di commozione; vien da pensare, oggi, che
l’atteggiamento di Trilussa di fronte allo strazio dei bombardamenti e dei massacri non
fosse dettato da facile scetticismo piccolo-borghese, da un generico ed epidermico orrore
del macello, ma da una disperazione più larga e da una compassione eterna per il piccolo,
meschino essere che è l’uomo. Da una malinconia, da un’infinita tristezza per la giustizia e
la verità che non ci sono e non ci saranno mai senza che gli uomini cessino ugualmente di
immaginarle, di sognarle, di sentirsi pronti per dare loro consistenza in terra. La “Ninna
nanna de la guerra” è quindi la metafora perfetta di quell’idea di pace che deve, per forza
di cose, passare attraverso la guerra.
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna;
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili.
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Chè quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li padri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finché dura sto macello:
fa la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
per quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
22
ƒ
Nuvole barocche
Anno di pubblicazione
1969
Casa discografica
Roman
Produzione
De André
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
NUVOLE BAROCCHE
E FU LA NOTTE
VALZER PER UN AMORE
PER I TUOI LARGHI OCCHI
CANZONE DELL’AMORE PERDUTO
CARLO MARTELLO (ritorna dalla battaglia di Poitiers)
IL FANNULLONE
GEORDIE
DELITTO DI PAESE
“Nuvole barocche” è una sorta di raccolta del periodo in cui De André incideva per
la Karim, comprensiva di canzoni apparse nei primi singoli e non inserite nel primo album.
Infatti nell’album sono presenti le versioni originali arrangiate con pochi strumenti del
“Valzer per un amore”, rielaborazione del “Valzer campestre” (tratto dalla “Suite siciliana”)
di Gino Marinuzzi jr. e della “Canzone dell’amore perduto”. Inoltre sono presenti “Nuvole
barocche”, “E fu la notte” e “Per i tuoi larghi occhi” (tratta da una poesia di Elvio Monti),
tutte canzoni che risentono ancora dello stampo melodico di fine anni Cinquanta. “Il
fannullone” è invece un brano scritto a quattro mani con Paolo Villaggio: è la storia della
loro giovinezza, un’età dominata dalla sregolatezza, dall’ozio, dalla pazzia, dal sesso,
dall’alcool, dalle donne. C’è “Carlo Martello (ritorna dalla battaglia di Poitiers)”, ironica
descrizione di un rapporto sessuale del sovrano Carlo con una semplice paesana, la quale
si permette, a “prestazione” conclusa, di chiedere soldi al re: quest’ultimo non dice di no,
ma rimane deluso dall’illusione di aver fatto breccia nel cuore della donna.
“Delitto di paese” è l’amara storia di un povero anziano, il quale vuole ritrovare la
sua giovinezza attraverso una prostituta, tant’è che dopo “quattro baci e una carezza” il
vecchio signore confessa la sua impossibilità a pagare la donna. Questa va a chiamare il
protettore e insieme uccidono l’anziano; dopo ciò si accorgono realmente, mettendo a
soqquadro casa, che il defunto era davvero povero, e vengono colti dalla polizia che
chiedono perdono in lacrime sul corpo del povero vecchio. I due omicidi vengono
condannati a morte e impiccati in piazza: è a questo punto che entra in gioco l’occhio
critico di Fabrizio, il quale giustifica quasi i due, ammettendo la loro semplicità e
legittimando il loro perdono. Infine il brano, che pare più una filastrocca, “Geordie”, cantata
in duo con la cantante inglese Maureen Rix, è la storia di un ragazzo ventenne, che, per
aver rubato “sei cervi nel parco del re”, viene condannato a morte. La giovane sposa, alla
notizia della condanna, si reca a Londra per implorare il re di non uccidere Geordie, ma il
sovrano offre la possibilità di impiccare Geordie con una “corda d’oro”: offerta alquanto
non gradita dalla moglie. Ella, infatti, accetterà ironicamente e amaramente il destino del
giovane sposo rispondendo: «È un privilegio raro!». Insomma “Nuvole barocche” è un
album in cui sono presenti un po’ tutti le tematiche che in seguito costituiranno la
discografia di Fabrizio De André.
23
- Robert Burns
Lo “Geordie male” era il “maschio standard” di Newcastle, fannullone e dedito alla
birra; fu rappresentato da Reg Smyhthe nella figura di Andy Capp. Potrebbe quindi
trattarsi della vicenda di George Gordon (da qui “Geordie”), quarto o sesto conte di Huntly,
che, ribellatosi contro il re di Scozia Giacomo VI nel 1589, fu imprigionato e condannato a
morte come traditore, ma in seguito liberato per intercessione della sua famiglia. Dalla
ballata appare che i Gordon erano pronti a liberare il loro congiunto con la forza, ma è più
probabile che Giacomo VI avesse voluto evitare, con il suo gesto di clemenza, l’inimicizia
di una potentissima famiglia che era stata storicamente sempre dalla parte della corona di
Sant’Andrea. Certo è che Geordie doveva godere di grande popolarità, se la somma
veramente enorme imposta alla moglie per il suo rilascio fu raccolta senza alcuna
difficoltà. Il testo fa parte di quelli forniti da Robert Burns per lo “Scottish Musical Museum”
di James Johnson; è verosimile che, come nel caso di “Tam Lin”, il grande poeta scozzese
vi abbia messo le mani. “Geordie” ha avuto grande diffusione nell’intera Gran Bretagna e
ha dato luogo a numerosissime varianti. Quelle inglesi, però, pur mantenendo un’affinità di
fondo con la vicenda originale (il nucleo fisso rimane sempre la giovane sposa che si reca
a corte per salvare l’amato), fanno di Geordie un bracconiere ed eliminano l’”happy end”.
Nell’Inghilterra tradizionale il bracconaggio era punito in modo veramente draconiano. In
particolare, la caccia di frodo nelle tenute e nelle riserve reali era punita in modo ancor più
severo, spesso con la pubblica impiccagione; a queste rigidissime leggi non sfuggivano
neanche i nobili.
- Life and career
Robert Burns, often described as the “peasant poet”, was
born in a clay cottage (1759) at Alloway, in Ayrshire, Scotland. The
eldest of seven children of a poor farmer, he was soon obliged to
work as a labourer on his father’s farm, leading a life which he
himself described as the “cheerless gloom of a hermit, and the
unceasing toil of a galley slave”. His education, however, was not
neglected. He was not an unlettered peasant, as he has sometimes
been portrayed. Since his childhood he had been very fond of
reading, often carrying books into the fields to read them in his rare
leisure moments. Although he did not have a regular schooling, he
was able to pick up a fairly good knowledge of the classics and the
main 18th century English poets. It was from his illiterate other and
his country fellows, however, that he learnt Scottish folk literature, language and music.
He began writing very early, but his real awakening as a poet took place in 1784-85,
when he discovered the collections of vernacular Scottish poetry by Allan Ramsay and the
works of Robert Fergusson, with their vivid, racy descriptions of the life and amusements
among the Edinburgh poor. For the first time, Burns realized the potential wealth of his
native dialect as a literary language; following his two original models, he began writing
about the world and the life around him. He quite often though up his poems while working
at his plough. Then, at night, he would sit down in his garret and write them down.
In 1786, oppressed by economic and sentimental troubles (throughout his life he
had a weakness for women and drink), and impelled by his reckless, rebellious nature, he
planned to emigrate to Jamaica, in the West Indies. Before leaving, however, he decided
to publish his poems, among other things to obtain the passage-money for the voyage.
The publication, known as the “Kilmarnock edition”, made him very famous and, instead of
Jamaica, it took him for a time to Edinburgh. Here, on the wake of the fashionable
veneration for Rousseau’s ideas, he soon became the darling of Edinburgh’s literary
24
circles, which, ignoring the real extent of his literary knowledge, hailed him as the
“Heaven-taught plowman”. Back home, thanks to the money earned from the second
edition of his poems, he bought and eventually sold a farm, married Jean Armour, one of
his many loves, found a job in the excise service and spent his spare time collecting some
of the extant traditional Scots songs.
His radical sympathies for the French Revolution, when it broke out, got him into
trouble, and he was even prosecuted for seditious speeches, which almost cost him his
excise job. Although he overcame the storm, his already poor health began declining and,
in 1796, he died of heart disease, resulting more from the hard labour of his youth than
from excess and dissipation, as some critics believed.
Burns’s poems, collected under the title “Poems chiefly in the Scottish dialect”, were
almost all composed in only two years, from 1784 to 1786 (though some of them were
published in later editions). Over a limited period of time, he was able to produce a
remarkable number of works varying in character and subject matter. We can only attempt
to cover the best of these, grouping them roughly into three sections.
- Themes and language
Passionate, honest and independent, a rebel by nature and endowed with an
extrovert temperament, Burns was quite often baffling and impudent in him works, but also
capable of lyrical emotion and pathos. The main themes of his poems are nature, love,
simplicity, freedom. His sense of nature was quite different from that of his
contemporaries, since for him it was neither a distant, abstract landscape, nor the mirror of
his feelings. Neither did he idealize it as an imaginary Arcadia, nor “romantically” endow it
with a mystic spirit. He loved nature not so much for its own sake as for its relationship to
man. He looked at nature with the eye of a tenant farmer, who knew hard work and
suffering. It meant to him above all the earth, the field where he
worked, a reality he had to cope with every day. He was the poet of
rural life in its concrete reality. He believed in “Nature’s social
union”, which made man a brother to all animals, plants and flowers,
and he regretted that man should have had to “master” nature
instead of remaining part of it.
The theme of love is proposed again and again in the eternal
game of kisses and quarrels, passion and forsaking. Often in the
form of delicate, short idylls, his love poems are outstanding for the
loveliness and tenderness of their lines. Moreover his return to
simplicity, together with the use of a really spoken language and his sense of nature,
makes him the forerunner of Wordsworth’s poetical theories. His passion for freedom led
him to consider any political and social injustice as unbearable. This passion, together with
his love for his native country, his spirit of revolt, his sympathy with the poor and his
deeply-rooted patriotism, earned him the universally recognized title of “national” poet of
Scotland. Finally with his caustic humour, Burns was a talented satirist, but he was also at
his best in tender lyrics, in songs of married life, in the remembrance of lost love, in regret
for the impossibility of re-living old times and past events.
Burns almost always wrote in a simple Ayrshire dialect, particularly suited to folk
poetry, which is usually strongly influenced by oral tradition; he has an anomalous position
in English literature, since he wrote his verse in Scots. Still spoken in parts of Scotland,
Scots is often considered a mere dialect of English, although, had Scotland remained
independent, it would certainly now be regarded as a separate language. Burns used a
language really spoken, the opposite of “poetic diction”; his poetry rises from a
conversational level, from small market-town and village talk about various subjects
always related to personal and local interests; it rises from that level in rhythms that have a
25
relation also to dance-tunes. It was above all in his shorter poems that Burns showed the
best of his poetic vein.
- Adam Armour’s prayer
Adam Armour was probably Jean Armour’s brother, who, along with some other
lads, “stanged”, or carried
Agnes Wilson, a female fornicator,
astride a pole through the
streets of Mauchline. He became
involved in a breach of the
peace, and while evading arrest, met
Burns, whose advice he
sought. The poet is supposed to
have suggested that Armour
should find someone to pray for him,
and Armour to have replied:
«Just do’t yourself, Burns, I know no
one so fit». The authority for
this story is the unreliable and
frequently inventive Allan
Cunningham. Adam Armour is said
to have become a mason, and to have visited Burns at Ellisland.
Gude pity me, because I’m little!
For though I am an elf o’ mettle,
An’ can, like ony wabster’s shuttle,
Jink there or here,
Yet, scarce as lang’s a gude kail-whittle,
I’m unco queer.
An’ now Thou kens our waefu’ case;
For Geordie’s jurr we’re in disgrace,
Because we stang’d her through the place,
An’ hurt her spleuchan;
For whilk we daurna show our face
Within the clachan.
An’ now we’re dern’d in dens and hollows,
And hunted, as was William Wallace,
Wi’ constables-thae blackguard fallows,
An’ sodgers baith;
But Gude preserve us frae the gallows,
That shamefu’ death!
Auld grim black-bearded Geordie’s sel’O shake him owre the mouth o’ hell!
There let him hing, an’ roar, an’ yell
Wi’ hideous din,
And if he offers to rebel,
The heave him in.
When Death comes in wi’ glimmerin blink,
An’ tips auld drucken Nanse the wink,
May Sautan gie her droup a clink
Within his yett,
An’ fill her up wi’ brimstone drink,
Red-reekin het.
Though Jock an’ hav’rel Jean are merrySome devil seize them in a hurry,
An’ waft them in th’ infernal wherry
Straught trhough the lake,
An’ gie their hides a noble curry
Wi’ oil od aik!
As for the jurr-puir wothless body!
She’s got mischief enough already,
Wi’ stanged hips, and buttocks bluidy
She’s suffer’d sair;
But, may she wintle in a woody,
If she wh-e mair!
26
ƒ
La buona novella
Anno di pubblicazione
1970
Casa discografica
Produttori Associati
Produzione
Danè
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
LAUDATE DOMINUM
L’INFANZIA DI MARIA
IL RITORNO DI GIUSEPPE
IL SOGNO DI MARIA
AVE MARIA
MARIA NELLA BOTTEGA D’UN FALEGNAME
VIA DELLA CROCE
TRE MADRI
IL TESTAMENTO
LAUDATE HOMINEM
Nel 1970 a Milano, al Circolo della Stampa, viene presentato “La buona novella”, il
nuovo album di Fabrizio De André, che firma testi e musiche, avvalendosi della
collaborazione di Giampiero Reverberi, con Roberto Danè in veste di produttore. Anche in
questa occasione viene scelta la forma del concept-album, una costante nella carriera di
Fabrizio, che a questo album si mostrerà molto legato, soprattutto negli anni ‘90, quando
dal vivo riproporrà brani come “L’infanzia di Maria”, “Il ritorno di Giuseppe”, ”Maria nella
bottega d’un falegname” e “Tre madri”. “Il sogno di Maria” è sicuramente una delle più
belle canzoni composte da De André, una delle sue preferite, come dimostrano le
straordinarie riproposizioni live nel tour teatrale ’97-’98. La dimensione religiosa si scioglie
liricamente in un ritratto di fanciulla rapita dal messaggio misterioso della sua prossima
maternità. Fra immagini sapientemente essenziali e la incisiva evocazione di uno stato di
veglia-sonno emerge in tutta la sua delicata fisicità il mistero dell’Annunciazione, memore,
certo, dei Vangeli, ma anche di tanta pittura medievale e rinascimentale.
I personaggi a noi noti attraverso la letteratura “classica” vengono ripresi dai
Vangeli apocrifi e subiscono l’umanizzazione garbata, efficace, di Fabrizio. La sua poetica,
le sue capacità descrittive , si esprimono ai massimi livelli. Anche nelle scuole si comincia
a toccare il tasto della poesia di De André. Il successo de “La buona novella” fu inferiore
alle aspettative della casa discografica, ma venne bilanciato dalle vendite del 45 giri “Il
pescatore” / “Marcia nuziale”, prodotto da Roberto Danè. “Il pescatore” verrà riproposto, in
una infinità di versioni, sia su disco che dal vivo, da artisti e orchestre d’ogni genere. È di
questo periodo il primo tentativo di Sergio Bernardini di convincere Fabrizio ad esibirsi dal
vivo. Ne “Il testamento di Tito” De André rivede a modo suo i dieci Comandamenti, dando
una sua libera impressione sulle regole sacre e sulla volontà dell’uomo di rispettarle. Nel
1970 De Andrè rilesse l’“Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, scrittore e
libertario americano, che la moglie Puny gli aveva regalato in edizione economica.
Appassionatosi ai personaggi tratteggiati con sapienza da Masters, decide di realizzare il
suo nuovo disco lavorando intorno a quelle figure chiedendo, per la parte letteraria, la
collaborazione dello scrittore romano Giuseppe Bentivoglio, con il quale aveva lavorato in
precedenza per la “Ballata degli impiccati”.
27
- I Vangeli apocrifi
Il concept-album presentato nel 1970 ha come sfondo culturale i Vangeli apocrifi
(scritti non riconosciuti dalla Chiesa documento ufficiale della vita di Gesù): è la storia
dell’infanzia di Maria, della tristezza di Giuseppe, dell’agonia di Gesù Cristo, del
testamento di Tito il ladrone, della disperazione delle madri dei condannati. Con toccante
sensibilità De André proietta l’ascoltatore nella vita “privata” e “umana” del figlio di Dio,
dipingendolo, secondo appunto i Vangeli apocrifi, come un normale ragazzo con uno
spiccato senso di generosità e umanità. Insomma: Gesù uno di noi.
- Cosa sono e da dove provengono
L’aggettivo “apocrifo”, in greco, significa segreto, nascosto. Sembra che stesse ad
indicare, fino al IV secolo d.C., alcuni scritti che qualche setta cristiana metteva a
disposizione solo degli iniziati, non ritenendo che gli scritti fossero di facile comprensione
per le masse. Quando la Chiesa cominciò a distinguere in “ispirata e no” la letteratura di
Cristo, escluse quei testi apocrifi dal codice canonico. Gli apocrifi sembrano colmare il
vuoto dei quattro canonici sull’infanzia di Maria, la storia di Giuseppe, l’infanzia di Gesù e
la storia di Erode e Pilato. Ma la differenza più affascinante è l’attenzione che gli autori
mettono anche sulla natura comunque umana dei loro protagonisti; costoro, e il popolo
che vive con loro, sembrano semidei di vario grado immersi in una meravigliosa e a volte
anche troppo fantastica leggenda, costretti a viverla come umili e martoriati esseri umani
in balia di questa unica commedia umana. La scoperta più entusiasmante, per chi legge i
Vangeli apocrifi è che l’immagine di Gesù, da essi trasmessa, non trasfigurata dal mito e
dalle sovrastrutture dogmatiche, è proprio quella che più sazia oggi la nostra sete di
giustizia, di pace e di amore.
Gesù non è negli apocrifi la
vittima espiatoria delle nostre
colpe ancestrali, né il figlio di
Dio, che vuole essere adorato,
ma l’uomo che si è proposto
come esempio per insegnarci a
vivere con serenità, con la
coscienza tranquilla che non si
lascia
corrompere
e
contaminare dal male.
I più antichi apocrifi
erano i Vangeli appartenenti a
comunità giudaiche, sparse fin
dagli albori del Cristianesimo in
Palestina e in Siria. La voce di
questi primi cristiani è stata
soffocata. Dei loro Vangeli non
rimane che qualche citazione,
talora distorta e malevolmente
interpretata,
negli
scritti
posteriori dei Padri della
Chiesa.
Per
gli
Ebioniti
(dall’ebraico
“ebionim”,
gli
“umili”), Gesù era un uomo
giusto che, ispirato da Jahveh
come gli antichi profeti biblici,
aveva tuonato contro i ricchi, i potenti, i profittatori. La presenza tra i suoi discepoli di
almeno tre Zeloti faceva credere che egli si fosse investito di una missione rivoluzionaria,
che era andata fallita, ma aveva fatto di lui un simbolo sacro.
I Nazareni (da “nazir”, il “separato”) riconoscevano in Gesù un modello di purezza e
di rigore morale, che li teneva separati, non contaminati, dalla corruzione della società. Per
darne segno, essi seguivano un’usanza che si fa risalire a Mosè: un voto perenne o
temporaneo di castità e semplicità dei costumi, tenendo per tutto il periodo del voto i
capelli intonsi. Il loro nome corrisponde all’epiteto dato a Gesù stesso il “nazareno”, che
non deriva, come comunemente si crede da Nazareth, inesistente a quei tempi, ma
denuncia invece, anche da parte di Gesù, l’osservanza di un simile voto. Altrettanto casti,
poveri, e vegetariani, erano i Nicolani, secondo la tradizione fondati da un diacono dei
primi apostoli, di nome Nicola, e più tardi gli Encratiti, che, rinunciando anche al vino,
commemoravano il ricordo di Gesù cenando con pane e acqua.Questo comportamento di
28
umiltà, povertà e frugalità dilagherà nel IV secolo a intere masse di fedeli, con i Manichei,
poi nel Medioevo con i Catari (i “puri”), più tardi con i Poveri di Lione, fondati da Pietro
Valdo e gli Spirituali, eredi di San Francesco, come protesta popolare contro la corruzione
della società e contro la stessa Chiesa che si era lasciata coinvolgere, rifiutando la sua
autorità e la sua concezione di Gesù, Signore, re dei re, assiso trionfalmente in trono, per
ripresentarlo umile tra gli umili, povero fra i poveri.
Intanto, già fin dal II secolo, nel colto ambiente di Alessandria d’Egitto, erano
cominciati a diffondersi i Vangeli gnostici, di ispirazione neoplatonica, che interpretavano
la predicazione di Gesù su fondamenti razionali. Dagli gnostici Gesù era visto come
simbolo della verità che illumina la conoscenza (questo è il significato del vocabolo greco
“gnosis”) del bene e del male, per cui è possibile all’uomo seguire la via della rettitudine
per intima convinzione. Lo gnosticismo imponeva un severo distacco dalle occasioni di
peccato, ma anche una carità fraterna, rivolta ad aiutare gli altri, comunicando loro la gnosi
appresa. Il bacio, tra gli gnostici, non era soltanto un segno di affetto, ma il mezzo con chi
amava fecondava e generava un altro fratello. Un filo conduttore lega queste varie correnti
eretiche del Cristianesimo: l’umanità di Gesù con tutte le passioni più nobili dell’uomo: lo
sdegno per l’intolleranza, la prepotenza, la cupidigia di denaro, la pietà per i poveri ed i
sofferenti, la capacità di commuoversi e di piangere, il coraggio di rintuzzare il bigottismo
farisaico, e di sferzare i mercanti del Tempio, di affrontare a viso aperti i potenti. Un uomo,
la cui tragica fine, e l’apocrifo che riporta un immaginario scambio di lettere fra Pilato e
l’imperatore Tiberio vuol essere una testimonianza dell’ipocrisia del potere politico, che
elimina un personaggio molesto e poi ne compiange la morte, ne ha fatto un martire e un
modello ideale per tutti coloro che lottano per la libertà e la dignità umana.
Forti movimenti religiosi, soprattutto protestanti, ai nostri giorni, tornano ad
accentuare questo aspetto di Gesù. I combattenti per la libertà dell’America Centrale
dicono che il vero
cristiano
deve
essere
rivoluzionario.
È
questo il vero Gesù?
Sì, è anche questo.
Nella molteplicità di
interpretazioni
che
permette la vicenda
di Gesù sta il segreto
del
suo
eterno
fascino. Nemmeno
Gesù si sottrae al
destino
di
ogni
essere
vivente:
ognuno conta per gli
altri nella misura in
cui gli altri riescono
ad attribuirgli una
personalità
che
corrisponda a ciò
che essi si aspettano
da lui. E oggi, in questa società sconvolta dal male, sempre sull’orlo di una catastrofe,
anche le previsioni apocalittiche d’una lontana distruzione del mondo intero, attribuite a
Gesù da certi apocrifi, sono di sconvolgente attualità. Non per intervento dell’ira divina,
come Gesù pensava, ma certo a causa della follia degli uomini stessi potrebbe essere
prossima la fine del mondo. Riusciranno almeno i superstiti, se ve ne saranno, a fare
tesoro degli ammonimenti del Gesù degli apocrifi, per costruire finalmente un nuovo
mondo, basato su principi di amore, fratellanza e giustizia?
- Il Codice di Arundel 404
Si tratta di uno scritto apocrifo, riguardante la nascita e l’infanzia del Salvatore,
risalente forse al VI secolo. In esso possiamo notare che il destinatario della persecuzione
di Erode era il piccolo Giovanni Battista e che sulla sua persona incombeva la stessa
predestinazione regale che riguardava Gesù.
Elisabetta udendo che Giovanni era ricercato dai sicari per ucciderlo, lo prese, salì su di un monte altissimo,
e cercò con lo sguardo tutt’intorno il luogo ove poterlo nascondere. Poi gemette e, in lacrime, esclamò rivolta
29
al Signore: «Signore Dio, offri tu un riparo affinché questo monte accolga la madre con il figlio». Il monte era
altissimo ed essa non se la sentiva più di salire. Improvvisamente il monte si spaccò e accolse lei con il figlio,
e in quello stesso luogo avevano una grande luce, giacché l’angelo del Signore era con loro, li custodiva e
nutriva.
- Il Vangelo di Pietro
Il Vangelo detto “di Pietro” sembra essere uno dei più antichi manoscritti che la
Chiesa definisce apocrifi. Fino al 1886 era conosciuto, come oggi i Vangeli cosiddetti
giudeo-cristiani, solo per le citazioni effettuate dai Padri della Chiesa in alcune loro opere.
Nel 1886, in Egitto, ad Akhmim, dentro la tomba di un monaco furono trovate delle
pergamene contenenti, fra l’altro, questo testo che è stato identificato dagli studiosi come il
Vangelo di Pietro. Si tratta, probabilmente, di uno scritto composto nel II secolo da una
comunità cristiana che potrebbe avere attinto a fonti giudaico-cristiane.
Condussero due malfattori e crocifissero il Signore in mezzo a loro. Ma lui taceva quasi che non sentisse
alcun dolore. Quando drizzarono la croce, vi scrissero: “Questo è il re di Israele”. Posero le vesti davanti a
lui, le divisero e su di esse gettarono la sorte. Ma uno di quei malfattori li rimproverò, dicendo: «Noi soffriamo
così a causa delle azioni cattive che abbiamo commesso. Ma costui, divenuto salvatore degli uomini, che
male vi ha fatto?». Indignati contro di lui, ordinarono che non gli fossero spezzate le gambe e così morisse
tra i tormenti.
- Il Vangelo di Maria
Si tratta di uno scritto gnostico che fu rinvenuto nel cosiddetto Papiro 8502 di
Berlino, di cui si hanno notizie dal 1896, ma che fu pubblicato solo nel 1955. La Maria a
cui è attribuito è Maria Maddalena. Questo scritto attribuisce un’importanza fondamentale
alla figura della Maddalena, come discepolo che Gesù avrebbe anteposto persino ai suoi
apostoli maschi.
Levi replicò a Pietro dicendo: «Tu sei sempre irruente, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro la donna come
fanno gli avversari. Se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v’è dubbio che il Salvatore
la conosca bene, perciò amò lei più di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell’uomo perfetto,
formarci come egli ci ha ordinato, e annunziare il Vangelo senza emanare né un ulteriore comandamento, né
un ulteriore legge, all’infuori di quanto ci disse il Salvatore.
- Il Vangelo copto di Tomaso
Si tratta di uno scritto gnostico che fu rinvenuto nel 1945 presso Nag Hammadi, in
Egitto, da un contadino che scavava nel terreno. In quell’occasione fu scoperta un’intera
collezione di scritti gnostici, in lingua copta, che erano ormai dati per scomparsi da secoli.
Questo testo, le cui origini possono essere fatte risalire al II secolo, è un complesso di
centoquattordici sentenze, introdotte generalmente dalla formula “Gesù disse”. I Vangeli
gnostici non hanno l’impostazione biografico-narrativa tipica dei Vangeli canonici. Questa
opera si rivela uno scritto esoterico contenente parole che non devono essere svelate ai
profani, la comprensione delle quali è apportatrice di vita. Ogni detto forma un’unità
indipendente solo raramente si osserva un piccolo raggruppamento di detti (o “loghia”)
collegati ad un tema, da parole chiave o da riferimento dell’uno all’altro: i detti sono
perlopiù assai brevi e hanno la forma di prescrizioni, sentenze, aforismi; qualche volta si
incontrano brevi conversazioni con i discepoli, con Simon Pietro, con Maria, con Matteo e
Tomaso. Qualche detto è molto vicino a parole o parabole dei Vangeli canonici.
Gesù disse: «Forse gli uomini pensano che io sia venuto a gettare la pace sul mondo, ignorando che io sono
venuto a gettare divisioni, fuoco, spada, guerra. Cinque saranno in una casa: tre contro due e due contro tre,
il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, ed essi se ne staranno soli».
30
- Il Vangelo di Filippo
Si tratta, come per il Vangelo di Tomaso, di uno scritto gnostico che fu ritrovato nel
1945 presso Nag Hammadi, da un contadino che scavava nel terreno. Questo testo, le cui
origini possono essere fatte risalire al II secolo, è un complesso di centoventisette
sentenze contenenti spesso linguaggi criptici per iniziati.
Taluni hanno detto che Maria ha concepito dallo Spirito Santo. Essi sono in errore. Essi non sanno quello
che dicono. Quando mai una donna ha concepito da una donna? Maria è la Vergine che nessuna forza ha
violato, e questo è un grande anatema per gli ebrei che sono gli apostoli e gli apostolici. Questa Vergine, che
nessuna forza ha violato e le potenze si contaminano. E il Signore non avrebbe detto: «Mio padre che è nei
cieli», se non avesse avuto un altro padre, ma avrebbe detto semplicemente: «Mio padre».
- Il Protovangelo di Giacomo
Pochissimi testi parlano dei genitori di Maria. Ma dal Protovangelo di Giacomo
emergono due biografie dense di fede e di tenerezza. Un pezzo fondamentale della storia
della salvezza. Di loro nei Vangeli canonici non c’è traccia, eppure la tradizione cristiana
ha accolto e venerato Gioacchino e Anna come i genitori della Vergine. I loro
nomi compaiono solo nella letteratura apocrifa. Il Protovangelo di Giacomo,
attribuito all’apostolo Giacomo il Minore, è il più antico e viene fatto risalire a
prima dell’anno 150, e per questo motivo considerato più un testo
extracanonico che un vero e proprio apocrifo. In realtà contro la tesi che
farebbe del Protovangelo di Giacomo uno dei più antichi documenti cristiani,
quasi contemporaneo dei normali Vangeli, stanno alcuni argomenti, come la
mancanza di testimonianze sicure circa l’esistenza del testo prima del VI secolo, che
rendono dubbia la paternità e la datazione del documento in questione. Certo è che
questo apocrifo, per la ricchezza dei particolari con cui offre il racconto sulla vita della
Madonna e sulla nascita di Gesù, rappresenta una delle testimonianze più vive del
Cristianesimo primitivo, tant’è che l’arte figurativa cristiana, l’agiografia, la novellistica
medievale hanno largamente attinto a questi racconti, ripetendone i motivi e imitandone gli
atteggiamenti.
Ed ecco che Giuseppe si preparò a partire per la Giudea. E una grande agitazione avvenne in Betlemme di
Giudea, poiché arrivarono dei magi che chiedevano: «Dov’è il re dei giudei che è nato? Poiché abbiamo
visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo». Udendo questo, Erode fu turbato e mandò dei
messi ai magi e fece chiamare i grandi sacerdoti e li interrogò, dicendo: «Che cosa sta scritto riguardo al
Cristo? Dove deve nascere?». Gli dicono: «In Betlemme di Giudea: così infatti sta scritto». Egli allora li
congedò. E interrogò i magi, dicendo loro: «Che segno avete visto circa il re che è nato?». Dissero i magi:
«Abbiamo visto una stella grandissima, che brillava tra queste altre stelle e le oscurava, così che le stelle
non si vedevano, e noi per questo abbiamo capito che un re era nato per Israele e siamo venuti per
adorarlo». Ed Erode disse: «Andate e cercate; e se lo trovate fatemelo sapere affinché anch’io vada ad
adorarlo. I magi se ne andarono. Ed ecco la stella che avevano visto in Oriente li precedeva finché giunsero
alla grotta, e si fermò in capo alla grotta.
31
ƒ
Non al denaro non all’amore né al cielo
Anno di pubblicazione
1971
Casa discografica
Produttori Associati
Produzione
Danè - Bardotti
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
DORMONO SULLA COLLINA
UN MATTO (dietro ogni scemo c’è un villaggio)
UN GIUDICE
UN BLASFEMO (dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato)
UN MALATO DI CUORE
UN MEDICO
UN CHIMICO
UN OTTICO
IL SUONATORE JONES
Dopo aver ottenuto l’avallo di Fernanda Pivano, storica traduttrice di Masters,
Fabrizio perfezionò i testi che si riveleranno, come la stessa Pivano ha confermato,
decisamente più belli degli originali. Le figure scelte vengono raccontate con una tale
partecipazione da sembrare veramente figlie della penna di De André. I testi di Masters
furono lavorati e adattati alle musiche e, in alcuni casi, modificati o ampliati. I personaggi
scelti sono molto “deandreiani”, dal giudice carogna tratteggiato in “Un giudice”, che riporta
alle atmosfere de “Il gorilla”, ad “Un blasfemo”, arrabbiato non tanto con Dio quanto con i
preti. “Un matto” propone invece la figura del diverso, che in quanto tale viene attaccato
dal branco per dare sfogo alle proprie frustrazioni. Una galleria di sconfitti descritti da
Fabrizio con una vena quasi commovente. E anche in “Non al denaro non all’amore né al
cielo” ritornano i riferimenti all’infanzia passata nelle campagne piemontesi. Letto a 18 anni
per la prima volta e riletto nel 1970, l’“Antologia di Spoon River” ha colpito il cantautore
genovese per la sincerità dei suoi personaggi, per il modo in cui essi non hanno più niente
da aspettarsi e non hanno più nulla da pensare; così che parlano come da vivi non sono
mai stati capaci di fare
Una nota particolare per le musiche, curate dall’allora giovanissimo Nicola Piovani,
destinato ad una luminosa carriera. A dirigere le operazioni Roberto Danè, che insieme a
Sergio Bardotti ne curò la produzione agli studi Ortophonic di Roma. Proprio Bardotti
completerà il testo di “Susan dei marinai”, che Fabrizio regalerà al suo amico Michele e,
qualche tempo dopo, fu ancora Bardotti, durante una cena in un ristorante sardo a Milano,
a dare una mano a Sergio Bernardini per convincere Fabrizio ad esibirsi dal vivo. La
collaborazione di Sergio Bardotti con Fabrizio si limiterà a “Non al denaro non all’amore ne
al cielo”; intatta rimarrà la loro amicizia e stima, nonostante la saltuaria frequentazione.
Crescevano nel frattempo le richieste di avere Fabrizio De André dal vivo, ma la risposta
era per tutti la stessa. Anche Mina e Charles Aznavour un giorno tentarono di convincerlo
ad esibirsi sul palco. Il problema era di duplice natura: la prima era che Fabrizio non
voleva salire su un palcoscenico perché, a suo dire, non voleva stare sopra nessuno.
L’altra motivazione era di carattere fisico, difatti Fabrizio si vergognava perché aveva un
problema alla palpebra sinistra, la quale gli rimaneva sull’occhio per metà. Una volta
risolto questo problema chirurgicamente, Fabrizio comincerà ad esibirsi dal vivo.
32
- Idrogeno e ossigeno
“Non al denaro non all’amore né al cielo”, terzo concept-album di Fabrizio De
André, contiene la storia del chimico, il quale, morto in un esperimento non riuscito,
dall’oltretomba si chiede come facciano gli esseri umani a legarsi fra di loro, proprio come
fanno l’ossigeno e l’idrogeno presenti nel mare. Al chimico appare infatti assai strana la
pacifica convivenza di questi due elementi che non a caso danno vita all’acqua, e che in
altre situazioni potrebbero dar luogo ad esplosioni violentissime: egli arriva però a capire
che l’ossigeno e l’idrogeno si legano tramite leggi naturali, gli uomini attraverso l’amore.
- L’idrogeno
L’idrogeno è il primo elemento della tavola periodica, avendo un solo protone nel
nucleo e un solo elettrone nel sottolivello 1s. Non si trova
libero in natura, tranne che nelle emanazioni vulcaniche,
ma è l’elemento più abbondante nell’universo, essendo il
principale costituente delle stelle e della materia
interstellare; nel sole, infatti, costituisce il 90% della
massa totale. L’idrogeno naturale è una miscela di tre
isotopi costituita per il 99,9% da protio (1H), per lo 0,66%
da deuterio (2H, simbolo D) e da trizio (3H, simbolo T), che
è l’isotopo radioattivo i cui nuclei si decompongono
spontaneamente emettendo radiazioni β. Combinato,
invece, l’idrogeno è assai diffuso: esso costituisce lo
0,76% della crosta terrestre e l’11,2% dell’acqua, che è il
suo principale composto. È, inoltre, il componente
fondamentale di tutti i composti organici e della materia
vivente; basti ricordare che nel corpo umano è presente
nella misura del 10%.
L’idrogeno a temperatura ambiente è un gas
incolore, inodore e insapore. È costituito da molecole
formate da due atomi tenuti insieme da un forte legame
covalente. L’idrogeno molecolare è il più leggero dei gas;
rispetto all’aria pura, ad esempio, pesa ben quattordici
volte meno. In laboratorio si ottiene generalmente puro,
facendo reagire lo zinco metallico con un acido forte, usando l’apparecchio di Kipp. Come
si vede nella figura, nella boccia 2 vengono immessi dei pezzetti di zinco, mentre dalla
boccia 1 si lascia colare in 3 acido cloridrico o solforico, il quale, venendo a contatto con lo
zinco della boccia 2, produce idrogeno. La figura mostra ciò che avviene a rubinetto
chiuso: l’idrogeno comprime l’acido nella boccia 3 facendolo risalire in 1 e interrompendo
così il contatto tra l’acido e lo zinco.
Zn + 2 HCl → ZnCl2 + H2 ↑
Industrialmente si prepara facendo passare del vapore surriscaldato su carbone coke,
oppure facendo reagire il metano (CH4) con l’acqua (reforming del metano).
a 1000 °C
C + H2O → Co + H2 ↑
a 850 °C
CH4 + H2O → CO + 3 H2 ↑
33
Numero atomico
Massa atomica
Configurazione elettronica
Potenziale di ionizzazione
Affinità elettronica
Elettronegatività
Punto di fusione
Punto di ebollizione
1
1,008
1s
13,59 eV
0,752 eV
2,1
-259,23 °C
-252,77 °C
- I composti e gli usi
L’idrogeno nei suoi composti compare in tre stati di ossidazione: +1, 0 e –1. Con lo
stato di ossidazione +1 lo troviamo nella maggior parte dei suoi composti, nei quali si trova
combinato con un elemento più elettronegativo. A parte l’acqua, i composti più importanti
che lo contengono sono il metano (CH4) e tutti gli altri idrocarburi, l’ammoniaca (NH3), gli
acidi inorganici e gli idrossidi. Con lo stato di ossidazione –1 lo troviamo combinato con gli
elementi meno elettronegativi con cui forma gli idruri (molto usati nelle sintesi organiche)
tra cui i più importanti sono: l’idruro di sodio (NaH), l’idruro di litio e alluminio (LiAlH4), i
silani e i borani. Con lo stato di ossidazione 0 lo troviamo nella molecola biatomica H2.
Come elemento allo stato gassoso lo si usava in passato per riempire dirigibili e
palloni aerostatici, ma a causa della sua alta infiammabilità è stato in seguito sostituito
dall’elio. Industrialmente la maggior parte dell’idrogeno oggi prodotto è impiegata per la
sintesi diretta dell’ammoniaca, dell’acido cloridrico, del metanolo e per la trasformazione
degli oli vegetali in margarina. Puro, allo stato liquido, l’idrogeno generalmente viene
utilizzato in miscela con l’ossigeno liquido come propellente per razzi vettori che mettono
in orbita i satelliti artificiali. Come deuterio è impiegato per preparare l’”acqua pesante”
(D2O), utilizzata come moderatore dei neutroni nei reattori nucleari, mentre come trizio
trova sempre più largo impiego in esperimenti di radiochimica, di biologia e di medicina, in
quanto questo isotopo presenta una massa ben tre volte maggiore di quella del protio e,
quindi, le differenze tra le proprietà fisiche e chimiche dei composti dell’idrogeno e dei
composti marcati con trizio sono facilmente riscontrabili. L’idrogeno viene
commercializzato in bombole di acciaio, alla pressione di 150 atm, contraddistinte da una
fascia di colore rosso nella parte superiore.
- L’ossigeno
L’ossigeno è il primo elemento del sesto gruppo del sistema periodico ed è
caratterizzato dalla presenza di sei elettroni nel suo livello più esterno. In natura è
costituito da una miscela di tre isotopi: 16O, 17O, 18O, di cui il primo, essendo presente nella
misura del 99,8%, è l’isotopo predominante. Sulla crosta terrestre l’ossigeno, combinato
principalmente sotto forma di ossidi, di carbonati e di silicati, è l’elemento più abbondante
e ne costituisce circa il 50% in peso. Esso si trova, inoltre, allo stato combinato nell’acqua,
in numerosi acidi, nei sali ossigenati e nei composti organici. Nell’aria atmosferica è il
secondo componente in ordine di abbondanza e, nonostante le grandi quantità consumate
dalla respirazione degli organismi viventi, dalla putrefazione, dalle combustioni e dalla
graduale ossidazione delle rocce della crosta terrestre, la sua concentrazione media
rimane praticamente costante.
Il suo consumo viene quasi completamente compensato dall’ossigeno che viene
immesso nell’atmosfera dai processi metabolici delle piante. È ben noto, infatti, il suo ruolo
nella respirazione delle piante e degli animali. Nell’uomo l’ossigeno inspirato dai polmoni
dall’atmosfera viene assorbito dall’emoglobina del sangue e inviato alle cellule che lo
utilizzano per la respirazione dei tessuti. Durante la respirazione i carbonati vengono
ossidati fornendo così l’energia richiesta per l’attività cellulare. Poiché l’ossigeno è un
34
ossidante lento, è necessario l’intervento di opportuni catalizzatori biologici (enzimi) per
accelerare le reazioni ossidative, che così possono avvenire alla temperatura corporea.
A temperatura ambiente l’ossigeno è un gas costituito da molecole biatomiche che
soltanto in determinate condizioni (sotto l’azione di scariche elettriche) si trasforma, sia
pure parzialmente, in ozono (O3), che è una sua forma allotropica instabile tendente a
trasformarsi in ossigeno biatomico. Allo stato libero l’ossigeno è un gas incolore, inodore e
scarsamente solubile in acqua, ma comunque in misura sufficiente da consentire le attività
respiratorie degli organismi acquatici.
A temperatura ambiente è assai poco reattivo e gli elementi che in tali condizioni si
combinano con esso sono relativamente pochi. Tale combinazione viene accelerata dalla
presenza di tracce di umidità. A temperatura elevata l’ossigeno diventa fortemente
reattivo, così che, ad esempio, una spira rovente di ferro in atmosfera di ossigeno puro
brucia con fiamma abbagliante trasformandosi in Fe2O3. Nella maggior parte dei composti
(ossidi, acidi, sali, ecc.) il suo stato di ossidazione è –2, mentre nei perossidi, come H2O2 e
Na2O2, ha numero di ossidazione –1. Soltanto con il fluoro, che è l’unico elemento che lo
supera in elettronegatività, ha numero di ossidazione +2 (fluoruro di ossigeno, OF2).
- La preparazione e gli usi
In laboratorio lo si ottiene in piccole quantità per azione del calore su ossidi o sali
minerali ricchi di ossigeno come il clorato di potassio (KClO3) e l’ossido di mercurio (HgO).
2 KClO3 → 2 KCl + 3 O2 ↑
2 HgO → 2 Hg + O2 ↑
Industrialmente veniva largamente preparato mediante l’elettrolisi dell’acqua (soluzioni al
20-30% di NaOH o KOH), ma tale metodo è stato del tutto soppiantato a causa degli
elevati costi dell’energia elettrica e sostituito dalla distillazione frazionata dell’aria liquida,
che fornisce ossigeno puro con un titolo che supera il 95%.
L’ossigeno è molto usato come comburente nei cannelli ossidrici e ossiacetilenici e
negli apparecchi per la respirazione, sia per gli usi clinici che per i respiratori usati da
sommozzatori, aviatori e astronauti. I maggiori consumi (63% circa) si hanno comunque
nelle acciaierie per i processi di conversione della ghisa in acciaio. Notevoli quantità di
ossigeno vengono oggi assorbite nell’industria missilistica, che lo utilizza come
comburente per i motori per i razzi. Esso viene commercializzato in bombole di acciaio che
usano il bianco come colore distintivo. A causa della loro limitata capacità, però, questi
recipienti sono sempre più spesso sostituiti da serbatoi di grandi dimensioni, nei quali
l’ossigeno è contenuto allo stato liquido. Sotto forma di ozono, grazie al suo elevato potere
ossidante, è usato come agente sbiancante, disinfettante e nella potabilizzazione delle
acque. Quest’ultimo uso, nonostante il costo più elevato, viene preferito alla clorazione,
che dà all’acqua un cattivo sapore.
Numero atomico
Massa atomica
Configurazione elettronica
Potenziale di prima ionizzazione
Affinità elettronica
Elettronegatività
Punto di fusione
Punto di ebollizione
8
15,999
2s22p4
13,61 eV
1,48 eV
3,5
-218,8 °C
-182 °C
35
- La struttura dell’acqua
L’acqua è il composto più importante dell’idrogeno e dell’ossigeno e le sue proprietà
fisico-chimiche ne fanno una sostanza dalle caratteristiche uniche. La sua molecola è
costituita da due atomi
di idrogeno e uno di
ossigeno tenuti insieme
da legami covalenti
polari
formanti
un
angolo di circa 105°.
Tale
geometria
conferisce polarità alle
molecole. A causa di
tale polarità le molecole
dell’acqua tendono ad
accorciarsi in gruppi di
molecole, tra le quali si
instaurano veri e propri
legami:
legami
a
idrogeno. La forza di
questi legami dipende
dallo
stato
fisico
dell’acqua. Nello stato
solido
tali
legami
permettono ad ogni
molecola di associarsi
saldamente con altre
quattro
molecole
secondo direzioni ben
precise,
che
conferiscono al “solido
ghiaccio”
una
disposizione geometrica tetraedrica che risulta rigida ma con ampi spazi vuoti. La fusione
del ghiaccio porta l’acqua allo stato liquido, nel quale i legami a idrogeno perdono la loro
rigidità, con conseguente collasso del reticolo cristallino. In tal modo le molecole si
avvicinano maggiormente, occupando uno spazio minore, così che il liquido acqua diventa
più denso del ghiaccio di circa il 10%. Lo stato gassoso, infine, è caratterizzato
dall’assenza quasi totale dei legami a idrogeno tra le molecole, che, libere di muoversi,
tendono a occupare l’intero volume a loro disposizione.
- Le proprietà
Chimicamente l’acqua è un composto molto stabile, a temperatura superiore ai
2000 °C la sua decomposizione negli elementi costituenti non supera il 2%. Tale stabilità
è, ovviamente, dovuta ai forti legami covalenti tra gli atomi di ossigeno e di idrogeno.
L’acqua reagisce con i metalli alcalini (metalli del 1° gruppo):
2 Na + 2 H2O → 2 NaOH + H2 ↑
Con gli ossidi ionici dei metalli più reattivi l’acqua reagisce fornendo i rispettivi idrossidi:
CaO + H2O → Ca(OH)2
mentre con gli ossidi dei non metalli (anidridi) forma gli ossiacidi:
SO3 + H2O → H2SO4
L’acqua, inoltre, è caratterizzata da un elevato potere solvente collegato alla
polarità delle sue molecole. In conformità alla
regola empirica “il simile scioglie il suo simile”, essa
è in grado di sciogliere le sostanze dotate di legami
ionici, o parzialmente ionici, nonché tutte quelle
sostanze in grado di formare con essa legami a
idrogeno, come ad esempio ammoniaca, alcool
etilico, carboidrati, ecc.. L’acqua è in grado anche
di sciogliere quantità più o meno piccole di
molecole gassose come la CO2 e l’O2. La
possibilità che ha l’acqua di sciogliere l’ossigeno è
importante per gli animali acquatici, che usano
36
speciali membrane situate nelle branchie per assumere l’ossigeno disciolto, indispensabile
alla loro respirazione.
Poiché è molto facile ottenere acqua di elevata purezza, essa viene usata come
sostanza di riferimento per definire alcune grandezze chimico-fisiche come la densità (che
è una grandezza derivata, si riferisce alla massa di 1 ml di acqua, che a 4 °C misura 1 g),
le scale termometriche (tutte riferite alle temperature di congelamento e di ebollizione
dell’acqua che sono rispettivamente 0 °C e 100 °C nella scala Celsius), la caloria (che è la
quantità di calore necessaria a innalzare di 1 °C un grammo d’acqua) e il pH (che
rappresenta il grado di acidità di una sostanza e fa, anch’esso, riferimento all’acqua pura,
alla quale viene assegnato il valore 7 che indica la neutralità).
- La classificazione delle acque
In natura l’acqua costituisce circa il 70% della superficie terrestre; infatti, i tre quarti
di essa sono coperti da oceani, mari, laghi e fiumi. Sotto forma di vapore (vapor d’acqua) è
contenuta nell’atmosfera, dove, condensandosi, forma prima le nuvole e poi forma neve,
grandine, brina e rugiada. Non è da sottovalutare, inoltre, la quantità di acqua che scorre
al di sotto della superficie terrestre (acque sotterranee). Esiste un vero e proprio ciclo
dell’acqua, che attraverso le fasi di evaporazione, condensazione, precipitazione e
scorrimento passa ininterrottamente dalla superficie terrestre all’aria atmosferica e di
nuovo alla superficie terrestre. È evidente che tale ciclo viene fortemente influenzato da
diversi fattori ambientali, quali la temperatura, i venti, l’orografia, la distanza dal mare,
ecc.. Le acque si distinguono secondo la provenienza (acque profonde, sorgive, fluviali,
lacustri, marine) e le utilizzazioni (acque minerali, potabili, industriali, agricole). Della prima
classificazione si occupano principalmente i geologi e i naturalisti, della seconda i chimici.
- Acque minerali
Col termine “acque minerali” vengono classificate quelle acque naturali, di fonte o
sorgente, che contengono disciolti meno di 0,1 g/l di sali e che possono anche contenere
disciolti gas come CO2 e H2S. In base al contenuto possono ulteriormente essere
classificate in acque da bibita e in acque da bagno.
Acque da bibita
Acque da bagno
Acque oligominerali (residuo salino a 180 °C minore di 0,20%)
Acque mediominerali (residuo salino a 180 °C compreso tra lo
0,20% e l’1%)
Acque minerali (residuo salino a 180 °C superiore all’1%): salse,
sulfuree, arsenicali, ferruginose, bicarbonate, solfate
Acque fredde: salse, sulfuree, bicarbonate (t < 20 °C)
Acque ipotermali: salse, sulfuree, bicarbonate (t = 20-30 °C)
Acque termali: salse, sulfuree, solfate (t = 30-40 °C)
Acque termali: salse, sulfuree, bicarbonate, solfate (t > 40 °C)
Comunemente il contenuto salino di un’acqua è espresso in termini di “durezza”,
intendendo per durezza di un’acqua la quantità di sali di Ca e Mg in essa contenuta. La
durezza si esprime in “gradi francesi”: un grado francese (1 °f) di durezza corrisponde a 10
mg/l di CaCO3.
- Acque potabili
Un’acqua per essere definita potabile deve essere limpida, incolore e inodore,
aerata e di gusto gradevole, deve avere un determinato contenuto salino, deve essere
priva di sostanze tossiche e non deve contenere batteri o virus che possano procurare
gravi malattie infettive. Per la legge italiana il controllo delle acque potabili deve essere
37
effettuato dai laboratori provinciali di igiene e profilassi. Un’acqua non potabile può essere
resa tale sottoponendola ad alcuni particolari trattamenti fisici o chimici, tra cui la filtrazione
(serve per chiarificare le acque torbide mediante l’uso di filtri particolari di ghiaia e sabbia),
la sterilizzazione con radiazioni (serve per rendere sterili mediante l’uso di raggi
ultravioletti, o raggi X, o γ), l’addolcimento (diminuisce il grado di durezza di acque molto
dure) o la sterilizzazione con reagenti chimici (l’uso di reagenti chimici come cloruro di
calce, cloro gassoso o di ipocloriti rende le acque sterili per l’effetto batteriostatico del
cloro: tali sostanze però hanno il difetto di alterare il sapore e l’odore dell’acque rendendoli
sgradevoli).
Sostanze
Valori max consentiti
CaO
MgO
Residuo fisso a 180 °C
Sostanze organiche (Kubel)
Solfati espressi in SO3
Nitrati espressi in N2O5
Cloruri espressi in Cl
Durezza totale
Ammoniaca
Nitriti
Fosfati
120 mg/l (p.p.m.)
40 mg/l (p.p.m.)
300-500 mg/l (p.p.m.)
2,5 mg/l (p.p.m.)
100 mg/l (p.p.m.)
27 mg/l (p.p.m.)
35 mg/l (p.p.m.)
32 °f
Assente
Assenti
Tracce
- Acque industriali e agricole
Nell’industria l’acqua interviene in numerosi processi: per alimentare le caldaie di
quegli impianti che utilizzano il vapore; per il raffreddamento di alcuni impianti che
lavorano a elevate temperature; per alimentare quei processi dove l’acqua rappresenta
una vera e propria materia prima. Pertanto, le acque impiegate nei vari processi industriali
debbono possedere requisiti che possono differire da industria a industria: le lavanderie
richiedono acqua con minima durezza, mentre l’acqua per le industrie tessili deve risultare
assolutamente priva di ferro, manganese e sostanze organiche; l’acqua per la cartiere non
deve contenere né ferro né manganese o calcio e deve essere esente da ogni flora
batterica; per gli zuccherifici si richiede acqua priva di solfati, carbonati e nitrati e così via.
L’acqua destinata ad alimentare caldaie a vapore deve essere priva di sali incrostanti e
corrosivi, pertanto deve possedere una durezza molto piccola o nulla. Il calcare, infatti, è il
principale e più pericoloso responsabile delle incrostazioni anche dei più comuni
elettrodomestici (scaldabagno, ferro a vapore, ecc.).
In agricoltura l’acqua esercita un ruolo vitale; non è possibile, infatti, alcuno
sfruttamento del suolo senza un adeguato e razionale sistema di irrigazione. Per tale uso
l’acqua non deve contenere elevate concentrazioni di quelle sostanze che risultano nocive
alle colture come lo ione Na+ e lo ione Cl-, che provocherebbero profonde alterazioni del
terreno. Anche per l’allevamento del bestiame è richiesta acqua di elevata purezza, con
requisiti del tutto simili a quelli richiesti per l’acqua potabile.
38
ƒ
Storia di un impiegato
Anno di pubblicazione
1973
Casa discografica
Produttori Associati
Produzione
Danè
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
INTRODUZIONE
CANZONE DEL MAGGIO
LA BOMBA IN TESTA
AL BALLO MASCHERATO
SOGNO NUMERO DUE
LA CANZONE DEL PADRE
IL BOMBAROLO
VERRANNO A CHIEDERTI DEL NOSTRO AMORE
NELLA MIA ORA DI LIBERTÀ
Nel 1972 iniziano i lavori per il nuovo album. I collaboratori sono i medesimi:
Roberto Danè è il produttore, Nicola Piovani curerà gli arrangiamenti e Giuseppe
Bentivoglio lavorerà insieme a De André alla parte testuale. Fabrizio, anche perché in un
momento di crisi personale, non impedirà l’eccessiva politicizzazione dell’album. Ciò farà
nascere numerose polemiche, anche perché sino ad allora De André, nei suoi testi, aveva
preferito l’allegoria al coinvolgimento politico diretto. Se consideriamo il caldissimo clima
politico dell’epoca, “Storia di un impiegato” acquisisce una sua non trascurabile necessità.
Per molti aspetti è una risposta, come sempre molto personale, alla domanda di
coinvolgimento che girava nell’aria. Certamente furono decisive anche le frequentazioni di
allora. Notevole il lavoro compiuto nella parte musicale dallo stesso De André e da Piovani
(coautore delle musiche), mentre i testi soffrono di una certa prolissità. Nonostante le
evidenti “intenzioni” politiche, che emergono con particolare intensità in pezzi come
“Canzone del maggio” e “Nella mia ora di libertà”, l’esito più alto è una canzone d’amore:
“Verranno a chiederti del nostro amore”. Era dedicata a Roberta, la donna alla quale
Fabrizio fu legato per circa due anni da una relazione molto sofferta, cui pose fine una
volta resosi conto di avere a che fare con una di quelle “piccole femmine agghindate” dalle
quali aveva sempre cercato di fuggire.
“Storia di un impiegato”, registrato negli studi Ortophonic di Roma, verrà pubblicato
nel 1973 e segnerà la fine della collaborazione con Nicola Piovani e Giuseppe Bentivoglio,
che, nonostante le attestazioni di stima di De André, manterrà un atteggiamento risentito
nei suoi confronti. In questo concept-album ci sono le prime inclusioni di strumenti
elettronici. È comunque uno degli album più ideologici, proprio per questo, come
affermava il cantautore, più penalizzato. “Il bombarolo” narra di un giovane impiegato
trentenne che, non potendone più dei giochi di potere e dell’oppressione, decide di far
saltare in aria il Parlamento: il tentativo, fortunatamente, non funzionerà. Questi brano ed
altri molto forti contenuti in “Storia di un impiegato”, come già detto, costeranno a Fabrizio
De Andrè la censura Rai e il pedinamento della Squadra 50 dei servizi segreti. Il geniale
cantautore viene così accusato dalla destra di eversione e dalla sinistra di qualunquismo,
ma Fabrizio non ha mai amato le etichette, ha sempre detto ciò che ha pensato senza
doversi preoccupare delle reazioni dei benpensanti.
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- Lo stragismo politico dopo il ‘68
Dopo aver creato due album ruotanti attorno ai Vangeli apocrifi e ad un’opera
letteraria, Fabrizio ha sentito l’esigenza di creare un lavoro su sé stesso, sulla sua
ideologia; per questo è uscito “Storia di un impiegato”, cronistoria del ’68. L’impiegato è
colui che accetta per tutta la vita il compromesso, l’umiliazione (anche la più piccola) e la
semplicità; proprio per questo motivo ad un certo punto esplode e da bravo servitore dello
Stato diviene terrorista ed incappa nella macchina della disperazione. Per questo motivo
“Storia di un impiegato” mi ha spinto a fare un quadro generale del terrorismo, e più in
particolare dello stragismo, di matrice politica conseguente al ’68 e ad analizzare i vari
attentati che hanno misteriosamente macchiato la storia del nostro Paese.
- Il quadro generale
Il movimento di protesta del Sessantotto fu però attraversato, durante e dopo, da
forme di violenza: intimidazioni, distruzioni e atti di vandalismo vero e proprio ai danni di
negozi, luoghi pubblici e università. Tutto ciò era quanto appariva agli occhi di tutti.
Evidentemente, però, anche se non ben valutata, vi era una novità: l’idea della violenza
come legittima arma politica era entrata nella società italiana. Così, mentre l’attenzione era
richiamata da episodi di intemperanza delle sinistre giovanili, studentesche e operaie, più
nascostamente si stava organizzando una seconda forma di violenza, addirittura armata,
proveniente
dagli
ambienti
conservatori
della
destra
neofascista e dei servizi segreti
di Stato, violenza cui anche le
formazioni estremistiche finirono
ben presto per aderire.
La prima manifestazione
di violenza armata avvenne il 12
dicembre 1969, quando nel
salone della Banca Nazionale
dell’Agricoltura
in
piazza
Fontana, a Milano, esplose una
bomba ad alto potenziale, che
provocò una strage: sedici morti
e ottantotto feriti. Gli elementi
che si riuscirono ad accertare
nel
corso
degli
anni
consolidarono la convinzione
che si fosse trattato di un’azione
terroristica
maturata
negli
ambienti dell’estrema desta
neofascista. Era stato, in
sostanza, il tentativo di gettare il
Paese nel caos e di provocare
una spirale di violenza che
creasse le condizioni di una
svolta autoritaria. L’obiettivo era
chiaro: bloccare la spinta a
sinistra emersa nella società
italiana
nel
1968
e
un
movimento operaio che, nel 1969, si era rivelato forte e maturo. La strategia della
tensione, inaugurata a piazza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per molti anni una
costante nella cronaca politica del nostro Paese. Una lunga serie di stragi e di violenze
compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e neonaziste come Avanguardia
Nazionale, Ordine Nuovo e Ordine Nero, avrebbe insanguinato le città italiane,
intrecciandosi a manovre preparatorie di azioni golpiste.
Nel corso degli anni Settanta l’attacco allo Stato fu però sferrato anche da un
estremismo di segno opposto. Al terrorismo “nero” si aggiunse infatti il terrorismo praticato
da organizzazioni clandestine che si proclamavano comuniste (Nuclei Armati Proletari,
Brigate Rosse, Prima Linea). Se i terroristi “neri” si muovevano tra stragi e preparativi
golpisti, quelli “rossi” preferivano gli attentati individuali contro bersagli scelti per il loro
significato simbolico: magistrati, poliziotti, giornalisti, dirigenti di azienda, politici. Gli
obiettivi finali delle due azioni eversive, ovviamente, erano divergenti. Gli obiettivi
intermedi, invece, erano simili: destabilizzare la società italiana, provocare una lacerazione
irreversibile del tessuto democratico, far precipitare la situazione verso uno scontro
frontale e una violenza diffusa. Tali obiettivi non furono però raggiunti, in quanto la
40
democrazia italiana si dimostrò molto più salda di quanto si pensasse. Le stragi più atroci
tra la folla pacificamente riunita, gli attentati a treni e stazioni pieni di gente non
provocarono le reazioni violente e incontrollate che i mandanti si attendevano, pronti
evidentemente ad attuare un’immediata stretta reazionaria. Né, d’altra parte, i terroristi
“rossi” riuscirono mai a costituirsi delle basi di massa e a radicarsi nelle fabbriche. Le loro
parole d’ordine non fecero presa e il passaggio alla lotta armata restò sempre una scelta
sostanzialmente individuale.
Ciò permise la premessa della sconfitta dei due terrorismi, ai quali tuttavia ne va
aggiunto un terzo; quello dei servizi segreti dello Stato, che dalle indagini giudiziarie poi
effettuate risultò ben presente e attivo, con complicità non ancora del tutto chiarite. Un
risultato di grande rilievo, comunque, l’azione eversiva lo ottenne: il terrorismo, entrato
ormai nella vita quotidiana, avvelenò la lotta politica e contribuì certamente a far rientrare
la domanda di trasformazione emersa con forza nel 1968, costringendo sulla difensiva
partiti e sindacati e facendo di conseguenza esaurire la spinta a sinistra. La vivacità
politica, il desiderio di partecipazione, la domanda di
rinnovamento e di trasformazione rivoluzionaria, la
contestazione anticapitalistica e anticonsumistica, la
solidarietà con le lotte in corso nel Terzo Mondo, il
socialismo antiautoritario, la voglia di rovesciare il “sistema”
che nel ’68 avevano spinto in piazza per la prima volta
grandi masse di giovani e di operai avevano tuttavia
lasciato un segno profondo. Cambiarono i partiti di sinistra,
soprattutto il PCI, e i sindacati che, pur contestati
vivacemente, continuavano a rimanere punti di riferimento
e interlocutori privilegiati del “movimento”. Nascevano,
specialmente a sinistra, organizzazioni e piccoli gruppi
filocinesi, guevaristi e anarchici, alcuni dei quali, in
particolare Potere Operaio e Lotta Continua, avrebbero
agito a lungo come estranei e ostili a tutte le forme
costituzionali e quindi come “extraparlamentari” e “antistituzionali”, nonché come
severamente critici con la sinistra “storica”, ottenendo un certo seguito di militanti,
soprattutto tra i giovani.
La difficile situazione economica non impedì il dialogo politico e culturale, che
venne però profondamente turbato dai continui episodi di violenza che funestavano il
Paese. Mentre si moltiplicavano i rapimenti delle Brigate Rosse, lo stragismo neofascista
dava luogo a episodi di grande efferatezza, mentre venivano scoperti campi di
addestramento paramilitari e progetti più o meno elaborati per l’attuazione di un colpo di
Stato: la strage con otto morti e novantaquattro feriti in piazza della Loggia a Brescia (28
maggio 1874) e un’altra con dodici morti e centocinque feriti per un attentato al treno
“Italicus” nei pressi di San Benedetto Val di Sambro sulla linea Bologna-Firenze (4 agosto
1974). Come se tutto ciò non bastasse, nel 1976 furono assassinati due procuratori della
Repubblica: Francesco Coco, ad opera delle Brigate Rosse, e Vittorio Occorsio, ad opera
di Ordine Nuovo.
- 12 dicembre 1969
Milano, ore 16.37: un ordigno, composto da sette chili di tritolo, esplode nel salone
centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Il bilancio è
atroce: diciassette morti e ottantotto feriti.
Roma, ore 16.45: una bomba esplode in un corridoio sotterraneo della sede
centrale della Banca Nazionale del Lavoro, tra via Veneto e via San Basilio: tredici
impiegati dell’istituto rimangono feriti, uno di loro in maniera grave.
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Roma, ore 17.16: scoppia un ordigno sulla seconda terrazza dell’Altare della Patria,
sul lato che si affaccia sui Fori Imperiali: nessuna vittima.
Roma, ore 17.24: un’altra esplosione, sempre sulla seconda terrazza dell’Altare
della Patria, ma questa volta dalla parte della scalinata dell’Ara Coeli: nessuna vittima.
Milano: ora imprecisata: un impiegato della Banca
Commerciale Italiana di piazza della Scala trova una borsa
nera e la consegna alla direzione. La borsa contiene un’altra
bomba che non esploderà per un difetto di funzionamento del
timer del congegno d’innesco. Misteriosamente, alle 21.30,
l’ordigno viene fatto esplodere dagli artificieri della polizia. È
una decisione a tutt’oggi inspiegabile: distruggendo quella
bomba sono stati persi per sempre indizi preziosissimi. Meno
di cinque anni dopo, a Brescia, il copione dei reperti distrutti si
ripeterà dopo un’altra strage: la strage di piazza della Loggia.
Cinque istruttorie, otto processi, tre piste investigative
battute con scarsi risultati, un alternarsi di sentenze in un
baillame di sedi processuali, oltre trenta anni di silenzi, lacune,
depistaggi, inquinamenti. La vicenda giudiziaria della strage di
piazza Fontana si racchiude in questo elenco negativo di
impotenze e scarsa volontà di cercare la verità. All’inizio del 2000, trentun anni dopo i fatti,
si è aperto a Milano l’ottavo processo per la strage. Questa volta l’accusa punta a
mandanti dell’estrema destra legati all’ordinovismo veneto con, all’apparenza, solidi legami
con uomini dell’apparato dei servizi segreti americani. Purtroppo, anche in questo caso, il
teorema accusatorio, pur avvicinandosi di molto alla soglia della verità, mostra evidenti
lacune dovute, si sostiene da più parti, all’utilizzo nelle indagini di uomini dei servizi segreti
militari italiani e al contributo di qualche ambiguo pentito, peraltro ora scomparso dalla
scena. Il processo procede a rilento, anche perché uno dei testi dell’accusa, l’”americano”
Carlo Digilio, l’uomo della CIA, ha subito due ictus, è malato di tumore, soffre di disturbi
della memoria e confonde gli eventi.
- 22 luglio 1970
La “Freccia del Sud”, un treno carico di passeggeri (il direttissimo P.T.), tra cui non
pochi pendolari, deraglia nei pressi della stazione di Gioia Tauro, in provincia di Reggio
Calabria, il 22 luglio 1970: i morti sono sei, cinquanta i feriti. Una commissione d’inchiesta
stabilirà che si tratta di un incidente, anche se diversi bulloni che fissano i binari sulle
traversine, verranno trovati allentati o addirittura svitati. Quattro ferrovieri verranno
incriminati per il deragliamento del treno. Sarà solo
dopo molti anni che un’inchiesta più attenta accerterà
che la tragedia di Gioia Tauro non è da addebitarsi alla
fatalità, ma ad un attentato di cui ignoti resteranno per
sempre, anche a causa del troppo tempo trascorso, gli
esecutori e i mandanti. Secondo una versione
corrente, ma mai suffragata da elementi di prova, la
matrice dell’attentato di Gioia Tauro è da collegare con
la rivolta di Reggio Calabria, scoppiata appena otto
giorni prima, il 14 luglio, alla notizia che è Catanzaro la
città designata quale sede dell’appena eletta assemblea regionale. Nata dalla collera
popolare, innescata dallo stato di abbandono in cui versa il Meridione italiano, la rivolta di
Reggio Calabria sarà presto egemonizzata dalla destra estrema.
La rivolta rappresenta l’esplosione del più vasto moto popolare della storia della
Repubblica Italiana. Esplode il 13 luglio 1970, in piena crisi di governo, e dura, pur con
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varia intensità, fino al marzo 1971, con qualche fiammata nel settembre dello stesso anno
e strascichi che arrivano fino al 1973. il motivo scatenante della rivolta è, solo
all’apparenza, banale: la sottrazione a Reggio Calabria del titolo di capoluogo della
regione.
- 31 maggio 1972
Avvertita da una telefonata anonima, una pattuglia dei carabinieri, giunge in località
Peteano, in provincia di Gorizia. La chiamata, arrivata al centralino del pronto intervento
alle 22.35, ha descritto un’auto da controllare: una FIAT 500 che presenta due fori di
pistola sul parabrezza. Insomma un normale controllo. I carabinieri si avvicinano alla
piccola vettura, la esaminano, poi uno di loro cerca di aprire il cofano: l’auto salta in aria.
Collegato al gancio di apertura un ordigno con detonatore a strappo. Muoiono, dilaniati
dall’esplosione, il brigadiere Antonio Ferraro e i carabinieri Donato Poveromo e Franco
Dongiovanni. Restano gravemente feriti il tenente Francesco Speziale e il brigadiere
Giuseppe Zazzaro. Chi ha ordito quella micidiale trappola?
L’inchiesta sulla strage di Peteano rivelerà un’intricata
trama fatta di depistaggi, servizi segreti, vecchi arnesi del
golpismo nostrano, militari infedeli e neofascisti convinti di lottare
per la rivoluzione, in realtà solo strumenti di provocazione. Della
strage di Peteano si è autoaccusato una delle più emblematiche
figure del neofascismo italiano: Vincenzo Vinciguerra, condannato
all’ergastolo con sentenza passata in giudicato. Vinciguerra,
senza mai accettare né la qualifica, né i benefici spettanti ad un
collaboratore di giustizia e soprattutto senza rinunciare alla sua
identità, da anni sta ricostruendo l’ambiente e i legami che sono
all’origine dello stragismo italiano.
Una vicenda giudiziaria quanto mai intricata quella relativa
alla strage di Peteano, anche se una vicenda giudiziaria formalmente chiusa, certamente
sul piano delle responsabilità penali. Per la morte dei tre carabinieri abbiamo oggi, infatti,
una delle poche condanne passate in giudicato di tutta la storia dello stragismo italiano.
Ma non è un caso che per Peteano si sia giunti a questa conclusione grazie alla decisione
di uno dei responsabili di ammettere le proprie responsabilità. Una scelta che per
l’estremista Vinciguerra ha avuto il significato di una clamorosa denuncia contro il suo
stesso ambiente politico. Per Vinciguerra, infatti, l’ordinovismo veneto, ma più in generale
tutto il mondo dell’estrema destra italiana degli anni Settanta, era inquinato da ben
identificati personaggi dei corpi dello Stato, ma anche da collegamenti con elementi
dell’intelligence atlantico. E che Vinciguerra avesse ragione lo dimostra la stessa storia
processuale della strage di Peteano, intessuta da continui depistaggi. I principali
depistatori? Alcuni ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che, per coprire gli autori del
massacro arrivano a costruire una falsa pista che porta all’arresto ed al processo di alcuni
piccoli malavitosi friulani, completamente estranei alla vicenda. Anche quei depistatori di
professione oggi sono stati processati e condannati. Ma sulla strage di Peteano non tutto è
chiaro. C’è ancora qualcosa da capire.
- 17 maggio 1973
È trascorso un anno dall’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi,
assassinato da un killer davanti alla sua abitazione. Nel cortile della questura di Milano, in
via Fatebenefratelli, si è da poco conclusa una cerimonia in ricordo del funzionario, alla
quale ha partecipato il ministro dell’Interno Mariano Rumor. L’auto del ministro sta
uscendo dal portone centrale, quando un ordigno, scagliato da qualcuno nascosto tra la
folla che si è assiepata davanti all’edificio, semina il terrore; quattro morti e cinquantadue
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feriti. Lo spettacolo è allucinante. L’attentatore viene subito individuato, sottratto ad un
tentativo di linciaggio ed arrestato. È Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico individualista,
seguace delle teorie di Steiner, ma stranamente in stretto contatto con alcuni neofascisti
veneti e, lo si scoprirà dopo, in rapporti con il SID, il servizio segreto militare dell’epoca.
Bertoli, appena giunto in Italia, dopo un lungo soggiorno in Israele, sarà condannato
all’ergastolo con sentenza definitiva. Ma la vicenda della strage di via Fatebenefratelli avrà
un imprevisto sviluppo processuale nella seconda metà degli anni Novanta, quando
verranno processati e condannati alcuni neofascisti veneti, assieme ad un ufficiale con
passioni golpiste, già implicato nella trama della “Rosa dei venti” e ad un alto responsabile
dei servizi segreti militari.
Secondo il giornalista bolognese Carlo Amabile, esperto in
misteri d’Italia, l’omicidio del commissario Calabresi, avvenuto il
17 maggio 1972 e la strage davanti alla questura di Milano, hanno
infiniti punti di contatto, tanto da sembrare, addirittura, sanguinosi
e dolorosi fili di una stessa trama. E questo a prescindere dalla
circostanza più rilevante: è cioè che il sedicente anarchico e vero
fascista, amico dei servizi segreti, Gianfranco Bertoli lanciò una
bomba
davanti
alla
questura
proprio
in
occasione
dell’inaugurazione di un busto dedicato al commissario, nel primo
anniversario del suo assassinio. Il fatto che Calabresi sapesse chi
era Bertoli, tanto da custodire in un cassetto della sua scrivania
un ampio fascicolo a lui intestato è forse il fatto più noto. Noti sono anche i legami dello
stesso anarchico con la struttura segreta Gladio. Decisamente meno note sono, invece, i
legami di Bertoli con l’estrema destra veneta che comprende tutta una serie di personaggi
che portano alla strage di piazza Fontana del 1969.
Così come mai del tutto chiarito è lo scopo del viaggio che Calabresi, poco tempo
prima di morire, fa a Trieste, assieme ad un personaggio che lega assieme proprio
l’estrema destra veneta, la strage di piazza Fontana e Gladio. Calabresi indagava su un
traffico d’armi e per questo è stato eliminato? Calabresi, semplice e forse inconsapevole
ingranaggio delle deviazioni statali, scopre di essere stato usato? E da chi? Perché mai
nessun magistrato ha voluto approfondire i legami tra l’omicidio Calabresi e la strage del
1973? Per il caso Calabresi, un presunto innocente è ancora in galera. Per la strage alla
questura di Milano la verità è arrivata. Ma dopo ventisette anni.
- 28 maggio 1974
Sono le 10.00 di una piovosa mattina di maggio quando, con un boato, la tragedia
dilania una piazza di Brescia, la centralissima piazza della Loggia, dove è in corso una
manifestazione sindacale. Nascosto in un cestino dei rifiuti, un ordigno confezionato con
circa un chilo di tritolo, uccide otto persone, ferendone altre centotre. Una strage
tremenda, un massacro insensato che colpisce a freddo una città già da tempo, però, alle
prese con l’emergere di un
estremismo di destra violento e
irrazionale. Dopo la strage di
piazza Fontana e quella di via
Fatebenefratelli,
l’eccidio
di
Brescia è il terzo attacco cruento
alla
convivenza
civile.
L’inchiesta appare subito viziata
da uno stranissimo episodio,
mai del tutto chiarito: su ordine
del vicequestore (responsabile
dell’ordine pubblico nella piazza)
Aniello
Diamare,
il
luogo
dell’attentato
viene
immediatamente fatto pulire
dalle autopompe dei vigili del
fuoco. Questo assurdo lavaggio
di piazza della Loggia, messo in
atto prima ancora che un
magistrato arrivi sul posto, oltre
a provocare la perdita di
qualsiasi reperto utile alle
44
indagini, assomiglia molto, troppo, all’inopinata decisione di far brillare l’ordigno trovato il
12 dicembre 1969, subito dopo la strage di piazza Fontana. Un’inchiesta, quella per la
strage di Brescia, che parte subito col piede sbagliato, ma che è destinata a continuare
anche peggio. A tutt’oggi la strage di piazza della Loggia è una strage impunita. Una delle
tante.
Difficile dire se nelle varie inchieste condotte per la strage di Brescia a prevalere
siano state le incapacità investigative oppure i giochi truccati di chi quelle indagini doveva
portare avanti. Sta di fatto che dopo sette processi anche per questo eccidio non c’è
alcuna verità giudiziaria. Dalla piazza lavata con le autopompe che cancellano ogni
elemento di prova al ruolo dell’ufficiale dei carabinieri Francesco Delfino, detto per inciso
l’uomo che anni e anni dopo arresterà Balduccio Di Maggio, il grande “accusatore”, non
creduto, di Giulio Andreotti, e finirà implicato nelle trattative per il sequestro Soffiantini,
dalla messinscena dell’eliminazione di Giancarlo Esposto fino all’orribile fine di uno dei
maggiori indiziati, Ermanno Buzzi, non ucciso, ma fatto uccidere in carcere: tutto quanto si
è mosso attorno alle istruttorie per il massacro di otto persone, altro non è che materiale
inquinato.
- 4 agosto 1974
Sulla linea ferroviaria Firenze- Bologna, in prossimità dell’uscita
dalla lunga galleria appenninica, in località San Benedetto Val di Sambro,
un ordigno ad alto potenziale, a base di termite, esplode in un vagone del
treno “Italicus”, affollato di gente che si sposta per le vacanze estive. I
soccorsi, difficilissimi nel buio del tunnel, estraggono dalle lamiere del treno
quattordici morti e quarantaquattro feriti. Si scoprirà, durante la lunga
inchiesta giudiziaria che ancora una volta non è riuscita finora a trovare
alcun colpevole, che la bomba sarebbe dovuta esplodere al centro della
galleria, con un impatto di morte ancora maggiore.
- 2 agosto 1980
Le lancette dell’orologio della sala d’aspetto di seconda classe della stazione di
Bologna si fermano sulle 10.25: è quello l’esatto momento in cui esplode un ordigno ad
altissimo potenziale. La presenza di un treno fermo sul primo binario crea un’onda d’urto
che provoca il crollo dell’intera ala sinistra dell’edificio. Una strage di dimensioni
allucinanti: ottantacinque morti e duecento feriti. È la strage più grave che si sia mai
verificata in Italia, ma anche una strage anomala perché si verifica in un momento politico
diverso e ormai lontano da quello in cui si collocano le altre stragi, quelle degli anni
Settanta. Dopo una serie interminabile di processi, tutti molto indiziari ed ideologici,
conclusisi con esiti alterni, per la strage alla stazione di Bologna sono stati condannati con
sentenza definitiva, in quanto esecutori materiali, due esponenti dello spontaneismo
armato neofascista: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che da sempre protestano la
loro innocenza. Condannati, ma solo per depistaggio, anche il gran maestro della Loggia
P2 Licio Gelli e due militari dei servizi segreti. Anche se sotto il profilo giudiziario, a meno
di un doveroso processo di revisione, la strage di Bologna non può essere annoverata tra
le stragi insolute, a parere di chi scrive è proprio questo orrendo episodio uno dei più
grandi punti interrogativi nella storia dei misteri d’Italia.
Una tormentatissima istruttoria durata sei anni. Cinque gradi di giudizio. Un iter
processuale cominciato nel 1987, a sette anni dall’eccidio e conclusosi in Cassazione, nel
1995, con due code dibattimentali che hanno ancor più indebolito l’impianto accusatorio.
Sta in questi dati sommari la vicenda giudiziaria relativa alla strage alla stazione.
Ciononostante sembrerebbe, almeno a prima vista, che per la più tremenda delle stragi
45
che l’Italia abbia mai vissuto sia stato raggiunto un certo grado di verità. Eppure, potrà
sembrare strano, ma così non è.
In primo luogo
non
esiste
alcun
mandante per quella
bomba nella valigia che
esplose alle 10.23 di un
tranquillo
sabato
di
agosto. A venti anni da
quella esplosione non
sappiamo né chi la
ordinò, né a che tipo di
strategia rispondesse un
simile
massacro.
Nessun
mandante,
quindi, anche perché
Francesca Mambro e
Valerio Fioravanti sono
stati condannati con
sentenza definitiva solo
come esecutori materiali
della strage. Esecutori
perché e per conto di
chi? Condannati, ma per
depistaggio due “arnesi”
della Loggia P2 e due
ufficiali del SISMI. Tutto
qui. Anche il castello
accusatorio,
pur
confermato dalla corte di
Cassazione,
presenta
molti buchi: le accuse
contro la Mambro e
Fioravanti si basano
soltanto sulla parola del
solito
pentito,
un
personaggio
della
malavita romana quanto
mai
inquietante;
il
depistaggio attuato dagli
uomini del SISMI (la valigia piena di armi sul treno Taranto-Milano del gennaio 1981) era
un ben strano depistaggio che puntava in realtà a far accusare gli attuali condannati;
nessuna seria indagine è stata mai condotta sui molti collegamenti esistenti tra la strage di
Bologna e quella di Ustica. E questo solo per citare gli angoli più bui di questa ennesima
vicenda giudiziaria senza una verità certa.
Una ricostruzione minuziosa e dettagliata di tutte le imprese criminali da loro portate
a termine, l’ammissione, senza reticenze, delle loro responsabilità penali e politiche,
l’espiazione delle condanne che diversi tribunali hanno loro inflitto: Francesca Mambro e
Valerio Fioravanti hanno pagato (ed ancora stanno pagando) i loro conti con la giustizia.
Hanno spiegato come e perché dettero vita ad una banda armata denominata NAR
(Nuclei Armati Rivoluzionari), hanno raccontato come e perché decisero di uccidere
magistrati, poliziotti, pentiti, avversari politici, hanno narrato fin nei minimi particolari le
rapine con cui si autofinanziavano e che spesso finivano in maniera cruenta. E per tutti o
fatti loro attribuiti sono stati ampiamente condannati. Una sola imputazione hanno sempre
respinto con sdegno e veemenza: quella di essere stati gli esecutori della strage alla
stazione di Bologna. Incastrati soltanto sulla base di una quanto mai equivoca
testimonianza di un piccolo malavitoso romano e di un cervellotico teorema giudiziario
sviluppato negli anni, con gli immancabili aggiustamenti, dalla procura di Bologna,
teorema, oltretutto, monco e traballante, Mambro e Fioravanti sono stati condannati con
sentenza definitiva della Cassazione.
Ma sono stati davvero loro? O ci troviamo di fronte ad un evidente errore giudiziario
che, oltre a condannare degli innocenti, lascia a piede libero i veri responsabili della più
grande strage italiana? Attorno all’azione dei NAR sono state costruite dalla magistratura
le teorie più ardite. I NAR braccio armato della Loggia P2. I NAR braccio armato di Cosa
Nostra. Valerio Fioravanti è stato messo in relazione alla massoneria deviata di Licio Gelli,
alla banda della Magliana. Perfino ai servizi segreti. Lo hanno accusato di aver ucciso il
giornalista Mino Pecorelli ed il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella: con il
tempo queste accuse sono miseramente crollate. Resta faticosamente in piedi il terzo lato
del triangolo: la strage di Bologna.
46
ƒ
Canzoni
Anno di pubblicazione
1974
Casa discografica
Produttori Associati
Produzione
Danè
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
VIA DELLA POVERTÀ
LE PASSANTI
FILA LA LANA
LA BALLATA DELL’AMORE CIECO (o della vanità)
SUZANNE
MORIRE PER DELLE IDEE
CANZONE DELL’AMORE PERDUTO
LA CITTÀ VECCHIA
GIOVANNA D’ARCO
DELITTO DI PAESE
VALZER PER UN AMORE
“Canzoni” è un disco di transizione, ma interessantissimo sotto molteplici spetti;
ripropone in una nuova veste sei canzoni tratte dal primo repertorio deandreiano e
riarrangiate da Giampiero Reverberi insieme alle riuscitissime versioni di “Suzanne” e
“Giovanna d’Arco” di Leonard Cohen curate invece da Nicola Piovani. Tre gli inediti:
“Morire per delle idee” e “Le passanti”, tratte dal repertorio di Georges Brassens, e la
mitica “Via della povertà”. L’album venne pubblicato anche per utilizzare il materiale che
Casetta teneva pronto in caso di urgenti necessità commerciali, come è avvenuto per
“Volume 3”, o per sopperire alla stasi creativa di Fabrizio De André.
“Via della povertà” è una strada piena di alcolizzati, pazzi, umili, diseredati, falliti: i
personaggi che De André ha sempre voluto tratteggiare, perché simboli della semplicità.
“Fila la lana” è una rielaborazione di una musica popolare francese del XV secolo, “La
ballata dell’amore cieco” è un divertissement sul folle amore, per cui un uomo si taglia le
vene per una donna che “non lo amava niente”. “La città vecchia” è la parodia sull’ipocrisia
dei benpensanti, che prima disprezzano la prostituzione, poi, di notte sono i primi ad
usufruirne: questa composizione prende ispirazione dall’avversione che Fabrizio provava
per il suo professore di liceo Decio Pierantozzi. “Giovanna d’Arco” è la storia della grande
donzella che ha liberato la Francia; Fabrizio cerca però di indagare sullo stato d’animo che
ha spinto la santa a quelle azioni eroiche. La storica “Delitto di paese” è la ennesima storia
di prostitute, protettori e vecchi poveri: infatti narra la vicenda di un anziano signore che
decide di divertirsi un’ultima volta andando con una prostituta. Al momento del pagamento,
però, il vecchio individuo non ha soldi per pagare, e così la “signora” va a chiamare il suo
“amico” per uccidere l’anziano; i due, dopo aver compiuto l’omicidio, trovano solo cambiali,
debiti e atti giudiziari, per cui, presi da pietà si inginocchiano sul cadavere e iniziano a
chiedere perdono. Scoperti dai carabinieri vengono impiccati. Fabrizio cerca di non entrare
nella questione ma si limita a descrivere i fatti così come sono avvenuti; c’è però una sua
vaga impressione nell’ultima strofa: “qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto”
riassume la comprensione dell’autore verso gli impiccati. Il “Valzer per un amore” è infine
la rielaborazione del “Valzer campestre” del maestro Marinuzzi.
47
- Umberto Saba
Il brano “La città vecchia”, pubblicato nel dicembre 1965, risente dell’influenza di
Georges Brassens, ma Fabrizio la elabora in maniera straordinariamente personale. I
personaggi, gli odori, i sapori, sono definiti, suggestivi, affascinanti; mentre canta sembra
di vivere quelle sensazioni, immersi nell’atmosfera del porto della sua Genova. De André
si ispira alla “Città vecchia” del poeta triestino Umberto Saba, proiettando quei personaggi
della Trieste di inizio Novecento nella sua Genova del dopoguerra. D’altronde De André
può essere considerato il Saba genovese, in quanto legato e affascinato anch’egli dalla
vita marginale della sua città.
- Vita e opere
Nato in una città che apparteneva allora all’Impero
austro-ungarico (a Trieste il 9 marzo 1883), Saba ebbe tuttavia
la cittadinanza italiana per via del padre, Ugo Edoardo Poli,
discendente da una nobile famiglia veneziana. La madre,
Felicita Rachele Cohen, apparteneva ad una famiglia ebraica di
piccoli commercianti, tradizionalmente legata alle pratiche
religiose e agli affari. Ma quando ebbe il figlio, era già stata
abbandonata dal marito, un giovane «gaio e leggero»,
insofferente dei legami familiari. Ben presto il bambino viene
messo a balia da una contadina slovena, Peppa Sabaz, che,
avendo perso il proprio figlio, riversa su di lui il suo affetto e la
sua tenerezza, finché la madre, austera e severa, lo reclama
presso di sé. Privo della figura paterna, diviso nel suo amore fra
la madre naturale e la madre adottiva, Saba trascorre un’infanzia piuttosto difficile e
malinconica, che rievocherà più tardi nelle poesie intitolate “Il piccolo Berto”.
Frequenta le scuole con scarso profitto e interrompe gli studi alla quarta ginnasiale,
decidendo di proseguirli come autodidatta. L’alternativa è quella di un impiego presso una
ditta triestina, dove subisce la tirannia delle «ore del lavoro lente». La sola forma di
comprensione e di sfogo, destinata a divenire un approdo autentico, gli è offerta dalla
poesia, che inizia ben presto a coltivare. L’amore per Leopardi viene contrastato dalla
madre, che cerca di fargli leggere piuttosto uno scrittore costruttivo e impegnato come
Parini, per combattere la sua tendenza “troppo pessimistica”. La formazione letteraria
matura via via sui testi di Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Foscolo e Manzoni, fino ai
contemporanei Pascoli e D’Annunzio. Un soggiorno di studio fra il 1905 e il 1906 a
Firenze, dove tornerà nel 1911, non lo coinvolge nella battaglia per il rinnovamento
letterario che, proprio in quella città, i giovani intellettuali stavano avviando.
Particolarmente difficili risulteranno i rapporti con “La voce”, che rifiuta di pubblicargli il
saggio “Quello che resta da fare ai poeti”, mentre il concittadino Slataper stronca la prima
raccolta dei suoi versi. Come Svevo, anche Umberto Saba, sia pure in misura diversa e
meno clamorosa, sconta la sua collocazione di intellettuale periferico, più legato alle radici
profonde della cultura mitteleuropea che agli atteggiamenti, non di rado superficiali, di
quella nazionale.
È un isolamento che persisterà anche nei decenni successivi, per lo scarso
interesse riservato dalla critica fra le due guerre: fa eccezione il numero unico dedicato a
Saba da “Solaria” nel 1928, con saggi di Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale e Sergio
Solmi. Tra il 1907 e il 1908 compie a Salerno il servizio di leva, un’esperienza che si
rifletterà nei “Versi militari”. Tornato a Trieste sposa Carolina Woelfer, la Lina che canterà
nei suoi versi, così come farà per la figlia Linuccia, nata poco dopo. Saba abita a
Montebello, alla periferia di Trieste, dove scrive le poesie di “Casa e campagna.
48
Nel 1911 pubblica la prima raccolta delle “Poesie” e, l’anno successivo, “Con i miei
occhi”. Entrambi i volumi sono firmati con lo pseudonimo che accompagnerà d’allora in
avanti lo scrittore, assumendo una valenza emblematica: il rifiuto del cognome paterno si
risolve infatti in un omaggio alla madre e alla nutrice slovena (Saba proviene da Sabaz, e
significa in ebraico “pane”). Dopo aver partecipato al primo conflitto mondiale, Saba apre a
Trieste una libreria antiquaria, che costituirà, insieme con la poesia, l’occupazione di tutta
la sua vita. Nel 1921 esce il primo “Canzoniere”, in cui Saba raccoglie la sua precedente
produzione poetica; sotto questo titolo, destinato a rimanere definitivo, verranno
comprese, nelle ulteriori edizioni, anche le poesie dei decenni successivi. Sofferente di
disturbi nervosi, nel 1928 intraprende una cura con un allievo di Freud, il triestino Edoardo
Weiss. Si accosta così direttamente alla psicanalisi, che gli offre strumenti più raffinati per
«smascherare l’intimo vero» e per approfondire quella «chiarezza psicologica» che già
caratterizzava la sua produzione poetica.
Colpito dalle leggi razziali, lascia l’Italia per recarsi a Parigi; allo scoppio della
guerra, nel 1939, è a Roma, dove Ungaretti cerca di proteggerlo; durante l’occupazione
nazista, vive nascosto a Firenze, ospite anche nella casa di Montale. Nel 1945 Einaudi
pubblica la seconda edizione, di molto accresciuta, del “Canzoniere; quella definitiva, che
abbraccia l’intero arco dell’attività poetica, uscirà postuma nel 1961. La tiepida accoglienza
che la critica aveva riservato alla sua opera induce Saba a farsi interprete di se stesso,
scrivendo la “Storia e cronistoria del Canzoniere”, ricca di acute osservazioni umane e
poetiche. Ma, con il riconoscimento della sua statura di poeta che si consolida nel
dopoguerra, giungono anche le prime importanti attestazioni pubbliche; nel 1946 Saba
aveva ricevuto il Premio Viareggio, cui seguirà, nel 1953, il Premio dell’Accademia dei
Lincei; nel medesimo anno l’Università di Roma gli conferisce la laurea in Lettere “honoris
causa”. Gli ultimi anni sono resi difficili dalle crescenti crisi depressive e dalla malattia della
moglie, che muore nel 1956; Saba la seguirà nove mesi dopo, il 25 agosto 1957.
Nel 1964 esce il volume complessivo delle “Prose”, che comprende le opere
pubblicate in precedenza: in particolare “Scorciatoie e raccontini” e “Ricordi-Racconti”,
dove il gusto della narrazione breve e autobiografica si condensa efficacemente
nell’apologo e nella moralità, sorretta da un’ironia lucida e a volte tagliente. Nel 1975
Einaudi pubblicherà il romanzo incompiuto “Ernesto”, storia, dagli intensi risvolti
psicanalitici, dei turbamenti erotici di un adolescente, in cui l’atmosfera triestina è resa da
un singolare impasto di lingua e dialetto.
- Caratteristiche della produzione poetica
Scorrendo con una certa attenzione i momenti salienti della biografia, emergono
alcuni tratti essenziali: la povertà di avvenimenti esteriori, da cui Saba ricava tuttavia
costanti suggerimenti per alimentare la sua vena poetica; il suo isolamento, che
corrisponde ad una sostanziale estraneità nei confronti degli ambienti culturali e delle più
avanzate ricerche letterarie. La sua poesia è quella di un autodidatta, che si fonda
prevalentemente sui libri della tradizione scolastica, ignorando pressoché completamente
il laboratorio delle sperimentazioni contemporanee, così vive nel primo Novecento e fertili
di risultati innovatori.
È questo un limite della poesia di Saba, ma anche la sua forza, la condizione e il
segno della sua originalità. La crisi della parola, che investe la poesia novecentesca, non
trova terreno propizio in Saba, che adopera senza timori il termine casalingo e familiare,
“per immettersi nelle parole di tutti, nel sermo trito e antico che tutti vivono e parlano”. Non
solo, ma, insieme col linguaggio della quotidianità, Saba riprende e riporta non di rado
quello della tradizione letteraria che una lunga frequentazione ha fatto diventare semplice
e chiara. La predilezione per “la parola che nomina” e definisce con precisione, anziché
alludere o evocare, si inserisce in una struttura sintattica articolata e ben definita, che può
49
contenere la poesia, senza sentirne le costrizioni, anche in un verso o in uno schema
proprio della cantabilità tradizionale.
Negli anni delle avanguardie, Saba non esita ad adottare le forme poetiche del
passato, come la metrica regolare e l’uso delle rime: i “Versi militari” ad esempio, che
costituiscono la prima serie organica di testi, sono composti interamente nella forma
classica del sonetto. Anche in seguito Saba farà ampiamente uso di questi elementi,
attribuendo loro una particolare importanza e funzione. La poetica dell’Ermetismo gli
rimarrà sostanzialmente estranea, nel rifiuto di un dettato di ardua comprensione e
dell’analogia come tramite di un rapporto cifrato con la realtà. Pur pulsando nel cuore del
Novecento, la sua poesia è stata definita come espressione di una linea antinovecentista,
in quanto rifiuta le più vistose
e spericolate innovazioni
della ricerca poetica del
proprio tempo. Questo non
significa che la sua lirica non
subisca un’evoluzione anche
sul piano delle soluzioni
tecniche, strettamente legate
all’espressione
di
una
sensibilità acuta e moderna.
L’incontro con il verso libero
di origine ungarettiana gli
serve per affinare la sua
ispirazione, ma che non ne
modifica le costanti di fondo,
bensì imprime loro una più
aurea
leggerezza.
La
commozione del ricordo e
l’apertura verso forme di
coralità conducono ad una
drammatizzazione che si
realizza nello sdoppiamento
e nella triplicazione della
voce in “Preludio e fughe”, la
cui polifonia esalta il “valore
dell’eco” della parola.
Con le ultime raccolte la poetica giunge a toni di pura evocazione, in un recupero
del vissuto attraverso la memoria che può unire la proiezione mitica a un inesausto
bisogno di conoscenza e di partecipazione. Al di là delle diverse soluzioni, la poesia di
Saba è sempre sostenuta da una chiarezza del dettato che usa modi semplici e immediati,
con un lessico volutamente povero e comune. Il rischio della banalità è consapevolmente
accettato, per la scommessa di far sprigionare effetti inediti e originali anche dagli elementi
più scontati del discorso. La sua riduzione del discorso al “grado zero” della scrittura
poetica non ha nulla, tuttavia, di “crepuscolare”. Essa obbedisce ad un movimento di
limpida e lineare efficacia, che dal soggetto si sposta sulla realtà anche più dimessa e
quotidiana per giungere a individuare i significati essenziali e universali della vita.
- I temi
Come si è visto, Saba muove spesso da una situazione autobiografica, che non ha
però nulla di individualistico o di astratto, ma si confronta immediatamente con una realtà
particolare e concreta, legata alle normali consuetudini della vita, alle presenze familiari e
domestiche. La moglie, gli animali della campagna, la città in cui vive sono alcuni dei temi
dominanti nelle prime poesie ma anche in seguito ricorrenti, che Saba si propone di
affrontare nel rispetto della loro autonoma e peculiare individualità. Resta fondamentale, in
ogni caso, il ruolo del soggetto poetante, che, dopo aver indugiato sulle cose, le eleva a
simbolo più generale di una condizione dell’uomo e della vita. Come ha scritto Mengaldo,
Saba coglie “il senso del dispiegarsi dell’esperienza individuale come ripetizione di
un’esperienza già vissuta, individualmente nel proprio passato, archetipicamente nella
vicenda dell’uomo di sempre”.
L’umanità del poeta triestino, che costituisce il fulcro della sua ricerca poetica, è
cordiale e diretta ma non riflessa, nella misura in cui è intimamente percorsa da una vena
di lucida consapevolezza, che, anche quando non si traduce in toni sentenziosi, è sempre
espressione di un’intima e sofferta moralità. Il suo realismo poetico non si restringe mai
alle apparenze superficiali, ma cerca i sensi riposti e segreti delle cose, per farne vibrare le
50
risonanze profonde. È una ricerca che non si arresta di fronte al “negativo” dell’esistenza,
anche a costo di metterne a nudo gli aspetti più scomodi e sgradevoli. Apparentemente
semplice e lineare, la poesia di Saba è nutrita dalla lettura dei più spericolati e impietosi
maestri del pensiero contemporaneo, dal Nietzsche a Freud.
Il suo rapporto con la vita è tutt’altro che facile o acquiescente. Saba non ignora, ma
ne fa oggetto di lucida rappresentazione, l’ambiguità profonda dell’esistenza. Le stesse
aperture cordiali dei suoi versi nascono dallo sforzo di superare un individualismo che
conserva in sé tracce profonde di angoscia e di dolore. La città è amata in se stessa ma
anche nei luoghi in cui il poeta può isolarsi. Il desiderio di tuffarsi nella vita di tutti è la
riscoperta di un senso di partecipazione che presuppone la solitudine e l’esclusione
dell’individuo. Riprendendo questi spunti, nella poesia “Il borgo”, Saba riaffermerà “il
desiderio improvviso d’uscire / di me stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti /
gli uomini di tutti / i giorni”; ma non mancherà di sottolineare di essere stato “solo con il
mio duro / patire. E morte / m’aspetta”.
I due momenti possono scindersi: al godimento della
gioia, all’amore, può sostituirsi l’angoscia più cupa; così ci si
può salvare dall’orrore riscoprendo le ragioni della più comune
ed elementare solidarietà. Alla fine, quello che conta, è il
rapporto dialettico che si stabilisce fra la gioia e il dolore,
considerati entrambi come elementi costitutivi dell’esistenza
individuale e collettiva. L’ossimoro esistenziale può così essere
considerato come la cifra più autentica, la sintesi di questa
esperienza; ma si tratta di un ossimoro non esasperato nelle
sue componenti antitetiche, bensì composto nelle forme di una
discrezione che resta l’alta testimonianza di una partecipazione
civile e di un impegno umano. È “la serena disperazione” che dà
il titolo alla sezione di poesie comprese fra il 1913 e il 1915; è “della vita il doloroso amore”
che suggella una lirica emblematica come “Ulisse”
- Città vecchia
Alla ricerca della solitudine e alla visione cittadina che si offre dall’alto, presente
nella poesia “Trieste”, si sostituisce qui l’immergersi in “un’oscura via di città vecchia”, in
una strada del quartiere del porto affollata e brulicante della vita di ogni giorno. Questo
bagno nella confusione degli uomini e delle cose, induce il poeta a riscoprire le ragioni
semplici ma autentiche dell’esistenza, ristabilendo con i propri simili un rapporto di
simpatia e di solidarietà. Il discorso sugli umili non ha però nulla di manzoniano o di
genericamente populistico; esso nasce piuttosto da una visione della città che è di origine
baudelairiana, in quanto coglie anche gli aspetti più sordidi e brutali dell’esistenza.
Addentrandosi “dove è più turpe la via”, Saba avverte il suo pensiero di farsi più
puro, attribuendo alla riscoperta dell’umana fratellanza un significato di tipo religioso.
“Signore”, a sua volta, riprende le rime “amore” e “dolore”,che sono per il poeta gli
elementi essenziali della vita, termine che conclude il verso 17. A tutte queste parole,
collocate in posizione di rilievo, Saba affida il messaggio di questi suoi versi, nella loro
profonda umanità. Si aggiunga che sin d’ora Umberto Saba sembra assumere un
atteggiamento polemico nei confronti del Simbolismo e di ogni forma di poesia pura:
l’infinito è da lui ritrovato non in una astratta e individualistica relazione di corrispondenze
analogiche, ma nella concreta umiltà della gente povera e diseredata. Qui la cordiale
rappresentazione di un angolo popolare di Trieste non scade mai nel populismo, perché il
poeta non si china paternalisticamente su quel mondo, lo sente bensì come un mondo
popolato da creature simili a lui, nelle quali come in lui si “agita il Signore”. Dichiara lo
51
stesso Saba che la folla rigurgitante nei vicoli e vicoletti della città vecchia gli ispira
pensieri di religiosa adesione.
Parrebbe qui trattarsi della materia di un violento, quasi espressionistico, realismo:
e di questo aspro realismo ci sono tutti gli elementi consacrati, tradizionali: femmine,
dragoni, vecchi, bestemmie, marina, prostitute. E tuttavia questa materia si compone in
linee di severa, e pur viva e limpida, poesia morale: si osservi come la rima accortamente
manovrata non soltanto tenga il posto del legame logico necessario per giustificare il
passaggio, in una sintassi veramente tradizionale, dalla visione realistica alla meditazione
largamente umana che la conclude; ma come ugualmente attraverso la rima la parola
realistica perda di peso, di violenza, di carnalità e di corposità, si allarghi immediatamente
su una prospettiva di analogie morali, di esperienze dell’anima, espresse attraverso segni
sensibili. In questo modo la parola realistica si apre ad accogliere in sé l’eco analogica;
l’intervento di un ordinamento meditativo subisce così, attraverso questo suo allargarsi e
aprirsi, proprio quella violenza metafisica di cui si è tanto parlato in rapporto col linguaggio
della poesia del Novecento; e lo stesso avviene pure per la parola morale e meditativa,
anch’essa sollevata da una ferma logicità a una mossa e inquieta atmosfera analogica.
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
52
ƒ
Volume 8
Anno di pubblicazione
1975
Casa discografica
Produttori Associati
Produzione
Danè
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
LA CATTIVA STRADA
OCEANO
NANCY
LE STORIE DI IERI
GIUGNO ‘73
DOLCE LUNA
CANZONE PER L’ESTATE
AMICO FRAGILE
Il 9 gennaio 1975, sulla scia del grandissimo successo che De Gregori stava
vivendo con “Rimmel”, la Produttori Associati fa uscire il nuovo album, “Volume 8”,
provocando il disappunto della critica nostrana che mosse pesanti critiche al disco, così
come era avvenuto per “Storia di un impiegato”. Si parlò di crisi, lasciando intendere che
De André aveva dovuto fare ricorso a Francesco De Gregori, ma non del contributo che
egli offrì in fase creativa alla realizzazione di “Rimmel”. “Volume 8” è un grande disco, sia
per l’importanza di quella collaborazione, sfociata in pezzi come “La cattiva strada” e
“Canzone per l’estate” sia, soprattutto, perché contiene brani memorabili, che con la
collaborazione non hanno niente a che vedere. “Le storie di ieri”, “Giugno ‘73” e “Amico
fragile”, sono entrati di diritto tra i classici delle rispettive produzioni. L’album, prodotto da
Roberto Danè negli studi Ricordi di Milano, si avvale degli arrangiamenti di Tony Mimms, e
sarà l’ultimo atto della collaborazione con Antonio Casetta: la Produttori Associati di lì a
poco chiuderà i battenti. A seguito del fallimento delle case discografiche andrà perduto
tutto l’archivio stampa di Fabrizio, sia Karim che Produttori Associati.
Alla fine del 1974 arriverà la decisione di affrontare il pubblico dal vivo. È un
avvenimento inatteso, anche fra gli addetti ai lavori. Una certa impasse creativa, la
necessità di trovare ulteriori fonti di guadagno per realizzare il sogno di una tenuta in
campagna, riusciranno ad avere la meglio sulla sua ritrosia ad esibirsi live. “Amico fragile”
e stata scritta in una notte, dopo che Fabrizio era andato ad una festa che si svolgeva in
una villa nel parco residenziale di Portobello di Gallura. Era il periodo in cui esplose la
storia sugli esorcismi: “un momento di oscurantismo”. Nella villa c’erano medici, avvocati,
gente di un certo livello culturale, e De André voleva sentire le loro idee su questi
avvenimenti. Invece anche quella sera finì con la chitarra in mano. Dopo aver cantato
qualche canzone e aver riprovato a parlare di quelle storie, il cantautore fu zittito dagli
ospiti. A questo punto mandò tutti a quel paese e si ubriacò sconciamente, si rifugiò nel
garage della villa e, quando alle otto di mattina la moglie andò a cercarlo, lui aveva già
scritto parole e musica. Ne “Le storie di ieri” c’è l’uomo che sceglie di condividere delle
idee (quelle fasciste) con altri e si riscopre uomo grazie ad esse, senza chiedersi se siano
più o meno giuste. C’è il marinaio disperato che non sa come mantenere la famiglia di
“Dolce luna”; c’è il sogno di un amore svanito di “Giugno ‘73” o il benestante incatenato
nella sua quotidianità fatta di famigliola, chiesa e felicità materiale di “Canzone per estate”.
53
- La vita in mare
La vita dei marinai non è sempre facile, tanto che anche De André ha voluto
comporre un brano sulle difficoltà e sulla disperazione che tante volte assale un lupo di
mare. Nel brano “Dolce luna” Fabrizio descrive l’amarezza del marinaio che ricorda le
settimane in alto mare, fra storie di pirati e corsari; ora invece la realtà lo incatena a terra e
lo costringe a regolarsi a causa di una famiglia da portare avanti. Lui però desidera ancora
le onde del mare e sogna di concepire per incanto un figlio con un’immaginaria balena.
L’elemento fantastico e irreale nel mondo dei marinai presente nel testo deandreiano
compare quasi duecento anni prima nella meravigliosa “Ballata del vecchio marinaio”, nata
dall’intesa fra due grandi della letteratura inglese: Coleridge e Wordsworth. Nella ballata
dei due inglesi, il marinaio viene punito da Dio per aver ucciso senza giustificato motivo un
albatro, anch’essa creatura del Signore. Inoltre Géricault, che nella sua più importante
opera (“La zattera della Medusa”), con crudo realismo fotografa un naufragio. Infine nel
1881 Giovanni Verga ne “I Malavoglia” descrive oggettivamente il mondo dei pescatori
siciliani, la loro condizione di estrema povertà, la disperazione di ogni giorno, gli stenti,
l’ignoranza, la cattiveria.
- I marinai puniti (Samuel Taylor Coleridge)
Though concerned with the supernatural, “The rime of the
ancient mariner” is well organized in a progression of events
resulting from a sequence of causes and effects and leading to an
acceptable conclusion. Yet, without Wordsworth’s suggestions, the
poem would not have been what it is now. It was Wordsworth, in fact,
who was able to restrain the overflowing genius of Coleridge and
discipline it. Moreover, by suggesting the killing of a bird (instead a
man) as the source of the mariner’s ghastly persecution, he
managed to reconcile Coleridge’s unbridled imagination and the
formal coherence necessary to give the poem a “human” interest and
a “semblance” of truth. The result was a poem in which the
alternation of real and unreal elements conferred a degree of
credibility on the narration, without weakening the sense of horror and supernatural
mystery it conveys to the reader.
This unreal, fantastic and nightmarish world, peopled with spirits, dead men and
strange animals, provides the ideal setting for the supernatural elements and events
spread throughout the poem, such as, for instance the sense of mystery introduced by the
mariner himself, with: his sudden strange intrusion upon the wedding feast, his
appearance, his “long grey beard”, his “skinny hand” and above all his “glittering eye”
almost endowed with a hypnotic power and his way of speaking, so full of archaisms,
which at once brings the reader back in time, into an imaginary past. Moreover the sense
of mystery is introduced by the albatross that comes from nowhere and, both alive and
dead, it is always accompanied by strange phenomena. Even the hint at medieval and
oriental superstitions is an important element, (the albatross is a somewhat mystical bird,
whose killing is like sacrilege and needs punishing) and the hint at the medieval “Danse
Macabre” where a spectre ship approaches carrying two ghosts on board, Death, a
skeleton, and Life-in-Death, a woman probably symbolizing leprosy, another medieval
calamity. There are in “The rime” even the presence of unnatural creatures (sea monsters,
spirits, angels, seraphs) and unnatural events (the ship moves without wind and noise and
it is manoeuvred by a crew of dead people).
All these elements, in part borrowed from the nightmarish world of some Gothic
novels, as well as the extraordinary events it narrates and the obscure symbols it contains
54
throughout, leave the poem open to many interpretations. The poem may be simply a
dream caused by opium: some descriptions are in fact similar to the ones usually felt by
drug addicts, for example a first sense of freedom and immensity, soon followed by
anguish and fear, emphasized by the perception of strange noises, by a horrible
impression of dryness and choking and by a sense of horror for some hideous action to be
paid for. But “The rime of the ancient mariner” may be interpreted as a poem about the
abnormal psychology of an old superstitious sailor, half crazed by fear and loneliness, who
gives his personal version of a shipwreck which he apparently miraculously survived and
the sea voyage is an allegory of life, where the crew represents mankind, the albatross the
pact of love that should unite all God’s creatures and the ship a microcosm, in which the
evil deed of a single person falls on others, too, as often happens in life. Finally, at a
deeper level, the poem may be a moral parable of man, from original sin (the killing),
through punishment (isolation), repentance (the blessing of the water snakes) and
penitence (the obsessive repetition of the story), to his final redemption; it symbolizes the
contrast between rationality and irrationality, the former identified with “sunlight”, and the
latter with “moonlight”. In other words “sunlight”, which stands for day, would represent the
power of reason, while “moonlight”, standing for night, would represent the power of the
imagination.
«God save thee, ancient Mariner!
From the fiends, that plague thee thus!
Why look’st thou so?»
With my cross-bow
I shot the Albatross.
- I marinai disperati (Giovanni Verga)
“I Malavoglia” rappresentano la vita di un mondo rurale
arcaico, chiuso in ritmi di vita tradizionali che si modellano sul ritorno
ciclico delle stagioni e dominato da una visione della vita anch’essa
tradizionale, che si fonda sulla saggezza antica dei proverbi. Ma non
si tratta di un mondo del tutto immobile, fuori della storia: anzi, il
romanzo è proprio la rappresentazione del processo per cui la storia
penetra in quel sistema arcaico, disgregandone la compattezza,
rompendone gli equilibri, sconvolgendone le concezioni ancestrali.
L’azione infatti ha inizio all’indomani dell’unità, nel 1863, e mette in
luce come il piccolo villaggio siciliano sia investito dalle tensioni di
un momento di rapida trasformazione della società italiana.
Il sistema sociale del villaggio, che già al suo interno non è
affatto una comunità indifferenziata di “umili” ma è molto articolato in
diversi strati di classe, è investito e trasformato da questi movimenti dinamici che
provengono dall’esterno, dal grande mondo della storia. I Malavoglia, a causa delle
difficoltà economiche indotte dalle trasformazioni in atto, sono costretti a diventare
“negozianti”, da pescatori che erano sempre stati; e, in conseguenza del fallimento della
loro iniziativa, subiscono un processo di declassazione, passando dalla condizione di
proprietari di casa e barca a quella di nullatenenti, costretti a vivere alla giornata. Ma,
inversamente, vi sono anche processi di ascesa sociale, rappresentati dall’arrivista don
Silvestro, l’”uomo nuovo”, che ricorre alle arti più subdole e agli intrighi più sottili per
arrivare ad una posizione di potere. Questo mondo del paese può apparire immobile solo
perché i fatti narrati, in obbedienza al principio dell’impersonalità e alla tecnica
dell’”eclisse” dell’autore e della regressione, sono presentati dall’ottica dei personaggi
stessi: è la visione soggettiva degli attori della vicenda che rende l’immagine di una realtà
55
statica, perché così esse sono abituati a concepirla. Ma la loro visione deforma, tradisce la
realtà, mentre il montaggio narrativo la mette chiaramente in evidenza.
“I Malavoglia” sono stati spesso interpretati come la celebrazione di un mondo
primordiale e dei suoi valori, come idoleggiamento nostalgico di una civiltà contadina, vista
come alternativa e antidoto alla falsità e alla corruzione della vita cittadina. In realtà il
romanzo rappresenta al contrario la disgregazione di quel mondo e l’impossibilità dei suoi
valori. Se, come si è visto, ancora nella prima fase del suo verismo persisteva in Verga
una componente di nostalgia romantica per la realtà arcaica della campagna, vagheggiata
come un Eden di innocenza e genuinità, di sentimenti miti, semplici, di “fresco e sereno”
raccoglimento, “I Malavoglia” segano proprio il superamento irreversibile di tali tendenze.
Quel mondo arcaico che scompare sotto l’urto della modernità risulta, nella sua
essenza, non dissimile da quello creato dal progresso, già lacerato al suo interno dagli
stessi conflitti e dalle stesse tensioni. Si alternano quindi costantemente, nella narrazione,
due punti di vista opposti, quello nobile e disinteressato dei Malavoglia e quello gretto e
ottuso degli altri abitanti del villaggio. Questo gioco di punti di vista ha il compito di
straniare sistematicamente i valori proposti dai Malavoglia. Quei valori, onestà,
disinteresse, altruismo, visti con gli occhi della collettività appaiono “strani”, non vengono
compresi, anzi, vengono stravolti e deformati: padron ‘Ntoni che rinuncia alla casa per
onorare il debito non è ammirato per il suo gesto nobile, ma giudicato un “minchione”,
perché non ha applicato la legge dell’interesse; l’angoscia del vecchio patriarca per il figlio
in mare durante la tempesta è attribuita dal villaggio essenzialmente al timore per il carico
di lupini in pericolo, cioè a ragioni economiche.
D’altro lato però il punto di vista ideale dei Malavoglia vale a fornire un metro di
giudizio dei meccanismi spietati che dominano l’ambiente del villaggio, facendo emergere
dalle cose stesse, senza interventi giudicanti del narratore, la disumanità della logica
dell’interesse e della forza, e consentendo di rappresentarla in una luce critica.
Campana di legno comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che
l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, non dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false
come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san
Francesco; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato,
e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, ché era cristiano e di quel che
faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio.
- I marinai naufragati (Théodore Géricault)
“La zattera della Medusa” è l’opera più importante di Géricault; essa provocò un
vero scandalo tra gli accademici, i critici e il pubblico, offesi dal “ripugnante” realismo dei
particolari. Per questa scena l’artista si ispirò ad un tragico fatto di cronaca che aveva
scosso profondamente l’opinione pubblica: il naufragio della “Medusa”, nave ammiraglia di
un convoglio che trasportava soldati e civili verso la colonia del Senegal. Il naufragio
avvenne il 2 luglio 1816, al largo dell’Africa occidentale; in seguito, centocinquanta
persone salirono su una zattera che per diversi giorni andò alla deriva, tra un crescendo di
orrori (un ammutinamento, episodi di cannibalismo), tanto che alla fine la nave della
salvezza, l’”Argus”, potè recuperare solo una quindicina di superstiti. Il governo cercò di
mettere a tacere le critiche all’inadeguatezza dei soccorsi, ma due dei sopravvissuti, dopo
aver invano chiesto un rimborso per i danni subiti, scrissero un violento resoconto
dell’evento, che fece scalpore in tutta Europa.
Géricault fu a lungo indeciso su quale aspetto della vicenda rappresentare. Alla fine
scelse uno dei momenti più sconvolgenti dal punto di vista emotivo: il primo avvistamento
da parte dei naufraghi dell’”Argus”, il fallace ridestarsi nei superstiti della speranza, il loro
chiamare a raccolta le ultime forze per fare segnalazioni e il disperato sconforto in cui
sprofondano quando la nave scompare. Nel groviglio di corpi, Géricault rappresenta un
56
graduale crescendo di emozioni, che vanno dalla disperazione alla falsa speranza. In
primo piano un vecchio padre siede trattenendo il cadavere del figlio; dietro di lui alcuni
sopravvissuti in piedi rivolgono la propria attenzione verso il punto all’orizzonte che un
compagno sta loro indicando; altri languenti a terra si girano, l’uno dopo l’altro, tentando a
fatica di rialzarsi, rianimati da un’ultima tenue speranza; altri ancora aiutano un negro a
salire su un barile, perché possa sventolare la camicia più in alto, per chiedere soccorso
all’equipaggio del brigantino in lontananza.
La scena, su cui si proietta l’ombra di un nuvolone enorme, è impostata su una
serie di diagonali che dalla base della zattera convergono verso due diversi apici, l’albero
e la camicia agitata del marinaio; inoltre è dominata da due spinte contrarie: l’onda
montante dei naufraghi protesi, con le mani allungate, verso l’incerta salvezza; la marea
che respinge il relitto, con il vento che, soffiando da destra verso sinistra, gonfia la vela in
direzione opposta. Il fluire e rifluire degli stati d’animo viene qui controllato da
un’impostazione formale precisa. Queste vittime, benché da quindici giorni alla deriva, non
appaiono emaciate, ma imponenti e vigorose, accademicamente disegnate e belle come
eroi antichi. Per la prima volta lo stile classico e le vaste dimensioni della tela, sino ad
allora riservati alla pittura di storia e ai temi grandiosi (episodi biblici, imprese di eroi e di
regnanti), venivano usati per rappresentare le sofferenze di gente comune, elevata ad una
dimensione epica, protagonista di un dramma dal valore universale. La scelta tematica
fece pensare che Géricault intendesse attaccare sia la tradizionale gerarchia accademica
dei generi sia la struttura sociale recentemente restaurata: non a caso, lo storico Jules
Michelet avrebbe parlato del dipinto come di un simbolo della Francia, affermando: «È la
nostra società intera che Géricault imbarca su quella zattera!».
Théodore Géricault, La zattera della “Medusa”, 1818-19
olio su tela, 491x716 cm
Parigi, Louvre
57
ƒ
Rimini
Anno di pubblicazione
1978
Casa discografica
Ricordi
Produzione
De André - Bubola
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
RIMINI
VOLTA LA CARTA
CODA DI LUPO
ANDREA
TEMA DI RIMINI
AVVENTURA A DURANGO
SALLY
ZIRICHILTAGGIA (baddu tundu)
PARLANDO DEL NAUFRAGIO DELLA LONDON VALOUR
FOLAGHE
Inciso negli studi Fonorama di Milano, “Rimini” è un’opera di passaggio, da cui
emerge uno spietato ritratto della piccola borghesia, della sua assenza morale e politica
che consente al potere di raggiungere i propri obiettivi senza ostacoli. Nell’album si fa
riferimento alla visita di Luciano Lama all’Università di Roma, nel corso della quale invitò
gli studenti alla moderazione, ricevendone in cambio una violenta contestazione. È un
episodio di grande importanza storica. Il sindacato cominciava infatti ad allinearsi al
potere, in un processo che, nel corso degli anni, ha portato alla regolamentazione degli
scioperi, impedendo così ai lavoratori di utilizzare in maniera efficace l’unica arma di cui
dispongono per difendere i propri diritti. L’episodio viene citato in “Coda di lupo” che con
“Andrea”, dedicato alla diversità, “Rimini”, ”Sally” e il travolgente divertissement di
“Zirichiltaggia” rimane una delle cose migliori di questo primo album per la Ricordi. È un
disco interlocutorio, che sottolinea amaramente anche nella parte grafica, dove vengono
ritratti gli aspetti più deteriori e normalizzati della nuova borghesia, la sconfitta della rivolta
del ’68.
“Sally” riporta invece al De André più classico, ai riferimenti all’infanzia, e ancora
oggi mantiene intatto il suo fascino, facendosi preferire a tutti gli altri, compresa “Avventura
a Durango”, versione italiana di “Romance in Durango” di Bob Dylan il quale, qualche
tempo più tardi, scriverà a De André una lettera di plauso. Il testo di “Rimini” è una riuscita
mediazione fra il primo De André e quello più sperimentale di “Volume 8”; inoltre, come
pezzo iniziale, è la storia di Teresa: donna affascinata più dai moti rivoluzionari che dalla
sua banale vita reale. “Parlando del naufragio della London Valour” rispecchia i procellosi
tempi in cui si trovava il nostro Paese dove la violenza si esprimeva anche da parte degli
uomini più lontani da essa e nemmeno i poeti sapevano indicare la giusta direzione da
seguire. Da non dimenticare “Volta la carta”, ballata molto ritmata con un testo che
potrebbe essere la sceneggiatura di un film con i suoi repentini cambiamenti di scena,
tutta giocata sullo scorrere del tempo e della vita. Un’ultima, doverosa citazione: la
presenza di uno straordinario chitarrista, Marco Zoccheddu, che dopo questo album,
suonato in maniera superlativa, tornerà nell’anonimato. Quanto a Bubola (nuovo coautore
per la parte testuale), continuerà a lavorare con Fabrizio in maniera organica fino al 1986.
58
- La rivoluzione cubana
Teresa, la protagonista del brano che dà il titolo a questo ennesimo capolavoro
deandreiano, è una donna che, non contenta della sua banale vita, tutta giocata tra
pettegolezzi, mediocrità e abitudini, vede nella rivoluzione cubana e nei miti d’oltreoceano
l’unico sfogo a un’esistenza piatta e sempre uguale; sotto le righe “Rimini” è una canzone
critica nei confronti della sinistra italiana, che si dice rivoluzionaria, ma che di rivoluzionario
non ha niente. Per questo motivo ho voluto tracciare le origini, l’avvento e le conseguenze
della rivoluzione che più di quarant’anni fa Fidel Castro ha attuato a Cuba, e grazie alla
quale continua a governare.
- La situazione prima della rivoluzione
Alla fine degli anni Cinquanta, l’isola di Cuba aveva quasi raggiunto i sette milioni di
abitanti, di cui oltre la metà viveva nei centri urbani, anche se le forti migrazioni dalle
campagne si traducevano in occupazioni marginali nel territorio o in mendicità. Cuba si
collocava al terzo posto in America Latina quanto a reddito procapite e fra i primi tre sul
piano dell’istruzione, della sanità e della previdenza sociale. Il 30% della forza lavoro era
disoccupata o sottoccupata e tale percentuale cresceva durante la stagione morta della
produzione saccarifera. Le
condizioni della popolazione
urbana erano di gran lunga
migliori
di
quelle
della
popolazione rurale sotto molti
aspetti, primo fra tutti quello
abitativo, dal momento che in
campagna
il
75%
della
popolazione viveva in capanne
di legno e fango con pavimento
in terra battuta. Cuba poteva
contare su quattro letti ed un
medico per ogni mille abitanti,
ma la metà dei laureati in
medicina esercitava a L’Avana.
La mortalità infantile nelle
campagne era molto superiore
alla media nazionale del 6%.
Lo
stesso
analfabetismo,
contenuto a meno del 12% nei
centri urbani, balzava al 42%
nelle aree agricole.
L’accaparramento
di
risorse da parte della città era
ben
esemplificato
dalla
capitale, dove viveva oltre un
sesto dei sei milioni e mezzo di
abitanti cubani. Era lì che si
riversava la maggior parte dei
trecentomila
turisti
che
annualmente approdavano a Cuba. La presenza così massiccia di visitatori,
prevalentemente statunitensi, ebbe due conseguenze di pari importanza: l’assenza da
parte della borghesia e del ceto medio di modelli di consumo e valori caratteristici della
società nordamericana e la diffusione di locali notturni, case da gioco, prostituzione e tutto
un sottobosco ai limiti della legalità.
- La preparazione alla rivoluzione
Convinto che la lotta contro Batista non potesse essere condotta all’insegna del
legalitarismo, Castro era partito per l’esilio messicano fermamente intenzionato a
preparare uno sbarco a Cuba e intraprendere azioni di guerriglia. Allo scopo di trovare
fondi per l’impresa e di illustrare il suo programma, Fidel Castro fece un lungo giro di
conferenze presso le comunità cubane negli Stati Uniti, ottenendo finanziamenti da più
parti. L’addestramento dei ribelli venne realizzato in una tenuta agricola poco fuori Città
del Messico, dove giunse, tra gli altri, l’argentino Ernesto Guevara, detto “Che”. Guevara
era approdato in Messico ricco di una lunga esperienza di viaggi in America Latina e
immediatamente dopo aver vissuto il fallimento dell’esperienza riformista del governo di
59
Jacobo Arbenz in Guatemala, che fece maturare in lui una tenace ostilità nei confronti
degli Stati Untiti.
Un’incursione della polizia messicana, che arrestò e poi rilasciò i rivoluzionari a
patto che lasciassero il Paese, costrinse Castro ad anticipare i tempi della spedizione e
così la notte fra il 24 e il 25 novembre 1956 uno yacht di una ventina di metri, il “Granma”,
salpò sovraccarico alla volta di Cuba. Una serie di contrattempi impedì di realizzare il
piano d’azione. Lo sbarco avvenne con due giorni di ritardo, rendendo inutile la
mobilitazione del fronte interno alla data convenuta che avrebbe dovuto distogliere
l’attenzione delle forze di repressione. Inoltre i rivoluzionari vennero subito individuati e
quindi costretti a dividersi. Solo una ventina di essi riuscì, alla fine, a far perdere le proprie
tracce sulla Sierra Maestra, abitata all’epoca da settantamila persone, in prevalenza
precariato, cioè contadini poveri che quasi sempre occupavano le terre senza titoli di
proprietà. In quest’area montagnosa fu organizzato il primo focolaio guerrigliero. Sin
dall’inizio i combattenti cercarono di prefigurare il futuro assetto della società cubana
attraverso l’autogoverno delle zone controllate militarmente. Grazie alla creazione di
territori “liberi”, i ribelli cominciarono a esercitare funzioni statali, sia pure in misura ridotta,
riscuotendo imposte, amministrando la giustizia, provvedendo all’istruzione, aprendo
ambulatori e gestendo la sanità. Tutto ciò attrasse militanti di provenienza rurale, sia
contadini che salariati, anche se i quadri dirigenti e intermedi appartenevano quasi
esclusivamente alla piccola e media borghesia urbana. L’immediata caratterizzazione
rurale avrà un peso determinante nel segnare la futura evoluzione della rivoluzione stessa.
Il piccolo gruppo di “barbudos” che agiva sulle montagne risultò dotato di una forte
capacità di attrazione, che dipendeva non tanto
dalla nitidezza del loro messaggio politico o dalla
capacità di stringere alleanze, quanto dalla
apparente ineluttabilità della via insurrezionale, a
causa degli insoddisfacenti risultati con il ricorso
alla via pacifica, e del rifiuto di ogni compromesso.
La stessa assenza di un preciso modello cui
tendere impedì che emergessero contrasti interni
significativi e, unitamente alle operazioni militari
incalzanti e alla esiguità del gruppo combattente,
finì per concentrare in breve tempo il potere
decisionale nelle mani di Castro. A favore dei ribelli giocò anche una scarsissima
motivazione a combattere da parte delle truppe regolari. A difendere il mito dei guerriglieri
ed a suscitare simpatie per la loro causa intervenne in buona misura la stampa, specie
dopo l’intervista concessa da Fidel Castro a Herbert Matthews, giornalista del New York
Times nel febbraio del 1957.
La coerenza e il rigore dei rivoluzionari non impedì loro di avere contatti con altre
forze. Una delegazione del Partito Ortodosso si recò sulla sierra nel luglio del 1957 e
dall’incontro emerse un comunicato congiunto meno avanzato dello stesso programma del
1953. La minor radicalità delle richieste non era perciò indice di un ammorbidimento tattico
volto ad ampliare il fronte antibatistiano e ciò trovò conferma, meno di tre mesi dopo, nella
denuncia del cosiddetto patto di Miami, un documento firmato negli States da vari gruppi di
opposizione, fra cui gli stessi rappresentanti del Movimento 26 Luglio. Fidel Castro
respinse tale fatto perché giudicato troppo moderato ed incline al compromesso, nonché
sostenuto da un’ispirazione filostatunitense, mentre nazionalismo ed antimperialismo
rappresentarono principi sui quali i combattenti della sierra non furono mai disposti a
transigere. All’interno del fronte castrista le divisioni pur esistenti riguardavano
sostanzialmente questioni di strategia, con il fronte impegnato sulla Sierra Maestra che
insisteva sull’assoluta priorità della guerriglia e l’ala urbana del movimento che appariva
60
restia ad abbandonare i vecchi sistemi di lotta, forte di una tradizione politica che veniva
dagli anni Venti.
I contrasti fra i due schieramenti esplosero nell’aprile 1958 a causa della decisione
del fronte urbano di proclamare uno sciopero generale. L’agitazione fallì clamorosamente
anche per la caparbietà con cui fu evitato ogni tipo di accordo con i comunisti. La
preminenza della via insurrezionale rurale venne sancita all’apertura, da parte del
Direttorio e dei comunisti, di nuovi focolai guerriglieri sulla Sierra Escanlray. Gli studenti
giunsero a questa decisione dopo il fallimento dell’attacco al palazzo presidenziale del
marzo 1957, conclusosi con la morte di parecchi militanti; i comunisti, tra la cui base già da
tempo si erano levate voci favorevoli alla collaborazione con i guerriglieri della sierra, a
partire dal 1958 abbandonarono le ipotesi di formazione di un vasto fronte antibatistiano e
la diffidenza nei confronti di Castro per ammettere la possibilità d’una lotta armata rurale,
sia pure a condizione che fosse accompagnata da mobilitazioni urbane.
L’alleanza col Movimento 26 Luglio, sancita dalla presenza di militanti comunisti tra
le fila castriste, fu perfezionata nell’ottobre del 1958 con la stipula di un patto di unità
sindacale. A quell’epoca, Castro era giù riuscito a stabilire la propria egemonia sulle forze
antibatistiane grazie ai successi militari, in particolare dopo l’apertura di un secondo fronte
sulla Sierra Cristal ed il fallimento della grande offensiva governativa tra aprile e giugno.
Tale sconfitta andava certo attribuita alla capacità militare dei guerriglieri, ma soprattutto al
crollo morale dei soldati e alle crepe registratesi nella compattezza del corpo degli ufficiali.
Nel marzo 1958, inoltre, gli USA avevano sospeso le forniture militari a Batista, anche in
seguito alla cattura ed al successivo rilascio di cittadini nordamericani da parte dei
guerriglieri. Nella seconda metà dell’anno, infine, le file dei ribelli crebbero di numero
grazie all’arrivo di disertori e lavoratori agricoli, fortemente motivati dalla legge di riforma
agraria, emanata ad ottobre nei territori liberati, che prevedeva la concessione di terre a
chi non ne possedeva o ai piccoli proprietari: vale a dire alla stessa base sociale della
guerriglia (questa riforma era elaborata in modo che non potesse essere ripresa in mano
dai gruppi finanziari che sostenevano la monocultura zuccheriera, né da altri sistemi di
consorzi agrari).
- La rivoluzione
Le elezioni presidenziali fissate per il novembre 1958 da Batista si tennero in una
situazione ormai ampiamente compromessa. Il tasso di astensione fu impressionante e la
Casa Bianca avvertì il presidente uscente che non avrebbe
fornito nessun appoggio al nuovo ed amorfo capo
dell’esecutivo, invitando anzi l’ex-sergente ad uscire di scena.
All’alba del primo gennaio 1959, dopo che le forze armate si
erano praticamente sfaldate, Batista lasciò l’isola in mano ad
una giunta militare che propose inutilmente un armistizio ai
ribelli. Il 2 gennaio le colonne di Ernesto Guevara e di Camillo
Cienfuegos entrarono ne L’Avana paralizzata da uno sciopero
generale e l’8 gennaio vi faceva il suo ingresso trionfale Fidel
Castro. La vittoria del “lider maximo” e dei suoi uomini
appariva come il primo successo della nuova strategia
guerrigliera teorizzata dal “Che”.
Le decisioni iniziali, prese dal nuovo governo di Fidel,
furono inizialmente di componente etica: chiusura delle case
da gioco e di tolleranza, lotta senza quartiere al traffico di
droga, liberalizzazione degli accessi agli alberghi, spiagge,
locali sino ad allora riservati a circoli esclusivi. Tutto questo affascinò la maggioranza della
popolazione e il nuovo governo ebbe grande consenso.
61
Nel marzo del 1959 fu imposta una diminuzione dei canoni d’affitto del 30-50%,
accompagnata da una riduzione del prezzo dei medicinali, libri scolastici, tariffe elettriche,
telefoniche e dei trasporti urbani. Dopo aver ridotto gli affitti, si varò una riforma che mirava
a trasformare gli inquilini in veri e propri proprietari attraverso il pagamento degli alloggi
con rate mensili proporzionali al reddito.
Ma le proteste interne iniziarono dopo l’emanazione, nel maggio 1959, della prima
riforma agraria, che fissava per le tenute agricole un limite massimo di 402 ettari. La
superficie coltivabile veniva assegnata a cooperative oppure distribuita a proprietà
individuali di un minimo di 27 ettari. Il governo, per impedire il minifondo, proibiva la
vendita delle terre ricevute e il loro frazionamento. Con la nuova riforma agraria fu istituito
l’INRA (Istituto Nazionale di Riforma Agraria). Questa riforma suscitò forti reazioni nelle
campagne ma anche presso le classi alte e i ceti medi urbani. Le manifestazioni più
clamorose di dissenso furono rappresentate dalla fuga, negli Stati Uniti, del comandante
delle forze armate Pedro Diaz Lanz, e dall’arresto di Huber Matos, governatore della
provincia di Camarguey, accusato di cospirazione per essersi opposto alla riforma agraria.
- Le conseguenze della rivoluzione
Tra la fine del 1959 e quella del 1960, sollecitato dalla spinta popolare liberata dalla
rivoluzione, ma anche dalla puntigliosa volontà dei suoi più stretti collaboratori (tra cui il
fratello Raul e il Che) di compiere una profonda trasformazione della società cubana,
Castro attuò un piano di riforme e di nazionalizzazioni senza precedenti in America,
stabilendo al tempo stesso rapporti più stretti con i comunisti e con la sinistra studentesca
(formazione delle Organizzazioni Rivoluzionarie Riunite, che nel 1962 si trasformarono in
Partito Unito della Rivoluzione Socialista, dal 1956 Partito Comunista Cubano), fino a
dichiarare socialista la propria rivoluzione (ottobre 1960). Il governo statunitense, che già
aveva reagito alla nazionalizzazione dei trust americani sospendendo l’acquisto di
zucchero cubano, ruppe le relazioni con L’Avana il 3 gennaio 1961.
Nel tentativo di rovesciare il nuovo gruppo dirigente castrista, il presidente J. F.
Kennedy autorizzò i
servizi segreti degli
Stati
Uniti
a
organizzare
una
spedizione militare i
esuli
cubani
(millequattrocento
uomini
equipaggiati
con armi e mezzi
aeronavali
statunitensi), che però
venne
annientata
mentre
tentava
di
sbarcare a Cuba nella
Baia dei Porci (Playa
Girón, 17 aprile 1961).
Fattosi ormai evidente
l’inserimento di Cuba
nel campo sovietico (la
repubblica socialista fu
proclamata
il
1°
maggio 1961 e un
accordo
di
mutua
assistenza
con
l’Unione Sovietica venne siglato un anno più tardi), gli USA, dopo la “crisi dei missili”
dell’ottobre 1962 (invio di missili strategici sovietici a Cuba e conseguente azione navale e
diplomatica statunitense per bloccarne la fornitura e imporne il ritiro), ottennero
l’espulsione de L’Avana dall’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) nel 1964 ed
eressero intorno all’isola un vero e proprio cordone sanitario.
L’isolamento politico e l’embargo economico, i cui effetti furono in parte ridotti dagli
aiuti degli Stati socialisti e non allineati, non deviarono però il corso della rivoluzione
cubana, volta a realizzare un modello di società socialista originale, con forme di potere
aperte alla dialettica tra diverse tendenze politiche e una permanente mobilitazione delle
masse. All’esaltazione della spontaneità popolare contro possibili involuzioni burocratiche
o settarie, che contrassegnò l’esperienza cubana di tale periodo (per “settarismo” fu
62
espulso da Cuba nel 1962 il leader comunista A. Escalante, rientrato poi nel 1964), fece
riscontro in politica estera il tentativo di fare di Cuba il polo di riferimento delle lotte
anticoloniali e antimperialiste del Terzo Mondo, sfociato nella creazione
dell’Organizzazione Tricontinentale, con sede a L’Avana (1966). L’”internazionale delle
guerriglie”, come fu chiamata, ebbe però vita effimera sia per il perdurare
dell’accerchiamento esterno dell’isola, impossibilitata a reggere economicamente un
indefinito slancio rivoluzionario, sia per le obiettive difficoltà politiche di inserire il disegno
castrista nella ferrea logica dell’equilibrio dei blocchi.
Divergenze sorte in seno allo stesso gruppo dirigente cubano circa le modalità
dell’industrializzazione e dell’impegno antimperialista, sottolineate dall’allontanamento di
Guevara, caduto poi alla testa dei guerriglieri boliviani (1967), imposero sulla fine degli
anni Sessanta una graduale revisione politica nel senso di una strategia generale a più
lungo termine entro il quadro della distensione perseguita dalla Russia. Così agli inizi degli
anni Settanta si andò elaborando una politica estera che puntava sull’alleanza con i
governi riformisti sorti in alcuni Paesi latinoamericani (concretatasi nella revoca delle
sanzioni politiche ed economiche imposte nel 1964 e nell’ammissione di Cuba nel mercato
comune degli Stati sudamericani, 1975, premessa al rientro nell’OSA) e su un processo di
allineamento al disegno sovietico di coesistenza (ingresso nel Comecon; avvio della
normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti). In politica interna, un’analoga revisione
degli orientamenti iniziali verso l’industrializzazione spinta (autocritica di Castro del 1970)
ha portato, insieme col decentramento amministrativo e con forme di potere popolare
(democrazia di base sancita dalla costituzione del 1976), a un rilancio delle produzioni
agricole tradizionali (zucchero, tabacco, caffè), come presupposto per la diversificazione
dell’apparato produttivo verso nuovi rami d’attività: l’industria leggera, le colture
specializzate e la valorizzazione del patrimonio minerario, le cui risorse potrebbero
consentire a Cuba di diventare uno dei maggiori produttori mondiali di nichel.
63
ƒ
L’indiano
Anno di pubblicazione
1981
Casa discografica
Ricordi
Produzione
De André - Bubola
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
QUELLO CHE NON HO
CANTO DEL SERVO PASTORE
FIUME SAND CREEK
AVE MARIA
HOTEL SUPRAMONTE
FRANZISKA
SE TI TAGLIASSERO A PEZZETTI
VERDI PASCOLI
In seguito chiamato “L’indiano”, per la copertina di Frederic Remington raffigurante
un pellerossa, il nuovo album uscirà con il semplice nome e cognome dell’artista “Fabrizio
De André”. È un lavoro di grande qualità, che beneficiò del buon clima creatosi in sala di
registrazione grazie ad un De André voglioso di rituffarsi nella sua attività dopo la
tremenda avventura del sequestro. Tranne “Verdi pascoli”, da considerare musicalmente
come un divertissement, il disco contiene canzoni molto belle, da “Hotel Supramonte”,
chiaramente ispirata al rapimento, a “Canto del servo pastore”, all’epica “Fiume Sand
Creek”, divenuta una dei classici live di Fabrizio, a “Se ti tagliassero a pezzetti” che
ribadisce il legame dell’autore con la natura, i suoi elementi. “L’indiano” viene inciso nei
mesi di giugno e luglio 1981 al castello di Carimate, negli studi Stone Castles, la nuova
scommessa di Toni Casetta. Per lanciarli, Casetta si avvalse della collaborazione di
Alessandro Colombini, tra l’altro autore delle registrazioni della caccia al cinghiale assieme
alla Compagnia di caccia di Marco Lattuneddu, che aprono il disco nel brano “Quello che
non ho”. Il pezzo “Ave Maria” è invece una rielaborazione di un canto tradizionale sardo di
Albino Puddu ed è cantata a due voci con Mark Harris. Infine nell’album c’è un maniacale
ritorno alle stelle, in brani come “Fiume Sand Creek”, “Franziska” e “Verdi pascoli”, viste
come luce nella notte. Chi non possiede stelle non possiede il lume per potersi addentrare
nelle tenebre.
A Carimate De André rivide dopo tanto tempo Mauro Pagani, il quale gli fece
ascoltare alcuni pezzi ai quali stava lavorando e gli illustrò il proprio originale e intenso
progetto musicale. Stava per iniziare la marcia di avvicinamento che avrebbe portato al
capolavoro “Creuza de mä”. Con una aggueritissima formazione Fabrizio ritorna sulla
strada a presentare il nuovo 33 giri. Uscito a fine agosto, nel giro di una sola settimana
venderà ben 180.000 copie, un successo corroborato da quello delle esibizioni dal vivo.
Massimo Bubola, oltre a eseguire con Fabrizio De André “Una storia sbagliata” (singolo
uscito l’anno prima, abbinato a “Titti”), accompagnato dal gruppo presenterà alcuni brani
tratti da “Tre rose”, l’album uscito per la Fado (etichetta di De André). Ad agosto la Rai
riprenderà il concerto alla Bussoladomani di Lido di Camaiore, riproponendolo il 26
novembre in prima serata su Rai Uno. A fine estate De André è ospite della finale del
Festivalbar, dove viene premiato Massimo Bubola. Il 29 ottobre, all’età di sessant’anni,
muore Georges Brassens, ucciso da un tumore.
64
- La vita nei campi
Il “Canto del servo pastore” riassume malinconicamente la vita solitaria di un
pastore sardo, servo del signore, che passa le sue giornate ad ammirare le sue bestie e a
fare nostalgici pensieri sulla sua famiglia, sperando che la notte spenga la sua tristezza.
Giacomo Leopardi nel suo “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” parla di un
ingenuo e primitivo pastore asiatico che passa le serate a chiedere invano alla luna quale
sia il destino e il senso della vita umana; molto prima di lui già Tibullo e Virgilio nelle loro
opere avevano immaginato un mondo agreste pacifico e sereno, in pieno contrasto quindi
con l’idea di solitudine leopardiana. Infine ho scelto il bellissimo quadro di Teofilo Patini
“Vanga e latte”, in cui l’artista ha dipinto la quotidianità ma soprattutto gli stenti che molte
volte accompagnano la vita nei campi.
- La solitudine della vita agreste (Giacomo Leopardi)
Con il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”
Leopardi nuovamente si volge a considerare più in generale, tramite
la figura esemplare del pastore errante, la costitutiva infelicità
dell’intero genere umano e anzi di tutti gli esseri viventi. Nel
paesaggio desolato dell’immensa steppa asiatica, sovrastato dalla
misteriosa vastità del cielo stellato, un pastore interroga la luna sul
perché delle cose e sul senso del destino umano. Ma le sue
domande non trovano risposte, e il silenzio del cielo sconfinato gli
conferma ciò che già sapeva, cioè che l’universo è un enigma
indecifrabile nel quale l’unica cosa certa è il dolore degli uomini e di
tutti gli esseri viventi. Scegliendo una figura umile come
protagonista della lirica, Leopardi vuole dimostrare come tutti, ricchi o poveri, intellettuali o
analfabeti, si pongono le stesse domande senza risposta sul significato della vita e
sull’esistenza del male; anzi, sulle labbra di un semplice pastore questi interrogativi
acquistano una forza particolare, primordiale e assoluta, che esprime la “radice” comune
della condizione umana.
In questo canto le strofe si presentano come una successione di domande rivolte
alla luna. Il colloquio del pastore con la luna oscilla tra due spinte contrastanti; da un lato,
egli sembra sperare che le sofferenze della vita abbiano una spiegazione che la luna
conosce; dall’altro ne dubita e pensa che la negatività del destino umano sia un dato
troppo tragico quanto indiscutibile. Il pastore non rinuncia all’idea che la luna possa
svelare i misteri della vita e della morte, dell’infinito andar nel tempo e mutare delle
stagioni e dell’inquietante vastità dell’universo. La bellezza della primavera e del cielo
stellato devono giovare a qualcuno, non possono essere semplici apparenze di un
universo indifferente. Ma lo sconforto emerge nell’ammissione finale, in cui i dubbi fiduciosi
lasciano spazio ad una certezza terribile: “a me la vita è male”.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita o voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergin luna, tale
è la vita mortale.
Nasce l’uomo a fatica,
65
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
[…] Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e dalla stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ognio terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vità è male.
[…] Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
- L’esaltazione della vita agreste (Albio Tibullo)
Nel I libro del “Corpus Tibullianum”, oltre alle poesie d’amore per Delia, trovano
posto elegie sulla deplorazione della guerra e sulla vita agreste. All’orrore per la guerra,
Tibullo accompagna l’esaltazione della pacifica e serena vita dei campi, a cui il poeta si
augura di potersi dedicare, onorando gli dei dei suoi padri e rimanendo fedele alla
semplice religiosità tradizionale. La poesia tibulliana risulta più ”vera” e più efficace non
quando vuole esprimere i conflitti e le drammatiche contraddizioni della passione amorosa,
ma quando diventa evasione, astrazione e rifugio in un mondo soggettivo e illusorio,
costruito al di fuori dei confini della vita reale. Il tema che il poeta sente più congeniale e
che sa rendere con sensibilità ed accenti suoi peculiari è infatti l’aspirazione alla serena e
pacifica vita dei campi, idealizzata secondo i moduli della poesia bucolica (non senza
influssi delle “Bucoliche” di Virgilio), ma inserita in un contesto tipicamente romano nei
frequenti richiami ai valori della tradizione e della primitiva civiltà latina, dominata dalla
semplice religiosità agreste.
La campagna è per Tibullo, come per i poeti alessandrini e per Virgilio, un luogo
idilliaco di evasione, lontano e al riparo dai vizi, dalla corruzione e dalla violenza, dalla
politica e dalla guerra: un mondo di pace e d’innocenza, una sorta di paradiso perduto ove
rifugiarsi con la fantasia, abbandonandosi ad un sogno nostalgico. Rispetto alle
“Bucoliche”, si possono rilevare da un lato un maggiore realismo nella descrizione delle
occupazioni agricole, dall’altro una maggiore indeterminatezza nei riferimenti alla realtà
storica da cui il poeta vuole astrarsi: non troviamo infatti la deplorazione esplicita delle
guerre civili; anzi, le guerre di cui parla Tibullo si configurano sempre come guerre di
conquista, intraprese per avidità di ricchezze.
Hic placatus erat, seu quis libaverat uva,
Seu dederat sanctae spicea serta comae,
Atque aliquis voti compos liba ipse ferebat
Postque comes purum filia parva favum.
66
- La quotidianità della vita agreste (Teofilo Patini)
La famiglia di “Vanga e latte” è formata dalle figure essenziali, padre, madre e figlio,
ritratte in aperta campagna: l’uomo è intento a vangare il terreno mentre la donna,
interrotto momentaneamente il lavoro, si siede in terra e allatta il figlio neonato. Sul terreno
giacciono gli oggetti che compongono il quadro e descrivono simbolicamente la vita della
famiglia: la culla e l’ombrello posto a ripararla, il basto, la piccola botte, il cencio rosso e,
sulla destra, la giacca, il cappello e il piatto di polenta con le due posate di legno; anche il
cielo, visto dal basso, sembra poggiare pesantemente sulla terra, generosa solo di sterpi e
stoppie. I contadini sono impastati della terra che lavorano. L’anonimo vangatore incarna
la fatica dell’umanità, la sua grandezza statuaria è priva di ogni retorica. La donna,
descritta con tenerezza nelle vesti logore, nei gesti forti ma delicati, è una “Madonna” del
latte, la cui forza sta proprio nell’accettazione di un’esistenza di stenti. Il bimbo succhia
avidamente, con un’energia vitale che è il presupposto necessario delle lotte che dovrà
combattere.
Le figure sono disposte lungo una fuga prospettica verso l’infinito, segnalata sul
piano di terra dalle gambe della donna, dal piede d’appoggio del contadino e dalla vana
conficcata nel terreno, sul piano superiore dalla linea che parte dal gomito levato
dell’uomo e che cade all’estremità destra del dipinto, formando con la direttrice precedente
un angolo acuto. L’impostazione rigorosamente prospettica del dipinto, che degrada dalle
nitide nature morte del primo piano alle zolle che increspano il terreno e alla costa
montana segnata dalle prime nevi, riserva quasi metà della tela al cielo, che conferisce
alla scena la limpidezza del primo mattino. Patini dà volume alle figure attraverso il colore,
che assorbe in sé la luce e che ha fatto parlare di “caravaggismo all’aria aperta”. La
pennellata è ampia, con lievi chiaroscuri, come nelle gambe del bimbo, e punti in cui il
colore si rapprende e diventa materico, come nelle stoppie in primo piano. L’adesione
sentimentale di altri pittori ai propri personaggi lascia qui il posto ad un’interpretazione
rigidamente oggettiva della realtà, che assume valore storico: una storia “minore” di piccoli
eventi quotidiani, raccontata dai protagonisti.
Teofilo Patini, Vanga e latte, 1883-84
olio su tela, 213x372 cm
Roma, Ministero dell’agricoltura e delle foreste
67
ƒ
Creuza de mä
Anno di pubblicazione
1984
Casa discografica
Ricordi
Produzione
Pagani - De André
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
CREUZA DE MÄ
JAMIN-A
SIDUN
SINAN CAPUDAN PASCIÁ
A PITTIMA
A DUMENEGA
DA A ME RIVA
Le registrazioni si svolsero alla fine del 1983 tra i Felipe Studio di Milano e gli Stone
Castles di Carimate. Il disco riuscirà ad evocare suoni, profumi, voci, odori, sapori e
bellezze di tutto il Mediterraneo ma sarà, soprattutto, un canto d’amore a Genova. Uscito
quasi in sordina ai primi di febbraio, solamente ai primi di maggio riuscirà ad entrare tra i
top ten. La stampa italiana in questa occasione darà prova di maturità cogliendo in pieno
la grandezza della proposta di De André e Pagani spingendo le vendite del disco. Articoli,
interviste, recensioni, special radiofonici e televisivi, ammirate dichiarazioni dei colleghi
avranno la meglio sulla iniziale indifferenza del pubblico. Il grande interesse nato intorno a
“Creuza de mä” non sfuggì al promoter che nel mese di giugno doveva portare in tour per
l’Italia Bob Dylan e Carlos Santana con i rispettivi gruppi, e che propose a Fabrizio di
aprire il concerto allo stadio San Siro di Milano. Fabrizio rifiutò. De André intanto, dopo
aver approfondito la conoscenza della musica mediterranea, grazie anche al preziosissimo
confronto con Mauro Pagani si appassionò alla letteratura islamica e preislamica. Con
l’arrivo dell’estate giunse anche il momento di presentarsi dal vivo con il viaggio di “Creuza
de mä”. I due produttori dovettero risolvere diversi problemi di ordine tecnico e raccogliere
una band capace di riproporre in maniera adeguata il suono e le difficili partiture del disco.
“Jamin-a” è un ritratto a tutto tondo di una prostituta araba che ogni marinaio
vorrebbe incontrare a terra; “Sidun” è il canto straziante di un padre che assiste alla
violenta morte del figlio. “Sinan capudan pasciá” è l’antica vicenda di un marinaio
genovese che salvò nel XV secolo la vita di un sultano, fu nominato “gran vizir” ma rigettò
l’accusa di aver rinnegato per essersi convertito all’Islam perché in fondo aveva
semplicemente vissuto la sua vita “bestemmiando Maometto al posto del Signore”. “A
dumenega” è la magistrale ricostruzione delle tipiche passeggiate che le prostitute
facevano con le loro “madame”; “A pittima” è il freddo ritratto degli esattori genovesi alle
dipendenze dei signorotti. Infine “Da a me riva” esplica tutto l’amore di Fabrizio per
Genova. Si deve ricordare che “Creuza de mä” fu premiato come miglior album del
decennio 1980-89 dalla rivista “Musica e dischi” e premiato anche per la meravigliosa
copertina. La grande intuizione di Mauro Pagani e Fabrizio De André fu quella di utilizzare,
accanto a strumenti etnici, la classica sezione ritmica costituita da basso e batteria e,
soprattutto, il synclavier, il più evoluto synth a livello commerciale: la commistione si rivelò
riuscitissima e vincente, ed il suono di questo capolavoro si sarebbe caratterizzato per una
sua affascinante originalità.
68
- La morte di un figlio
Sidone, protagonista della canzone “Sidun” (interamente in dialetto genovese) è un
padre che assiste ad una delle cose più strazianti che possano accadere ad un genitore:
vede il suo bambino morire di tumore. A testimonianza della disperazione che un genitore
prova di fronte ad un evento tale ho deciso di portare il celebre componimento “Pianto
antico” di Giosue Carducci, in cui il poeta comunica il suo dolore per la perdita del suo
piccolo Dante. Anche il regista Nanni Moretti si è dato da fare per delineare il sentimento
di vuoto che prova un genitore colpito dalla morte di un figlio: questo sentimento è ben
espresso nel riuscito film “La stanza del figlio”. A differenza di questi due artisti ho voluto
analizzare anche il dipinto “Saturno che divora uno dei suoi figli” di Francisco Goya, in cui
viene tremendamente ritratto appunto il dio Saturno nell’attimo di uccidere, divorandolo,
suo figlio: metafora della cieca bestialità del potere che teme l’usurpazione.
- Il piccolo Dante (Giosue Carducci)
Di fronte al dolore per la morte del proprio bambino non ci
sono più parole, c’è solo il pianto, la manifestazione, cioè, più
individuale e intima, nascosta, privata, di una sofferenza
altrimenti inesprimibile. Ed allo stesso tempo è un pianto antico,
universale ed esteso, quasi, al dolore di tutti gli esseri viventi,
capace di esternare in quattro quartine di settenari un
sentimento inaccessibile, legato ad un evento a ed un momento
particolari, ma insieme estendibile al passato, anche attraverso
una densa filigrana di rimandi testuali e concettuali alla poesia
classica, ed in particolare al lirico greco Mosco, e al futuro, nel
momento in cui questo “Pianto antico” si fa emblema della
condizione esistenziale dell’uomo. Giù il titolo di questa breve
lirica, legata alla scomparsa del piccolo Dante, unico figlio
maschio, oltre alle due bambine Beatrice e Laura, di Carducci, ed inserita nella raccolta
“Rime nuove” (1887), ci dà l’esatta percezione del periodo storico e degli sviluppi della
poetica dell’autore.
Il componimento si colloca, infatti, in quella fase che segna per Carducci il
passaggio da poeta “artiere” a poeta “artista” che, abbandonato lo strale polemico-satirico
di “Giambi ed epodi” e la foga giacobina e libertaria della fase “satanica”, si concentra su
temi più intimi e privati, affrontando appunto il problema del dolore, della morte, della
memoria e della nostalgia con un atteggiamento di virile accettazione del destino, lontano
sia da tentazioni nichilistiche ed autodistruttive, che da prospettive consolatorie di marca
spirituale-cristiana, ma sempre confortato dalla lezione della poesia classica. Anche un
altro componimento della stessa raccolta, infatti, “Funere mersit acerbo”, che prende il
titolo da un emistichio virgiliano dell’”Eneide”, rievoca la scomparsa del piccolo Dante,
legata idealmente a quella dell’altro Dante, fratello ventenne dell’autore, morto suicida
pochi anni prima.
Anche “Pianto antico” presenta la tematica centrale della poesia carducciana,
l’opposizione luce-ombra, vita-morte. Le due polarità in opposizione sono nettamente
ripartite tra le prime due strofe e le ultime due. Nelle prime due dominano immagini di luce
e di calore, con intense note coloristiche, e rendono il senso della vitalità prorompente
della natura primaverile. A questi motivi, nelle ultime due si contrappone il motivo
dell’aridità, del freddo, del buio, dell’assenza di gioia vitale e d’amore. La serie delle
opposizioni si può così ricostruire sulla base della trama delle parole chiave: “rinverdì vs
inaridita”, “luce vs terra negra”, “calor vs terra fredda” e “amore vs inutil vita”.Ma già nella
prima parte, pur dominata dalla solarità, è presente una nota cupa che anticipa il clima
69
della seconda parte: il “muto orto solingo”. È un’immagine di morte: il giardino è muto
perché non risuona più dei giochi del bambino. L’io lirico si protende disperatamente, ma
vanamente, verso immagini di solare vitalità, per scacciare l’immagine della morte che
l’ossessiona. Il ritmo si sviluppa dalla prima all’ultima strofa in un crescendo di
drammaticità, rendendosi man mano più asciutto, franto, spezzato dall’allitterazione della
lettera “r” e da suoni duri e aspri. Parallelamente lo stile volge verso una perentorietà che
si fa lapidaria, al punto che l’ultima quartina è quasi un epitaffio, nelle ripetizioni anaforiche
e nella rigidità icastica del costrutto.
L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
- Il ricordo del figlio (Nanni Moretti)
L’ormai celebre film “La stanza del figlio” di Moretti si
presenta scabro, essenziale, al limite dell’oscenità intesa come
esibizione del privato. Qui (nella stanza del figlio) la disarmante
fisicità del dolore (contrizione e pianto) al lavoro produce lo
strappo del sipario del palcoscenico della vita. Forse Moretti era
partito cinematograficamente da Kieslowski e la sua
rappresentazione minimale dell’esistenza legata al caso; se così
fosse l’ispirazione si sarà persa strada facendo perché il film non
riesce mai a trascendere gli eventi che mette in scena, la
quotidianità (i gesti, gli sguardi, le parole, le cose) non si traduce
in metafisica né sotto il profilo contenutistico né sotto quello
squisitamente linguistico.
Al di là di tutto è comunque singolare il suggerimento che
lo psicanalista di Moretti consiglia per liberare i pazienti e se stesso dal male di vivere:
praticare lo sport che più si avvicina alla propria indole. Se si soffre l’agonismo e la
competizione come nel caso di Andrea, il figlio, è più naturale essere un sub piuttosto che
un tennista, se il rapporto con la gente non è positivo meglio misurare i propri limiti
individuali con un sano footing, se al contrario è piacevole e stimolante immergersi nella
collettività ecco che ideale può essere il basket come sport di squadra.
Splendida la figura di Laura Morante, unica della famiglia a non praticare alcuno
sport perché unica spettatrice del film (vede il doppio del figlio che la sfiora in corsa, vede
il figlio negli occhi di Arianna, la ragazza di cui forse era innamorato ma non ne parlava,
vede la stanza del figlio con i suoi abiti e scopre le sue lettere). Forse il film più attoriale di
Moretti svela malinconicamente e soprattutto involontariamente l’intima autorialità
dell’autarchico (ergo il suo stato d’animo). Questa ultima fatica del regista di Brunico,
nonostante il quasi unanime consenso di pubblico e critica, è destinata a dividere la sua
filmografia e probabilmente gli stessi suoi estimatori di sempre ma è fisiologico per una
70
pellicola che rappresenta la divisione-lacerazione (conseguentemente il dolore) di un
essere umano.
- L’uccisione di un figlio (Francisco Goya)
Il “Saturno che divora uno dei suoi figli” è una rappresentazione di un tema
mitologico che fa parte della famosa serie di pitture “nere” della Quinta del Sordo, così
chiamate per la predominanza di timbri tenebrosi. Appartiene all’attività più tarda di Goya e
venne eseguita, con altri tredici, per la decorazione della Quinta del Sordo, la sua
abitazione privata nella campagna sulle sponde del Manzanarre. L’artista,
settantaquattrenne, è ormai quasi completamente sordo, solo, sfiduciato dalla piega che
hanno preso le vicende politiche europee e spagnole in particolare, ed è preda
dell’angoscia di cui testimonianza gran parte della produzione della sua vecchiaia. Goya,
in questa terribile figurazione, fa riferimento ad un tema che iniziò ad essere trattato
nell’arte occidentale a partire dal Medioevo, Saturno che divora un figlio, e lo dipinge con
inedita crudezza. Quest’opera, assieme alla raffigurazione di “Giuditta e Oloferne”, dipinta
nello stesso luogo, ha probabilmente un significato politico.
“Giuditta e Oloferne” esalta, infatti, il tirannicidio, mentre “Saturno che divora uno
dei suoi figli” sembra simboleggiare il tiranno che divora i suoi sudditi, un’allusione di Goya
a Ferdinando VII. L’atmosfera allucinata e la potenza fantastica della scena si manifestano
nel concentrare la rappresentazione su pochi elementi, mediante un uso altamente
suggestivo della luce, che fa emergere dal fondo scuro la figura mostruosa, trattata con
toni ocra e grigiastri, sui quali spicca, nota raccapricciante, il rosso del sangue del corpo
dilaniato del figlio. La modernità nell’uso dei mezzi pittorici mette quest’opera tra i principali
precedenti dell’Espressionismo.
Francisco Goya, Saturno che divora uno dei suoi figli, 1820-23
olio su intonaco trasportato su tela, 143,5x81,4 cm
Madrid, Prado
71
ƒ
Le nuvole
Anno di pubblicazione
1990
Casa discografica
Fonit Cetra
Produzione
Pagani - De André
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
LE NUVOLE
OTTOCENTO
DON RAFFAÈ
LA DOMENICA DELLE SALME
MEGU MEGUN
LA NOVA GELOSIA
A CIMMA
MONTI DI MOLA
Nonostante la ferita ancora aperta della morte del fratello Mauro, Fabrizio, con il
sostegno di Dori, inizia la fase finale della produzione del nuovo album. Il recente premio
assegnato a “Creuza de mä” non fa che aumentare le responsabilità, che obbligare a
produrre qualcosa di unico. L’album è scritto a quattro mani con Mauro Pagani, suo
compagno di viaggio dal 1984. A loro si affiancheranno Massimo Bubola, con il quale
Fabrizio scrive i testi di “Don Raffaè” e Ivano Fossati per i testi di “Megu megun” e “A
cimma”. Fa inoltre la sua comparsa Piero Milesi, invitato da Pagani insieme a Sergio
Conforti a realizzare gli arrangiamenti di “Le nuvole” e “Ottocento”. “Le nuvole” è, di tutta la
discografia del cantautore genovese, il disco più apertamente e volutamente politico. “La
domenica delle salme”, in particolare, avrà il compito di dare una vibrante sferzata al
potere accusando il sistema del pentitismo. Palese il riferimento a Renato Curcio,
brigatista carcerato, il quale, per non aver aiutato la giustizia, non gode dei privilegi offerti
ai suoi “bravi colleghi”. Ma “Le nuvole” sarà anche un atto di autocritica nei confronti di
status symbol, cianfrusaglie, sovrastrutture di stampo prettamente borghese.
Da un punto di vista stilistico, “Le nuvole” è un disco meno omogeneo del
precedente, ma non per questo meno interessante anche musicalmente. Basti pensare ad
“Ottocento”, che riporta all’opera buffa dell’inizio del diciannovesimo secolo e al primo
Rossini. E come dimenticare i profumi del mare, e della sua Genova, che escono da
“Megu megun” e da “A cimma”, diretta continuazione di “Creuza de mä”, i cui testi
vengono scritti assieme a Fossati durante un soggiorno sulla costiera amalfitana e poi a
casa di Ivano. “Monti di mola” è invece un divertente omaggio alla Sardegna cantato in
gallurese e ispirato ad una delle tante storie raccontategli dagli amici pastori. La hit del
disco è “Don Raffaè”, cantata in un napoletano maccheronico, che narra con l’ironia tipica
di Fabrizio situazioni sociali che di divertente hanno ben poco. Il brano susciterà qualche
polemica, ma raccoglierà anche molti consensi, come quello di don Raffaele Cutolo. “Le
nuvole” è un disco di pensiero forte, di dichiarazioni chiare e nette. L’apertura, spiazzante
e suggestiva, è affidata al brano omonimo, dove De André sceglie di non apparire con la
sua voce, lascia il proscenio alla splendida orchestra diretta da Piero Milesi e alle
melodiose voci dal chiaro accento sardo che declamano il testo. Registrato al Metropolis di
Milano, l’album viene pubblicato il 26 settembre 1990 dopo un paio di rinvii che
contribuiscono ad aumentare l’attesa. In copertina le nuvole.
72
- Il pentitismo
Il pentitismo è sempre stato uno dei temi caldi di Fabrizio De André, in quanto egli
non hai mai potuto accettare l’idea del perdono di un criminale attraverso un aiuto, quasi
sempre manipolato e fasullo. Cosicché ne “La domenica delle salme” Fabrizio ha voluto
parlare di Renato Curcio per evidenziare quanta ingiustizia ci sia in Italia. In un’intervista
del 6 maggio 1993 De André dirà di Curcio: «Lui che non ha commesso nessun delitto è
ancora in galera, perché non si è dissociato, ovvero non ha approfittato di quella regola,
peraltro immorale, attraverso la quale si possono avere dei benefici di legge. Insomma,
Curcio, che non è una spia, resta dentro mentre vedo alcuni dei miei sequestratori
circolare liberamente in Gallura». È per questo che voglio parlare del fenomeno del
pentitismo, da anni in voga per le stragi mafiose, attraverso l’analisi dei pro e dei contro di
questo sistema investigativo.
- La nascita del circuito degli speciali
La prima norma sui cosiddetti pentiti fu introdotta dalla legge Cossiga del 1980, una
delle più importanti innovazioni legislative nate in quegli anni per contrastare il fenomeno
della lotta armata. Questa norma fu voluta personalmente dal generale Dalla Chiesa, che
intuì, prima di altri, la necessità di strumenti legislativi nuovi. Le leggi speciali in materia di
ordine pubblico erano certo state utilissime, ed i risultati si erano visti. Ma questo non
bastava a superare la logorante guerra di trincea che si combatteva ormai da anni. Serviva
uno strumento nuovo, in grado di agire contemporaneamente sia militarmente che
politicamente, che fosse capace, anche pagando costi ingenti sul
piano dell’autorità statale, di creare divisioni nel fronte avversario.
Bisognava liberarsi da un astratto principio di legalità che impediva
il pieno dispiegamento di un agire pragmatico e flessibile,
laicamente disposto a misurare, nelle singole contingenze, costi e
benefici, non pregiudizialmente contrario a meditazioni, trattative e
contrattazioni, qualora queste fossero risultate utili.
Nella prassi poliziesca lo scambio impunità-delazione è una
pratica antica e consuetudinaria. L’azione investigativa ha da
sempre utilizzato questo strumento, che è senza dubbio tra i più
efficaci. La novità che la legislazione sul pentitismo introduce sta
nel fatto che questa pratica riceve adesso un riconoscimento
giuridico, diviene forma legale, interviene nella procedura penale, determina l’entità delle
pene, subordinando il giudizio sull’atto criminoso alla capacità di delazione del suo autore.
Dopo due anni di concreta sperimentazione sul campo, la materia del pentitismo
trovò una sua sistemazione definitiva nella legge n. 304 del 29 maggio 1982. La pressione
che gli organi inquirenti operarono sul legislatore affinché fosse data concretezza alle
esigenze di una nuova contrattualità tra Stato e organizzazioni politiche armate fu decisiva
per l’approvazione di questa norma. Il suo meccanismo è tanto semplice quanto efficace:
lo Stato rinuncia, del tutto o in parte, ad esercitare la sua pretesa punitiva nei confronti
dell’autore del reato associativo che interrompe il vincolo che lo lega ai concorrenti,
fornendo informazioni utili sulla struttura e sulla organizzazione dell’associazione o della
banda. La natura del contratto di collaborazione prescrive tassativamente che il
collaboratore operi un netto passaggio di campo sul piano concreto dell’azione militare.
L’utilità della collaborazione è misurata, in denaro, dalla quantità di nomi che egli rivela,
dal numero di basi che indica, dalle informazioni sugli organigrammi e sui ruoli che
fornisce, dal disvelamento delle responsabilità su singoli eventi delittuosi.
Questa grande innovazione avrà egli effetti dirompenti sul piano operativo, e
costituirà un paradigma delatorio premiale che dimostrerà una forte efficacia soprattutto
73
nella gestione di altre emergenze criminali che vivrà il nostro Paese negli anni a venire. Le
norme delatorio-premiali sono, comunque, tutte dentro la logica della soluzione militare
delle emergenze sociali. Ciò che questa legislazione consegna nelle mani degli inquirenti
è un arnese di enorme potenza, che è stato fabbricato direttamente sul campo e, solo
successivamente, formalizzato e reso ampiamente operativo. La figura sociale del pentito
nasce prima dell’apparire della sua forma giuridica.
- La sperimentazione del meccanismo
Nel febbraio 1980, dopo appena un mese dalla sua cattura, Patrizio Peci, militante
della colonna torinese delle BR e membro della Direzione Strategica, inizia il suo lungo e
dettagliato racconto, rivelando nomi, basi, struttura organizzativa, storia e progetti della più
forte formazione armata del Paese. Il pentimento di Peci avvenne nel reparto di
isolamento del carcere speciale di Cuneo. Il dibattito sul ruolo che il carcere duro svolge
nel predisporre, favorire ed incentivare le scelte di collaborazione è a tutt’oggi ancora
aperto. Sul piano storico, della storia recente del nostro Paese, è innegabile che le due
emergenze che hanno dato luogo a questi regimi detentivi, la lotta armata e la criminalità
organizzata degli anni Novanta, hanno trovato nell’istituzione di un modello detentivo
speciale un momento di grande efficacia dell’azione repressiva. In entrambi i casi, dagli
speciali è venuta fuori una fitta schiera di defezioni, abbandoni delle organizzazioni,
passaggi di campo e collaborazioni, e questi risultati non sono assolutamente da
sottovalutare.
Non sono da sottovalutare le conseguenze che hanno sui singoli condizioni di
detenzione di questi livelli di
rigidità.
Le
sofferenze
fisiche,
l’isolamento,
l’essere faccia a faccia, soli,
con la crudezza del carcere,
l’improvvisa perdita della
deprivazioni sensoriali ed
propria vita di relazione, le
affettive, la paura della
violenza, sono fattori che
indubbiamente concorrono
a creare una condizione di
grande debolezza e fragilità
degli individui. Ed in queste
condizioni qualsiasi gesto è
possibile, dalla violenza
contro se stessi, a quella
contro
gli
altri,
dall’autodistruzione,
all’esplosione dell’istinto di
sopravvivenza,
dal
rafforzamento dei propri
vincoli di appartenenza
all’abbandono del campo, al
ritiro, alla fuga. Non c’è da
stupirsi che da un carcere
speciale esca un pentito,
come non deve suscitare
stupore
se
esce
un
impiccato o un malato di
mente. Ma un pentito non fa
il pentitismo. Chi arriva al
tradimento ci arriva perché sente una sconfitta, incombente o avvenuta.
Il carcere duro, da solo, può creare un delatore, ma non è in grado di produrre una
cultura del pentitismo. Ci vuole altro, sono necessarie altre condizioni affinché ciò
avvenga. Nessuna guerra è stata vinta perché si è riusciti ad infiltrare delle spie tra le fila
dell’avversario. Il pentitismo è tale quando entra in una deriva, quando il soggetto che
riceve l’attacco perde forza di movimento, arretra, deperisce. Qui si parla di soggetti
collettivi, di entità sociali complesse, non della piccola banda di ladri d’appartamento.
Gli speciali erano in piedi già dal 1977, e fino al 1980 dalla numerosa schiera di
coloro che finirono in carcere non venne fuori nessun significativo caso di cedimento. E
molti tra essi avevano attraversato le realtà più dure della massima sicurezza. Peci iniziò a
collaborare dopo appena un mese dall’arresto, ed il suo fu soltanto l’inizio di un fenomeno
destinato ad estendersi. Al carcere duro si può resistere quando si è forti, finché si è forti,
sia sul piano soggettivo, sia su quello dell’identità collettiva. Solo quando questa forza non
74
c’è, o si incrina, o viene meno, per un qualsiasi motivo, la tecnologia di induzione alla
delazione di cui il carcere dispone riesce a raccogliere tutti i suo frutti. E questa tecnologia
nel carcere è ampiamente collaudata e sperimentata. L’utilizzazione sistematica
dell’informatore, l’”infame” per la cultura carceraria, che fornisce informazioni per decifrare
le dinamiche comunitarie, è lo strumento privilegiato dallo staff per controllare la sicurezza
dentro gli istituti. Il prezzo di questa collaborazione, nel carcere prima della riforma, era
prevalentemente il lavoro, che abbiamo visto essere risorsa ambitissima, quanto scarsa,
nei nostri penitenziari. E lo è ancora oggi.
Ma, con la nuova normativa sui pentiti, il modello delatorio-premiale riceve ben altra
forza. In cambio dell’occhio vigile e dell’orecchio attento il delatore adesso può ambire
addirittura a modificare la sua condizione di detenuto, può contrattare l’uscita anticipata
dal carcere. Quella sistematica opera di costruzione della delazione, prima confinata nel
lavorio silenzioso delle forme del potere interne all’istituzione totale, assume adesso
importanti risvolti esterni. Oltre che a custodire ed a redimere, il carcere si sente anche
chiamato ad una presenza diretta nell’azione inquirente, e su questa chiamata alle armi si
giocarono in questi anni un bel po’ di carriere di membri dello staff ministeriale. La classe
dirigente dei penitenziari ed i vertici del corpo degli agenti di custodia entrarono con piena
titolarità in concorrenza con le altre forze di polizia e con la magistratura, in quella
particolarissima industria che produce un bene dall’altissimo valore sociale aggiunto: il
pentito.
- La crisi del sistema
Il fenomeno del pentitismo segnala una crisi profonda delle organizzazioni criminali
e del loro sistema di potere, percepito dai suoi stessi leader come scricchiolante, incapace
di garantire protezione, privo di futuro. Ma l’occasione non è stata colta dallo Stato, che ha
rinunciato a governare il pentitismo: e tale rinuncia, tollerabile quando i collaboratori erano
pochi e selezionati, è diventata insostenibile, sino a trasformarsi in boomerang, quando il
pentitismo è diventato un arcipelago esteso e variegato. Le questioni di carattere etico
relative ai limiti dello scambio tra collaborazione e impunità (soprattutto per gli autori di
crimini atroci commessi sino a pochi giorni prima del pentimento) si sono presto intrecciate
con fatti clamorosi ed inquietanti (la commissione di nuovi reati da parte di collaboranti o
l’emergere, in alcuni casi, di accuse calunniose), abilmente sfruttati dal sistema di potere
messo in crisi da diserzioni e collaborazioni. Il pentitismo è così diventato, anche per parte
dell’opinione pubblica, un fenomeno sospetto, le organizzazioni
criminali hanno riguadagnato terreno e il fiume delle
collaborazioni è divenuto un ruscello che rischia di sparire.
Eppure le vie per un governo efficace del fenomeno
sono da tempo chiare (ed oggetto persino di un disegno di
legge da tempo approvato dal Senato): individuazione di
benefici commisurati ai reati commessi, ché i premi devono
essere appetibili ma non possono spingersi fino all’impunità di
fatto, soprattutto in presenza di delitti efferati; previsione di un
tempo ragionevole entro cui il pentito deve dire ciò che sa,
evitando stillicidi di accuse nel corso degli anni (fonte
inevitabile di sospetti); soluzioni organizzative idonee a
garantire il massimo di genuinità delle dichiarazioni, evitando contatti con altri collaboranti
e colloqui investigativi paralleli; separazione tra attività di protezione e gestione
processuale del pentito, la cui contestualità produce inevitabilmente pressioni e
coinvolgimenti impropri. Resta la domanda sul perché sia prevalsa l’inerzia e il dibattito si
sia concentrato esclusivamente sul valore processuale delle dichiarazioni dei pentiti.
75
ƒ
Anime salve
Anno di pubblicazione
1996
Casa discografica
Bmg
Produzione
De André - Milesi
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
PRINCESA
KHORAKHANÈ (a forza di essere vento)
ANIME SALVE
DOLCENERA
LE ACCIUGHE FANNO IL PALLONE
DISAMISTADE
 CÚMBA
HO VISTO NINA VOLARE
SMISURATA PREGHIERA
I primi giorni in sala di registrazione passano senza problemi, il materiale arrivato in
preproduzione è decisamente buono, molto bella una composizione di Ivano basata tutta
sul piano. L’impostazione eccessivamente pianistica sarà probabilmente la causa
dell’interruzione del progetto. Fabrizio si sente “accerchiato” dallo staff di Fossati, che
potrebbe portare alla realizzazione di un album molto più vicino allo stile del collega. Dopo
un chiarimento Fossati decide di assecondare De André. Il tema fondamentale di “Anime
salve” è quello della solitudine che deriva per lo più da emarginazione, emarginazione che
trae origine da comportamenti diversi da quelli della maggioranza, della norma. Spiegato
così potrebbe sembrare semplicemente un disco che parla di minoranze emarginate. In
effetti queste persone, nella difesa dei loro diritti, tentano semplicemente, senza fare del
male a nessuno, di somigliare a se stesse e così facendo difendono la loro libertà. “Anime
salve” viene presentato a Milano nello Spazio Guicciardini. Oltre alla stampa sono
presenti alcuni amici intimi, come Fernanda Pivano e Beppe Grillo. L’accoglienza è
trionfale.
De André nelle interviste parla dei suoi programmi, che prevedono con l’anno nuovo
il tour di “Anime salve”, un disco nel 2003 e la pubblicazione di un romanzo scritto insieme
ad un giovane scrittore. Il tour viene procrastinato anche a causa della scomparsa del
percussionista Naco, morto in estate in un incidente stradale a al quale l’album è dedicato.
In una settimana “Anime salve” raggiunge il primo posto nelle classifiche; poi
improvvisamente le vendite rallentano; comunque l’album in pochi mesi supererà le
300.000 copie, un buon risultato se confrontato al periodo di crisi del mercato, ma
certamente non adeguato ad un’opera di così grande valore artistico. Il disco si apre con la
storia di un transessuale brasiliano e della sua vita estrema; “Dolcenera” è una
melanconica ballata che parla di un tradimento amoroso. “Disamistade” è lo scontro fra
due famiglie e la musica struggente aiuta ad entrare nella vicenda; “Ho visto Nina volare” è
legato a ricordi infantili. Infine “Smisurata preghiera” è l’elegia dell’album da cui si evince la
tematica fondamentale delle minoranze. Il brano è ispirato alla saga di “Maqroll - il
gabbiere“ di Alvaro Mutis: un marinaio che continua il suo viaggio errando senza mai
arrivare alla meta prefissata. Il suo andare è però solo un pretesto per capire le cose
importanti della vita, il senso dell’avventura e gli affetti.
76
- L’alienazione
Il transessuale di “Princesa”, gli zingari di “Khorakhanè”, le minoranze della
“Smisurata preghiera” sono tutti personaggi al limite, descritti da Fabrizio nel loro stato di
alienazione di fronte alla vita e al mondo intero. Difatti Fernandino (il trans) vive
completamente estraniato un’esistenza dove la paura è il sentimento che lo accompagna
sul palcoscenico del suo lavoro (il marciapiede); gli zingari dell’Est vivono nel fango,
perché respinti e storicamente perseguitati; infine tutte le minoranze in generale costrette
a difendersi da un mondo così brutale che tende ad omologare tutto e ad appiattire ogni
differenza, per la paura della diversità. Marx ne “Il Capitale” ha elaborato la sua dottrina
sull’alienazione dell’operaio e Luigi Pirandello, in quasi tutte le sue opere, ha ironicamente
evidenziato la “trappola” dell’estraneità degli uomini alla vita. Il filosofo tedesco Feuerbach
si è invece preoccupato di studiare l’alienazione nella religione, arrivando a dire che essa
è la causa della dipendenza dell’uomo da Dio.
- L’alienazione del lavoro (Karl Marx)
Sulla terra “ferma” e “tonda” Marx non trova un uomo che
si fa o si realizza trasformando o umanizzando, insieme ad altri
uomini, la natura nel senso dei bisogni, dei concetti o dei progetti
o piani dell’uomo stesso. Quel che trova sono uomini alienati,
vale a dire espropriati del loro valore di uomini ad opera
dell’espropriazione o alienazione del loro lavoro. In realtà, come
dice lo stesso Marx ne “Il Capitale”: «Il ragno compie operazioni
che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti
architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che
fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è
il fatto che egli ha costruito la celletta “nella sua testa” prima di
costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un
risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già
presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento
naturale, qui egli realizza il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il
modo del suo operare».
Tutto questo vuol dire, per Marx, che l’uomo può vivere umanamente, cioè farsi in
quanto uomo, umanizzando appunto la natura secondo i suoi bisogni e le sue idee,
insieme agli altri uomini. Il lavoro sociale è antropogeno. E distingue l’uomo dagli altri
animali: l’uomo, infatti, può trasformare la natura, oggettivarsi in essa, umanizzarla; può far
di essa il suo corpo inorganico.
Sennonché, se guardiamo la storia e la società, vediamo che il lavoro non viene più
fatto per il bisogno di appropriarsi, insieme agli altri uomini, della natura esterna, vediamo
che non viene compiuto per il bisogno di oggettivare la propria umanità, le proprie idee e
progetti, nella materia prima. Vediamo invece che l’uomo lavora per la sua pura
sussistenza. La proprietà privata, fondata sulla divisione del lavoro, rende il lavoro
“costrittivo”. All’operaio viene alienata la materia prima; vengono alienati gli strumenti di
lavoro; gli viene strappato via il prodotto del lavoro; l’operaio, con la divisione del lavoro,
viene mutilato della sua creatività e umanità. L’operaio è una merce nelle mani del
Capitale. È questa l’alienazione del lavoro, dalla quale, ad avviso di Marx, derivano tutte le
altre forme di alienazione, come quella politica (in cui lo Stato si erge al di sopra e contro
gli uomini concreti) o quella religiosa. Il superamento di questa situazione in cui l’uomo è
trasformato in bruto avviene, secondo Marx, attraverso la lotta di classe che eliminerà la
proprietà privata e il lavoro alienato.
77
Esattamente l’alienazione del lavoro consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è
“esterno” all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro non si
afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto ma infelice, non sviluppa una libera energia
fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo
fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se
non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma
costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto
un mezzo per soddisfare bisogni “estranei”. Per tutto ciò, l’uomo si sente libero solo nelle
sue funzioni animali (mangiare, bere, procreare, ovvero ancora abitare una casa e
vestirsi), e si sente niente di più che una bestia nelle sue funzioni umane, cioè nel lavoro.
Giacché l’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo
lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui,
indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per “sé stante”;
significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea. E,
per concludere, l’estraneazione dell’operaio nel suo oggetto si esprime nel fatto che
quanto più l’operaio produce tanto meno ha da consumare; quanto maggior valore
produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più bello è il suo
prodotto, tanto più l’operaio diventa “deforme”; quanto più raffinato il suo oggetto, tanto più
egli si “imbarbarisce”; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente; quanto
più il lavoro è spirituale, tanto più egli p diventato materiale e “schiavo” della natura.
L’alienazione del lavoro fa sì che l’operaio diventi tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che
produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L’operaio diventa una merce tanto
più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce.
- L’alienazione dalla realtà (Luigi Pirandello)
L’idea classica dell’individuo creatore del proprio destino e
dominatore del proprio mondo, dalla personalità inconfondibile e
coerente, che era rimasta alla base della cultura della borghesia
ottocentesca nel suo momento di ascesa, ora tramonta: in una
prima fase questi processi inducono a rifiutare la realtà oggettiva
e a chiudersi gelosamente nella soggettività, ma poi
progressivamente anche questa finisce per sfaldarsi; l’individuo
non conta più, l’io si indebolisce, perde la sua identità, si
frantuma in una serie di stati incoerenti. Pirandello è uno degli
interpreti più acuti di questi fenomeni, e li riflette lucidamente
nelle sue teorie e in quasi tutte le sue opere letterarie.
La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io
suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore.
L’avvertire di non essere “nessuno”, l’impossibilità di consistere in un’identità, provoca
alienazione ed orrore, genera un senso di solitudine tremenda. Viceversa l’individuo soffre
anche ad essere fissato dagli altri in forme in cui non può riconoscersi. L’uomo si “vede
vivere”, si esamina dall’esterno, come sdoppiato, nel compiere gli atti abituali che gli
impone la sua “maschera”, e che appaiono assurdi, destituiti di ogni senso. Queste forme
sono sentite come una trappola, come un carcere in cui l’individuo si dibatte, lottando
invano per liberarsi. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti
sociali, al di sotto delle civiltà e delle buone maniere. La società gli appare come
un’enorme “pupazzata”, una costruzione artificiosa e fittizia, che isola irreparabilmente
l’uomo dalla vita, lo impoverisce e lo irrigidisce, lo conduce alla morte anche se egli
apparentemente continua a vivere. Alla base di tutta l’opera pirandelliana si può scorgere
un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che essa impone, e un
bisogno disperato di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. Anche se la sua
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vita si svolge sui binari del perbenismo esteriore, Pirandello è nel suo fondo un anarchico,
un ribelle insofferente dei legami della società, contro cui scaglia la sua critica impietosa e
corrosiva. Le convenzioni, le finzioni su cui la vita sociale si fonda, le maschere fittizie che
essa impone, vengono nella sua opera narrativa e teatrale irrise e disgregate.
L’istituto in cui si manifesta per eccellenza la “trappola” della forma che imprigiona
l’uomo, separandolo dall’immediatezza della vita, è la famiglia. Pirandello è acutissimo nel
cogliere il carattere opprimente dell’ambiente familiare, il suo grigiore avvilente, le tensioni
segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, le menzogne che si mescolano torbidamente alla vita
degli affetti viscerali ed oscuri. L’altra trappola è quella economica, costituita dalla
condizione sociale e dal lavoro, almeno a livello piccolo-borghese; i suoi eroi sono
prigionieri di una condizione misera e stentata, di lavori monotoni e frustranti, di
un’organizzazione gerarchica oppressiva. L’unica via di relativa salvezza che si dà ai suoi
eroi è la fuga nell’irrazionale: nell’immaginazione che trasporta verso un “altrove”
fantastico.
Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell’opera pirandelliana ad una figura ricorrente,
emblematica: il “forestiere” della vita, colui che ha capito il “gioco”, ha preso coscienza del
carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere
gli altri dall’esterno della vita e dall’alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di
assumere la sua “parte”, osservando gli uomini imprigionati dalla “trappola” con un
atteggiamento umoristico, di irrisione e pietà. È quella che Pirandello definisce anche
filosofia del “lontano”; essa consiste nel contemplare la realtà come da un’infinita distanza,
in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l’abitudine ci fa considerare
“normale”, e in modo quindi da coglierne l’inconsistenza, l’assurdità, la mancanza totale di
senso. In questa figura di eroe estraniato dalla realtà si proietta la condizione stessa di
Pirandello come intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo perseguito dagli altri
intellettuali del primo Novecento e, nel suo pessimismo radicale, si riserva solo un ruolo
contemplativo, di lucida coscienza critica del reale.
Sceso giù in istrada, mi trovai ancora una volta sperduto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo: solo, senza
casa, senza meta. «E ora?» domandai a me stesso. «Dove vado?». Mi avviai, guardando la gente che
passava. Ma che! Nessuno mi riconosceva? Eppure ero ormai tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto
almeno pensare: «Ma guarda quel forestiero là, come somiglia al povero Mattia Pascal! Se avesse l’occhio
un po’ storto, si direbbe proprio lui». Ma che! Nessuno mi riconosceva, perché nessuno pensava più a me.
Non destavo neppure curiosità, la minima sorpresa…
- L’alienazione nella religione (Ludwig Feuerbach)
Per il filosofo tedesco Feuerbach La religione è la prima
reazione alla limitatezza dell’uomo: l’infelicità, la sofferenza
conducono l’uomo a Dio. Nella sofferenza, l’uomo si concentra su se
stesso e la risposta è data da Dio, essere immaginario rispetto al
mondo e alla natura in genere, ma reale per l’uomo. Ma se la
religione è la prima ma indiretta coscienza che l’uomo ha di se
stesso, essa precede dappertutto la filosofia, non solo nella storia
dell’umanità ma anche in quella degli individui. Dunque dalla religione
bisogna passare alla filosofia, dalla fede bisogna arrivare all’ateismo,
visto che lo sbaglio della religione è proprio questo: considerare
l’essere divino come se fosse qualcun altro, distinto e indipendente
dall’uomo, da cui anzi l’uomo dipende. È proprio qui la debolezza della religione, l’origine
del suo errore e del suo fanatismo, per cui essa aliena (l’uomo sposta il suo essere fuori di
sé, prima di ritrovarlo in sé) l’uomo da se stesso e gli fa preferire un altro mondo a questo,
allontanandolo dalla sua vera natura. Ma se la religione pone tutto in Dio e toglie tutto
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all’uomo, allora l’ateismo diventa un dovere morale, affinché l’uomo recuperi i predicati
positivi che ha proiettato fuori di sé nell’essenza divina.
Ne “L’essenza della religione” (1846), Feuerbach dice che il fondamento della
religione è il sentimento di dipendenza che l’uomo prova istintivamente nei confronti di Dio.
Ma Feuerbach sostiene che è vero dire che la religione è innata nell’uomo, se però per
religione si intende il sentimento dell’uomo di non poter esistere senza un ente che sia
altro da lui, cioè di non dovere a se stesso la propria esistenza. Dunque ciò da cui dipende
la vita e l’esistenza dell’uomo è da lui considerato Dio. La credenza che Dio abbia
un’esistenza indipendente da quella dell’uomo dipende dal fatto che, in origine, è
considerato come Dio l’ente che esiste fuori dell’uomo, che non è altro che il mondo o la
natura. L’uomo, inconsapevolmente, fa, in un primo momenti, della natura una sorta di
essere vivente, un essere personale. In un secondo momento ne fa consapevolmente un
oggetto di preghiera e di religione. Mentre in realtà nella religione l’uomo ha come oggetto
solamente se stesso e la natura. Il presupposto della religione è il contrasto tra volere e
potere, desiderare e ottenere. Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare, l’uomo è
illimitato, onnipotente, Dio; mentre nel potere, nell’ottenere, nella realtà, l’uomo è
condizionato, dipendente, limitato.
Il fine della religione è togliere tale contrasto; e l’ente in cui sono tolte le
contraddizioni è Dio. Esiste Dio solo nella religione e nella fede. Si trova Dio solo nella
fede perché Dio non è altro che l’essenza della fantasia e del cuore umano. Dio è,
secondo Feuerbach, il principio fantastico della realizzazione totale di tutti i desideri umani.
Quali sono i desideri degli uomini, tali sono le loro divinità. Il segreto della teologia è allora
l’antropologia. Se la religione è la prima ma inconsapevole conoscenza che l’uomo ha di
sé, essa, considerando l’essere divino come distinto dall’uomo, contiene in sé un elemento
di illusione e di errore. Essa è l’alienazione, visto che l’uomo sposta il suo essere fuori di
sé prima di trovarlo in sé. Il superamento dell’alienazione consisterà nel capire che è
l’uomo che ha creato Dio e non viceversa.
A ogni mancanza nell’uomo è contrapposta una pienezza in Dio: Dio è e ha precisamente ciò che l’uomo
non è né ha. Quanto è attribuito a Dio è tolto all’uomo e, viceversa, quanto è dato all’uomo è sottratto a Dio.
[…] Tanto meno è Dio, tanto più l’uomo; tanto meno l’uomo, tanto più Dio. Se vuoi avere Dio, devi perciò
rinunciare all’uomo; e se vuoi avere l’uomo devi rinunciare a Dio; altrimenti tu non hai né l’uno né l’altro. La
nullità dell’uomo è il presupposto dell’aver Dio un’essenza. Affermare Dio significa negare l’uomo; onorare
Dio, disprezzare l’uomo; lodare Dio, denigrare l’uomo. La gloria di Dio si fonda esclusivamente
sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo
sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana.
80
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Conclusione
…Insomma, da queste pagine spero si sia capito che Fabrizio De André è un artista
poliedrico, addirittura didattico. Con le sue opere, le sue idee
e la sua vita si possono fare infiniti collegamenti a
personaggi, eventi e concetti vari. Difatti quelli che ho deciso
di presentare in questo lavoro sono la minima parte di quelli
che avrei potuto analizzare; ho dovuto quindi fare una cernita
degli argomenti a mio avviso più importanti, tralasciando per
esempio grandi uomini della storia come Carlo Martello e
Giovanna D’Arco delle omonime canzoni, letterati come
Edgar Lee Masters (“Non al denaro non all’amore né al
cielo”, lo ricordo, è la trasposizione musicale dell’”Antologia
di Spoon River”), Pierpaolo Pasolini di “Una storia sbagliata”
o Cecco Angiolieri di “S’i’ fosse foco”, commediografi come
Aristofane per il confronto tra le sue “Nuvole” e quelle di
Fabrizio, eventi storici come il massacro degli indiani della
bellissima “Fiume Sand Creek” o il movimento della
Carboneria de “I carbonari”; inoltre concetti di fisica come la complessa ottica di “Un ottico”
o la sregolatezza degli artisti de “Il fannullone”.
È arrivato il momento che i grandi cantautori vengano studiati anche nelle scuole, al
pari di poeti, scrittori e filosofi: i testi di Fabrizio sono poesie e al tempo stesso spaccati di
storia italiana. Forse dovremo aspettare ancora molto prima che un Ministro dell’Istruzione
faccia una tale rivoluzione nei programmi di studio, o forse la nostra è una società troppo
legata alle tranquille e monotone poesie-falsità da fiction televisiva, per poter accettare libri
di testo che contengano le opere di De André, De Gregori, Battiato, Guccini o Vasco
Rossi. Nel 2003 la scuola italiana non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso quei vecchi
schemi di educazione ottocentesca: non è riuscita cioè ad accantonare o perlomeno a
minimizzare l’approfondimento di autori “inutili”, anche se indubbiamente grandi, come
Petrarca, Cavalcanti, Tasso, Ariosto, ecc.. Se siamo nel 2000, dobbiamo prepararci per il
2000.
Non in qualità di “fan” ma di studente sono addolorato dal fatto che la musica, la
letteratura e in generale la cultura italiana abbiano perso troppo presto un autore che
avrebbe potuto offrir loro ancora tanto. Non a caso era infatti in preparazione per il 2001
un album che aveva come tema centrale quello della
notte e del buio: si sarebbe dovuto intitolare “La paura
dura più dell’amore”, dove Fabrizio, assieme al maestro
Oliviero Malaspina avrebbe firmato i testi e le musiche.
Dell’album Fabrizio De André è riuscito a completare
solo due brani: quello che porta il nome dell’album
stesso e “Un’ombra inquieta”. La moglie Dori Ghezzi non
ha acconsentito alla pubblicazione ridotta dell’album,
ammettendo che il marito era solito tornare sui brani
completati per ritoccarli al meglio. In questo modo ha
giustamente rispettato l’idea di Fabrizio riuscendo inoltre
a non farsi adescare dalle regole del mercato.
Con questo lavoro di ricerca, di confronto e di
analisi che ho tentato di fare per l’esame di maturità,
penso di aver almeno portato un argomento nuovo e di
aver cercato di far conoscere meglio quale genio si nascondesse dietro il più grande
autore italiano del Novecento.
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viadelcampo.com
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