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Fabrizio De André: per sempre contro
Fabrizio De André per sempre contro A cura di Francesco Mendozzi - V A - a.s. 2002/03 Liceo Scientifico Statale Convitto Vittorio Emanuele II - Roma Indice La vita pag. 3 L’idea pag. 6 Volume 1 - Il suicidio pag. 8 Tutti morimmo a stento - L’angoscia pag. 12 Volume 3 - Il pacifismo pag. 18 Nuvole barocche - Robert Burns pag. 23 La buona novella - I Vangeli apocrifi pag. 27 Non al denaro non all’amore né al cielo - Ossigeno e idrogeno pag. 32 Storia di un impiegato - Lo stragismo politico dopo il ‘68 pag. 39 Canzoni - Umberto Saba pag. 47 Volume 8 - La vita in mare pag. 53 Rimini - La rivoluzione cubana pag. 58 L’indiano - La vita nei campi pag. 64 Creuza de mä - La morte di un figlio pag. 68 Le nuvole - Il pentitismo pag. 72 Anime salve - L’alienazione pag. 76 Conclusione pag. 81 Bibliografia pag. 82 2 La vita Subito dopo la nascita di Fabrizio Cristiano (Bicio, per i suoi familiari), il 18 febbraio 1940, i suoi genitori Giuseppe De André e Luigia Amerio decidono di trasferirsi da Genova a Revignano d’Asti, ove la famiglia possiede un cascinale (Cascina dell’Orto), per sfuggire ai pericoli della guerra. Nel 1944 il padre Giuseppe, professore all’Istituto Palazzi, è costretto a vivere “clandestinamente” per qualche mese per aver aiutato i suoi alunni ebrei a rifugiarsi in campagna. Finita la guerra torna dal campo di concentramento di Manheim lo zio Francesco Amerio, il quale racconta al piccolo Bicio ed a suo fratello Mauro le vicende di fame e terrore vissute nel lager; tutto ciò rimane impresso in Fabrizio, tanto che egli stesso nella sua carriera canterà spesso storie di diseredati e umili, perché colpito da queste tragiche vicende. Alla fine del settembre 1945 la famiglia De André torna a Genova e nell’ottobre 1946 Fabrizio viene iscritto alla prima elementare all’Istituto delle suore Marcelline. In una vacanza a Pocol Fabrizio conosce Paolo Villaggio, con cui scriverà parecchie canzoni e condividerà moltissimi anni della sua vita. Nell’ottobre 1948 il piccolo Bicio comincia a studiare violino: da subito mostra grande orecchio musicale. Contemporaneamente mostra però tutta la sua inquietudine, la sua semplicità e la sua indole ribelle: molesta le domestiche, prende a parolacce le suore del suo istituto, comincia a frequentare la strada ed i bassifondi di Genova, viene molestato prima da un maniaco di quartiere poi da un sacerdote durante la confessione. Nell’estate del 1950 la famiglia De André trascorre la sua ultima vacanza alla Cascina dell’Orto, dato che il professor Giuseppe la mette in vendita; da allora Fabrizio deciderà che, una volta adulto, avrebbe riacquistato il cascinale: questo sentimento di frugalità lo accompagnerà per tutta la vita, soprattutto nella sua avventura in Sardegna. Le prime esperienze sessuali fanno entrare bruscamente Fabrizio nel mondo dell’adolescenza; anche qui brucerà le tappe, come continuerà a fare nel corso di tutta la vita. Intanto Giuseppe De Andrè, divenuto vicesindaco, tiene spesso comizi nel suo quartiere ed, esponendo schiettamente la sua avversione all’idea comunista, susciterà colorite rimostranze, tanto che i comunisti affiggeranno per tutta la città di Genova manifesti con un fotomontaggio rappresentante il professore con in testa un cappello da prete. Il professore rimarrà adirato dal fatto, per la sua nota avversione anche alla classe clericale (anche per l’avvenimento delle molestie al figlio). Lo stesso Fabrizio più tardi dirà del padre: «È un repubblicano anticlericale di destra». Nel settembre 1954 Fabrizio, invitato ad una festa mondana, preso dalla noia, imbraccia per la prima volta una chitarra, iniziando a strimpellare con discreta abilità qualche brano del suo tempo. Inoltre, a questa festa Fabrizio conosce il petroliere Abelardo Remo Borzini, colto e raffinato imprenditore nonché poeta per hobby, che seminerà nell’animo di Bicio l’amore per la lettura, e Riccardo Mannerini, filosofo anarchico, che morirà anni dopo suicida. Dopo aver preso serie lezioni di chitarra, nel dicembre 1955 Fabrizio fa il suo esordio in pubblico al teatro Carlo Felice di Genova con il suo gruppo “The Crazy Cowboys”. All’inizio del 1956 Fabrizio comincia ad ascoltare i grandi della musica francese: Edith Piaf, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud e Georges Brassens. Nell’ottobre del 1956 Fabrizio inizia il primo anno di liceo classico e comincia ad essere realmente trasgressivo con i docenti, sui quali riversa la sua avversione alla caratura culturale del padre e del fratello Mauro. L’autentico nemico di Fabrizio è il professor Decio Pierantozzi, che rappresenta per lui il potere, e che egli contrasta con sistematica, continua e quotidiana ribellione. L’unico professore che rimarrà nel cuore di Bicio sarà don Giacomino Piana (don Birillo), 3 insegnante di religione, che mostrerà al suo alunno l’umanità di Gesù e che ispirerà la canzone “Si chiamava Gesù”. Fabrizio inizia nel 1957 ad avere una coscienza politica, e partecipa alle riunioni dei militanti comunisti della sezione Mariscotti e della Federazione anarchica di Carrara. Questi sono anche gli anni in cui esplode uno scandalo per il “peccaminoso” amplesso di Fabrizio con una ragazza nella parrocchia di quartiere; inoltre ha un’appassionata relazione con una prostituta di Via del Campo. Nell’estate del 1960 Fabrizio, insieme a Clelia Petracchi scrive quella che ha sempre considerato la sua prima canzone: “La ballata del Michè”, sull’onda della vena esistenzialista francese. L’anno dopo conosce il grande Luigi Tenco in una strana circostanza. A Luigi Tenco era giunta voce che Fabrizio andava in giro dicendo che “Quando” l’aveva scritta lui: Tenco non ci pensò due volte e andò a cercarlo; una sera finalmente lo incontrò e gli chiese il perché. Fabrizio rispose: «Guarda, ero con una donna alla quale piaceva “Quando”; le ho detto che l’avevo scritta io e me la sono fatta!», al che Tenco, scoppiando a ridere: «Beh, se le cose stanno così…». Per poter vantare una propria autonomia economica Fabrizio De André e Paolo Villaggio si imbarcano su diverse crociere (Costa) come animatori musicali, e proprio su una di queste navi nasce l’amicizia con Silvio Berlusconi, anch’egli animatore per soldi. Verso fine giugno del 1961 Fabrizio conosce Enrica (Puny) Rignon, sua futura moglie, più grande di lui di sette anni; i due si sposeranno l’anno dopo e avranno un bambino: Cristiano. Dal ’64 al ’68 De André prende in affitto una casa in campagna a Savignone, nell’entroterra ligure, con un orto ed un porcile. La scelta ha una tripla valenza: portare Cristiano fuori città; coltivare la sua passione per la terra e rimanere a portata di Villa Bozano ove tutta la sua cricca fa la “bella vita”. Proprio in questa casa Bicio conosce Ave Ninchi e Anna Magnani: la stessa Magnani lo colpirà per la sua introversione, ma riuscirà a farla divertire. ll 27 gennaio 1967, durante la 17ª edizione del Festival di Sanremo, il suo amico Luigi Tenco si toglie la vita per protestare contro l’esclusione del suo brano, troppo duro per la società benpensante del festival. Quest’avvenimento ispirerà la “Preghiera in gennaio”. Il ’67 è però anche l’anno in cui conosce Francesco Guccini con cui accennerà un progetto comune, poi mai realizzatosi. Intanto i pezzi di Fabrizio destano scandalo fra i benpensanti per il loro contenuto e la Rai decide di censurare alcuni brani: come spesso avviene, ciò che è proibito è più desiderato, e i giovani fanno di quelle canzoni una bandiera. La Radio Vaticana, mostrando maggior sensibilità e apertura, trasmette proprio i pezzi censurati, tanto che i giovani cattolici cantano le sue canzoni durante i loro incontri. Nel dicembre 1967 a Fabrizio viene notificata la citazione per comparire al Tribunale di Milano quale imputato ai sensi degli artt. 110 e 528 del C.P. per avere “in concorso prodotto e posto in commercio dischi di contenuto osceno” (la canzone in questione è “Carlo Martello”). Intorno a lui si viene a formare l’alone di artista maledetto. Nel 1969 il cantautore genovese costruisce una casa in Gallura (Sardegna), con la precisa volontà di farne un’azienda agricola. Quattro anni dopo Fabrizio De André verrà a lungo pedinato dalla Squadra 50 dei servizi segreti perché sospettato di eversione e di istigazione al terrorismo. Nella primavera del 1973 accade uno dei più importanti incontri: quello con Francesco De Gregori. Fabrizio De André rimane impressionato dalla bravura e dalla genialità di questo giovane artista, con cui in seguito condividerà un intero album. Iniziano però i problemi con l’alcol, che lo porterà al divorzio con la moglie Puny, e, associato al numero esorbitante di sigarette fumate, alla morte. Difatti nel 1974 Fabrizio si invaghisce di Dori Ghezzi, 4 affermata cantante in coppia con Wess, incontrata davanti ad un distributore automatico: si sposeranno qualche anno dopo. Il 1° aprile 1976 i De André firmano l’acquisto dell’Agnata, piccolo pianoro sardo, al prezzo di cinquantadue milioni: Fabrizio rimarrà qui a Portobello di Gallura per quasi 24 anni. Rifugio, momento di aggregazione, contatto con la natura, fatica, ma tanta soddisfazione; un lavoro accurato, una bella stalla, un bosco ricco di funghi, prati, giardini, orti curatissimi, pascoli irrigui e una diga. Questo è ciò che serve al geniale cantautore per scrivere i suoi meravigliosi testi. Nel 1977 nasce Luisa Vittoria (Luvi). 27 agosto 1979. Tempio Pausania, Portobello di Gallura, proprietà De André sull’Agnata. Intorno alle 17.00 la sorella di Dori, Fiore, insieme al marito, al padre e alla madre lasciano la tenuta per far ritorno a Porto San Paolo, dove stanno trascorrendo le vacanze. Insieme a loro parte anche la piccola Luvi. L’ultima a lasciare l’Agnata è la domestica. Sono le 21.30, Bicio si trova davanti un uomo incappucciato e armato di pistola; per un attimo pensa ad uno scherzo. Non è così. Fabrizio e Dori vengono imbavagliati e, dopo esser stati costretti ad indossare dei giacconi, vengono fatti salire su un’auto. Sono stati rapiti. È l’estate più drammatica nella storia del banditismo sardo, con i De André sono ben dieci le persone tenute in ostaggio. Dopo essere stati tenuti incappucciati per diverso tempo, i due ostaggi riescono ad ottenere di rimanere legati ad un albero a volto scoperto; pian piano, con i rapitori si instaura un rapporto rispettoso e confidenziale: ai due coniugi viene dato del lei. Uno dei rapitori, di sinistra, si mostra dispiaciuto che anche Dori, figlia di operai, fosse stata rapita. Spiega che quella è la sua unica possibilità di lavoro. De André capisce che ciò che dice è vero. Giuseppe De Andrè, padre di Bicio, deve pagare seicento milioni per rivedere i due coniugi, ritrovati in due giorni differenti, fra il 20 ed il 21 dicembre dello stesso anno, lungo una strada del Goceano. Prima di liberare Fabrizio uno dei banditi gli chiede di perdonarlo: il cantautore acconsente. Infatti nelle interviste conseguenti al rapimento, Fabrizio mostrerà riconoscenza verso chi lo ha trattato così “umanamente”. L’amore per i sardi e per la Sardegna rimarrà immutato. Il 18 luglio 1985 muore a Genova Giuseppe De André, allora presidente della Eridania Zuccheri. Quattro anni dopo a Bogotà, in Colombia, muore suo fratello Mauro. Dopo anni di successi e riconoscimenti vari, De André conosce Vasco Rossi e Ivano Fossati con i quali prima abbozzerà un’opera sulla cultura mongola, poi, esclusivamente con Fossati comporrà diversi album. Appassionato di pittura (Barocchetto), amante del bello come delle cose e delle persone vere, Fabrizio preferisce però i libri, (Sciascia, Eco, Bufalino, Stendhal) e le sigarette. Nel 1993 Cristiano, figlio di Fabrizio, arriva secondo con “Dietro la porta” alla 43ª edizione del Festival di Sanremo. Il 3 gennaio 1995 muore anche Luigia Amerio, madre di Bicio. Sabato 1° marzo 1996 Fabrizio è a Genova per il primo concerto del tour “Anime salve”. A Palazzo Tursi il sindaco di Genova Adriano Sansa gli assegna il premio “Gilberto Govi”: fra tutti i riconoscimenti ottenuti nella lunga carriera questo è il più apprezzato perché simbolo dell’amore della città di Genova verso i suoi figli. Nel 1997 Fabrizio De André canta in duo con Mina “La canzone di Marinella”. Nel suo penultimo concerto dice pubblicamente sul palco: «La ‘ndrangheta dà lavoro!». Il giorno dopo in tutta Italia si alza un coro di vibrante protesta, in un periodo di restaurazione dovuto a “Mani pulite”. Fabrizio capisce e attacca, risveglia le coscienze dei giovani. Durante lo stesso tour del 1998 Bicio si sente male e viene portato in ospedale. La tac non lascia speranze: tumore ai polmoni. A Natale la situazione precipita e l’11 gennaio 1999 muore Fabrizio Cristiano De André, accanto a lui come sempre, Dori, Luvi e Cristiano. La sua famiglia. 5 L’idea Fabrizio ha sempre avuto un istintivo e spontaneo senso di rivolta, era un contestatore naturale, non mediato da trame culturali complesse, né politiche né filosofiche; lo era spontaneamente, non per posa. La caratteristica più tipica di Fabrizio era proprio questa straordinaria autenticità, era un ribelle innato, in tutte le sue manifestazioni. Per cui anticonformista nel vestire, nel muoversi, nell’atteggiarsi, nel fare “casino”, nel non farlo, nel prendere le cose sul serio sostanzialmente. Era un borghese di nascita che però non voleva esserlo, era molto critico in maniera viscerale, ma non estremista. Pur vestendo in giacca era l’anticonformista per eccellenza, non per scelta; era una sua dote naturale che poi è venuta fuori anche nella musica, nei temi che ha toccato. Fra i sedici e i diciassette anni De André inizia a documentarsi politicamente leggendo Bakunin. Aderisce con tutto sé stesso all’ideale anarchico che, evidentemente, garantisce alla sua inquietudine esistenziale il giusto orizzonte di libertà, l’affrancamento da ideologie, preconcetti, da tutto ciò che è sovrastruttura, falsità, ipocrisia. In un certo senso si potrebbe dire che l’anarchia di De André si radica nelle sue insofferenze adolescenziali, al di qua delle letture e della compatibilità ideale con l’anarchia “storica”. Non solo. A fronte di quanti si sono domandati come poteva conciliare il suo essere anarchico con l’appartenenza a una delle famiglie più benestanti di Genova, emerge con limpidezza la fatica, la sofferenza di una maturazione antiborghese proprio all’interno di un universo che, prima di tutto attraverso la figura paterna, incarna il suo disagio ed il suo obiettivo polemico. Per quasi trent’anni Fabrizio ha continuato a parlare del potere, non facendo politica ma lanciando messaggi attraverso le proprie composizioni poetiche e musicali. L’essere anarchico di Fabrizio è passato attraverso mille esperienze: la vita in campagna, le bande di quartiere, le contraddizioni tra quello che i suoi avrebbero voluto lui fosse e quello che lui era, per quello che sceglieva e cercava di essere. Vivendo la drammatica schizofrenia di chi si trova contemporaneamente da entrambi i lati della barricata. Attraverso le letture De André capisce che gli anarchici sono dei miserabli che aiutano chi è più miserabile di loro. Ma scopre anche che quei miserabili che vivono ai margini della società (prostitute, omosessuali, ladruncoli, ubriaconi) sanno essere più solidali e autentici di quelle “piccole femmine agghindate”, come lui le definisce, che egli trova nelle feste della Genova bene. Perché anarchico individualista? Perché anziché scegliere e cercare la gente con cui vivere certe idee, Fabrizio sceglie di viversele da solo, cercando di farlo con una coerenza che passa anche attraverso le contraddizioni di un essere umano. Essere anarchici è una categoria dello spirito, della propria mente. Eccolo allora suonare per il PCI, per gruppi dell’estrema sinistra e magari proprio in quei concerti davanti a qualche “femmina agghindata”, eccolo votare un caro amico nelle liste DC perché onesto; oppure avere nel gruppo dei musicisti con idee politiche molto diverse dalle sue. Un libertario tollerante. Fabrizio dimostra di aver sempre avuto, sin da giovane, pochissime idee, ma in compenso fisse, soprattutto che c’è ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Per Fabrizio bisogna aspettare che i valori si 6 storicizzino, in quanto i valori di una generazione non vengono considerati giusti dalla generazione precedente. Lo diverranno più tardi. Curiosa è la causa per cui De André tifava il Genoa. La passione per i “grifoni” nacque quando era ancora bambino e più precisamente quando, assieme al padre e al fratello, era andato allo stadio a vedere l’incontro Genoa - Torino. La squadra torinese aveva sconfitto il Genoa, e, forse per la sua predisposizione a prendere le difese dei più deboli, Fabrizio decise da allora di tifare per i rossoblù. Nel 1967 la rivista “Rossana” invia una giornalista a parlare con Fabrizio per un articolo che verrà poi chiamato “La mosca bianca della piccola musica”: il cantautore accoglie la giornalista ma inizialmente non vuole concederle l’intervista. Il motivo è l’anonimato; Fabrizio è infatti convinto che finché rimane nell’anonimato può fare ciò che vuole. In seguito ad una domanda sull’idea politica De André risponderà che non si occupa di politica, ma che è la politica ad occuparsi di tutti noi; comunque secondo il suo punto di vista la politica dovrebbe essere fatta da tecnici. Il cantautore vive il ’68 a contatto con gruppi di estrema sinistra, partecipando al tentativo di rinnovamento: non li segue, però. Difatti, secondo Fabrizio, un artista, indipendentemente dall’ideologia, è un “coniglio” individualista. De André non avrebbe mai fatto la lotta armata, ma condivideva quelli che oggi vengono chiamati gli eccessi sessantottini, anche perché li aveva quasi promossi attraverso le sue canzoni. Condivideva la rivolta contro un certo modo di gestire la società. Il ’68, per lui, è stata una rivolta spontanea, ma è un bene che non sia andata a buon fine, visto che il grosso problema di ogni rivoluzione è che, una volta preso il potere, i rivoluzionari cessano di essere tali per diventare amministratori. Una cosa è certa: Fabrizio De André ha avuto una vita intensissima, che gli ha dato, in termini di esperienza, molti più anni di quelli anagrafici. Il prezzo pagato è stato alto, la sua non è stata un’esistenza facile; ha sempre imboccato strade tortuose e anche il destino non lo ha certo aiutato. Vista da fuori, sembra quasi la vita di un artista maledetto, in realtà è la vita di un uomo che di maledetto non ha nulla. Sul suo sequestro Fabrizio ha dovuto concedere parecchie interviste. In una di queste afferma che nel caso del sequestro di persona non bisogna non giustificare i rapitori, altrimenti si esce mal ridotti dall’esperienza. Bisogna invece vedere il rapimento come una punizione ai propri peccati, in modo da diventare un espiazione psicologica. Dopo lo spiacevole avvenimento, il cantastorie genovese ne uscirà più concreto e adulto. In lui c’è la trasgressione, la voglia di non fare cose ovvie, cose scontate, ed avere come punto di riferimento la sua cultura e la sua intelligenza. In occasione della presentazione alla stampa De André viene interpellato a proposito della Lega, il fenomeno politico di allora (è il 1992). Le sue risposte, con molta superficialità e provincialismo, verranno interpretate da alcuni giornalisti come un’adesione al movimento di Bossi. Fabrizio precisò di aver simpatizzato per qualcosa che somigliava molto alla Lega, ovvero il Partito Sardo d’Azione, e che la Lega era un movimento centrista. La risposta di De André sarà: «Io sono talmente favorevole al decentramento che darei autonomie speciali persino ad un condominio!». 7 Volume 1 Anno di pubblicazione 1967 Casa discografica Bluebell Produzione Reverberi - Malcotti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. PREGHIERA IN GENNAIO MARCIA NUZIALE SPIRITUAL SI CHIAMAVA GESÙ BARBARA VIA DEL CAMPO CARO AMORE LA STAGIONE DEL TUO AMORE BOCCA DI ROSA LA MORTE CARLO MARTELLO (ritorna dalla battaglia di Poitiers) Il discografico Antonio Casetta permise a Fabrizio di scegliere gli uomini con cui lavorare. Anziché Federico Monti Arduini, all’epoca preposto a curare le produzioni Bluebell Records, De André impose Giampiero Reverberi, con il quale si era trovato bene artisticamente ed umanamente. Nel primo disco, che verrà intitolato “Volume 1”, prendono parte due canzoni tratte dal repertorio di Brassens: “Marcia nuziale” e “La morte”, insieme ad una nuova versione di “Carlo Martello”. Il resto del materiale è inedito, e tutto di altissimo livello. Due, in particolare, i brani che faranno presa sul pubblico: “Via del Campo” e “Bocca di rosa”, nelle quali Fabrizio racconta storie e situazioni vissute e ascoltate nei carruggi genovesi. Impressiona la facilità descrittiva, la capacità di affrontare temi per quell’epoca assai delicati; “Bocca di rosa” punta sul divertito ribaltamento della morale comune mettendo in scena l’Italia sessuofoba, la provincia ipocrita ridicolizzata dal trionfo dell’”amor profano”, “Via del Campo” è segnata da una profonda pietas per quei personaggi drop-out ai quali De André rimarrà sempre legato. Il contenuto delle canzoni appaga certa morbosità, contribuisce certamente al successo di De André. In “Volume 1” sono presenti due composizioni che, seppure all’epoca oscurate da brani di maggior presa, si collocano fra le perle deandreiane. “Preghiera in gennaio” è un’invocazione a Dio perché accolga in paradiso l’anima di un suicida; dedicata a Luigi Tenco, venne scritta nelle due notti successive alla sua morte. L’altra, “Si chiamava Gesù”, prende spunto, come si è detto, da una lezione dell’insegnate di religione del liceo, don Piana, nella quale De André era rimasto particolarmente colpito dall’umanità della figura di Cristo. Infine il “duello” fra “Caro amore” e “La stagione del tuo amore”, brani che si sono contesi per anni il posto nell’album. Prima della pubblicazione del disco, Casetta ebbe la grande intuizione di inserire i testi dei brani, cosa per quegli anni inusuale. Fu una mossa importantissima, che permise a tanti ragazzi di ripetere sulle loro chitarre quelle nuove ed insolite canzoni, dando l’avvio a una sorta di passaparola che contribuì non poco all’affermazione di Fabrizio. I giornali parlavano con sempre maggiore insistenza del nuovo fenomeno musicale, che suscitò l’interesse di due riviste cattoliche: “Il focolare” e “Rimini studenti”, le quali diedero ampio risalto a “Si chiamava Gesù”, lodandone il testo. 8 - Il suicidio La “Preghiera in gennaio” è stata scritta nelle due notti successive al suicidio di Luigi Tenco, grande amico di Fabrizio. Tenco si tolse la vita nel 1967 per protestare contro la non ammissione alla fase finale del festival di Sanremo del suo brano “Ciao, amore ciao”, perché ritenuto inadatto ad una manifestazione classica come quella: lui, che fortemente aveva preso parte alla contestazione del ’68. Quella di De André è un’invocazione a Dio perché accetti nel suo regno l’anima di un suicida; le parole colpiscono il cuore e la musica accompagna languidamente il testo. Fabrizio ha già cantato una canzone sul suicidio: “La ballata del Michè”. Ho deciso di analizzare tre differenti cause di suicidio attraverso le morti di Catone Uticense, grande politico romano che si uccise per non cadere nella dittatura cesariana; Ian Palack, giovane studente ceco che si diede fuoco in piazza per protestare contro l’ingresso dei carri armati sovietici nel suo Stato; e Primo Levi, suicida per non essere riuscito ad accettare la tremenda esperienza del lager nazista. - Il suicidio dei classici (Marco Porcio Catone Uticense) Pronipote di Catone Censore, fu tribuno militare in Macedonia e legato di Pompeo per la guerra contro i pirati del 67, questore nel 64 e tribuno della plebe nel 62. Dopo aver osteggiato le ambizioni di Pompeo al potere personale, vide in Cesare il vero pericolo per le istituzioni repubblicane e, allo scoppio della guerra civile (49), si schierò con i pompeiani, ritenendoli i difensori della legalità senatoria. Quando Pompeo fu sconfitto a Farsalo, Catone, che l’aveva seguito in Oriente, si rifugiò in Africa dove i pompeiani ricostruirono un esercito, debellato poi da Cesare a Tapso nel 46. Catone, che era rimasto al comando del presidio di Utica, alla notizia della disfatta, vista spenta ogni speranza, non volle cadere nelle mani del vincitore e si diede la morte. Strenuamente avverso ad ogni forma di potere personale e attaccato ai valori della libertà repubblicana, la scarsa duttilità politica e il momento storico, privarono di efficacia la battaglia che improntò la sua vita; in sostanza fu il rappresentante di un conservatorismo chiuso non solo a qualsiasi compromesso con le nuove forze che si andavano affermando, ma anche ad una comprensione della nuova realtà. Fu molto presto idealizzato dagli ambienti repubblicani e anticesariani, soprattutto in epoca neroniana, come simbolo dell’opposizione irriducibile alla tirannide. Dante Alighieri pone nel “Purgatorio” Catone Uticense a guardiano del regno del Purgatorio, come simbolo della difesa della libertà a costo della vita. Catone, nel dialogo con Virgilio, è concepito come lo stoico, l’uomo del dovere per il dovere, il severo custode che ammonisce le anime a non lasciarsi sedurre dai ricordi del mondo, ricordando loro che duro è il cammino dell’espiazione. Il suicida Catone ha staccato col corpo ogni legame dal mondo e, uscendo dal Limbo, ha accettato la legge divina che mette un netto distacco fra gli eletti e i reprobi. La magnanimità di Catone, se fu rinuncia alla vita in quanto esempio di libertà agli uomini, è anche umiltà, che è l’unico mezzo per salire alla grazia. 9 Vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo. Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli semigliante de’ quai cadeva al petto doppia lista. Li raggi de le quettro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i’ l’ vedea come ‘l sol fosse davante. «Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?», diss’el, movendo quelle oneste piume. «Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna?, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna? Son le leggi d’abisso così rotte? O è mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?». «Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara. Non son li editti etterni per noi guasti, ché questi vive e Minòs me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega. Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporterò di te a lei, se d’esser mentovato là giù degni». «Marzia piacque tanto a li occhi miei mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora, «che quante grazie volse da me, fei. Or che di là dal mal fiume dimora, più mover non mi può, per quella legge che fatta fu quando me n’uscì fora.» - Il suicidio contro l’oppressione (Ian Palack) Non c’è praghese che non ricordi Ian Palack con un misto di affetto e di strazio: in fondo aveva poco più di vent’anni, quando una sera di fine agosto 1968, proprio in quel giardinetto affollato dai suoi coetanei nell’ora di punta, si cosparse di benzina e poi si diede fuoco, bruciando come un bonzo. Lo fece per protesta, per una protesta politica, e ciò può sembrare sciocco o grande, dipende dal punto di vista e forse dalla generazione di appartenenza. Non si può quindi affermare che sia stato un povero illuso o un santo martire. La “primavera” di Praga era iniziata molto presto, in gennaio, quando il segretario del Partito Comunista Cecoslovacco al potere, Novotny, un superstite dell’era staliniana, fu sostituito da Dubcek, esponente della dissidenza interna e favorevole ad una progressiva liberalizzazione del regime. Riassumeva il senso del suo revisionismo nella formula di un socialismo dal “volto umano”, un tentativo di conciliare ciò che di buono vi è nella tradizione marxista con il rispetto delle minime libertà individuali. Timorosi che questo processo di liberalizzazione politica si estendesse agli altri Paesi del blocco sovietico, le truppe dell’URSS e di quattro Stati del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia, occuparono Praga, arrestarono Dubcek, misero al suo posto un governo fantoccio filosovietico e iniziarono la “normalizzazione”, ossia la caccia ai cosiddetti “elementi” antisovietici, antisocialisti, o meglio nazionalisti borghesi. Tuttavia conta il fatto che né Palack, né Dubcek erano “elementi” antisovietici o antisocialisti, ma credevano grosso modo nelle stesse cose in cui credevano i giovani carristi dell’Armata Rossa. Il che trasforma l’invasione di Praga in una planetaria guerra civile interna alla sinistra, con effetti devastanti nella coscienza di chi allora ci credeva. E quei giovani carristi erano palesemente imbarazzati, addirittura spesso piangevano anche loro mentre spingevano il carro armato in mezzo ad una folla immensa, pacifica e “popolare”. Piangevano tutti, aggressori ed aggrediti, e la folla saliva fin sopra, fin dentro al carro armato per spiegare che non era possibile, era un equivoco, perché avevano tutti gli stessi ideali. Difatti anche Ian Palack era un comunista, lo era stato con orgoglio fino a pochi mesi prima e forse quel suo gesto disperato era l’unico modo per rimanerlo senza vergogna. - Il suicidio per un trauma vissuto (Primo Levi) È difficile capire il perché del suicidio di Primo Levi: è stato il peso della sua tremenda esperienza nel lager, con il suo sforzo di non dimenticare, che ha, alla fine, distrutto la sua voglia di vivere? Oppure è stato un raptus improvviso che lo ha scaraventato giù in quella tromba delle scale? Oppure un incidente? Non c’è risposta certa a questi interrogativi. Non è possibile trovarla nei suoi scritti che non lasciano trasparire nulla che possa spiegare quello che è capitato. Riguardo al suicidio vi si trovano considerazioni di segno opposto. Primo Levi se ne distanzia come da una soluzione disperata, da comprendere, ma non da imitare, quando parla dei suicidi Jean Amery ne “I sommersi e i salvati”, nonché di Trakl e Celan ne “L’altrui mestiere”. Invece nel racconto “Verso occidente” che narra dei lemming, roditori che si dirigono in massa a morire annegati nel mare, affronta il dilemma del suicidio con coinvolgimento e partecipazione, tanto da far supporre che il problema in qualche modo lo tormentasse. Neppure aiutano le testimonianze delle persone che lo hanno conosciuto. Alcuni amici molto vicini a lui affermano che negli ultimi tempi Primo Levi fosse terribilmente depresso per cui il suicidio non li ha sorpresi. Altri invece pensano il contrario: lo scrittore Ferdinando Camon, per esempio, riferisce di aver ricevuto il giorno dopo la morte di Primo Levi una sua lettera ottimistica piena di progetti per il futuro. Rita Levi Montalcini, in un’intervista, dice di non credere assolutamente al suicidio. Lo scrittore Mario Rigoni Stern pensa invece che Primo Levi abbia sentito tutt’a un tratto l’imperioso richiamo “Wstawac”, la sveglia del lager, che per anni, dopo la liberazione, ha perseguitato i suoi sonni. Primo Levi ha voluto, in primo luogo, essere un testimone, una fonte di informazione sui lager nazisti. Questo ha saputo farlo con efficacia e con una grande carica di umanità, senza aggredire il lettore buttandogli in faccia l’orrore, ma riferendo i fatti pacatamente con precisione e onestà, astenendosi dall’emettere condanne, ma deferendo il giudizio a chi ascolta la sua testimonianza. In seguito però Primo Levi ha continuato ad approfondire la riflessione su tutti gli aspetti che riguardano i lager e la società che li ha prodotti, e di riflesso sul comportamento umano. Egli ha voluto capire, e far capire, perché Auschwitz è stato possibile. 11 Tutti morimmo a stento Anno di pubblicazione 1968 Casa discografica Bluebell Produzione De André 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. CANTICO DEI DROGATI PRIMO INTERMEZZO LEGGENDA DI NATALE SECONDO INTERMEZZO BALLATA DEGLI IMPICCATI INVERNO GIROTONDO TERZO INTERMEZZO RECITATIVO (2 invocazioni e 1 atto di accusa) CORALE (leggenda del re infelice) Insieme a Mannerini, Fabrizio stava lavorando ad alcuni testi da adattare alle sue musiche. Colui che è stato il suo maestro di pensiero di lì a pochi anni se ne sarebbe andato via appeso ad una corda. Si tratta del primo concept-album realizzato in Italia, inciso con un’orchestra di ottanta elementi. Questa cantata in si minore per coro e orchestra venne registrata negli studi Rca di via Tiburtina in un caldissimo agosto del 1968. Casetta, a cui piaceva rischiare, o meglio investire, negli artisti in cui credeva, cercò di creare tutti i presupposti per realizzare una produzione che fosse all’altezza di quelle angloamericane. I risultati furono eccellenti dal punto di vista artistico, seppur penalizzati da problemi tecnici. L’album contiene alcune composizioni come “Cantico dei drogati”, “Leggenda di Natale”, “Inverno” e “Ballata degli impiccati”, nelle quali è assai difficile tracciare il confine fra poesia e canzone. Di assoluta eleganza il lavoro musicale del maestro Reverberi, che darà un tono di continuità alle composizioni, sia in termini di missaggio che di arrangiamento. In brani come “Cantico dei drogati”, scritto insieme a Riccardo Mannerini, Fabrizio cercò una catarsi dalla schiavitù dell’alcol. Il disco fu pubblicato nel mese di settembre e le note di copertina presero spunto da una bozza scritta dal professor De André. Furono quelli giorni molto intensi, dedicati alla realizzazione di nuovi dischi, ad un progetto con i New Trolls e alle registrazioni di altre canzoni che Casetta volle preparare per sfruttare il successo de “La canzone di Marinella”. “Tutti morimmo a stento” o “Volume 2” venne presentato a Roma alla libreria Rinascita; nonostante la presenza della chitarra, Fabrizio preferì ricorrere al giradischi. L’album in breve tempo arrivò al secondo posto in classifica. De André passò buona parte della seconda metà del 1968 insieme a Giampiero Reverberi. Dovevano realizzare l’album d’esordio per i New Trolls e per fine anno uscire con un LP che contenesse nuove versioni delle canzoni più popolari di Fabrizio. Come se non bastasse, i due ai primi di aprile incisero a Milano la colonna sonora del programma televisivo per ragazzi “I viaggi di Gulliver”. Su testi di Umberto Simonetta ed Enrico Vaime, De André e Reverberi composero le musiche, ispirate alle liriche dei trovatori provenzali. È in questo periodo che Fabrizio si appassiona alla musica brasiliana, in particolare a João Gilberto e a Caetano Veloso, del quale seguirà con partecipazione le vicende artistiche e politiche. 12 - L’angoscia Il “Cantico dei drogati”, scritto a quattro mani col poeta anarchico Riccardo Mannerini, è il ritratto dello stato d’angoscia, di disperazione e di infelicità in cui il drogato si trova nel rapportarsi al mondo e a Dio, a Cui chiede invano che la morte lo colpisca presto per liberarlo dalle sofferenze. Egli maledice la sua vita e le sue azioni chiedendosi come potrà venir giustificato da sua madre, anche lei disperata per la condizione del figlio. Per analizzare questo sentimento, che è comunque parte dell’animo umano, ho cercato il suo significato nel pensiero e nelle opere di tre grandi artisti: Giacomo Leopardi, cha nella sua “teoria del piacere” ha seguito, molto realisticamente, un filo logico per arrivare a dire che l’angoscia è un sentimento innato nell’uomo. Il secondo personaggio da me analizzato è il filosofo danese Kierkegaard, il quale ha sostenuto il concetto dell’angoscia come stato principale dell’essere nella vita di chi non crede; infine il pittore norvegese Edvard Munch, che attraverso il suo capolavoro, “Il grido”, ha scovato il sentimento di malessere che una visione, reale o presunta, può provocare su un uomo qualunque. - L’angoscia come infelicità eterna (Giacomo Leopardi) Tutta l’opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente meditate e sviluppate, il cui processo, prima dell’approdo ai testi compiuti, si può seguire attraverso le migliaia di pagine dello “Zibaldone”. La ricostruzione almeno sommaria di questo sistema nella sua evoluzione nel tempo è quindi una premessa indispensabile alla lettura della poesia e della prosa leopardiane. Al centro della meditazione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico, l’infelicità dell’uomo. Egli arriva a individuare la causa prima di questa infelicità in alcune pagine fondamentali dello “Zibaldone” del luglio 1820. Restando fedele ad un indirizzo di pensiero settecentesco e sensistico, identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l’uomo non desidera “un” piacere, bensì “il“ piacere: aspira cioè a un piacere che sia infinito, per estensione e per durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall’uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto incolmabile dell’anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che sempre gli sfugge nasce per Leopardi l’infelicità dell’uomo, il senso della nullità di tutte le cose, E Leopardi si preoccupa di sottolineare che ciò va inteso non in senso religioso e metafisico, come tensione verso un’infinità divina al di là delle cose contingenti, ma in senso puramente materiale. L’uomo è dunque, per Leopardi, necessariamente infelice, per la sua stessa costituzione. Ma la natura, che in questa prima fase è concepita dal poeta come madre benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature, ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all’uomo: l’immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato agli occhi della misera creatura le sue effettive condizioni. Per questo gli uomini primitivi e gli antichi greci e romani, che erano più vicini alla natura, e quindi capaci di illudersi e di immaginare, erano felici, perché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà, opera della ragione, ha allontanato l’uomo da quella condizione privilegiata, ha messo crudelmente sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso angosciato. La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita su questa antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi, nutriti di generose illusioni, erano capaci di azioni eroiche e magnanime; erano anche più forti fisicamente, e questo favoriva la loro forza morale; la loro vita era più attiva e intensa, e ciò contribuiva a far dimenticare il nulla ed il vuoto dell’esistenza. Perciò essi 13 erano più grandi di noi sia nella vita civile, ricca di esempi eroici e di grandi virtù, sia nella vita culturale. Il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le illusioni, ha spento ogni slancio magnanimo, ha reso i moderni incapaci di eroiche azioni, ha generato viltà, meschinità, calcolo gretto ed egoistico, corruzione dei costumi. La colpa dell’infelicità presente è dunque attribuita all’uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna. Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, la vede dominata dall’inerzia e dal tedio; ciò vale soprattutto per l’Italia, miserevolmente decaduta dalla grandezza del passato. Scaturisce di qui la tematica civile e patriottica che caratterizza le prime canzoni leopardiane. E ne deriva anche un atteggiamento titanico: il poeta, come unico depositario della virtù antica, si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l’Italia a tanta abiezione, e sferza violentemente la sua “codarda” età. Questa fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula del pessimismo “storico”: nel senso che la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità e pienezza vitale. Questa concezione di una natura benigna entra però in crisi. Leopardi si rende conto che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla conservazione della specie, e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza. Ne deduce che il male non è un semplice accidente, ma rientra nel piano stesso della natura. Si rende conto inoltre del fatto che è la natura che ha messo nell’uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. In una fase intermedia, Leopardi cerca di uscire da queste contraddizioni attribuendo la responsabilità del male al “fato”; propone quindi una concezione dualistica, natura benigna contro fato maligno. Ma ben presto arriva alla soluzione delle contraddizioni rovesciando la sua concezione della natura. Questo punto d’approdo, nella sua opera, emerge all’improvviso, chiarissimo, nel “Dialogo della Natura e di un islandese”, del maggio 1824; ma questo sbocco è in realtà preceduto da un lungo travaglio, testimoniato dallo “Zibaldone”. Il poeta di Recanati concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature; meccanismo anche crudele, in cui la sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale, perché gli individui devono perire per consentire la conservazione del mondo. È una concezione non più finalistica ma meccanicistica e materialistica. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso, ma solo della natura. L’uomo non è che vittima innocente della sua crudeltà. Se filosoficamente Leopardi rappresenta la natura come meccanismo inconsapevole, somma di leggi oggettive non regolate da una mente provvidenziale, miticamente e poeticamente ama però rappresentarla come una sorta di divinità malvagia, che opera deliberatamente per far soffrire e distruggere le sue creature. Viene così superato il dualismo natura-fato: alla natura vengono attribuite le caratteristiche che prima erano del fato, la malvagità crudele e persecutoria. Coerentemente con l’approdo materialistico, muta anche il senso dell’infelicità umana: prima, in termini sensistici, era concepita come assenza di piacere, in una dimensione psicologica ed esistenziale; ora l’infelicità, materialisticamente, è dovuta soprattutto ai mali “esterni”, a cui nessuno può sfuggire: malattie, elementi atmosferici, cataclismi, vecchiaia, morte. Se causa dell’infelicità è la natura stessa, nel suo cieco meccanismo immutabile, tutti gli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, in ogni tipo di società, sono necessariamente infelici; anche gli antichi, pur essendo capaci di illudersi, erano vittime di quei terribili mali. Al pessimismo “storico” subentra così un pessimismo “cosmico”: nel senso che l’infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa dell’uomo, ma ad una condizione assoluta, diviene un dato eterno e immutabile di natura, vane sono la protesta e la lotta e non resta che la contemplazione lucida e disperata della 14 verità. Subentra infatti in Leopardi un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e rassegnato, suo ideale non è più l’eroe antico, teso a generose imprese, ma il saggio antico, soprattutto quello stoico, la cui caratteristica è l’”atarassia”, il distacco imperturbabile dalla vita. Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. […] La malinconia, il sentimentale moderno ec., perciò appunto sono così dolci, perché immergono l’anima in un abisso di pensieri indeterminati, de’ quali non sa vedere il fondo né i contorni. - L’angoscia di chi non crede (Sören Aabye Kierkegaard) Al problema dell’angoscia come modo di essere della esistenza del Singolo, il filosofo danese Kierkegaard dedica “Il concetto dell’angoscia”, che è del 1844. «L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni». L’angoscia forma “il discepolo della possibilità” e prepara il “cavaliere della fede”. Sempre nel 1844 Kierkegaard pubblica l’importante volume “Briciole filosofiche”, in cui l’autore esamina l’idea di maieutica religiosa ed analizza il significato della categoria del possibile. Ma, intanto, l’anno avanti, nel 1843, egli aveva dato alle stampe “La ripetizione” dove, all’ideale estetico della vita, viene contrapposta la riconquista di sé, vale a dire dell’esistenza autentica attraverso la fede. Anche gli “Studi nel cammino della vita” (1845) esaminano lo stesso tema. E ne “La malattia mortale” (1849) Kierkegaard, sfruttando i risultati delle opere precedenti, contrappone alla disperazione, che è la vera “malattia mortale”, la salvezza della fede; e sostiene che fuori della fede non c’è che disperazione. La caratteristica dell’uomo in quanto spirito è quella per cui il Singolo, diversamente che nelle specie animali, è superiore alla specie. L’animale ha un’”essenza”, ed è quindi determinato, giacché l’essenza è il regno del necessario, di cui la scienza ricerca le leggi. L’esistenza, in breve, è il regno della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, è quello che diventa. Questo vuol dire che il modo di essere dell’esistenza non è la realtà o la necessita, bensì la “possibilità”. Ma, scrive Kierkegaard ne “Il concetto dell’angoscia”: «La possibilità è la più pesante delle categorie». Infatti, nella “possibilità” tutto è egualmente possibile, e chi fu realmente educato mediante la “possibilità”, ha compreso anche il suo lato terribile e sa che egli dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che questo lato terribile (la perdizione, l’annientamento) vive al fianco dell’uomo. L’esistenza è libertà, poter-essere, cioè possibilità: possibilità di non scegliere, di restare nella paralisi, di scegliere e di perdersi; possiblità come “minaccia del nulla”. La realtà è che l’esistenza è possibilità e quindi “angoscia”. L’angoscia è il puro sentimento del possibile; è il senso di quel che può accadere e che può essere molto più terribile della realtà. Perché, se uno esce dalla scuola della possibilità e se ha tratto vantaggi dall’esperienza dell’angoscia, allora darà alla realtà una nuova spiegazione; esalterà la realtà, e anche quando essa pesa grave sopra di lui, si ricorderà che essa è molto più “leggera” di quanto non fosse la possiblità. Il possibile, afferma Kierkegaard, corrisponde perfettamente al futuro. Il possibile è, per la libertà, il futuro, e il futuro, per il tempo, è il possibile. Per questo, angoscia e futuro sono congiunti. L’angoscia caratterizza la condizione umana: chi vive nel peccato è angosciato dalla possibilità del pentimento; chi vive, essendosi liberato dal peccato, vive nell’angoscia di ricadervi. Ma l’importante è capire che l’angoscia “forma”: essa, infatti, 15 distrugge tutte le finitezze, scoprendo tutte le loro illusioni. È in questo modo che Dio, che vuole essere amato, discende con l’aiuto dell’inquietudine, a caccia dell’uomo. E se l’angoscia è tipica dell’uomo nel suo rapportarsi al mondo, la “disperazione” è propria dell’uomo nel suo rapporto con se stesso. La disperazione è, per Kierkegaard, la colpa dell’uomo che non sa accettare se stesso nella sua profondità. E la disperazione è la “malattia mortale”: un eterno morire senza tuttavia morire, un’impotente autodistruzione. Dal punto di vista cristiano, neanche la morte è “malattia mortale”, e tanto meno lo è qualsiasi sofferenza terrestre e temporale come la povertà, la malattia, la miseria, la tribolazione, le avversità, i tormenti, le pene spirituali, il lutto o l’affanno. La morte può essere la fine di una malattia, ma, nel senso cristiano, la morte non è la fine: il disperato è quindi un “malato a morte”. La disperazione è il vivere la morte dell’io. E ogni uomo è disperato e forse più di ogni altro lo è colui che non sente in sé nessuna disperazione. Ma, precisa il filosofo, ogni uomo è disperato eccetto quando guardandosi dentro, e volendo essere se stesso, l’io si “immerge”, attraverso la propria trasparenza, nella potenza che l’ha posto. La scaturigine della disperazione sta nel non volersi accettare dalle mani di Dio, è allora chiaro che l’esistenza autentica è quella disponibile all’amore di Dio, quella di colui che non crede più a se stesso ma soltanto a Dio. E questa fede in Dio, questo testimoniare la verità dalla parte del Signore, porta il cristiano ad entrare in diretto conflitto con questo mondo, e simultaneamente gli fa capire che, dal punto di vista cristiano, lo scopo della vita terrena è di essere portati al più alto grado di noia della vita. E quando si è giunti a questo punto, allora si sostiene in modo cristiano la “prova” della vita e si è maturi per l’eternità. Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte e la morte sarebbe la fine. E questa è precisamente la disperazione. - L’angoscia di una visione (Edvard Munch) Per mettere a fuoco il senso della più famosa opera di Munch, “Il grido”, nessuna descrizione è più efficace delle parole dello stesso pittore: «Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando». Munch come tutti gli espressionisti sente così profondamente la sofferenza umana, la miseria, la violenza e la passione, da considerare poco onesta l’insistenza sull’armonia e la bellezza nell’arte. Affronta la cruda realtà dell’esistenza esprimendo compassione per i diseredati, trasformando l’opera in denuncia, scandalizzando e scuotendo l’atteggiamento benpensante e borghese. Nulla di esterno suggerisce l’angoscia che induce il personaggio, probabilmente una donna, ad urlare. Il suo sguardo atterrito non è diretto all’eventuale osservatore, non ne invoca l’aiuto. Le mani premute alle orecchie per non sentire nulla, nemmeno il possibile conforto dei passi della coppia alle spalle, che del resto cammina in direzione opposta; a raggiungere quest’ultima è invece lo steccato, ma con una fuga talmente vertiginosa da non lasciare alcuno spazio all’idea di un suo, per quanto tardivo, ritorno. La vita, se per vita si intende la quiete, è irrimediabilmente lontana e perduta, nei profili azzurrati delle barche e nella sagoma tenue del campanile, miraggio di un senso del vivere di cui si è smarrita finanche la memoria. In questo intenso capolavoro l’esperienza emotiva si dilata in malessere universale e tutto concorre a manifestare questo dramma: il paesaggio del fiordo, il taglio diagonale e ascendente del ponte, la ringhiera che anziché difendere imprigiona, il tramonto insanguinato come un gorgo che risucchia il mondo, e 16 infine la figura, strana creatura col volto da teschio, che grida e corre incontro allo spettatore. Come le onde sonore, le pennellate accese si propagano all’intorno della donna ma, a differenza di queste, conformi soltanto all’imprevedibilità di un impulso emotivo talmente violento da mutarsi, per tragico paradosso, nel suo esatto contrario; la lacerante assenza di emozioni. È questo che forse colpisce e deturpa la figura e che ci spinge a ricordare che essa era, e non è più, una persona. Il prevalere delle tinte scure e del grigiobruno nella parte bassa del dipinto lo confermano, così come la scarna e deformata sagoma del volto della donna, assai più simile ad un teschio che al viso di una persona viva. Nella litografia de “L’urlo”, eseguita dall’artista due anni dopo il dipinto (1895), l’aggressività del segno risulterà ancor più accentuata e risolverà in pura tensione disegnativa quel disarmonico rapporto con la realtà naturalistica dei colori: l’acqua azzurra, la terra bruna, la vegetazione verde e il sole rosso. Pur intimamente legato al simbolismo, come dimostrano la ricerca di un’analogia tra suono e colore e la sostanziale fluidità del segno, Munch seppe tuttavia imprimere alla propria arte un’inedita intensità emotiva, cui guarderanno come un modello i “fauves” e soprattutto gli espressionisti tedeschi, uniti al maestro norvegese da un’altrettanto tragica visione del vivere. Edvard Munch, Il grido, 1893 olio, tempera e pastello su cartone, 91x73,5 cm Oslo, Nasjonalgalleriet 17 Volume 3 Anno di pubblicazione 1968 Casa discografica Bluebell Produzione De André - Reverberi 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. LA CANZONE DI MARINELLA IL GORILLA LA BALLATA DELL’EROE S’I’ FOSSE FOCO AMORE CHE VIENI AMORE CHE VAI LA GUERRA DI PIERO IL TESTAMENTO NELL’ACQUA DELLA CHIARA FONTANA LA BALLATA DEL MICHÈ IL RE FA RULLARE I TAMBURI Questa uscita, avvenuta nel mese di dicembre, si rivelò strategicamente azzeccatissima; grazie alle nuove versioni de “La canzone di Marinella”, “Amore che vieni amore che vai”, “La guerra di Piero”, Casetta mise sul mercato un album ad altissimo potenziale di vendite. Fabrizio propose inoltre la traduzione di uno dei classici di Brassens, “Il gorilla”, destinato a diventare uno dei pezzi forti del suo repertorio. Accanto ad essi, tre perle: “S’i’ fosse foco”, tratta da un sonetto di Cecco Angiolieri, “Nell’acqua della chiara fontana”, altra traduzione brassensiana, e “Il re fa rullare i tamburi”, canzone popolare francese del XIV secolo. Il successo è strepitoso; con “Tutti morimmo a stento” ancora al diciannovesimo posto, “Volume 3” raggiunge i vertici, ed entrambi rimangono in classifica per circa due anni. Tra il ’68 ed il ’69, oltre che con “Senza orario senza bandiera” dei New Trolls, Fabrizio De André è sul mercato con due nuovi album, cinque 45 giri e un’ulteriore edizione su 33 giri del materiale Karim (la precedente etichetta). Casetta era riuscito a lavorare bene su De André, grazie anche a brillanti collaboratori come Rosanna Mani, sua addetta stampa per i primi dischi e poi futura codirettrice di “Sorrisi e canzoni TV”. L’idea di inserire i testi, alcune coincidenze fortunate, le cause penali e la censura avevano contribuito a formare il culto di Fabrizio. La sua assenza dalle scene favorì la curiosità dei fan, desiderosi di sapere qualcosa di più sul suo conto, aumentando così l’interesse della stampa nei suoi confronti. Per consentire al nuovo lp la migliore penetrazione sui mercati, Toni Casetta decide di far uscire, a breve distanza l’uno dall’altro, tre singoli. Il primo, che precederà l’album, sarà “Carlo Martello”, abbinato a “Il testamento”. A esso seguirà l’attesissimo e vendutissimo “La canzone di Marinella” / ”Amore che vieni amore che vai”, unitamente ad un altro dei più venduti 45 giri deandreiani contenente “La ballata del Michè” / “La guerra di Piero”. Questi singoli, a conferma del successo di “Volume 3”, avranno un fortunatissimo seguito con “Il gorilla” / “Nell’acqua della chiara fontana”, pubblicato nel 1969 oltre a “Leggenda di Natale” / “Inverno”, tratto da “Tutti morimmo a stento”. “La ballata del Michè”, prima vera canzone di Fabrizio, narra del suicidio di un uomo recluso perché omicida per amore: De André riesce però meravigliosamente a dimostrare come il Michè fosse un individuo “quasi innocente” perché innamorato. 18 - Il pacifismo Canzone tuttora simbolo dei movimenti pacifisti italiani, “La guerra di Piero” venne incisa a Roma tra il 18 e il 25 luglio 1964 agli studi Dirmaphon. Questo brano è entrato quattro anni dopo nei repertori dei militanti di sinistra e dei cattolici, egualmente impegnati a ridefinire il proprio ruolo nel sociale. La storia, emblematica, è quella di un giovane soldato che viene ucciso da un suo coetaneo, anch’egli militare, solo perché “aveva la divisa di un altro colore”; realismo, crudezza, ma soprattutto denuncia è ciò che caratterizza una delle canzoni più belle e significative della nostra cultura musicale. Oltre a questo brano, Fabrizio ha composto, per sottolineare la stupidità e la pazzia che caratterizzano le guerre, “Girotondo”, “Andrea” e “La ballata dell’eroe”. Mai come oggi il movimento pacifista si sta facendo strada: dopo aver vissuto anni di dure lotte contro molte guerre, il numero di pacifisti nel mondo sta esponenzialmente crescendo, forse perché i popoli sono sempre più convinti dell’inutilità della guerra come metodo di risoluzione per le incomprensioni internazionali. Ho deciso quindi di portare a testimonianza del sentimento di pace le idee di tre grandi personaggi: Kant, che nel suo trattato “Per la pace perpetua” ha teoricamente costruito le basi del pacifismo moderno, Ungaretti e la sua “Non gridate più”, disperata richiesta di cessazione della guerra per rispettare la pace dei morti; infine il grande poeta romano Trilussa, che nei suoi arditi e un po’ cinici versi ha spesso evidenziato la fratellanza innata degli uomini e il tragitto che la pace deve compiere attraverso la guerra (fatta dai potenti) per attuarsi. - La pace perpetua (Karl Immanuel Kant) Per quanto riguarda il concetto della storia, Kant condivide il punto di vista illuministico sulla civiltà come sforzo verso una società umana universale o cosmopolitica, di cui detta le condizioni nel breve ma importante scritto “Per la pace perpetua”. In quest’opera Kant riconosce il suo pensiero retto su alcuni punti fondamentali. Gli Stati nei loro rapporti esterni vivono in uno stato giuridico provvisorio; lo Stato di natura è uno Stato di guerra e perciò uno Stato ingiusto; essendo questo Stato ingiusto, gli Stati hanno il dovere di uscirne e di fondare una federazione di Stati secondo l’idea di un contratto sociale originario, vale a dire un’unione dei popoli per mezzo della quale essi si obbligano a non immischiarsi nelle discordie intestine gli uni degli altri ma a proteggersi però contro gli assalti di un nemico esterno. Questa federazione non istituisce un potere sovrano ma assume la figura di un’associazione in cui i singoli componenti rimangono su un piano di collaborazione tra uguali. La costituzione di ogni Stato, per Kant, deve essere repubblicana. La repubblica non è soltanto la miglior forma di governo per quel che riguarda i rapporti fra lo Stato e il cittadino, ma anche per quel che riguarda i rapporti tra gli Stati. Essa garantisce, meglio di ogni altra forma, la libertà e la pace: è dunque la principale condizione di quella coesistenza pacifica nella libertà che costituisce l’ideale morale della specie umana. Inoltre il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati. Non basta che gli Stati diventino repubblicani: la repubblica è una condizione necessaria ma non sufficiente per la pace perpetua. È necessario quindi che le repubbliche così costituite diano vita ad una federazione, cioè si obblighino ad entrare in una costituzione analoga alla costituzione civile nella quale si possa garantire a ogni membro il proprio diritto. Questa federazione si deve distinguere da un lato da un super-Stato ma dall’altro si deve distinguere da un puro e semplice trattato di pace, perché quest’ultimo si propone di porre 19 termine a una guerra, mentre quella si propone di porre termine a tutte le guerre e per sempre. Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità. Mentre il diritto internazionale regola il rapporto tra gli Stati e il diritto interno regola i rapporti fra lo Stato e i suoi cittadini, il diritto cosmopolitico regola i rapporti tra uno Stato e i cittadini degli altri Stati. La massima fondamentale del diritto cosmopolitico è che uno straniero che si reca nel territorio di un altro Stato non deve essere trattato ostilmente sino a che non abbia commesso atti ostili allo Stato ospitante. Kant giustifica questa massima col diritto spettante a tutti gli uomini di entrare in società coi loro simili in virtù del possesso comune originario di tutta la superficie terrestre. Ma in quest’ultimo articolo del suo progetto di pace perpetua Kant stabilisce un limite a questo diritto di ospitalità o perlomeno vuol definire l’ambito entro cui esso possa esercitarsi, dicendo che non può estendersi oltre le condizioni di una universale ospitalità: vuol dire che colui che è ospite di uno Stato straniero non può approfittare di questa sua posizione per disgregare lo Stato o per minacciarne l’esistenza. Questa clausola è chiaramente diretta contro l’ingerenza dei cittadini degli Stati colonizzatori nei Paesi indigeni; per il filosofo russo è quindi implicito che il diritto cosmopolitico contenga il rifiuto di ogni forma di razzismo e schiavismo. Il dovere dell’ospitalità si lega alla necessità di favorire la reciproca conoscenza e cooperazione, quindi di pacifici rapporti tra i popoli. Lo Stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno status naturalis. Questo è piuttosto uno Stato di guerra, nel senso che, se anche non vi sono ostilità dichiarate, è però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi. Dunque lo Stato di pace dev’essere istituito. - La pace nel rispetto dei morti (Giuseppe Ungaretti) Quel clima di morte, di guerra e di dolore, presente in “Non gridate più” di Giuseppe Ungaretti, viene evidenziato dall’uso dell’imperativo (con accenti di preghiera) rivolto alla collettività per invitare al rispetto dei morti, all’ascolto della loro voce e de loro messaggio. Il dolore segna l’apertura del poeta al senso della storia e del tempo, nonché al recupero della metrica tradizionale. Sono oramai lontani i tempi della sperimentazione, della ricerca della parola “pura” volta a svelare e illuminare la verità che si cela oltre l’apparenza e il mondo sensibile. Le sofferenze individuali, l’accostamento ai classici, la riflessione sulla fede religiosa, l’esperienza terribile del secondo conflitto mondiale (il poeta aveva già combattuto la Grande Guerra), spingono alla solidarietà, alla pietà, all’impegno civile per fermare le barbarie. Di grande forza espressiva l’adynaton del primo verso, così come la contrapposizione tra le urla e il fragore provocato dai vivi e il sussurro impercettibile dei defunti. Ma proprio in quel sussurro è risposta la speranza dell’umanità, la lezione di vita, l’insegnamento volto ad evitare il reiterarsi dell’orrore e della distruzione. I valori di civiltà eternati dalla poesia sono ancora una volta affidati alle tombe, come già insegnava Foscolo ne “I sepolcri”. Il rispetto per i defunti, la capacità di coglierne il messaggio dando ascolto alle voci interiori, la dolente consapevolezza che perfino la natura evita il novello Attila, costituiscono i nuclei concettuali della lirica. È piuttosto interessante notare come l’elemento caratteristico della guerra posto in risalto da Ungaretti sia il rumore (le urla). L’effetto immediato della cessazione del conflitto, dopo il fragore delle armi, dei proclami, dei pianti, è il silenzio, eco di morte e distruzione, ma anche invito alla riflessione, alla pietà, alla ricerca di messaggi altrimenti impercettibili. Lasciare i defunti nella loro pace, nelle case diventate tombe, significa attribuire loro un ruolo simbolico, di “monumentum”, che predispone all’attesa e all’ascolto di un messaggio. 20 L’indifferenza alle voci sussurrate è una reiterazione dell’uccisione, dello strazio, perché rende il sacrificio inutile. Ungaretti sperimenta, nel dopoguerra, la ricerca di nuove forme espressive: dallo stile ermetico, individualistico, rarefatto delle prime raccolte, si assiste alla graduale conquista di nuove soluzioni espressive, più accessibili e comunicative, aperte verso l’altro e verso la storia. La considerazione del dolore che non è più solo intimo e personale (Ungaretti subisce, tra l’altro, la perdita di un figlio amatissimo), ma coinvolge tutti gli uomini nella catastrofe immane del conflitto mondiale, conferisce al dettato poetico del poeta una decisa connotazione etica, civile, umanitaria e socialmente impegnata. Cessate d’uccidere i morti, non gridate più, non gridate se li volete ancora udire, se sperate di non perire. Hanno l’impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell’erba, lieta dove non passa l’uomo. - La pace dopo la guerra (Trilussa) Trilussa dava voce al sentimento e alla mentalità piccoloborghese perché tale era egli stesso; la sua satira non risparmiava nessuno perché era lui per primo a non risparmiarsi. Mascherate le proprie emozioni, nascondere una lacrima tra le risate, togliere il velo ai buoni sentimenti e alle ideologie di tutti i coloro, rivoltare i buoni propositi per scoprire che la fratellanza fa sempre rima con “panza”: questo faceva Trilussa con i suoi versi e le sue favole. Aristocratici, intellettuali, politici, preti, gente del popolo: ce n’era per tutti. Durante una campagna elettorale, i socialdemocratici affissero sui muri di Roma i versi de “La cornacchia libberale”, sonetto che metteva a nudo le contraddizioni dell’idea liberale; detto fatto, un’ora dopo i liberali rispondevano con un’altra affissione, quella de “Er compagno scompagno”, favola sul socialismo. Il mondo di Trilussa (o Carlo Alberto Salustri) è un mondaccio, la gente è “gentaglia e gentarella”: gli uomini sono ipocriti come quel bottegaio che un momento prima era decisissimo a chiamare la polizia e un momento dopo è tutto inchini e sorrisi per il cliente che gli ha saldato il debito; hanno la memoria corta come quell’innamorato che dopo qualche tempo risponde, a chi gli domanda della donna del cuore, di non ricordarsi più chi fosse. Chi, dopo il Belli, ha saputo come Trilussa adattar così spesso entro la ferrea cornice del sonetto quadri tutti essenziali, senza superfluità e né ritagli né sforature, con quei versi precisi e cadenzati nei quali la frase combacia nativamente e logicamente con la misura dell’endecasillabo? Dissacrare, smontare, smascherare. Trilussa prende spunto dalle favole di La Fontaine per rovesciarne il finale riportandolo alla sua ben nota morale. Dopo aver riveduto e corretto le favole della tradizione Trilussa si slanciò nell’invenzione originale con una vera parata di fuochi d’artificio: polli, oche, somari e cavalli, piccioni e aquile, sorci e gatti, leoni, pecore e maiali, tutti intenti a disquisire, a sentenziare, a litigare nel comune segno del tornaconto, della “panza”. Tutti portatori di una filosofia che potremmo chiamare della “Maria Tegami”, il fortunato personaggio scaturito dall’inesauribile fantasia trilussiana che, sulle colonne del Travaso, commentava fatti della cronaca e della politica con velleità letterarie inversamente proporzionali alla mancanza di cultura; tale fu il successo degli articoli che l’editore li raccolse in un volumetto, da regalare ai lettori, che si apriva con un’autobiografia dell’autrice. 21 Per la sua attenzione verso la cronaca, il suo “cavalcare” la cronaca, sembrarono creare un contrasto piuttosto vistoso con la quasi totale assenza di poesie ispirate ai fatti della Prima e, più tardi, della Seconda Guerra Mondiale. Ciò che, del resto, gli fu rimproverato da molti critici. In realtà c’è “Il Natale della guerra” o la “Ninna nanna de la guerra”, a riprova del cordone ombelicale che lega Trilussa ai romani. Leggere ora quelle poesie vuol dire provare un brivido di commozione; vien da pensare, oggi, che l’atteggiamento di Trilussa di fronte allo strazio dei bombardamenti e dei massacri non fosse dettato da facile scetticismo piccolo-borghese, da un generico ed epidermico orrore del macello, ma da una disperazione più larga e da una compassione eterna per il piccolo, meschino essere che è l’uomo. Da una malinconia, da un’infinita tristezza per la giustizia e la verità che non ci sono e non ci saranno mai senza che gli uomini cessino ugualmente di immaginarle, di sognarle, di sentirsi pronti per dare loro consistenza in terra. La “Ninna nanna de la guerra” è quindi la metafora perfetta di quell’idea di pace che deve, per forza di cose, passare attraverso la guerra. Ninna nanna, nanna ninna, er pupetto vò la zinna; dormi, dormi, cocco bello, sennò chiamo Farfarello Farfarello e Gujermone che se mette a pecorone, Gujermone e Ceccopeppe che se regge co le zeppe, co le zeppe d’un impero mezzo giallo e mezzo nero. Ninna nanna, pija sonno ché se dormi nun vedrai tante infamie e tanti guai che succedeno ner monno fra le spade e li fucili de li popoli civili. Ninna nanna, tu nun senti li sospiri e li lamenti de la gente che se scanna per un matto che commanna; che se scanna e che s’ammazza a vantaggio de la razza o a vantaggio d’una fede per un Dio che nun se vede, ma che serve da riparo ar Sovrano macellaro. Chè quer covo d’assassini che c’insanguina la terra sa benone che la guerra è un gran giro de quatrini che prepara le risorse pe li padri de le Borse. Fa la ninna, cocco bello, finché dura sto macello: fa la ninna, ché domani rivedremo li sovrani che se scambieno la stima boni amichi come prima. So cuggini e fra parenti nun se fanno comprimenti: torneranno più cordiali li rapporti personali. E riuniti fra de loro senza l’ombra d’un rimorso, ce faranno un ber discorso su la Pace e sul Lavoro per quer popolo cojone risparmiato dar cannone! 22 Nuvole barocche Anno di pubblicazione 1969 Casa discografica Roman Produzione De André 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. NUVOLE BAROCCHE E FU LA NOTTE VALZER PER UN AMORE PER I TUOI LARGHI OCCHI CANZONE DELL’AMORE PERDUTO CARLO MARTELLO (ritorna dalla battaglia di Poitiers) IL FANNULLONE GEORDIE DELITTO DI PAESE “Nuvole barocche” è una sorta di raccolta del periodo in cui De André incideva per la Karim, comprensiva di canzoni apparse nei primi singoli e non inserite nel primo album. Infatti nell’album sono presenti le versioni originali arrangiate con pochi strumenti del “Valzer per un amore”, rielaborazione del “Valzer campestre” (tratto dalla “Suite siciliana”) di Gino Marinuzzi jr. e della “Canzone dell’amore perduto”. Inoltre sono presenti “Nuvole barocche”, “E fu la notte” e “Per i tuoi larghi occhi” (tratta da una poesia di Elvio Monti), tutte canzoni che risentono ancora dello stampo melodico di fine anni Cinquanta. “Il fannullone” è invece un brano scritto a quattro mani con Paolo Villaggio: è la storia della loro giovinezza, un’età dominata dalla sregolatezza, dall’ozio, dalla pazzia, dal sesso, dall’alcool, dalle donne. C’è “Carlo Martello (ritorna dalla battaglia di Poitiers)”, ironica descrizione di un rapporto sessuale del sovrano Carlo con una semplice paesana, la quale si permette, a “prestazione” conclusa, di chiedere soldi al re: quest’ultimo non dice di no, ma rimane deluso dall’illusione di aver fatto breccia nel cuore della donna. “Delitto di paese” è l’amara storia di un povero anziano, il quale vuole ritrovare la sua giovinezza attraverso una prostituta, tant’è che dopo “quattro baci e una carezza” il vecchio signore confessa la sua impossibilità a pagare la donna. Questa va a chiamare il protettore e insieme uccidono l’anziano; dopo ciò si accorgono realmente, mettendo a soqquadro casa, che il defunto era davvero povero, e vengono colti dalla polizia che chiedono perdono in lacrime sul corpo del povero vecchio. I due omicidi vengono condannati a morte e impiccati in piazza: è a questo punto che entra in gioco l’occhio critico di Fabrizio, il quale giustifica quasi i due, ammettendo la loro semplicità e legittimando il loro perdono. Infine il brano, che pare più una filastrocca, “Geordie”, cantata in duo con la cantante inglese Maureen Rix, è la storia di un ragazzo ventenne, che, per aver rubato “sei cervi nel parco del re”, viene condannato a morte. La giovane sposa, alla notizia della condanna, si reca a Londra per implorare il re di non uccidere Geordie, ma il sovrano offre la possibilità di impiccare Geordie con una “corda d’oro”: offerta alquanto non gradita dalla moglie. Ella, infatti, accetterà ironicamente e amaramente il destino del giovane sposo rispondendo: «È un privilegio raro!». Insomma “Nuvole barocche” è un album in cui sono presenti un po’ tutti le tematiche che in seguito costituiranno la discografia di Fabrizio De André. 23 - Robert Burns Lo “Geordie male” era il “maschio standard” di Newcastle, fannullone e dedito alla birra; fu rappresentato da Reg Smyhthe nella figura di Andy Capp. Potrebbe quindi trattarsi della vicenda di George Gordon (da qui “Geordie”), quarto o sesto conte di Huntly, che, ribellatosi contro il re di Scozia Giacomo VI nel 1589, fu imprigionato e condannato a morte come traditore, ma in seguito liberato per intercessione della sua famiglia. Dalla ballata appare che i Gordon erano pronti a liberare il loro congiunto con la forza, ma è più probabile che Giacomo VI avesse voluto evitare, con il suo gesto di clemenza, l’inimicizia di una potentissima famiglia che era stata storicamente sempre dalla parte della corona di Sant’Andrea. Certo è che Geordie doveva godere di grande popolarità, se la somma veramente enorme imposta alla moglie per il suo rilascio fu raccolta senza alcuna difficoltà. Il testo fa parte di quelli forniti da Robert Burns per lo “Scottish Musical Museum” di James Johnson; è verosimile che, come nel caso di “Tam Lin”, il grande poeta scozzese vi abbia messo le mani. “Geordie” ha avuto grande diffusione nell’intera Gran Bretagna e ha dato luogo a numerosissime varianti. Quelle inglesi, però, pur mantenendo un’affinità di fondo con la vicenda originale (il nucleo fisso rimane sempre la giovane sposa che si reca a corte per salvare l’amato), fanno di Geordie un bracconiere ed eliminano l’”happy end”. Nell’Inghilterra tradizionale il bracconaggio era punito in modo veramente draconiano. In particolare, la caccia di frodo nelle tenute e nelle riserve reali era punita in modo ancor più severo, spesso con la pubblica impiccagione; a queste rigidissime leggi non sfuggivano neanche i nobili. - Life and career Robert Burns, often described as the “peasant poet”, was born in a clay cottage (1759) at Alloway, in Ayrshire, Scotland. The eldest of seven children of a poor farmer, he was soon obliged to work as a labourer on his father’s farm, leading a life which he himself described as the “cheerless gloom of a hermit, and the unceasing toil of a galley slave”. His education, however, was not neglected. He was not an unlettered peasant, as he has sometimes been portrayed. Since his childhood he had been very fond of reading, often carrying books into the fields to read them in his rare leisure moments. Although he did not have a regular schooling, he was able to pick up a fairly good knowledge of the classics and the main 18th century English poets. It was from his illiterate other and his country fellows, however, that he learnt Scottish folk literature, language and music. He began writing very early, but his real awakening as a poet took place in 1784-85, when he discovered the collections of vernacular Scottish poetry by Allan Ramsay and the works of Robert Fergusson, with their vivid, racy descriptions of the life and amusements among the Edinburgh poor. For the first time, Burns realized the potential wealth of his native dialect as a literary language; following his two original models, he began writing about the world and the life around him. He quite often though up his poems while working at his plough. Then, at night, he would sit down in his garret and write them down. In 1786, oppressed by economic and sentimental troubles (throughout his life he had a weakness for women and drink), and impelled by his reckless, rebellious nature, he planned to emigrate to Jamaica, in the West Indies. Before leaving, however, he decided to publish his poems, among other things to obtain the passage-money for the voyage. The publication, known as the “Kilmarnock edition”, made him very famous and, instead of Jamaica, it took him for a time to Edinburgh. Here, on the wake of the fashionable veneration for Rousseau’s ideas, he soon became the darling of Edinburgh’s literary 24 circles, which, ignoring the real extent of his literary knowledge, hailed him as the “Heaven-taught plowman”. Back home, thanks to the money earned from the second edition of his poems, he bought and eventually sold a farm, married Jean Armour, one of his many loves, found a job in the excise service and spent his spare time collecting some of the extant traditional Scots songs. His radical sympathies for the French Revolution, when it broke out, got him into trouble, and he was even prosecuted for seditious speeches, which almost cost him his excise job. Although he overcame the storm, his already poor health began declining and, in 1796, he died of heart disease, resulting more from the hard labour of his youth than from excess and dissipation, as some critics believed. Burns’s poems, collected under the title “Poems chiefly in the Scottish dialect”, were almost all composed in only two years, from 1784 to 1786 (though some of them were published in later editions). Over a limited period of time, he was able to produce a remarkable number of works varying in character and subject matter. We can only attempt to cover the best of these, grouping them roughly into three sections. - Themes and language Passionate, honest and independent, a rebel by nature and endowed with an extrovert temperament, Burns was quite often baffling and impudent in him works, but also capable of lyrical emotion and pathos. The main themes of his poems are nature, love, simplicity, freedom. His sense of nature was quite different from that of his contemporaries, since for him it was neither a distant, abstract landscape, nor the mirror of his feelings. Neither did he idealize it as an imaginary Arcadia, nor “romantically” endow it with a mystic spirit. He loved nature not so much for its own sake as for its relationship to man. He looked at nature with the eye of a tenant farmer, who knew hard work and suffering. It meant to him above all the earth, the field where he worked, a reality he had to cope with every day. He was the poet of rural life in its concrete reality. He believed in “Nature’s social union”, which made man a brother to all animals, plants and flowers, and he regretted that man should have had to “master” nature instead of remaining part of it. The theme of love is proposed again and again in the eternal game of kisses and quarrels, passion and forsaking. Often in the form of delicate, short idylls, his love poems are outstanding for the loveliness and tenderness of their lines. Moreover his return to simplicity, together with the use of a really spoken language and his sense of nature, makes him the forerunner of Wordsworth’s poetical theories. His passion for freedom led him to consider any political and social injustice as unbearable. This passion, together with his love for his native country, his spirit of revolt, his sympathy with the poor and his deeply-rooted patriotism, earned him the universally recognized title of “national” poet of Scotland. Finally with his caustic humour, Burns was a talented satirist, but he was also at his best in tender lyrics, in songs of married life, in the remembrance of lost love, in regret for the impossibility of re-living old times and past events. Burns almost always wrote in a simple Ayrshire dialect, particularly suited to folk poetry, which is usually strongly influenced by oral tradition; he has an anomalous position in English literature, since he wrote his verse in Scots. Still spoken in parts of Scotland, Scots is often considered a mere dialect of English, although, had Scotland remained independent, it would certainly now be regarded as a separate language. Burns used a language really spoken, the opposite of “poetic diction”; his poetry rises from a conversational level, from small market-town and village talk about various subjects always related to personal and local interests; it rises from that level in rhythms that have a 25 relation also to dance-tunes. It was above all in his shorter poems that Burns showed the best of his poetic vein. - Adam Armour’s prayer Adam Armour was probably Jean Armour’s brother, who, along with some other lads, “stanged”, or carried Agnes Wilson, a female fornicator, astride a pole through the streets of Mauchline. He became involved in a breach of the peace, and while evading arrest, met Burns, whose advice he sought. The poet is supposed to have suggested that Armour should find someone to pray for him, and Armour to have replied: «Just do’t yourself, Burns, I know no one so fit». The authority for this story is the unreliable and frequently inventive Allan Cunningham. Adam Armour is said to have become a mason, and to have visited Burns at Ellisland. Gude pity me, because I’m little! For though I am an elf o’ mettle, An’ can, like ony wabster’s shuttle, Jink there or here, Yet, scarce as lang’s a gude kail-whittle, I’m unco queer. An’ now Thou kens our waefu’ case; For Geordie’s jurr we’re in disgrace, Because we stang’d her through the place, An’ hurt her spleuchan; For whilk we daurna show our face Within the clachan. An’ now we’re dern’d in dens and hollows, And hunted, as was William Wallace, Wi’ constables-thae blackguard fallows, An’ sodgers baith; But Gude preserve us frae the gallows, That shamefu’ death! Auld grim black-bearded Geordie’s sel’O shake him owre the mouth o’ hell! There let him hing, an’ roar, an’ yell Wi’ hideous din, And if he offers to rebel, The heave him in. When Death comes in wi’ glimmerin blink, An’ tips auld drucken Nanse the wink, May Sautan gie her droup a clink Within his yett, An’ fill her up wi’ brimstone drink, Red-reekin het. Though Jock an’ hav’rel Jean are merrySome devil seize them in a hurry, An’ waft them in th’ infernal wherry Straught trhough the lake, An’ gie their hides a noble curry Wi’ oil od aik! As for the jurr-puir wothless body! She’s got mischief enough already, Wi’ stanged hips, and buttocks bluidy She’s suffer’d sair; But, may she wintle in a woody, If she wh-e mair! 26 La buona novella Anno di pubblicazione 1970 Casa discografica Produttori Associati Produzione Danè 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. LAUDATE DOMINUM L’INFANZIA DI MARIA IL RITORNO DI GIUSEPPE IL SOGNO DI MARIA AVE MARIA MARIA NELLA BOTTEGA D’UN FALEGNAME VIA DELLA CROCE TRE MADRI IL TESTAMENTO LAUDATE HOMINEM Nel 1970 a Milano, al Circolo della Stampa, viene presentato “La buona novella”, il nuovo album di Fabrizio De André, che firma testi e musiche, avvalendosi della collaborazione di Giampiero Reverberi, con Roberto Danè in veste di produttore. Anche in questa occasione viene scelta la forma del concept-album, una costante nella carriera di Fabrizio, che a questo album si mostrerà molto legato, soprattutto negli anni ‘90, quando dal vivo riproporrà brani come “L’infanzia di Maria”, “Il ritorno di Giuseppe”, ”Maria nella bottega d’un falegname” e “Tre madri”. “Il sogno di Maria” è sicuramente una delle più belle canzoni composte da De André, una delle sue preferite, come dimostrano le straordinarie riproposizioni live nel tour teatrale ’97-’98. La dimensione religiosa si scioglie liricamente in un ritratto di fanciulla rapita dal messaggio misterioso della sua prossima maternità. Fra immagini sapientemente essenziali e la incisiva evocazione di uno stato di veglia-sonno emerge in tutta la sua delicata fisicità il mistero dell’Annunciazione, memore, certo, dei Vangeli, ma anche di tanta pittura medievale e rinascimentale. I personaggi a noi noti attraverso la letteratura “classica” vengono ripresi dai Vangeli apocrifi e subiscono l’umanizzazione garbata, efficace, di Fabrizio. La sua poetica, le sue capacità descrittive , si esprimono ai massimi livelli. Anche nelle scuole si comincia a toccare il tasto della poesia di De André. Il successo de “La buona novella” fu inferiore alle aspettative della casa discografica, ma venne bilanciato dalle vendite del 45 giri “Il pescatore” / “Marcia nuziale”, prodotto da Roberto Danè. “Il pescatore” verrà riproposto, in una infinità di versioni, sia su disco che dal vivo, da artisti e orchestre d’ogni genere. È di questo periodo il primo tentativo di Sergio Bernardini di convincere Fabrizio ad esibirsi dal vivo. Ne “Il testamento di Tito” De André rivede a modo suo i dieci Comandamenti, dando una sua libera impressione sulle regole sacre e sulla volontà dell’uomo di rispettarle. Nel 1970 De Andrè rilesse l’“Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, scrittore e libertario americano, che la moglie Puny gli aveva regalato in edizione economica. Appassionatosi ai personaggi tratteggiati con sapienza da Masters, decide di realizzare il suo nuovo disco lavorando intorno a quelle figure chiedendo, per la parte letteraria, la collaborazione dello scrittore romano Giuseppe Bentivoglio, con il quale aveva lavorato in precedenza per la “Ballata degli impiccati”. 27 - I Vangeli apocrifi Il concept-album presentato nel 1970 ha come sfondo culturale i Vangeli apocrifi (scritti non riconosciuti dalla Chiesa documento ufficiale della vita di Gesù): è la storia dell’infanzia di Maria, della tristezza di Giuseppe, dell’agonia di Gesù Cristo, del testamento di Tito il ladrone, della disperazione delle madri dei condannati. Con toccante sensibilità De André proietta l’ascoltatore nella vita “privata” e “umana” del figlio di Dio, dipingendolo, secondo appunto i Vangeli apocrifi, come un normale ragazzo con uno spiccato senso di generosità e umanità. Insomma: Gesù uno di noi. - Cosa sono e da dove provengono L’aggettivo “apocrifo”, in greco, significa segreto, nascosto. Sembra che stesse ad indicare, fino al IV secolo d.C., alcuni scritti che qualche setta cristiana metteva a disposizione solo degli iniziati, non ritenendo che gli scritti fossero di facile comprensione per le masse. Quando la Chiesa cominciò a distinguere in “ispirata e no” la letteratura di Cristo, escluse quei testi apocrifi dal codice canonico. Gli apocrifi sembrano colmare il vuoto dei quattro canonici sull’infanzia di Maria, la storia di Giuseppe, l’infanzia di Gesù e la storia di Erode e Pilato. Ma la differenza più affascinante è l’attenzione che gli autori mettono anche sulla natura comunque umana dei loro protagonisti; costoro, e il popolo che vive con loro, sembrano semidei di vario grado immersi in una meravigliosa e a volte anche troppo fantastica leggenda, costretti a viverla come umili e martoriati esseri umani in balia di questa unica commedia umana. La scoperta più entusiasmante, per chi legge i Vangeli apocrifi è che l’immagine di Gesù, da essi trasmessa, non trasfigurata dal mito e dalle sovrastrutture dogmatiche, è proprio quella che più sazia oggi la nostra sete di giustizia, di pace e di amore. Gesù non è negli apocrifi la vittima espiatoria delle nostre colpe ancestrali, né il figlio di Dio, che vuole essere adorato, ma l’uomo che si è proposto come esempio per insegnarci a vivere con serenità, con la coscienza tranquilla che non si lascia corrompere e contaminare dal male. I più antichi apocrifi erano i Vangeli appartenenti a comunità giudaiche, sparse fin dagli albori del Cristianesimo in Palestina e in Siria. La voce di questi primi cristiani è stata soffocata. Dei loro Vangeli non rimane che qualche citazione, talora distorta e malevolmente interpretata, negli scritti posteriori dei Padri della Chiesa. Per gli Ebioniti (dall’ebraico “ebionim”, gli “umili”), Gesù era un uomo giusto che, ispirato da Jahveh come gli antichi profeti biblici, aveva tuonato contro i ricchi, i potenti, i profittatori. La presenza tra i suoi discepoli di almeno tre Zeloti faceva credere che egli si fosse investito di una missione rivoluzionaria, che era andata fallita, ma aveva fatto di lui un simbolo sacro. I Nazareni (da “nazir”, il “separato”) riconoscevano in Gesù un modello di purezza e di rigore morale, che li teneva separati, non contaminati, dalla corruzione della società. Per darne segno, essi seguivano un’usanza che si fa risalire a Mosè: un voto perenne o temporaneo di castità e semplicità dei costumi, tenendo per tutto il periodo del voto i capelli intonsi. Il loro nome corrisponde all’epiteto dato a Gesù stesso il “nazareno”, che non deriva, come comunemente si crede da Nazareth, inesistente a quei tempi, ma denuncia invece, anche da parte di Gesù, l’osservanza di un simile voto. Altrettanto casti, poveri, e vegetariani, erano i Nicolani, secondo la tradizione fondati da un diacono dei primi apostoli, di nome Nicola, e più tardi gli Encratiti, che, rinunciando anche al vino, commemoravano il ricordo di Gesù cenando con pane e acqua.Questo comportamento di 28 umiltà, povertà e frugalità dilagherà nel IV secolo a intere masse di fedeli, con i Manichei, poi nel Medioevo con i Catari (i “puri”), più tardi con i Poveri di Lione, fondati da Pietro Valdo e gli Spirituali, eredi di San Francesco, come protesta popolare contro la corruzione della società e contro la stessa Chiesa che si era lasciata coinvolgere, rifiutando la sua autorità e la sua concezione di Gesù, Signore, re dei re, assiso trionfalmente in trono, per ripresentarlo umile tra gli umili, povero fra i poveri. Intanto, già fin dal II secolo, nel colto ambiente di Alessandria d’Egitto, erano cominciati a diffondersi i Vangeli gnostici, di ispirazione neoplatonica, che interpretavano la predicazione di Gesù su fondamenti razionali. Dagli gnostici Gesù era visto come simbolo della verità che illumina la conoscenza (questo è il significato del vocabolo greco “gnosis”) del bene e del male, per cui è possibile all’uomo seguire la via della rettitudine per intima convinzione. Lo gnosticismo imponeva un severo distacco dalle occasioni di peccato, ma anche una carità fraterna, rivolta ad aiutare gli altri, comunicando loro la gnosi appresa. Il bacio, tra gli gnostici, non era soltanto un segno di affetto, ma il mezzo con chi amava fecondava e generava un altro fratello. Un filo conduttore lega queste varie correnti eretiche del Cristianesimo: l’umanità di Gesù con tutte le passioni più nobili dell’uomo: lo sdegno per l’intolleranza, la prepotenza, la cupidigia di denaro, la pietà per i poveri ed i sofferenti, la capacità di commuoversi e di piangere, il coraggio di rintuzzare il bigottismo farisaico, e di sferzare i mercanti del Tempio, di affrontare a viso aperti i potenti. Un uomo, la cui tragica fine, e l’apocrifo che riporta un immaginario scambio di lettere fra Pilato e l’imperatore Tiberio vuol essere una testimonianza dell’ipocrisia del potere politico, che elimina un personaggio molesto e poi ne compiange la morte, ne ha fatto un martire e un modello ideale per tutti coloro che lottano per la libertà e la dignità umana. Forti movimenti religiosi, soprattutto protestanti, ai nostri giorni, tornano ad accentuare questo aspetto di Gesù. I combattenti per la libertà dell’America Centrale dicono che il vero cristiano deve essere rivoluzionario. È questo il vero Gesù? Sì, è anche questo. Nella molteplicità di interpretazioni che permette la vicenda di Gesù sta il segreto del suo eterno fascino. Nemmeno Gesù si sottrae al destino di ogni essere vivente: ognuno conta per gli altri nella misura in cui gli altri riescono ad attribuirgli una personalità che corrisponda a ciò che essi si aspettano da lui. E oggi, in questa società sconvolta dal male, sempre sull’orlo di una catastrofe, anche le previsioni apocalittiche d’una lontana distruzione del mondo intero, attribuite a Gesù da certi apocrifi, sono di sconvolgente attualità. Non per intervento dell’ira divina, come Gesù pensava, ma certo a causa della follia degli uomini stessi potrebbe essere prossima la fine del mondo. Riusciranno almeno i superstiti, se ve ne saranno, a fare tesoro degli ammonimenti del Gesù degli apocrifi, per costruire finalmente un nuovo mondo, basato su principi di amore, fratellanza e giustizia? - Il Codice di Arundel 404 Si tratta di uno scritto apocrifo, riguardante la nascita e l’infanzia del Salvatore, risalente forse al VI secolo. In esso possiamo notare che il destinatario della persecuzione di Erode era il piccolo Giovanni Battista e che sulla sua persona incombeva la stessa predestinazione regale che riguardava Gesù. Elisabetta udendo che Giovanni era ricercato dai sicari per ucciderlo, lo prese, salì su di un monte altissimo, e cercò con lo sguardo tutt’intorno il luogo ove poterlo nascondere. Poi gemette e, in lacrime, esclamò rivolta 29 al Signore: «Signore Dio, offri tu un riparo affinché questo monte accolga la madre con il figlio». Il monte era altissimo ed essa non se la sentiva più di salire. Improvvisamente il monte si spaccò e accolse lei con il figlio, e in quello stesso luogo avevano una grande luce, giacché l’angelo del Signore era con loro, li custodiva e nutriva. - Il Vangelo di Pietro Il Vangelo detto “di Pietro” sembra essere uno dei più antichi manoscritti che la Chiesa definisce apocrifi. Fino al 1886 era conosciuto, come oggi i Vangeli cosiddetti giudeo-cristiani, solo per le citazioni effettuate dai Padri della Chiesa in alcune loro opere. Nel 1886, in Egitto, ad Akhmim, dentro la tomba di un monaco furono trovate delle pergamene contenenti, fra l’altro, questo testo che è stato identificato dagli studiosi come il Vangelo di Pietro. Si tratta, probabilmente, di uno scritto composto nel II secolo da una comunità cristiana che potrebbe avere attinto a fonti giudaico-cristiane. Condussero due malfattori e crocifissero il Signore in mezzo a loro. Ma lui taceva quasi che non sentisse alcun dolore. Quando drizzarono la croce, vi scrissero: “Questo è il re di Israele”. Posero le vesti davanti a lui, le divisero e su di esse gettarono la sorte. Ma uno di quei malfattori li rimproverò, dicendo: «Noi soffriamo così a causa delle azioni cattive che abbiamo commesso. Ma costui, divenuto salvatore degli uomini, che male vi ha fatto?». Indignati contro di lui, ordinarono che non gli fossero spezzate le gambe e così morisse tra i tormenti. - Il Vangelo di Maria Si tratta di uno scritto gnostico che fu rinvenuto nel cosiddetto Papiro 8502 di Berlino, di cui si hanno notizie dal 1896, ma che fu pubblicato solo nel 1955. La Maria a cui è attribuito è Maria Maddalena. Questo scritto attribuisce un’importanza fondamentale alla figura della Maddalena, come discepolo che Gesù avrebbe anteposto persino ai suoi apostoli maschi. Levi replicò a Pietro dicendo: «Tu sei sempre irruente, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro la donna come fanno gli avversari. Se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v’è dubbio che il Salvatore la conosca bene, perciò amò lei più di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell’uomo perfetto, formarci come egli ci ha ordinato, e annunziare il Vangelo senza emanare né un ulteriore comandamento, né un ulteriore legge, all’infuori di quanto ci disse il Salvatore. - Il Vangelo copto di Tomaso Si tratta di uno scritto gnostico che fu rinvenuto nel 1945 presso Nag Hammadi, in Egitto, da un contadino che scavava nel terreno. In quell’occasione fu scoperta un’intera collezione di scritti gnostici, in lingua copta, che erano ormai dati per scomparsi da secoli. Questo testo, le cui origini possono essere fatte risalire al II secolo, è un complesso di centoquattordici sentenze, introdotte generalmente dalla formula “Gesù disse”. I Vangeli gnostici non hanno l’impostazione biografico-narrativa tipica dei Vangeli canonici. Questa opera si rivela uno scritto esoterico contenente parole che non devono essere svelate ai profani, la comprensione delle quali è apportatrice di vita. Ogni detto forma un’unità indipendente solo raramente si osserva un piccolo raggruppamento di detti (o “loghia”) collegati ad un tema, da parole chiave o da riferimento dell’uno all’altro: i detti sono perlopiù assai brevi e hanno la forma di prescrizioni, sentenze, aforismi; qualche volta si incontrano brevi conversazioni con i discepoli, con Simon Pietro, con Maria, con Matteo e Tomaso. Qualche detto è molto vicino a parole o parabole dei Vangeli canonici. Gesù disse: «Forse gli uomini pensano che io sia venuto a gettare la pace sul mondo, ignorando che io sono venuto a gettare divisioni, fuoco, spada, guerra. Cinque saranno in una casa: tre contro due e due contro tre, il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, ed essi se ne staranno soli». 30 - Il Vangelo di Filippo Si tratta, come per il Vangelo di Tomaso, di uno scritto gnostico che fu ritrovato nel 1945 presso Nag Hammadi, da un contadino che scavava nel terreno. Questo testo, le cui origini possono essere fatte risalire al II secolo, è un complesso di centoventisette sentenze contenenti spesso linguaggi criptici per iniziati. Taluni hanno detto che Maria ha concepito dallo Spirito Santo. Essi sono in errore. Essi non sanno quello che dicono. Quando mai una donna ha concepito da una donna? Maria è la Vergine che nessuna forza ha violato, e questo è un grande anatema per gli ebrei che sono gli apostoli e gli apostolici. Questa Vergine, che nessuna forza ha violato e le potenze si contaminano. E il Signore non avrebbe detto: «Mio padre che è nei cieli», se non avesse avuto un altro padre, ma avrebbe detto semplicemente: «Mio padre». - Il Protovangelo di Giacomo Pochissimi testi parlano dei genitori di Maria. Ma dal Protovangelo di Giacomo emergono due biografie dense di fede e di tenerezza. Un pezzo fondamentale della storia della salvezza. Di loro nei Vangeli canonici non c’è traccia, eppure la tradizione cristiana ha accolto e venerato Gioacchino e Anna come i genitori della Vergine. I loro nomi compaiono solo nella letteratura apocrifa. Il Protovangelo di Giacomo, attribuito all’apostolo Giacomo il Minore, è il più antico e viene fatto risalire a prima dell’anno 150, e per questo motivo considerato più un testo extracanonico che un vero e proprio apocrifo. In realtà contro la tesi che farebbe del Protovangelo di Giacomo uno dei più antichi documenti cristiani, quasi contemporaneo dei normali Vangeli, stanno alcuni argomenti, come la mancanza di testimonianze sicure circa l’esistenza del testo prima del VI secolo, che rendono dubbia la paternità e la datazione del documento in questione. Certo è che questo apocrifo, per la ricchezza dei particolari con cui offre il racconto sulla vita della Madonna e sulla nascita di Gesù, rappresenta una delle testimonianze più vive del Cristianesimo primitivo, tant’è che l’arte figurativa cristiana, l’agiografia, la novellistica medievale hanno largamente attinto a questi racconti, ripetendone i motivi e imitandone gli atteggiamenti. Ed ecco che Giuseppe si preparò a partire per la Giudea. E una grande agitazione avvenne in Betlemme di Giudea, poiché arrivarono dei magi che chiedevano: «Dov’è il re dei giudei che è nato? Poiché abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo». Udendo questo, Erode fu turbato e mandò dei messi ai magi e fece chiamare i grandi sacerdoti e li interrogò, dicendo: «Che cosa sta scritto riguardo al Cristo? Dove deve nascere?». Gli dicono: «In Betlemme di Giudea: così infatti sta scritto». Egli allora li congedò. E interrogò i magi, dicendo loro: «Che segno avete visto circa il re che è nato?». Dissero i magi: «Abbiamo visto una stella grandissima, che brillava tra queste altre stelle e le oscurava, così che le stelle non si vedevano, e noi per questo abbiamo capito che un re era nato per Israele e siamo venuti per adorarlo». Ed Erode disse: «Andate e cercate; e se lo trovate fatemelo sapere affinché anch’io vada ad adorarlo. I magi se ne andarono. Ed ecco la stella che avevano visto in Oriente li precedeva finché giunsero alla grotta, e si fermò in capo alla grotta. 31 Non al denaro non all’amore né al cielo Anno di pubblicazione 1971 Casa discografica Produttori Associati Produzione Danè - Bardotti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. DORMONO SULLA COLLINA UN MATTO (dietro ogni scemo c’è un villaggio) UN GIUDICE UN BLASFEMO (dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato) UN MALATO DI CUORE UN MEDICO UN CHIMICO UN OTTICO IL SUONATORE JONES Dopo aver ottenuto l’avallo di Fernanda Pivano, storica traduttrice di Masters, Fabrizio perfezionò i testi che si riveleranno, come la stessa Pivano ha confermato, decisamente più belli degli originali. Le figure scelte vengono raccontate con una tale partecipazione da sembrare veramente figlie della penna di De André. I testi di Masters furono lavorati e adattati alle musiche e, in alcuni casi, modificati o ampliati. I personaggi scelti sono molto “deandreiani”, dal giudice carogna tratteggiato in “Un giudice”, che riporta alle atmosfere de “Il gorilla”, ad “Un blasfemo”, arrabbiato non tanto con Dio quanto con i preti. “Un matto” propone invece la figura del diverso, che in quanto tale viene attaccato dal branco per dare sfogo alle proprie frustrazioni. Una galleria di sconfitti descritti da Fabrizio con una vena quasi commovente. E anche in “Non al denaro non all’amore né al cielo” ritornano i riferimenti all’infanzia passata nelle campagne piemontesi. Letto a 18 anni per la prima volta e riletto nel 1970, l’“Antologia di Spoon River” ha colpito il cantautore genovese per la sincerità dei suoi personaggi, per il modo in cui essi non hanno più niente da aspettarsi e non hanno più nulla da pensare; così che parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare Una nota particolare per le musiche, curate dall’allora giovanissimo Nicola Piovani, destinato ad una luminosa carriera. A dirigere le operazioni Roberto Danè, che insieme a Sergio Bardotti ne curò la produzione agli studi Ortophonic di Roma. Proprio Bardotti completerà il testo di “Susan dei marinai”, che Fabrizio regalerà al suo amico Michele e, qualche tempo dopo, fu ancora Bardotti, durante una cena in un ristorante sardo a Milano, a dare una mano a Sergio Bernardini per convincere Fabrizio ad esibirsi dal vivo. La collaborazione di Sergio Bardotti con Fabrizio si limiterà a “Non al denaro non all’amore ne al cielo”; intatta rimarrà la loro amicizia e stima, nonostante la saltuaria frequentazione. Crescevano nel frattempo le richieste di avere Fabrizio De André dal vivo, ma la risposta era per tutti la stessa. Anche Mina e Charles Aznavour un giorno tentarono di convincerlo ad esibirsi sul palco. Il problema era di duplice natura: la prima era che Fabrizio non voleva salire su un palcoscenico perché, a suo dire, non voleva stare sopra nessuno. L’altra motivazione era di carattere fisico, difatti Fabrizio si vergognava perché aveva un problema alla palpebra sinistra, la quale gli rimaneva sull’occhio per metà. Una volta risolto questo problema chirurgicamente, Fabrizio comincerà ad esibirsi dal vivo. 32 - Idrogeno e ossigeno “Non al denaro non all’amore né al cielo”, terzo concept-album di Fabrizio De André, contiene la storia del chimico, il quale, morto in un esperimento non riuscito, dall’oltretomba si chiede come facciano gli esseri umani a legarsi fra di loro, proprio come fanno l’ossigeno e l’idrogeno presenti nel mare. Al chimico appare infatti assai strana la pacifica convivenza di questi due elementi che non a caso danno vita all’acqua, e che in altre situazioni potrebbero dar luogo ad esplosioni violentissime: egli arriva però a capire che l’ossigeno e l’idrogeno si legano tramite leggi naturali, gli uomini attraverso l’amore. - L’idrogeno L’idrogeno è il primo elemento della tavola periodica, avendo un solo protone nel nucleo e un solo elettrone nel sottolivello 1s. Non si trova libero in natura, tranne che nelle emanazioni vulcaniche, ma è l’elemento più abbondante nell’universo, essendo il principale costituente delle stelle e della materia interstellare; nel sole, infatti, costituisce il 90% della massa totale. L’idrogeno naturale è una miscela di tre isotopi costituita per il 99,9% da protio (1H), per lo 0,66% da deuterio (2H, simbolo D) e da trizio (3H, simbolo T), che è l’isotopo radioattivo i cui nuclei si decompongono spontaneamente emettendo radiazioni β. Combinato, invece, l’idrogeno è assai diffuso: esso costituisce lo 0,76% della crosta terrestre e l’11,2% dell’acqua, che è il suo principale composto. È, inoltre, il componente fondamentale di tutti i composti organici e della materia vivente; basti ricordare che nel corpo umano è presente nella misura del 10%. L’idrogeno a temperatura ambiente è un gas incolore, inodore e insapore. È costituito da molecole formate da due atomi tenuti insieme da un forte legame covalente. L’idrogeno molecolare è il più leggero dei gas; rispetto all’aria pura, ad esempio, pesa ben quattordici volte meno. In laboratorio si ottiene generalmente puro, facendo reagire lo zinco metallico con un acido forte, usando l’apparecchio di Kipp. Come si vede nella figura, nella boccia 2 vengono immessi dei pezzetti di zinco, mentre dalla boccia 1 si lascia colare in 3 acido cloridrico o solforico, il quale, venendo a contatto con lo zinco della boccia 2, produce idrogeno. La figura mostra ciò che avviene a rubinetto chiuso: l’idrogeno comprime l’acido nella boccia 3 facendolo risalire in 1 e interrompendo così il contatto tra l’acido e lo zinco. Zn + 2 HCl → ZnCl2 + H2 ↑ Industrialmente si prepara facendo passare del vapore surriscaldato su carbone coke, oppure facendo reagire il metano (CH4) con l’acqua (reforming del metano). a 1000 °C C + H2O → Co + H2 ↑ a 850 °C CH4 + H2O → CO + 3 H2 ↑ 33 Numero atomico Massa atomica Configurazione elettronica Potenziale di ionizzazione Affinità elettronica Elettronegatività Punto di fusione Punto di ebollizione 1 1,008 1s 13,59 eV 0,752 eV 2,1 -259,23 °C -252,77 °C - I composti e gli usi L’idrogeno nei suoi composti compare in tre stati di ossidazione: +1, 0 e –1. Con lo stato di ossidazione +1 lo troviamo nella maggior parte dei suoi composti, nei quali si trova combinato con un elemento più elettronegativo. A parte l’acqua, i composti più importanti che lo contengono sono il metano (CH4) e tutti gli altri idrocarburi, l’ammoniaca (NH3), gli acidi inorganici e gli idrossidi. Con lo stato di ossidazione –1 lo troviamo combinato con gli elementi meno elettronegativi con cui forma gli idruri (molto usati nelle sintesi organiche) tra cui i più importanti sono: l’idruro di sodio (NaH), l’idruro di litio e alluminio (LiAlH4), i silani e i borani. Con lo stato di ossidazione 0 lo troviamo nella molecola biatomica H2. Come elemento allo stato gassoso lo si usava in passato per riempire dirigibili e palloni aerostatici, ma a causa della sua alta infiammabilità è stato in seguito sostituito dall’elio. Industrialmente la maggior parte dell’idrogeno oggi prodotto è impiegata per la sintesi diretta dell’ammoniaca, dell’acido cloridrico, del metanolo e per la trasformazione degli oli vegetali in margarina. Puro, allo stato liquido, l’idrogeno generalmente viene utilizzato in miscela con l’ossigeno liquido come propellente per razzi vettori che mettono in orbita i satelliti artificiali. Come deuterio è impiegato per preparare l’”acqua pesante” (D2O), utilizzata come moderatore dei neutroni nei reattori nucleari, mentre come trizio trova sempre più largo impiego in esperimenti di radiochimica, di biologia e di medicina, in quanto questo isotopo presenta una massa ben tre volte maggiore di quella del protio e, quindi, le differenze tra le proprietà fisiche e chimiche dei composti dell’idrogeno e dei composti marcati con trizio sono facilmente riscontrabili. L’idrogeno viene commercializzato in bombole di acciaio, alla pressione di 150 atm, contraddistinte da una fascia di colore rosso nella parte superiore. - L’ossigeno L’ossigeno è il primo elemento del sesto gruppo del sistema periodico ed è caratterizzato dalla presenza di sei elettroni nel suo livello più esterno. In natura è costituito da una miscela di tre isotopi: 16O, 17O, 18O, di cui il primo, essendo presente nella misura del 99,8%, è l’isotopo predominante. Sulla crosta terrestre l’ossigeno, combinato principalmente sotto forma di ossidi, di carbonati e di silicati, è l’elemento più abbondante e ne costituisce circa il 50% in peso. Esso si trova, inoltre, allo stato combinato nell’acqua, in numerosi acidi, nei sali ossigenati e nei composti organici. Nell’aria atmosferica è il secondo componente in ordine di abbondanza e, nonostante le grandi quantità consumate dalla respirazione degli organismi viventi, dalla putrefazione, dalle combustioni e dalla graduale ossidazione delle rocce della crosta terrestre, la sua concentrazione media rimane praticamente costante. Il suo consumo viene quasi completamente compensato dall’ossigeno che viene immesso nell’atmosfera dai processi metabolici delle piante. È ben noto, infatti, il suo ruolo nella respirazione delle piante e degli animali. Nell’uomo l’ossigeno inspirato dai polmoni dall’atmosfera viene assorbito dall’emoglobina del sangue e inviato alle cellule che lo utilizzano per la respirazione dei tessuti. Durante la respirazione i carbonati vengono ossidati fornendo così l’energia richiesta per l’attività cellulare. Poiché l’ossigeno è un 34 ossidante lento, è necessario l’intervento di opportuni catalizzatori biologici (enzimi) per accelerare le reazioni ossidative, che così possono avvenire alla temperatura corporea. A temperatura ambiente l’ossigeno è un gas costituito da molecole biatomiche che soltanto in determinate condizioni (sotto l’azione di scariche elettriche) si trasforma, sia pure parzialmente, in ozono (O3), che è una sua forma allotropica instabile tendente a trasformarsi in ossigeno biatomico. Allo stato libero l’ossigeno è un gas incolore, inodore e scarsamente solubile in acqua, ma comunque in misura sufficiente da consentire le attività respiratorie degli organismi acquatici. A temperatura ambiente è assai poco reattivo e gli elementi che in tali condizioni si combinano con esso sono relativamente pochi. Tale combinazione viene accelerata dalla presenza di tracce di umidità. A temperatura elevata l’ossigeno diventa fortemente reattivo, così che, ad esempio, una spira rovente di ferro in atmosfera di ossigeno puro brucia con fiamma abbagliante trasformandosi in Fe2O3. Nella maggior parte dei composti (ossidi, acidi, sali, ecc.) il suo stato di ossidazione è –2, mentre nei perossidi, come H2O2 e Na2O2, ha numero di ossidazione –1. Soltanto con il fluoro, che è l’unico elemento che lo supera in elettronegatività, ha numero di ossidazione +2 (fluoruro di ossigeno, OF2). - La preparazione e gli usi In laboratorio lo si ottiene in piccole quantità per azione del calore su ossidi o sali minerali ricchi di ossigeno come il clorato di potassio (KClO3) e l’ossido di mercurio (HgO). 2 KClO3 → 2 KCl + 3 O2 ↑ 2 HgO → 2 Hg + O2 ↑ Industrialmente veniva largamente preparato mediante l’elettrolisi dell’acqua (soluzioni al 20-30% di NaOH o KOH), ma tale metodo è stato del tutto soppiantato a causa degli elevati costi dell’energia elettrica e sostituito dalla distillazione frazionata dell’aria liquida, che fornisce ossigeno puro con un titolo che supera il 95%. L’ossigeno è molto usato come comburente nei cannelli ossidrici e ossiacetilenici e negli apparecchi per la respirazione, sia per gli usi clinici che per i respiratori usati da sommozzatori, aviatori e astronauti. I maggiori consumi (63% circa) si hanno comunque nelle acciaierie per i processi di conversione della ghisa in acciaio. Notevoli quantità di ossigeno vengono oggi assorbite nell’industria missilistica, che lo utilizza come comburente per i motori per i razzi. Esso viene commercializzato in bombole di acciaio che usano il bianco come colore distintivo. A causa della loro limitata capacità, però, questi recipienti sono sempre più spesso sostituiti da serbatoi di grandi dimensioni, nei quali l’ossigeno è contenuto allo stato liquido. Sotto forma di ozono, grazie al suo elevato potere ossidante, è usato come agente sbiancante, disinfettante e nella potabilizzazione delle acque. Quest’ultimo uso, nonostante il costo più elevato, viene preferito alla clorazione, che dà all’acqua un cattivo sapore. Numero atomico Massa atomica Configurazione elettronica Potenziale di prima ionizzazione Affinità elettronica Elettronegatività Punto di fusione Punto di ebollizione 8 15,999 2s22p4 13,61 eV 1,48 eV 3,5 -218,8 °C -182 °C 35 - La struttura dell’acqua L’acqua è il composto più importante dell’idrogeno e dell’ossigeno e le sue proprietà fisico-chimiche ne fanno una sostanza dalle caratteristiche uniche. La sua molecola è costituita da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno tenuti insieme da legami covalenti polari formanti un angolo di circa 105°. Tale geometria conferisce polarità alle molecole. A causa di tale polarità le molecole dell’acqua tendono ad accorciarsi in gruppi di molecole, tra le quali si instaurano veri e propri legami: legami a idrogeno. La forza di questi legami dipende dallo stato fisico dell’acqua. Nello stato solido tali legami permettono ad ogni molecola di associarsi saldamente con altre quattro molecole secondo direzioni ben precise, che conferiscono al “solido ghiaccio” una disposizione geometrica tetraedrica che risulta rigida ma con ampi spazi vuoti. La fusione del ghiaccio porta l’acqua allo stato liquido, nel quale i legami a idrogeno perdono la loro rigidità, con conseguente collasso del reticolo cristallino. In tal modo le molecole si avvicinano maggiormente, occupando uno spazio minore, così che il liquido acqua diventa più denso del ghiaccio di circa il 10%. Lo stato gassoso, infine, è caratterizzato dall’assenza quasi totale dei legami a idrogeno tra le molecole, che, libere di muoversi, tendono a occupare l’intero volume a loro disposizione. - Le proprietà Chimicamente l’acqua è un composto molto stabile, a temperatura superiore ai 2000 °C la sua decomposizione negli elementi costituenti non supera il 2%. Tale stabilità è, ovviamente, dovuta ai forti legami covalenti tra gli atomi di ossigeno e di idrogeno. L’acqua reagisce con i metalli alcalini (metalli del 1° gruppo): 2 Na + 2 H2O → 2 NaOH + H2 ↑ Con gli ossidi ionici dei metalli più reattivi l’acqua reagisce fornendo i rispettivi idrossidi: CaO + H2O → Ca(OH)2 mentre con gli ossidi dei non metalli (anidridi) forma gli ossiacidi: SO3 + H2O → H2SO4 L’acqua, inoltre, è caratterizzata da un elevato potere solvente collegato alla polarità delle sue molecole. In conformità alla regola empirica “il simile scioglie il suo simile”, essa è in grado di sciogliere le sostanze dotate di legami ionici, o parzialmente ionici, nonché tutte quelle sostanze in grado di formare con essa legami a idrogeno, come ad esempio ammoniaca, alcool etilico, carboidrati, ecc.. L’acqua è in grado anche di sciogliere quantità più o meno piccole di molecole gassose come la CO2 e l’O2. La possibilità che ha l’acqua di sciogliere l’ossigeno è importante per gli animali acquatici, che usano 36 speciali membrane situate nelle branchie per assumere l’ossigeno disciolto, indispensabile alla loro respirazione. Poiché è molto facile ottenere acqua di elevata purezza, essa viene usata come sostanza di riferimento per definire alcune grandezze chimico-fisiche come la densità (che è una grandezza derivata, si riferisce alla massa di 1 ml di acqua, che a 4 °C misura 1 g), le scale termometriche (tutte riferite alle temperature di congelamento e di ebollizione dell’acqua che sono rispettivamente 0 °C e 100 °C nella scala Celsius), la caloria (che è la quantità di calore necessaria a innalzare di 1 °C un grammo d’acqua) e il pH (che rappresenta il grado di acidità di una sostanza e fa, anch’esso, riferimento all’acqua pura, alla quale viene assegnato il valore 7 che indica la neutralità). - La classificazione delle acque In natura l’acqua costituisce circa il 70% della superficie terrestre; infatti, i tre quarti di essa sono coperti da oceani, mari, laghi e fiumi. Sotto forma di vapore (vapor d’acqua) è contenuta nell’atmosfera, dove, condensandosi, forma prima le nuvole e poi forma neve, grandine, brina e rugiada. Non è da sottovalutare, inoltre, la quantità di acqua che scorre al di sotto della superficie terrestre (acque sotterranee). Esiste un vero e proprio ciclo dell’acqua, che attraverso le fasi di evaporazione, condensazione, precipitazione e scorrimento passa ininterrottamente dalla superficie terrestre all’aria atmosferica e di nuovo alla superficie terrestre. È evidente che tale ciclo viene fortemente influenzato da diversi fattori ambientali, quali la temperatura, i venti, l’orografia, la distanza dal mare, ecc.. Le acque si distinguono secondo la provenienza (acque profonde, sorgive, fluviali, lacustri, marine) e le utilizzazioni (acque minerali, potabili, industriali, agricole). Della prima classificazione si occupano principalmente i geologi e i naturalisti, della seconda i chimici. - Acque minerali Col termine “acque minerali” vengono classificate quelle acque naturali, di fonte o sorgente, che contengono disciolti meno di 0,1 g/l di sali e che possono anche contenere disciolti gas come CO2 e H2S. In base al contenuto possono ulteriormente essere classificate in acque da bibita e in acque da bagno. Acque da bibita Acque da bagno Acque oligominerali (residuo salino a 180 °C minore di 0,20%) Acque mediominerali (residuo salino a 180 °C compreso tra lo 0,20% e l’1%) Acque minerali (residuo salino a 180 °C superiore all’1%): salse, sulfuree, arsenicali, ferruginose, bicarbonate, solfate Acque fredde: salse, sulfuree, bicarbonate (t < 20 °C) Acque ipotermali: salse, sulfuree, bicarbonate (t = 20-30 °C) Acque termali: salse, sulfuree, solfate (t = 30-40 °C) Acque termali: salse, sulfuree, bicarbonate, solfate (t > 40 °C) Comunemente il contenuto salino di un’acqua è espresso in termini di “durezza”, intendendo per durezza di un’acqua la quantità di sali di Ca e Mg in essa contenuta. La durezza si esprime in “gradi francesi”: un grado francese (1 °f) di durezza corrisponde a 10 mg/l di CaCO3. - Acque potabili Un’acqua per essere definita potabile deve essere limpida, incolore e inodore, aerata e di gusto gradevole, deve avere un determinato contenuto salino, deve essere priva di sostanze tossiche e non deve contenere batteri o virus che possano procurare gravi malattie infettive. Per la legge italiana il controllo delle acque potabili deve essere 37 effettuato dai laboratori provinciali di igiene e profilassi. Un’acqua non potabile può essere resa tale sottoponendola ad alcuni particolari trattamenti fisici o chimici, tra cui la filtrazione (serve per chiarificare le acque torbide mediante l’uso di filtri particolari di ghiaia e sabbia), la sterilizzazione con radiazioni (serve per rendere sterili mediante l’uso di raggi ultravioletti, o raggi X, o γ), l’addolcimento (diminuisce il grado di durezza di acque molto dure) o la sterilizzazione con reagenti chimici (l’uso di reagenti chimici come cloruro di calce, cloro gassoso o di ipocloriti rende le acque sterili per l’effetto batteriostatico del cloro: tali sostanze però hanno il difetto di alterare il sapore e l’odore dell’acque rendendoli sgradevoli). Sostanze Valori max consentiti CaO MgO Residuo fisso a 180 °C Sostanze organiche (Kubel) Solfati espressi in SO3 Nitrati espressi in N2O5 Cloruri espressi in Cl Durezza totale Ammoniaca Nitriti Fosfati 120 mg/l (p.p.m.) 40 mg/l (p.p.m.) 300-500 mg/l (p.p.m.) 2,5 mg/l (p.p.m.) 100 mg/l (p.p.m.) 27 mg/l (p.p.m.) 35 mg/l (p.p.m.) 32 °f Assente Assenti Tracce - Acque industriali e agricole Nell’industria l’acqua interviene in numerosi processi: per alimentare le caldaie di quegli impianti che utilizzano il vapore; per il raffreddamento di alcuni impianti che lavorano a elevate temperature; per alimentare quei processi dove l’acqua rappresenta una vera e propria materia prima. Pertanto, le acque impiegate nei vari processi industriali debbono possedere requisiti che possono differire da industria a industria: le lavanderie richiedono acqua con minima durezza, mentre l’acqua per le industrie tessili deve risultare assolutamente priva di ferro, manganese e sostanze organiche; l’acqua per la cartiere non deve contenere né ferro né manganese o calcio e deve essere esente da ogni flora batterica; per gli zuccherifici si richiede acqua priva di solfati, carbonati e nitrati e così via. L’acqua destinata ad alimentare caldaie a vapore deve essere priva di sali incrostanti e corrosivi, pertanto deve possedere una durezza molto piccola o nulla. Il calcare, infatti, è il principale e più pericoloso responsabile delle incrostazioni anche dei più comuni elettrodomestici (scaldabagno, ferro a vapore, ecc.). In agricoltura l’acqua esercita un ruolo vitale; non è possibile, infatti, alcuno sfruttamento del suolo senza un adeguato e razionale sistema di irrigazione. Per tale uso l’acqua non deve contenere elevate concentrazioni di quelle sostanze che risultano nocive alle colture come lo ione Na+ e lo ione Cl-, che provocherebbero profonde alterazioni del terreno. Anche per l’allevamento del bestiame è richiesta acqua di elevata purezza, con requisiti del tutto simili a quelli richiesti per l’acqua potabile. 38 Storia di un impiegato Anno di pubblicazione 1973 Casa discografica Produttori Associati Produzione Danè 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. INTRODUZIONE CANZONE DEL MAGGIO LA BOMBA IN TESTA AL BALLO MASCHERATO SOGNO NUMERO DUE LA CANZONE DEL PADRE IL BOMBAROLO VERRANNO A CHIEDERTI DEL NOSTRO AMORE NELLA MIA ORA DI LIBERTÀ Nel 1972 iniziano i lavori per il nuovo album. I collaboratori sono i medesimi: Roberto Danè è il produttore, Nicola Piovani curerà gli arrangiamenti e Giuseppe Bentivoglio lavorerà insieme a De André alla parte testuale. Fabrizio, anche perché in un momento di crisi personale, non impedirà l’eccessiva politicizzazione dell’album. Ciò farà nascere numerose polemiche, anche perché sino ad allora De André, nei suoi testi, aveva preferito l’allegoria al coinvolgimento politico diretto. Se consideriamo il caldissimo clima politico dell’epoca, “Storia di un impiegato” acquisisce una sua non trascurabile necessità. Per molti aspetti è una risposta, come sempre molto personale, alla domanda di coinvolgimento che girava nell’aria. Certamente furono decisive anche le frequentazioni di allora. Notevole il lavoro compiuto nella parte musicale dallo stesso De André e da Piovani (coautore delle musiche), mentre i testi soffrono di una certa prolissità. Nonostante le evidenti “intenzioni” politiche, che emergono con particolare intensità in pezzi come “Canzone del maggio” e “Nella mia ora di libertà”, l’esito più alto è una canzone d’amore: “Verranno a chiederti del nostro amore”. Era dedicata a Roberta, la donna alla quale Fabrizio fu legato per circa due anni da una relazione molto sofferta, cui pose fine una volta resosi conto di avere a che fare con una di quelle “piccole femmine agghindate” dalle quali aveva sempre cercato di fuggire. “Storia di un impiegato”, registrato negli studi Ortophonic di Roma, verrà pubblicato nel 1973 e segnerà la fine della collaborazione con Nicola Piovani e Giuseppe Bentivoglio, che, nonostante le attestazioni di stima di De André, manterrà un atteggiamento risentito nei suoi confronti. In questo concept-album ci sono le prime inclusioni di strumenti elettronici. È comunque uno degli album più ideologici, proprio per questo, come affermava il cantautore, più penalizzato. “Il bombarolo” narra di un giovane impiegato trentenne che, non potendone più dei giochi di potere e dell’oppressione, decide di far saltare in aria il Parlamento: il tentativo, fortunatamente, non funzionerà. Questi brano ed altri molto forti contenuti in “Storia di un impiegato”, come già detto, costeranno a Fabrizio De Andrè la censura Rai e il pedinamento della Squadra 50 dei servizi segreti. Il geniale cantautore viene così accusato dalla destra di eversione e dalla sinistra di qualunquismo, ma Fabrizio non ha mai amato le etichette, ha sempre detto ciò che ha pensato senza doversi preoccupare delle reazioni dei benpensanti. 39 - Lo stragismo politico dopo il ‘68 Dopo aver creato due album ruotanti attorno ai Vangeli apocrifi e ad un’opera letteraria, Fabrizio ha sentito l’esigenza di creare un lavoro su sé stesso, sulla sua ideologia; per questo è uscito “Storia di un impiegato”, cronistoria del ’68. L’impiegato è colui che accetta per tutta la vita il compromesso, l’umiliazione (anche la più piccola) e la semplicità; proprio per questo motivo ad un certo punto esplode e da bravo servitore dello Stato diviene terrorista ed incappa nella macchina della disperazione. Per questo motivo “Storia di un impiegato” mi ha spinto a fare un quadro generale del terrorismo, e più in particolare dello stragismo, di matrice politica conseguente al ’68 e ad analizzare i vari attentati che hanno misteriosamente macchiato la storia del nostro Paese. - Il quadro generale Il movimento di protesta del Sessantotto fu però attraversato, durante e dopo, da forme di violenza: intimidazioni, distruzioni e atti di vandalismo vero e proprio ai danni di negozi, luoghi pubblici e università. Tutto ciò era quanto appariva agli occhi di tutti. Evidentemente, però, anche se non ben valutata, vi era una novità: l’idea della violenza come legittima arma politica era entrata nella società italiana. Così, mentre l’attenzione era richiamata da episodi di intemperanza delle sinistre giovanili, studentesche e operaie, più nascostamente si stava organizzando una seconda forma di violenza, addirittura armata, proveniente dagli ambienti conservatori della destra neofascista e dei servizi segreti di Stato, violenza cui anche le formazioni estremistiche finirono ben presto per aderire. La prima manifestazione di violenza armata avvenne il 12 dicembre 1969, quando nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, esplose una bomba ad alto potenziale, che provocò una strage: sedici morti e ottantotto feriti. Gli elementi che si riuscirono ad accertare nel corso degli anni consolidarono la convinzione che si fosse trattato di un’azione terroristica maturata negli ambienti dell’estrema desta neofascista. Era stato, in sostanza, il tentativo di gettare il Paese nel caos e di provocare una spirale di violenza che creasse le condizioni di una svolta autoritaria. L’obiettivo era chiaro: bloccare la spinta a sinistra emersa nella società italiana nel 1968 e un movimento operaio che, nel 1969, si era rivelato forte e maturo. La strategia della tensione, inaugurata a piazza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per molti anni una costante nella cronaca politica del nostro Paese. Una lunga serie di stragi e di violenze compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e neonaziste come Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo e Ordine Nero, avrebbe insanguinato le città italiane, intrecciandosi a manovre preparatorie di azioni golpiste. Nel corso degli anni Settanta l’attacco allo Stato fu però sferrato anche da un estremismo di segno opposto. Al terrorismo “nero” si aggiunse infatti il terrorismo praticato da organizzazioni clandestine che si proclamavano comuniste (Nuclei Armati Proletari, Brigate Rosse, Prima Linea). Se i terroristi “neri” si muovevano tra stragi e preparativi golpisti, quelli “rossi” preferivano gli attentati individuali contro bersagli scelti per il loro significato simbolico: magistrati, poliziotti, giornalisti, dirigenti di azienda, politici. Gli obiettivi finali delle due azioni eversive, ovviamente, erano divergenti. Gli obiettivi intermedi, invece, erano simili: destabilizzare la società italiana, provocare una lacerazione irreversibile del tessuto democratico, far precipitare la situazione verso uno scontro frontale e una violenza diffusa. Tali obiettivi non furono però raggiunti, in quanto la 40 democrazia italiana si dimostrò molto più salda di quanto si pensasse. Le stragi più atroci tra la folla pacificamente riunita, gli attentati a treni e stazioni pieni di gente non provocarono le reazioni violente e incontrollate che i mandanti si attendevano, pronti evidentemente ad attuare un’immediata stretta reazionaria. Né, d’altra parte, i terroristi “rossi” riuscirono mai a costituirsi delle basi di massa e a radicarsi nelle fabbriche. Le loro parole d’ordine non fecero presa e il passaggio alla lotta armata restò sempre una scelta sostanzialmente individuale. Ciò permise la premessa della sconfitta dei due terrorismi, ai quali tuttavia ne va aggiunto un terzo; quello dei servizi segreti dello Stato, che dalle indagini giudiziarie poi effettuate risultò ben presente e attivo, con complicità non ancora del tutto chiarite. Un risultato di grande rilievo, comunque, l’azione eversiva lo ottenne: il terrorismo, entrato ormai nella vita quotidiana, avvelenò la lotta politica e contribuì certamente a far rientrare la domanda di trasformazione emersa con forza nel 1968, costringendo sulla difensiva partiti e sindacati e facendo di conseguenza esaurire la spinta a sinistra. La vivacità politica, il desiderio di partecipazione, la domanda di rinnovamento e di trasformazione rivoluzionaria, la contestazione anticapitalistica e anticonsumistica, la solidarietà con le lotte in corso nel Terzo Mondo, il socialismo antiautoritario, la voglia di rovesciare il “sistema” che nel ’68 avevano spinto in piazza per la prima volta grandi masse di giovani e di operai avevano tuttavia lasciato un segno profondo. Cambiarono i partiti di sinistra, soprattutto il PCI, e i sindacati che, pur contestati vivacemente, continuavano a rimanere punti di riferimento e interlocutori privilegiati del “movimento”. Nascevano, specialmente a sinistra, organizzazioni e piccoli gruppi filocinesi, guevaristi e anarchici, alcuni dei quali, in particolare Potere Operaio e Lotta Continua, avrebbero agito a lungo come estranei e ostili a tutte le forme costituzionali e quindi come “extraparlamentari” e “antistituzionali”, nonché come severamente critici con la sinistra “storica”, ottenendo un certo seguito di militanti, soprattutto tra i giovani. La difficile situazione economica non impedì il dialogo politico e culturale, che venne però profondamente turbato dai continui episodi di violenza che funestavano il Paese. Mentre si moltiplicavano i rapimenti delle Brigate Rosse, lo stragismo neofascista dava luogo a episodi di grande efferatezza, mentre venivano scoperti campi di addestramento paramilitari e progetti più o meno elaborati per l’attuazione di un colpo di Stato: la strage con otto morti e novantaquattro feriti in piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1874) e un’altra con dodici morti e centocinque feriti per un attentato al treno “Italicus” nei pressi di San Benedetto Val di Sambro sulla linea Bologna-Firenze (4 agosto 1974). Come se tutto ciò non bastasse, nel 1976 furono assassinati due procuratori della Repubblica: Francesco Coco, ad opera delle Brigate Rosse, e Vittorio Occorsio, ad opera di Ordine Nuovo. - 12 dicembre 1969 Milano, ore 16.37: un ordigno, composto da sette chili di tritolo, esplode nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Il bilancio è atroce: diciassette morti e ottantotto feriti. Roma, ore 16.45: una bomba esplode in un corridoio sotterraneo della sede centrale della Banca Nazionale del Lavoro, tra via Veneto e via San Basilio: tredici impiegati dell’istituto rimangono feriti, uno di loro in maniera grave. 41 Roma, ore 17.16: scoppia un ordigno sulla seconda terrazza dell’Altare della Patria, sul lato che si affaccia sui Fori Imperiali: nessuna vittima. Roma, ore 17.24: un’altra esplosione, sempre sulla seconda terrazza dell’Altare della Patria, ma questa volta dalla parte della scalinata dell’Ara Coeli: nessuna vittima. Milano: ora imprecisata: un impiegato della Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala trova una borsa nera e la consegna alla direzione. La borsa contiene un’altra bomba che non esploderà per un difetto di funzionamento del timer del congegno d’innesco. Misteriosamente, alle 21.30, l’ordigno viene fatto esplodere dagli artificieri della polizia. È una decisione a tutt’oggi inspiegabile: distruggendo quella bomba sono stati persi per sempre indizi preziosissimi. Meno di cinque anni dopo, a Brescia, il copione dei reperti distrutti si ripeterà dopo un’altra strage: la strage di piazza della Loggia. Cinque istruttorie, otto processi, tre piste investigative battute con scarsi risultati, un alternarsi di sentenze in un baillame di sedi processuali, oltre trenta anni di silenzi, lacune, depistaggi, inquinamenti. La vicenda giudiziaria della strage di piazza Fontana si racchiude in questo elenco negativo di impotenze e scarsa volontà di cercare la verità. All’inizio del 2000, trentun anni dopo i fatti, si è aperto a Milano l’ottavo processo per la strage. Questa volta l’accusa punta a mandanti dell’estrema destra legati all’ordinovismo veneto con, all’apparenza, solidi legami con uomini dell’apparato dei servizi segreti americani. Purtroppo, anche in questo caso, il teorema accusatorio, pur avvicinandosi di molto alla soglia della verità, mostra evidenti lacune dovute, si sostiene da più parti, all’utilizzo nelle indagini di uomini dei servizi segreti militari italiani e al contributo di qualche ambiguo pentito, peraltro ora scomparso dalla scena. Il processo procede a rilento, anche perché uno dei testi dell’accusa, l’”americano” Carlo Digilio, l’uomo della CIA, ha subito due ictus, è malato di tumore, soffre di disturbi della memoria e confonde gli eventi. - 22 luglio 1970 La “Freccia del Sud”, un treno carico di passeggeri (il direttissimo P.T.), tra cui non pochi pendolari, deraglia nei pressi della stazione di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, il 22 luglio 1970: i morti sono sei, cinquanta i feriti. Una commissione d’inchiesta stabilirà che si tratta di un incidente, anche se diversi bulloni che fissano i binari sulle traversine, verranno trovati allentati o addirittura svitati. Quattro ferrovieri verranno incriminati per il deragliamento del treno. Sarà solo dopo molti anni che un’inchiesta più attenta accerterà che la tragedia di Gioia Tauro non è da addebitarsi alla fatalità, ma ad un attentato di cui ignoti resteranno per sempre, anche a causa del troppo tempo trascorso, gli esecutori e i mandanti. Secondo una versione corrente, ma mai suffragata da elementi di prova, la matrice dell’attentato di Gioia Tauro è da collegare con la rivolta di Reggio Calabria, scoppiata appena otto giorni prima, il 14 luglio, alla notizia che è Catanzaro la città designata quale sede dell’appena eletta assemblea regionale. Nata dalla collera popolare, innescata dallo stato di abbandono in cui versa il Meridione italiano, la rivolta di Reggio Calabria sarà presto egemonizzata dalla destra estrema. La rivolta rappresenta l’esplosione del più vasto moto popolare della storia della Repubblica Italiana. Esplode il 13 luglio 1970, in piena crisi di governo, e dura, pur con 42 varia intensità, fino al marzo 1971, con qualche fiammata nel settembre dello stesso anno e strascichi che arrivano fino al 1973. il motivo scatenante della rivolta è, solo all’apparenza, banale: la sottrazione a Reggio Calabria del titolo di capoluogo della regione. - 31 maggio 1972 Avvertita da una telefonata anonima, una pattuglia dei carabinieri, giunge in località Peteano, in provincia di Gorizia. La chiamata, arrivata al centralino del pronto intervento alle 22.35, ha descritto un’auto da controllare: una FIAT 500 che presenta due fori di pistola sul parabrezza. Insomma un normale controllo. I carabinieri si avvicinano alla piccola vettura, la esaminano, poi uno di loro cerca di aprire il cofano: l’auto salta in aria. Collegato al gancio di apertura un ordigno con detonatore a strappo. Muoiono, dilaniati dall’esplosione, il brigadiere Antonio Ferraro e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Dongiovanni. Restano gravemente feriti il tenente Francesco Speziale e il brigadiere Giuseppe Zazzaro. Chi ha ordito quella micidiale trappola? L’inchiesta sulla strage di Peteano rivelerà un’intricata trama fatta di depistaggi, servizi segreti, vecchi arnesi del golpismo nostrano, militari infedeli e neofascisti convinti di lottare per la rivoluzione, in realtà solo strumenti di provocazione. Della strage di Peteano si è autoaccusato una delle più emblematiche figure del neofascismo italiano: Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo con sentenza passata in giudicato. Vinciguerra, senza mai accettare né la qualifica, né i benefici spettanti ad un collaboratore di giustizia e soprattutto senza rinunciare alla sua identità, da anni sta ricostruendo l’ambiente e i legami che sono all’origine dello stragismo italiano. Una vicenda giudiziaria quanto mai intricata quella relativa alla strage di Peteano, anche se una vicenda giudiziaria formalmente chiusa, certamente sul piano delle responsabilità penali. Per la morte dei tre carabinieri abbiamo oggi, infatti, una delle poche condanne passate in giudicato di tutta la storia dello stragismo italiano. Ma non è un caso che per Peteano si sia giunti a questa conclusione grazie alla decisione di uno dei responsabili di ammettere le proprie responsabilità. Una scelta che per l’estremista Vinciguerra ha avuto il significato di una clamorosa denuncia contro il suo stesso ambiente politico. Per Vinciguerra, infatti, l’ordinovismo veneto, ma più in generale tutto il mondo dell’estrema destra italiana degli anni Settanta, era inquinato da ben identificati personaggi dei corpi dello Stato, ma anche da collegamenti con elementi dell’intelligence atlantico. E che Vinciguerra avesse ragione lo dimostra la stessa storia processuale della strage di Peteano, intessuta da continui depistaggi. I principali depistatori? Alcuni ufficiali dell’Arma dei Carabinieri che, per coprire gli autori del massacro arrivano a costruire una falsa pista che porta all’arresto ed al processo di alcuni piccoli malavitosi friulani, completamente estranei alla vicenda. Anche quei depistatori di professione oggi sono stati processati e condannati. Ma sulla strage di Peteano non tutto è chiaro. C’è ancora qualcosa da capire. - 17 maggio 1973 È trascorso un anno dall’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato da un killer davanti alla sua abitazione. Nel cortile della questura di Milano, in via Fatebenefratelli, si è da poco conclusa una cerimonia in ricordo del funzionario, alla quale ha partecipato il ministro dell’Interno Mariano Rumor. L’auto del ministro sta uscendo dal portone centrale, quando un ordigno, scagliato da qualcuno nascosto tra la folla che si è assiepata davanti all’edificio, semina il terrore; quattro morti e cinquantadue 43 feriti. Lo spettacolo è allucinante. L’attentatore viene subito individuato, sottratto ad un tentativo di linciaggio ed arrestato. È Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico individualista, seguace delle teorie di Steiner, ma stranamente in stretto contatto con alcuni neofascisti veneti e, lo si scoprirà dopo, in rapporti con il SID, il servizio segreto militare dell’epoca. Bertoli, appena giunto in Italia, dopo un lungo soggiorno in Israele, sarà condannato all’ergastolo con sentenza definitiva. Ma la vicenda della strage di via Fatebenefratelli avrà un imprevisto sviluppo processuale nella seconda metà degli anni Novanta, quando verranno processati e condannati alcuni neofascisti veneti, assieme ad un ufficiale con passioni golpiste, già implicato nella trama della “Rosa dei venti” e ad un alto responsabile dei servizi segreti militari. Secondo il giornalista bolognese Carlo Amabile, esperto in misteri d’Italia, l’omicidio del commissario Calabresi, avvenuto il 17 maggio 1972 e la strage davanti alla questura di Milano, hanno infiniti punti di contatto, tanto da sembrare, addirittura, sanguinosi e dolorosi fili di una stessa trama. E questo a prescindere dalla circostanza più rilevante: è cioè che il sedicente anarchico e vero fascista, amico dei servizi segreti, Gianfranco Bertoli lanciò una bomba davanti alla questura proprio in occasione dell’inaugurazione di un busto dedicato al commissario, nel primo anniversario del suo assassinio. Il fatto che Calabresi sapesse chi era Bertoli, tanto da custodire in un cassetto della sua scrivania un ampio fascicolo a lui intestato è forse il fatto più noto. Noti sono anche i legami dello stesso anarchico con la struttura segreta Gladio. Decisamente meno note sono, invece, i legami di Bertoli con l’estrema destra veneta che comprende tutta una serie di personaggi che portano alla strage di piazza Fontana del 1969. Così come mai del tutto chiarito è lo scopo del viaggio che Calabresi, poco tempo prima di morire, fa a Trieste, assieme ad un personaggio che lega assieme proprio l’estrema destra veneta, la strage di piazza Fontana e Gladio. Calabresi indagava su un traffico d’armi e per questo è stato eliminato? Calabresi, semplice e forse inconsapevole ingranaggio delle deviazioni statali, scopre di essere stato usato? E da chi? Perché mai nessun magistrato ha voluto approfondire i legami tra l’omicidio Calabresi e la strage del 1973? Per il caso Calabresi, un presunto innocente è ancora in galera. Per la strage alla questura di Milano la verità è arrivata. Ma dopo ventisette anni. - 28 maggio 1974 Sono le 10.00 di una piovosa mattina di maggio quando, con un boato, la tragedia dilania una piazza di Brescia, la centralissima piazza della Loggia, dove è in corso una manifestazione sindacale. Nascosto in un cestino dei rifiuti, un ordigno confezionato con circa un chilo di tritolo, uccide otto persone, ferendone altre centotre. Una strage tremenda, un massacro insensato che colpisce a freddo una città già da tempo, però, alle prese con l’emergere di un estremismo di destra violento e irrazionale. Dopo la strage di piazza Fontana e quella di via Fatebenefratelli, l’eccidio di Brescia è il terzo attacco cruento alla convivenza civile. L’inchiesta appare subito viziata da uno stranissimo episodio, mai del tutto chiarito: su ordine del vicequestore (responsabile dell’ordine pubblico nella piazza) Aniello Diamare, il luogo dell’attentato viene immediatamente fatto pulire dalle autopompe dei vigili del fuoco. Questo assurdo lavaggio di piazza della Loggia, messo in atto prima ancora che un magistrato arrivi sul posto, oltre a provocare la perdita di qualsiasi reperto utile alle 44 indagini, assomiglia molto, troppo, all’inopinata decisione di far brillare l’ordigno trovato il 12 dicembre 1969, subito dopo la strage di piazza Fontana. Un’inchiesta, quella per la strage di Brescia, che parte subito col piede sbagliato, ma che è destinata a continuare anche peggio. A tutt’oggi la strage di piazza della Loggia è una strage impunita. Una delle tante. Difficile dire se nelle varie inchieste condotte per la strage di Brescia a prevalere siano state le incapacità investigative oppure i giochi truccati di chi quelle indagini doveva portare avanti. Sta di fatto che dopo sette processi anche per questo eccidio non c’è alcuna verità giudiziaria. Dalla piazza lavata con le autopompe che cancellano ogni elemento di prova al ruolo dell’ufficiale dei carabinieri Francesco Delfino, detto per inciso l’uomo che anni e anni dopo arresterà Balduccio Di Maggio, il grande “accusatore”, non creduto, di Giulio Andreotti, e finirà implicato nelle trattative per il sequestro Soffiantini, dalla messinscena dell’eliminazione di Giancarlo Esposto fino all’orribile fine di uno dei maggiori indiziati, Ermanno Buzzi, non ucciso, ma fatto uccidere in carcere: tutto quanto si è mosso attorno alle istruttorie per il massacro di otto persone, altro non è che materiale inquinato. - 4 agosto 1974 Sulla linea ferroviaria Firenze- Bologna, in prossimità dell’uscita dalla lunga galleria appenninica, in località San Benedetto Val di Sambro, un ordigno ad alto potenziale, a base di termite, esplode in un vagone del treno “Italicus”, affollato di gente che si sposta per le vacanze estive. I soccorsi, difficilissimi nel buio del tunnel, estraggono dalle lamiere del treno quattordici morti e quarantaquattro feriti. Si scoprirà, durante la lunga inchiesta giudiziaria che ancora una volta non è riuscita finora a trovare alcun colpevole, che la bomba sarebbe dovuta esplodere al centro della galleria, con un impatto di morte ancora maggiore. - 2 agosto 1980 Le lancette dell’orologio della sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna si fermano sulle 10.25: è quello l’esatto momento in cui esplode un ordigno ad altissimo potenziale. La presenza di un treno fermo sul primo binario crea un’onda d’urto che provoca il crollo dell’intera ala sinistra dell’edificio. Una strage di dimensioni allucinanti: ottantacinque morti e duecento feriti. È la strage più grave che si sia mai verificata in Italia, ma anche una strage anomala perché si verifica in un momento politico diverso e ormai lontano da quello in cui si collocano le altre stragi, quelle degli anni Settanta. Dopo una serie interminabile di processi, tutti molto indiziari ed ideologici, conclusisi con esiti alterni, per la strage alla stazione di Bologna sono stati condannati con sentenza definitiva, in quanto esecutori materiali, due esponenti dello spontaneismo armato neofascista: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che da sempre protestano la loro innocenza. Condannati, ma solo per depistaggio, anche il gran maestro della Loggia P2 Licio Gelli e due militari dei servizi segreti. Anche se sotto il profilo giudiziario, a meno di un doveroso processo di revisione, la strage di Bologna non può essere annoverata tra le stragi insolute, a parere di chi scrive è proprio questo orrendo episodio uno dei più grandi punti interrogativi nella storia dei misteri d’Italia. Una tormentatissima istruttoria durata sei anni. Cinque gradi di giudizio. Un iter processuale cominciato nel 1987, a sette anni dall’eccidio e conclusosi in Cassazione, nel 1995, con due code dibattimentali che hanno ancor più indebolito l’impianto accusatorio. Sta in questi dati sommari la vicenda giudiziaria relativa alla strage alla stazione. Ciononostante sembrerebbe, almeno a prima vista, che per la più tremenda delle stragi 45 che l’Italia abbia mai vissuto sia stato raggiunto un certo grado di verità. Eppure, potrà sembrare strano, ma così non è. In primo luogo non esiste alcun mandante per quella bomba nella valigia che esplose alle 10.23 di un tranquillo sabato di agosto. A venti anni da quella esplosione non sappiamo né chi la ordinò, né a che tipo di strategia rispondesse un simile massacro. Nessun mandante, quindi, anche perché Francesca Mambro e Valerio Fioravanti sono stati condannati con sentenza definitiva solo come esecutori materiali della strage. Esecutori perché e per conto di chi? Condannati, ma per depistaggio due “arnesi” della Loggia P2 e due ufficiali del SISMI. Tutto qui. Anche il castello accusatorio, pur confermato dalla corte di Cassazione, presenta molti buchi: le accuse contro la Mambro e Fioravanti si basano soltanto sulla parola del solito pentito, un personaggio della malavita romana quanto mai inquietante; il depistaggio attuato dagli uomini del SISMI (la valigia piena di armi sul treno Taranto-Milano del gennaio 1981) era un ben strano depistaggio che puntava in realtà a far accusare gli attuali condannati; nessuna seria indagine è stata mai condotta sui molti collegamenti esistenti tra la strage di Bologna e quella di Ustica. E questo solo per citare gli angoli più bui di questa ennesima vicenda giudiziaria senza una verità certa. Una ricostruzione minuziosa e dettagliata di tutte le imprese criminali da loro portate a termine, l’ammissione, senza reticenze, delle loro responsabilità penali e politiche, l’espiazione delle condanne che diversi tribunali hanno loro inflitto: Francesca Mambro e Valerio Fioravanti hanno pagato (ed ancora stanno pagando) i loro conti con la giustizia. Hanno spiegato come e perché dettero vita ad una banda armata denominata NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), hanno raccontato come e perché decisero di uccidere magistrati, poliziotti, pentiti, avversari politici, hanno narrato fin nei minimi particolari le rapine con cui si autofinanziavano e che spesso finivano in maniera cruenta. E per tutti o fatti loro attribuiti sono stati ampiamente condannati. Una sola imputazione hanno sempre respinto con sdegno e veemenza: quella di essere stati gli esecutori della strage alla stazione di Bologna. Incastrati soltanto sulla base di una quanto mai equivoca testimonianza di un piccolo malavitoso romano e di un cervellotico teorema giudiziario sviluppato negli anni, con gli immancabili aggiustamenti, dalla procura di Bologna, teorema, oltretutto, monco e traballante, Mambro e Fioravanti sono stati condannati con sentenza definitiva della Cassazione. Ma sono stati davvero loro? O ci troviamo di fronte ad un evidente errore giudiziario che, oltre a condannare degli innocenti, lascia a piede libero i veri responsabili della più grande strage italiana? Attorno all’azione dei NAR sono state costruite dalla magistratura le teorie più ardite. I NAR braccio armato della Loggia P2. I NAR braccio armato di Cosa Nostra. Valerio Fioravanti è stato messo in relazione alla massoneria deviata di Licio Gelli, alla banda della Magliana. Perfino ai servizi segreti. Lo hanno accusato di aver ucciso il giornalista Mino Pecorelli ed il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella: con il tempo queste accuse sono miseramente crollate. Resta faticosamente in piedi il terzo lato del triangolo: la strage di Bologna. 46 Canzoni Anno di pubblicazione 1974 Casa discografica Produttori Associati Produzione Danè 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. VIA DELLA POVERTÀ LE PASSANTI FILA LA LANA LA BALLATA DELL’AMORE CIECO (o della vanità) SUZANNE MORIRE PER DELLE IDEE CANZONE DELL’AMORE PERDUTO LA CITTÀ VECCHIA GIOVANNA D’ARCO DELITTO DI PAESE VALZER PER UN AMORE “Canzoni” è un disco di transizione, ma interessantissimo sotto molteplici spetti; ripropone in una nuova veste sei canzoni tratte dal primo repertorio deandreiano e riarrangiate da Giampiero Reverberi insieme alle riuscitissime versioni di “Suzanne” e “Giovanna d’Arco” di Leonard Cohen curate invece da Nicola Piovani. Tre gli inediti: “Morire per delle idee” e “Le passanti”, tratte dal repertorio di Georges Brassens, e la mitica “Via della povertà”. L’album venne pubblicato anche per utilizzare il materiale che Casetta teneva pronto in caso di urgenti necessità commerciali, come è avvenuto per “Volume 3”, o per sopperire alla stasi creativa di Fabrizio De André. “Via della povertà” è una strada piena di alcolizzati, pazzi, umili, diseredati, falliti: i personaggi che De André ha sempre voluto tratteggiare, perché simboli della semplicità. “Fila la lana” è una rielaborazione di una musica popolare francese del XV secolo, “La ballata dell’amore cieco” è un divertissement sul folle amore, per cui un uomo si taglia le vene per una donna che “non lo amava niente”. “La città vecchia” è la parodia sull’ipocrisia dei benpensanti, che prima disprezzano la prostituzione, poi, di notte sono i primi ad usufruirne: questa composizione prende ispirazione dall’avversione che Fabrizio provava per il suo professore di liceo Decio Pierantozzi. “Giovanna d’Arco” è la storia della grande donzella che ha liberato la Francia; Fabrizio cerca però di indagare sullo stato d’animo che ha spinto la santa a quelle azioni eroiche. La storica “Delitto di paese” è la ennesima storia di prostitute, protettori e vecchi poveri: infatti narra la vicenda di un anziano signore che decide di divertirsi un’ultima volta andando con una prostituta. Al momento del pagamento, però, il vecchio individuo non ha soldi per pagare, e così la “signora” va a chiamare il suo “amico” per uccidere l’anziano; i due, dopo aver compiuto l’omicidio, trovano solo cambiali, debiti e atti giudiziari, per cui, presi da pietà si inginocchiano sul cadavere e iniziano a chiedere perdono. Scoperti dai carabinieri vengono impiccati. Fabrizio cerca di non entrare nella questione ma si limita a descrivere i fatti così come sono avvenuti; c’è però una sua vaga impressione nell’ultima strofa: “qualche beghino di questo fatto fu poco soddisfatto” riassume la comprensione dell’autore verso gli impiccati. Il “Valzer per un amore” è infine la rielaborazione del “Valzer campestre” del maestro Marinuzzi. 47 - Umberto Saba Il brano “La città vecchia”, pubblicato nel dicembre 1965, risente dell’influenza di Georges Brassens, ma Fabrizio la elabora in maniera straordinariamente personale. I personaggi, gli odori, i sapori, sono definiti, suggestivi, affascinanti; mentre canta sembra di vivere quelle sensazioni, immersi nell’atmosfera del porto della sua Genova. De André si ispira alla “Città vecchia” del poeta triestino Umberto Saba, proiettando quei personaggi della Trieste di inizio Novecento nella sua Genova del dopoguerra. D’altronde De André può essere considerato il Saba genovese, in quanto legato e affascinato anch’egli dalla vita marginale della sua città. - Vita e opere Nato in una città che apparteneva allora all’Impero austro-ungarico (a Trieste il 9 marzo 1883), Saba ebbe tuttavia la cittadinanza italiana per via del padre, Ugo Edoardo Poli, discendente da una nobile famiglia veneziana. La madre, Felicita Rachele Cohen, apparteneva ad una famiglia ebraica di piccoli commercianti, tradizionalmente legata alle pratiche religiose e agli affari. Ma quando ebbe il figlio, era già stata abbandonata dal marito, un giovane «gaio e leggero», insofferente dei legami familiari. Ben presto il bambino viene messo a balia da una contadina slovena, Peppa Sabaz, che, avendo perso il proprio figlio, riversa su di lui il suo affetto e la sua tenerezza, finché la madre, austera e severa, lo reclama presso di sé. Privo della figura paterna, diviso nel suo amore fra la madre naturale e la madre adottiva, Saba trascorre un’infanzia piuttosto difficile e malinconica, che rievocherà più tardi nelle poesie intitolate “Il piccolo Berto”. Frequenta le scuole con scarso profitto e interrompe gli studi alla quarta ginnasiale, decidendo di proseguirli come autodidatta. L’alternativa è quella di un impiego presso una ditta triestina, dove subisce la tirannia delle «ore del lavoro lente». La sola forma di comprensione e di sfogo, destinata a divenire un approdo autentico, gli è offerta dalla poesia, che inizia ben presto a coltivare. L’amore per Leopardi viene contrastato dalla madre, che cerca di fargli leggere piuttosto uno scrittore costruttivo e impegnato come Parini, per combattere la sua tendenza “troppo pessimistica”. La formazione letteraria matura via via sui testi di Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Foscolo e Manzoni, fino ai contemporanei Pascoli e D’Annunzio. Un soggiorno di studio fra il 1905 e il 1906 a Firenze, dove tornerà nel 1911, non lo coinvolge nella battaglia per il rinnovamento letterario che, proprio in quella città, i giovani intellettuali stavano avviando. Particolarmente difficili risulteranno i rapporti con “La voce”, che rifiuta di pubblicargli il saggio “Quello che resta da fare ai poeti”, mentre il concittadino Slataper stronca la prima raccolta dei suoi versi. Come Svevo, anche Umberto Saba, sia pure in misura diversa e meno clamorosa, sconta la sua collocazione di intellettuale periferico, più legato alle radici profonde della cultura mitteleuropea che agli atteggiamenti, non di rado superficiali, di quella nazionale. È un isolamento che persisterà anche nei decenni successivi, per lo scarso interesse riservato dalla critica fra le due guerre: fa eccezione il numero unico dedicato a Saba da “Solaria” nel 1928, con saggi di Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale e Sergio Solmi. Tra il 1907 e il 1908 compie a Salerno il servizio di leva, un’esperienza che si rifletterà nei “Versi militari”. Tornato a Trieste sposa Carolina Woelfer, la Lina che canterà nei suoi versi, così come farà per la figlia Linuccia, nata poco dopo. Saba abita a Montebello, alla periferia di Trieste, dove scrive le poesie di “Casa e campagna. 48 Nel 1911 pubblica la prima raccolta delle “Poesie” e, l’anno successivo, “Con i miei occhi”. Entrambi i volumi sono firmati con lo pseudonimo che accompagnerà d’allora in avanti lo scrittore, assumendo una valenza emblematica: il rifiuto del cognome paterno si risolve infatti in un omaggio alla madre e alla nutrice slovena (Saba proviene da Sabaz, e significa in ebraico “pane”). Dopo aver partecipato al primo conflitto mondiale, Saba apre a Trieste una libreria antiquaria, che costituirà, insieme con la poesia, l’occupazione di tutta la sua vita. Nel 1921 esce il primo “Canzoniere”, in cui Saba raccoglie la sua precedente produzione poetica; sotto questo titolo, destinato a rimanere definitivo, verranno comprese, nelle ulteriori edizioni, anche le poesie dei decenni successivi. Sofferente di disturbi nervosi, nel 1928 intraprende una cura con un allievo di Freud, il triestino Edoardo Weiss. Si accosta così direttamente alla psicanalisi, che gli offre strumenti più raffinati per «smascherare l’intimo vero» e per approfondire quella «chiarezza psicologica» che già caratterizzava la sua produzione poetica. Colpito dalle leggi razziali, lascia l’Italia per recarsi a Parigi; allo scoppio della guerra, nel 1939, è a Roma, dove Ungaretti cerca di proteggerlo; durante l’occupazione nazista, vive nascosto a Firenze, ospite anche nella casa di Montale. Nel 1945 Einaudi pubblica la seconda edizione, di molto accresciuta, del “Canzoniere; quella definitiva, che abbraccia l’intero arco dell’attività poetica, uscirà postuma nel 1961. La tiepida accoglienza che la critica aveva riservato alla sua opera induce Saba a farsi interprete di se stesso, scrivendo la “Storia e cronistoria del Canzoniere”, ricca di acute osservazioni umane e poetiche. Ma, con il riconoscimento della sua statura di poeta che si consolida nel dopoguerra, giungono anche le prime importanti attestazioni pubbliche; nel 1946 Saba aveva ricevuto il Premio Viareggio, cui seguirà, nel 1953, il Premio dell’Accademia dei Lincei; nel medesimo anno l’Università di Roma gli conferisce la laurea in Lettere “honoris causa”. Gli ultimi anni sono resi difficili dalle crescenti crisi depressive e dalla malattia della moglie, che muore nel 1956; Saba la seguirà nove mesi dopo, il 25 agosto 1957. Nel 1964 esce il volume complessivo delle “Prose”, che comprende le opere pubblicate in precedenza: in particolare “Scorciatoie e raccontini” e “Ricordi-Racconti”, dove il gusto della narrazione breve e autobiografica si condensa efficacemente nell’apologo e nella moralità, sorretta da un’ironia lucida e a volte tagliente. Nel 1975 Einaudi pubblicherà il romanzo incompiuto “Ernesto”, storia, dagli intensi risvolti psicanalitici, dei turbamenti erotici di un adolescente, in cui l’atmosfera triestina è resa da un singolare impasto di lingua e dialetto. - Caratteristiche della produzione poetica Scorrendo con una certa attenzione i momenti salienti della biografia, emergono alcuni tratti essenziali: la povertà di avvenimenti esteriori, da cui Saba ricava tuttavia costanti suggerimenti per alimentare la sua vena poetica; il suo isolamento, che corrisponde ad una sostanziale estraneità nei confronti degli ambienti culturali e delle più avanzate ricerche letterarie. La sua poesia è quella di un autodidatta, che si fonda prevalentemente sui libri della tradizione scolastica, ignorando pressoché completamente il laboratorio delle sperimentazioni contemporanee, così vive nel primo Novecento e fertili di risultati innovatori. È questo un limite della poesia di Saba, ma anche la sua forza, la condizione e il segno della sua originalità. La crisi della parola, che investe la poesia novecentesca, non trova terreno propizio in Saba, che adopera senza timori il termine casalingo e familiare, “per immettersi nelle parole di tutti, nel sermo trito e antico che tutti vivono e parlano”. Non solo, ma, insieme col linguaggio della quotidianità, Saba riprende e riporta non di rado quello della tradizione letteraria che una lunga frequentazione ha fatto diventare semplice e chiara. La predilezione per “la parola che nomina” e definisce con precisione, anziché alludere o evocare, si inserisce in una struttura sintattica articolata e ben definita, che può 49 contenere la poesia, senza sentirne le costrizioni, anche in un verso o in uno schema proprio della cantabilità tradizionale. Negli anni delle avanguardie, Saba non esita ad adottare le forme poetiche del passato, come la metrica regolare e l’uso delle rime: i “Versi militari” ad esempio, che costituiscono la prima serie organica di testi, sono composti interamente nella forma classica del sonetto. Anche in seguito Saba farà ampiamente uso di questi elementi, attribuendo loro una particolare importanza e funzione. La poetica dell’Ermetismo gli rimarrà sostanzialmente estranea, nel rifiuto di un dettato di ardua comprensione e dell’analogia come tramite di un rapporto cifrato con la realtà. Pur pulsando nel cuore del Novecento, la sua poesia è stata definita come espressione di una linea antinovecentista, in quanto rifiuta le più vistose e spericolate innovazioni della ricerca poetica del proprio tempo. Questo non significa che la sua lirica non subisca un’evoluzione anche sul piano delle soluzioni tecniche, strettamente legate all’espressione di una sensibilità acuta e moderna. L’incontro con il verso libero di origine ungarettiana gli serve per affinare la sua ispirazione, ma che non ne modifica le costanti di fondo, bensì imprime loro una più aurea leggerezza. La commozione del ricordo e l’apertura verso forme di coralità conducono ad una drammatizzazione che si realizza nello sdoppiamento e nella triplicazione della voce in “Preludio e fughe”, la cui polifonia esalta il “valore dell’eco” della parola. Con le ultime raccolte la poetica giunge a toni di pura evocazione, in un recupero del vissuto attraverso la memoria che può unire la proiezione mitica a un inesausto bisogno di conoscenza e di partecipazione. Al di là delle diverse soluzioni, la poesia di Saba è sempre sostenuta da una chiarezza del dettato che usa modi semplici e immediati, con un lessico volutamente povero e comune. Il rischio della banalità è consapevolmente accettato, per la scommessa di far sprigionare effetti inediti e originali anche dagli elementi più scontati del discorso. La sua riduzione del discorso al “grado zero” della scrittura poetica non ha nulla, tuttavia, di “crepuscolare”. Essa obbedisce ad un movimento di limpida e lineare efficacia, che dal soggetto si sposta sulla realtà anche più dimessa e quotidiana per giungere a individuare i significati essenziali e universali della vita. - I temi Come si è visto, Saba muove spesso da una situazione autobiografica, che non ha però nulla di individualistico o di astratto, ma si confronta immediatamente con una realtà particolare e concreta, legata alle normali consuetudini della vita, alle presenze familiari e domestiche. La moglie, gli animali della campagna, la città in cui vive sono alcuni dei temi dominanti nelle prime poesie ma anche in seguito ricorrenti, che Saba si propone di affrontare nel rispetto della loro autonoma e peculiare individualità. Resta fondamentale, in ogni caso, il ruolo del soggetto poetante, che, dopo aver indugiato sulle cose, le eleva a simbolo più generale di una condizione dell’uomo e della vita. Come ha scritto Mengaldo, Saba coglie “il senso del dispiegarsi dell’esperienza individuale come ripetizione di un’esperienza già vissuta, individualmente nel proprio passato, archetipicamente nella vicenda dell’uomo di sempre”. L’umanità del poeta triestino, che costituisce il fulcro della sua ricerca poetica, è cordiale e diretta ma non riflessa, nella misura in cui è intimamente percorsa da una vena di lucida consapevolezza, che, anche quando non si traduce in toni sentenziosi, è sempre espressione di un’intima e sofferta moralità. Il suo realismo poetico non si restringe mai alle apparenze superficiali, ma cerca i sensi riposti e segreti delle cose, per farne vibrare le 50 risonanze profonde. È una ricerca che non si arresta di fronte al “negativo” dell’esistenza, anche a costo di metterne a nudo gli aspetti più scomodi e sgradevoli. Apparentemente semplice e lineare, la poesia di Saba è nutrita dalla lettura dei più spericolati e impietosi maestri del pensiero contemporaneo, dal Nietzsche a Freud. Il suo rapporto con la vita è tutt’altro che facile o acquiescente. Saba non ignora, ma ne fa oggetto di lucida rappresentazione, l’ambiguità profonda dell’esistenza. Le stesse aperture cordiali dei suoi versi nascono dallo sforzo di superare un individualismo che conserva in sé tracce profonde di angoscia e di dolore. La città è amata in se stessa ma anche nei luoghi in cui il poeta può isolarsi. Il desiderio di tuffarsi nella vita di tutti è la riscoperta di un senso di partecipazione che presuppone la solitudine e l’esclusione dell’individuo. Riprendendo questi spunti, nella poesia “Il borgo”, Saba riaffermerà “il desiderio improvviso d’uscire / di me stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni”; ma non mancherà di sottolineare di essere stato “solo con il mio duro / patire. E morte / m’aspetta”. I due momenti possono scindersi: al godimento della gioia, all’amore, può sostituirsi l’angoscia più cupa; così ci si può salvare dall’orrore riscoprendo le ragioni della più comune ed elementare solidarietà. Alla fine, quello che conta, è il rapporto dialettico che si stabilisce fra la gioia e il dolore, considerati entrambi come elementi costitutivi dell’esistenza individuale e collettiva. L’ossimoro esistenziale può così essere considerato come la cifra più autentica, la sintesi di questa esperienza; ma si tratta di un ossimoro non esasperato nelle sue componenti antitetiche, bensì composto nelle forme di una discrezione che resta l’alta testimonianza di una partecipazione civile e di un impegno umano. È “la serena disperazione” che dà il titolo alla sezione di poesie comprese fra il 1913 e il 1915; è “della vita il doloroso amore” che suggella una lirica emblematica come “Ulisse” - Città vecchia Alla ricerca della solitudine e alla visione cittadina che si offre dall’alto, presente nella poesia “Trieste”, si sostituisce qui l’immergersi in “un’oscura via di città vecchia”, in una strada del quartiere del porto affollata e brulicante della vita di ogni giorno. Questo bagno nella confusione degli uomini e delle cose, induce il poeta a riscoprire le ragioni semplici ma autentiche dell’esistenza, ristabilendo con i propri simili un rapporto di simpatia e di solidarietà. Il discorso sugli umili non ha però nulla di manzoniano o di genericamente populistico; esso nasce piuttosto da una visione della città che è di origine baudelairiana, in quanto coglie anche gli aspetti più sordidi e brutali dell’esistenza. Addentrandosi “dove è più turpe la via”, Saba avverte il suo pensiero di farsi più puro, attribuendo alla riscoperta dell’umana fratellanza un significato di tipo religioso. “Signore”, a sua volta, riprende le rime “amore” e “dolore”,che sono per il poeta gli elementi essenziali della vita, termine che conclude il verso 17. A tutte queste parole, collocate in posizione di rilievo, Saba affida il messaggio di questi suoi versi, nella loro profonda umanità. Si aggiunga che sin d’ora Umberto Saba sembra assumere un atteggiamento polemico nei confronti del Simbolismo e di ogni forma di poesia pura: l’infinito è da lui ritrovato non in una astratta e individualistica relazione di corrispondenze analogiche, ma nella concreta umiltà della gente povera e diseredata. Qui la cordiale rappresentazione di un angolo popolare di Trieste non scade mai nel populismo, perché il poeta non si china paternalisticamente su quel mondo, lo sente bensì come un mondo popolato da creature simili a lui, nelle quali come in lui si “agita il Signore”. Dichiara lo 51 stesso Saba che la folla rigurgitante nei vicoli e vicoletti della città vecchia gli ispira pensieri di religiosa adesione. Parrebbe qui trattarsi della materia di un violento, quasi espressionistico, realismo: e di questo aspro realismo ci sono tutti gli elementi consacrati, tradizionali: femmine, dragoni, vecchi, bestemmie, marina, prostitute. E tuttavia questa materia si compone in linee di severa, e pur viva e limpida, poesia morale: si osservi come la rima accortamente manovrata non soltanto tenga il posto del legame logico necessario per giustificare il passaggio, in una sintassi veramente tradizionale, dalla visione realistica alla meditazione largamente umana che la conclude; ma come ugualmente attraverso la rima la parola realistica perda di peso, di violenza, di carnalità e di corposità, si allarghi immediatamente su una prospettiva di analogie morali, di esperienze dell’anima, espresse attraverso segni sensibili. In questo modo la parola realistica si apre ad accogliere in sé l’eco analogica; l’intervento di un ordinamento meditativo subisce così, attraverso questo suo allargarsi e aprirsi, proprio quella violenza metafisica di cui si è tanto parlato in rapporto col linguaggio della poesia del Novecento; e lo stesso avviene pure per la parola morale e meditativa, anch’essa sollevata da una ferma logicità a una mossa e inquieta atmosfera analogica. Spesso, per ritornare alla mia casa prendo un’oscura via di città vecchia. Giallo in qualche pozzanghera si specchia qualche fanale, e affollata è la strada. qui tra la gente che viene che va dall’osteria alla casa o al lupanare dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega, il dragone che siede alla bottega del friggitore, la tumultuante giovane impazzita d’amore, sono tutte creature della vita e del dolore; s’agita in esse, come in me, il Signore. Qui degli umili sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via. 52 Volume 8 Anno di pubblicazione 1975 Casa discografica Produttori Associati Produzione Danè 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. LA CATTIVA STRADA OCEANO NANCY LE STORIE DI IERI GIUGNO ‘73 DOLCE LUNA CANZONE PER L’ESTATE AMICO FRAGILE Il 9 gennaio 1975, sulla scia del grandissimo successo che De Gregori stava vivendo con “Rimmel”, la Produttori Associati fa uscire il nuovo album, “Volume 8”, provocando il disappunto della critica nostrana che mosse pesanti critiche al disco, così come era avvenuto per “Storia di un impiegato”. Si parlò di crisi, lasciando intendere che De André aveva dovuto fare ricorso a Francesco De Gregori, ma non del contributo che egli offrì in fase creativa alla realizzazione di “Rimmel”. “Volume 8” è un grande disco, sia per l’importanza di quella collaborazione, sfociata in pezzi come “La cattiva strada” e “Canzone per l’estate” sia, soprattutto, perché contiene brani memorabili, che con la collaborazione non hanno niente a che vedere. “Le storie di ieri”, “Giugno ‘73” e “Amico fragile”, sono entrati di diritto tra i classici delle rispettive produzioni. L’album, prodotto da Roberto Danè negli studi Ricordi di Milano, si avvale degli arrangiamenti di Tony Mimms, e sarà l’ultimo atto della collaborazione con Antonio Casetta: la Produttori Associati di lì a poco chiuderà i battenti. A seguito del fallimento delle case discografiche andrà perduto tutto l’archivio stampa di Fabrizio, sia Karim che Produttori Associati. Alla fine del 1974 arriverà la decisione di affrontare il pubblico dal vivo. È un avvenimento inatteso, anche fra gli addetti ai lavori. Una certa impasse creativa, la necessità di trovare ulteriori fonti di guadagno per realizzare il sogno di una tenuta in campagna, riusciranno ad avere la meglio sulla sua ritrosia ad esibirsi live. “Amico fragile” e stata scritta in una notte, dopo che Fabrizio era andato ad una festa che si svolgeva in una villa nel parco residenziale di Portobello di Gallura. Era il periodo in cui esplose la storia sugli esorcismi: “un momento di oscurantismo”. Nella villa c’erano medici, avvocati, gente di un certo livello culturale, e De André voleva sentire le loro idee su questi avvenimenti. Invece anche quella sera finì con la chitarra in mano. Dopo aver cantato qualche canzone e aver riprovato a parlare di quelle storie, il cantautore fu zittito dagli ospiti. A questo punto mandò tutti a quel paese e si ubriacò sconciamente, si rifugiò nel garage della villa e, quando alle otto di mattina la moglie andò a cercarlo, lui aveva già scritto parole e musica. Ne “Le storie di ieri” c’è l’uomo che sceglie di condividere delle idee (quelle fasciste) con altri e si riscopre uomo grazie ad esse, senza chiedersi se siano più o meno giuste. C’è il marinaio disperato che non sa come mantenere la famiglia di “Dolce luna”; c’è il sogno di un amore svanito di “Giugno ‘73” o il benestante incatenato nella sua quotidianità fatta di famigliola, chiesa e felicità materiale di “Canzone per estate”. 53 - La vita in mare La vita dei marinai non è sempre facile, tanto che anche De André ha voluto comporre un brano sulle difficoltà e sulla disperazione che tante volte assale un lupo di mare. Nel brano “Dolce luna” Fabrizio descrive l’amarezza del marinaio che ricorda le settimane in alto mare, fra storie di pirati e corsari; ora invece la realtà lo incatena a terra e lo costringe a regolarsi a causa di una famiglia da portare avanti. Lui però desidera ancora le onde del mare e sogna di concepire per incanto un figlio con un’immaginaria balena. L’elemento fantastico e irreale nel mondo dei marinai presente nel testo deandreiano compare quasi duecento anni prima nella meravigliosa “Ballata del vecchio marinaio”, nata dall’intesa fra due grandi della letteratura inglese: Coleridge e Wordsworth. Nella ballata dei due inglesi, il marinaio viene punito da Dio per aver ucciso senza giustificato motivo un albatro, anch’essa creatura del Signore. Inoltre Géricault, che nella sua più importante opera (“La zattera della Medusa”), con crudo realismo fotografa un naufragio. Infine nel 1881 Giovanni Verga ne “I Malavoglia” descrive oggettivamente il mondo dei pescatori siciliani, la loro condizione di estrema povertà, la disperazione di ogni giorno, gli stenti, l’ignoranza, la cattiveria. - I marinai puniti (Samuel Taylor Coleridge) Though concerned with the supernatural, “The rime of the ancient mariner” is well organized in a progression of events resulting from a sequence of causes and effects and leading to an acceptable conclusion. Yet, without Wordsworth’s suggestions, the poem would not have been what it is now. It was Wordsworth, in fact, who was able to restrain the overflowing genius of Coleridge and discipline it. Moreover, by suggesting the killing of a bird (instead a man) as the source of the mariner’s ghastly persecution, he managed to reconcile Coleridge’s unbridled imagination and the formal coherence necessary to give the poem a “human” interest and a “semblance” of truth. The result was a poem in which the alternation of real and unreal elements conferred a degree of credibility on the narration, without weakening the sense of horror and supernatural mystery it conveys to the reader. This unreal, fantastic and nightmarish world, peopled with spirits, dead men and strange animals, provides the ideal setting for the supernatural elements and events spread throughout the poem, such as, for instance the sense of mystery introduced by the mariner himself, with: his sudden strange intrusion upon the wedding feast, his appearance, his “long grey beard”, his “skinny hand” and above all his “glittering eye” almost endowed with a hypnotic power and his way of speaking, so full of archaisms, which at once brings the reader back in time, into an imaginary past. Moreover the sense of mystery is introduced by the albatross that comes from nowhere and, both alive and dead, it is always accompanied by strange phenomena. Even the hint at medieval and oriental superstitions is an important element, (the albatross is a somewhat mystical bird, whose killing is like sacrilege and needs punishing) and the hint at the medieval “Danse Macabre” where a spectre ship approaches carrying two ghosts on board, Death, a skeleton, and Life-in-Death, a woman probably symbolizing leprosy, another medieval calamity. There are in “The rime” even the presence of unnatural creatures (sea monsters, spirits, angels, seraphs) and unnatural events (the ship moves without wind and noise and it is manoeuvred by a crew of dead people). All these elements, in part borrowed from the nightmarish world of some Gothic novels, as well as the extraordinary events it narrates and the obscure symbols it contains 54 throughout, leave the poem open to many interpretations. The poem may be simply a dream caused by opium: some descriptions are in fact similar to the ones usually felt by drug addicts, for example a first sense of freedom and immensity, soon followed by anguish and fear, emphasized by the perception of strange noises, by a horrible impression of dryness and choking and by a sense of horror for some hideous action to be paid for. But “The rime of the ancient mariner” may be interpreted as a poem about the abnormal psychology of an old superstitious sailor, half crazed by fear and loneliness, who gives his personal version of a shipwreck which he apparently miraculously survived and the sea voyage is an allegory of life, where the crew represents mankind, the albatross the pact of love that should unite all God’s creatures and the ship a microcosm, in which the evil deed of a single person falls on others, too, as often happens in life. Finally, at a deeper level, the poem may be a moral parable of man, from original sin (the killing), through punishment (isolation), repentance (the blessing of the water snakes) and penitence (the obsessive repetition of the story), to his final redemption; it symbolizes the contrast between rationality and irrationality, the former identified with “sunlight”, and the latter with “moonlight”. In other words “sunlight”, which stands for day, would represent the power of reason, while “moonlight”, standing for night, would represent the power of the imagination. «God save thee, ancient Mariner! From the fiends, that plague thee thus! Why look’st thou so?» With my cross-bow I shot the Albatross. - I marinai disperati (Giovanni Verga) “I Malavoglia” rappresentano la vita di un mondo rurale arcaico, chiuso in ritmi di vita tradizionali che si modellano sul ritorno ciclico delle stagioni e dominato da una visione della vita anch’essa tradizionale, che si fonda sulla saggezza antica dei proverbi. Ma non si tratta di un mondo del tutto immobile, fuori della storia: anzi, il romanzo è proprio la rappresentazione del processo per cui la storia penetra in quel sistema arcaico, disgregandone la compattezza, rompendone gli equilibri, sconvolgendone le concezioni ancestrali. L’azione infatti ha inizio all’indomani dell’unità, nel 1863, e mette in luce come il piccolo villaggio siciliano sia investito dalle tensioni di un momento di rapida trasformazione della società italiana. Il sistema sociale del villaggio, che già al suo interno non è affatto una comunità indifferenziata di “umili” ma è molto articolato in diversi strati di classe, è investito e trasformato da questi movimenti dinamici che provengono dall’esterno, dal grande mondo della storia. I Malavoglia, a causa delle difficoltà economiche indotte dalle trasformazioni in atto, sono costretti a diventare “negozianti”, da pescatori che erano sempre stati; e, in conseguenza del fallimento della loro iniziativa, subiscono un processo di declassazione, passando dalla condizione di proprietari di casa e barca a quella di nullatenenti, costretti a vivere alla giornata. Ma, inversamente, vi sono anche processi di ascesa sociale, rappresentati dall’arrivista don Silvestro, l’”uomo nuovo”, che ricorre alle arti più subdole e agli intrighi più sottili per arrivare ad una posizione di potere. Questo mondo del paese può apparire immobile solo perché i fatti narrati, in obbedienza al principio dell’impersonalità e alla tecnica dell’”eclisse” dell’autore e della regressione, sono presentati dall’ottica dei personaggi stessi: è la visione soggettiva degli attori della vicenda che rende l’immagine di una realtà 55 statica, perché così esse sono abituati a concepirla. Ma la loro visione deforma, tradisce la realtà, mentre il montaggio narrativo la mette chiaramente in evidenza. “I Malavoglia” sono stati spesso interpretati come la celebrazione di un mondo primordiale e dei suoi valori, come idoleggiamento nostalgico di una civiltà contadina, vista come alternativa e antidoto alla falsità e alla corruzione della vita cittadina. In realtà il romanzo rappresenta al contrario la disgregazione di quel mondo e l’impossibilità dei suoi valori. Se, come si è visto, ancora nella prima fase del suo verismo persisteva in Verga una componente di nostalgia romantica per la realtà arcaica della campagna, vagheggiata come un Eden di innocenza e genuinità, di sentimenti miti, semplici, di “fresco e sereno” raccoglimento, “I Malavoglia” segano proprio il superamento irreversibile di tali tendenze. Quel mondo arcaico che scompare sotto l’urto della modernità risulta, nella sua essenza, non dissimile da quello creato dal progresso, già lacerato al suo interno dagli stessi conflitti e dalle stesse tensioni. Si alternano quindi costantemente, nella narrazione, due punti di vista opposti, quello nobile e disinteressato dei Malavoglia e quello gretto e ottuso degli altri abitanti del villaggio. Questo gioco di punti di vista ha il compito di straniare sistematicamente i valori proposti dai Malavoglia. Quei valori, onestà, disinteresse, altruismo, visti con gli occhi della collettività appaiono “strani”, non vengono compresi, anzi, vengono stravolti e deformati: padron ‘Ntoni che rinuncia alla casa per onorare il debito non è ammirato per il suo gesto nobile, ma giudicato un “minchione”, perché non ha applicato la legge dell’interesse; l’angoscia del vecchio patriarca per il figlio in mare durante la tempesta è attribuita dal villaggio essenzialmente al timore per il carico di lupini in pericolo, cioè a ragioni economiche. D’altro lato però il punto di vista ideale dei Malavoglia vale a fornire un metro di giudizio dei meccanismi spietati che dominano l’ambiente del villaggio, facendo emergere dalle cose stesse, senza interventi giudicanti del narratore, la disumanità della logica dell’interesse e della forza, e consentendo di rappresentarla in una luce critica. Campana di legno comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, non dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san Francesco; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, ché era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio. - I marinai naufragati (Théodore Géricault) “La zattera della Medusa” è l’opera più importante di Géricault; essa provocò un vero scandalo tra gli accademici, i critici e il pubblico, offesi dal “ripugnante” realismo dei particolari. Per questa scena l’artista si ispirò ad un tragico fatto di cronaca che aveva scosso profondamente l’opinione pubblica: il naufragio della “Medusa”, nave ammiraglia di un convoglio che trasportava soldati e civili verso la colonia del Senegal. Il naufragio avvenne il 2 luglio 1816, al largo dell’Africa occidentale; in seguito, centocinquanta persone salirono su una zattera che per diversi giorni andò alla deriva, tra un crescendo di orrori (un ammutinamento, episodi di cannibalismo), tanto che alla fine la nave della salvezza, l’”Argus”, potè recuperare solo una quindicina di superstiti. Il governo cercò di mettere a tacere le critiche all’inadeguatezza dei soccorsi, ma due dei sopravvissuti, dopo aver invano chiesto un rimborso per i danni subiti, scrissero un violento resoconto dell’evento, che fece scalpore in tutta Europa. Géricault fu a lungo indeciso su quale aspetto della vicenda rappresentare. Alla fine scelse uno dei momenti più sconvolgenti dal punto di vista emotivo: il primo avvistamento da parte dei naufraghi dell’”Argus”, il fallace ridestarsi nei superstiti della speranza, il loro chiamare a raccolta le ultime forze per fare segnalazioni e il disperato sconforto in cui sprofondano quando la nave scompare. Nel groviglio di corpi, Géricault rappresenta un 56 graduale crescendo di emozioni, che vanno dalla disperazione alla falsa speranza. In primo piano un vecchio padre siede trattenendo il cadavere del figlio; dietro di lui alcuni sopravvissuti in piedi rivolgono la propria attenzione verso il punto all’orizzonte che un compagno sta loro indicando; altri languenti a terra si girano, l’uno dopo l’altro, tentando a fatica di rialzarsi, rianimati da un’ultima tenue speranza; altri ancora aiutano un negro a salire su un barile, perché possa sventolare la camicia più in alto, per chiedere soccorso all’equipaggio del brigantino in lontananza. La scena, su cui si proietta l’ombra di un nuvolone enorme, è impostata su una serie di diagonali che dalla base della zattera convergono verso due diversi apici, l’albero e la camicia agitata del marinaio; inoltre è dominata da due spinte contrarie: l’onda montante dei naufraghi protesi, con le mani allungate, verso l’incerta salvezza; la marea che respinge il relitto, con il vento che, soffiando da destra verso sinistra, gonfia la vela in direzione opposta. Il fluire e rifluire degli stati d’animo viene qui controllato da un’impostazione formale precisa. Queste vittime, benché da quindici giorni alla deriva, non appaiono emaciate, ma imponenti e vigorose, accademicamente disegnate e belle come eroi antichi. Per la prima volta lo stile classico e le vaste dimensioni della tela, sino ad allora riservati alla pittura di storia e ai temi grandiosi (episodi biblici, imprese di eroi e di regnanti), venivano usati per rappresentare le sofferenze di gente comune, elevata ad una dimensione epica, protagonista di un dramma dal valore universale. La scelta tematica fece pensare che Géricault intendesse attaccare sia la tradizionale gerarchia accademica dei generi sia la struttura sociale recentemente restaurata: non a caso, lo storico Jules Michelet avrebbe parlato del dipinto come di un simbolo della Francia, affermando: «È la nostra società intera che Géricault imbarca su quella zattera!». Théodore Géricault, La zattera della “Medusa”, 1818-19 olio su tela, 491x716 cm Parigi, Louvre 57 Rimini Anno di pubblicazione 1978 Casa discografica Ricordi Produzione De André - Bubola 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. RIMINI VOLTA LA CARTA CODA DI LUPO ANDREA TEMA DI RIMINI AVVENTURA A DURANGO SALLY ZIRICHILTAGGIA (baddu tundu) PARLANDO DEL NAUFRAGIO DELLA LONDON VALOUR FOLAGHE Inciso negli studi Fonorama di Milano, “Rimini” è un’opera di passaggio, da cui emerge uno spietato ritratto della piccola borghesia, della sua assenza morale e politica che consente al potere di raggiungere i propri obiettivi senza ostacoli. Nell’album si fa riferimento alla visita di Luciano Lama all’Università di Roma, nel corso della quale invitò gli studenti alla moderazione, ricevendone in cambio una violenta contestazione. È un episodio di grande importanza storica. Il sindacato cominciava infatti ad allinearsi al potere, in un processo che, nel corso degli anni, ha portato alla regolamentazione degli scioperi, impedendo così ai lavoratori di utilizzare in maniera efficace l’unica arma di cui dispongono per difendere i propri diritti. L’episodio viene citato in “Coda di lupo” che con “Andrea”, dedicato alla diversità, “Rimini”, ”Sally” e il travolgente divertissement di “Zirichiltaggia” rimane una delle cose migliori di questo primo album per la Ricordi. È un disco interlocutorio, che sottolinea amaramente anche nella parte grafica, dove vengono ritratti gli aspetti più deteriori e normalizzati della nuova borghesia, la sconfitta della rivolta del ’68. “Sally” riporta invece al De André più classico, ai riferimenti all’infanzia, e ancora oggi mantiene intatto il suo fascino, facendosi preferire a tutti gli altri, compresa “Avventura a Durango”, versione italiana di “Romance in Durango” di Bob Dylan il quale, qualche tempo più tardi, scriverà a De André una lettera di plauso. Il testo di “Rimini” è una riuscita mediazione fra il primo De André e quello più sperimentale di “Volume 8”; inoltre, come pezzo iniziale, è la storia di Teresa: donna affascinata più dai moti rivoluzionari che dalla sua banale vita reale. “Parlando del naufragio della London Valour” rispecchia i procellosi tempi in cui si trovava il nostro Paese dove la violenza si esprimeva anche da parte degli uomini più lontani da essa e nemmeno i poeti sapevano indicare la giusta direzione da seguire. Da non dimenticare “Volta la carta”, ballata molto ritmata con un testo che potrebbe essere la sceneggiatura di un film con i suoi repentini cambiamenti di scena, tutta giocata sullo scorrere del tempo e della vita. Un’ultima, doverosa citazione: la presenza di uno straordinario chitarrista, Marco Zoccheddu, che dopo questo album, suonato in maniera superlativa, tornerà nell’anonimato. Quanto a Bubola (nuovo coautore per la parte testuale), continuerà a lavorare con Fabrizio in maniera organica fino al 1986. 58 - La rivoluzione cubana Teresa, la protagonista del brano che dà il titolo a questo ennesimo capolavoro deandreiano, è una donna che, non contenta della sua banale vita, tutta giocata tra pettegolezzi, mediocrità e abitudini, vede nella rivoluzione cubana e nei miti d’oltreoceano l’unico sfogo a un’esistenza piatta e sempre uguale; sotto le righe “Rimini” è una canzone critica nei confronti della sinistra italiana, che si dice rivoluzionaria, ma che di rivoluzionario non ha niente. Per questo motivo ho voluto tracciare le origini, l’avvento e le conseguenze della rivoluzione che più di quarant’anni fa Fidel Castro ha attuato a Cuba, e grazie alla quale continua a governare. - La situazione prima della rivoluzione Alla fine degli anni Cinquanta, l’isola di Cuba aveva quasi raggiunto i sette milioni di abitanti, di cui oltre la metà viveva nei centri urbani, anche se le forti migrazioni dalle campagne si traducevano in occupazioni marginali nel territorio o in mendicità. Cuba si collocava al terzo posto in America Latina quanto a reddito procapite e fra i primi tre sul piano dell’istruzione, della sanità e della previdenza sociale. Il 30% della forza lavoro era disoccupata o sottoccupata e tale percentuale cresceva durante la stagione morta della produzione saccarifera. Le condizioni della popolazione urbana erano di gran lunga migliori di quelle della popolazione rurale sotto molti aspetti, primo fra tutti quello abitativo, dal momento che in campagna il 75% della popolazione viveva in capanne di legno e fango con pavimento in terra battuta. Cuba poteva contare su quattro letti ed un medico per ogni mille abitanti, ma la metà dei laureati in medicina esercitava a L’Avana. La mortalità infantile nelle campagne era molto superiore alla media nazionale del 6%. Lo stesso analfabetismo, contenuto a meno del 12% nei centri urbani, balzava al 42% nelle aree agricole. L’accaparramento di risorse da parte della città era ben esemplificato dalla capitale, dove viveva oltre un sesto dei sei milioni e mezzo di abitanti cubani. Era lì che si riversava la maggior parte dei trecentomila turisti che annualmente approdavano a Cuba. La presenza così massiccia di visitatori, prevalentemente statunitensi, ebbe due conseguenze di pari importanza: l’assenza da parte della borghesia e del ceto medio di modelli di consumo e valori caratteristici della società nordamericana e la diffusione di locali notturni, case da gioco, prostituzione e tutto un sottobosco ai limiti della legalità. - La preparazione alla rivoluzione Convinto che la lotta contro Batista non potesse essere condotta all’insegna del legalitarismo, Castro era partito per l’esilio messicano fermamente intenzionato a preparare uno sbarco a Cuba e intraprendere azioni di guerriglia. Allo scopo di trovare fondi per l’impresa e di illustrare il suo programma, Fidel Castro fece un lungo giro di conferenze presso le comunità cubane negli Stati Uniti, ottenendo finanziamenti da più parti. L’addestramento dei ribelli venne realizzato in una tenuta agricola poco fuori Città del Messico, dove giunse, tra gli altri, l’argentino Ernesto Guevara, detto “Che”. Guevara era approdato in Messico ricco di una lunga esperienza di viaggi in America Latina e immediatamente dopo aver vissuto il fallimento dell’esperienza riformista del governo di 59 Jacobo Arbenz in Guatemala, che fece maturare in lui una tenace ostilità nei confronti degli Stati Untiti. Un’incursione della polizia messicana, che arrestò e poi rilasciò i rivoluzionari a patto che lasciassero il Paese, costrinse Castro ad anticipare i tempi della spedizione e così la notte fra il 24 e il 25 novembre 1956 uno yacht di una ventina di metri, il “Granma”, salpò sovraccarico alla volta di Cuba. Una serie di contrattempi impedì di realizzare il piano d’azione. Lo sbarco avvenne con due giorni di ritardo, rendendo inutile la mobilitazione del fronte interno alla data convenuta che avrebbe dovuto distogliere l’attenzione delle forze di repressione. Inoltre i rivoluzionari vennero subito individuati e quindi costretti a dividersi. Solo una ventina di essi riuscì, alla fine, a far perdere le proprie tracce sulla Sierra Maestra, abitata all’epoca da settantamila persone, in prevalenza precariato, cioè contadini poveri che quasi sempre occupavano le terre senza titoli di proprietà. In quest’area montagnosa fu organizzato il primo focolaio guerrigliero. Sin dall’inizio i combattenti cercarono di prefigurare il futuro assetto della società cubana attraverso l’autogoverno delle zone controllate militarmente. Grazie alla creazione di territori “liberi”, i ribelli cominciarono a esercitare funzioni statali, sia pure in misura ridotta, riscuotendo imposte, amministrando la giustizia, provvedendo all’istruzione, aprendo ambulatori e gestendo la sanità. Tutto ciò attrasse militanti di provenienza rurale, sia contadini che salariati, anche se i quadri dirigenti e intermedi appartenevano quasi esclusivamente alla piccola e media borghesia urbana. L’immediata caratterizzazione rurale avrà un peso determinante nel segnare la futura evoluzione della rivoluzione stessa. Il piccolo gruppo di “barbudos” che agiva sulle montagne risultò dotato di una forte capacità di attrazione, che dipendeva non tanto dalla nitidezza del loro messaggio politico o dalla capacità di stringere alleanze, quanto dalla apparente ineluttabilità della via insurrezionale, a causa degli insoddisfacenti risultati con il ricorso alla via pacifica, e del rifiuto di ogni compromesso. La stessa assenza di un preciso modello cui tendere impedì che emergessero contrasti interni significativi e, unitamente alle operazioni militari incalzanti e alla esiguità del gruppo combattente, finì per concentrare in breve tempo il potere decisionale nelle mani di Castro. A favore dei ribelli giocò anche una scarsissima motivazione a combattere da parte delle truppe regolari. A difendere il mito dei guerriglieri ed a suscitare simpatie per la loro causa intervenne in buona misura la stampa, specie dopo l’intervista concessa da Fidel Castro a Herbert Matthews, giornalista del New York Times nel febbraio del 1957. La coerenza e il rigore dei rivoluzionari non impedì loro di avere contatti con altre forze. Una delegazione del Partito Ortodosso si recò sulla sierra nel luglio del 1957 e dall’incontro emerse un comunicato congiunto meno avanzato dello stesso programma del 1953. La minor radicalità delle richieste non era perciò indice di un ammorbidimento tattico volto ad ampliare il fronte antibatistiano e ciò trovò conferma, meno di tre mesi dopo, nella denuncia del cosiddetto patto di Miami, un documento firmato negli States da vari gruppi di opposizione, fra cui gli stessi rappresentanti del Movimento 26 Luglio. Fidel Castro respinse tale fatto perché giudicato troppo moderato ed incline al compromesso, nonché sostenuto da un’ispirazione filostatunitense, mentre nazionalismo ed antimperialismo rappresentarono principi sui quali i combattenti della sierra non furono mai disposti a transigere. All’interno del fronte castrista le divisioni pur esistenti riguardavano sostanzialmente questioni di strategia, con il fronte impegnato sulla Sierra Maestra che insisteva sull’assoluta priorità della guerriglia e l’ala urbana del movimento che appariva 60 restia ad abbandonare i vecchi sistemi di lotta, forte di una tradizione politica che veniva dagli anni Venti. I contrasti fra i due schieramenti esplosero nell’aprile 1958 a causa della decisione del fronte urbano di proclamare uno sciopero generale. L’agitazione fallì clamorosamente anche per la caparbietà con cui fu evitato ogni tipo di accordo con i comunisti. La preminenza della via insurrezionale rurale venne sancita all’apertura, da parte del Direttorio e dei comunisti, di nuovi focolai guerriglieri sulla Sierra Escanlray. Gli studenti giunsero a questa decisione dopo il fallimento dell’attacco al palazzo presidenziale del marzo 1957, conclusosi con la morte di parecchi militanti; i comunisti, tra la cui base già da tempo si erano levate voci favorevoli alla collaborazione con i guerriglieri della sierra, a partire dal 1958 abbandonarono le ipotesi di formazione di un vasto fronte antibatistiano e la diffidenza nei confronti di Castro per ammettere la possibilità d’una lotta armata rurale, sia pure a condizione che fosse accompagnata da mobilitazioni urbane. L’alleanza col Movimento 26 Luglio, sancita dalla presenza di militanti comunisti tra le fila castriste, fu perfezionata nell’ottobre del 1958 con la stipula di un patto di unità sindacale. A quell’epoca, Castro era giù riuscito a stabilire la propria egemonia sulle forze antibatistiane grazie ai successi militari, in particolare dopo l’apertura di un secondo fronte sulla Sierra Cristal ed il fallimento della grande offensiva governativa tra aprile e giugno. Tale sconfitta andava certo attribuita alla capacità militare dei guerriglieri, ma soprattutto al crollo morale dei soldati e alle crepe registratesi nella compattezza del corpo degli ufficiali. Nel marzo 1958, inoltre, gli USA avevano sospeso le forniture militari a Batista, anche in seguito alla cattura ed al successivo rilascio di cittadini nordamericani da parte dei guerriglieri. Nella seconda metà dell’anno, infine, le file dei ribelli crebbero di numero grazie all’arrivo di disertori e lavoratori agricoli, fortemente motivati dalla legge di riforma agraria, emanata ad ottobre nei territori liberati, che prevedeva la concessione di terre a chi non ne possedeva o ai piccoli proprietari: vale a dire alla stessa base sociale della guerriglia (questa riforma era elaborata in modo che non potesse essere ripresa in mano dai gruppi finanziari che sostenevano la monocultura zuccheriera, né da altri sistemi di consorzi agrari). - La rivoluzione Le elezioni presidenziali fissate per il novembre 1958 da Batista si tennero in una situazione ormai ampiamente compromessa. Il tasso di astensione fu impressionante e la Casa Bianca avvertì il presidente uscente che non avrebbe fornito nessun appoggio al nuovo ed amorfo capo dell’esecutivo, invitando anzi l’ex-sergente ad uscire di scena. All’alba del primo gennaio 1959, dopo che le forze armate si erano praticamente sfaldate, Batista lasciò l’isola in mano ad una giunta militare che propose inutilmente un armistizio ai ribelli. Il 2 gennaio le colonne di Ernesto Guevara e di Camillo Cienfuegos entrarono ne L’Avana paralizzata da uno sciopero generale e l’8 gennaio vi faceva il suo ingresso trionfale Fidel Castro. La vittoria del “lider maximo” e dei suoi uomini appariva come il primo successo della nuova strategia guerrigliera teorizzata dal “Che”. Le decisioni iniziali, prese dal nuovo governo di Fidel, furono inizialmente di componente etica: chiusura delle case da gioco e di tolleranza, lotta senza quartiere al traffico di droga, liberalizzazione degli accessi agli alberghi, spiagge, locali sino ad allora riservati a circoli esclusivi. Tutto questo affascinò la maggioranza della popolazione e il nuovo governo ebbe grande consenso. 61 Nel marzo del 1959 fu imposta una diminuzione dei canoni d’affitto del 30-50%, accompagnata da una riduzione del prezzo dei medicinali, libri scolastici, tariffe elettriche, telefoniche e dei trasporti urbani. Dopo aver ridotto gli affitti, si varò una riforma che mirava a trasformare gli inquilini in veri e propri proprietari attraverso il pagamento degli alloggi con rate mensili proporzionali al reddito. Ma le proteste interne iniziarono dopo l’emanazione, nel maggio 1959, della prima riforma agraria, che fissava per le tenute agricole un limite massimo di 402 ettari. La superficie coltivabile veniva assegnata a cooperative oppure distribuita a proprietà individuali di un minimo di 27 ettari. Il governo, per impedire il minifondo, proibiva la vendita delle terre ricevute e il loro frazionamento. Con la nuova riforma agraria fu istituito l’INRA (Istituto Nazionale di Riforma Agraria). Questa riforma suscitò forti reazioni nelle campagne ma anche presso le classi alte e i ceti medi urbani. Le manifestazioni più clamorose di dissenso furono rappresentate dalla fuga, negli Stati Uniti, del comandante delle forze armate Pedro Diaz Lanz, e dall’arresto di Huber Matos, governatore della provincia di Camarguey, accusato di cospirazione per essersi opposto alla riforma agraria. - Le conseguenze della rivoluzione Tra la fine del 1959 e quella del 1960, sollecitato dalla spinta popolare liberata dalla rivoluzione, ma anche dalla puntigliosa volontà dei suoi più stretti collaboratori (tra cui il fratello Raul e il Che) di compiere una profonda trasformazione della società cubana, Castro attuò un piano di riforme e di nazionalizzazioni senza precedenti in America, stabilendo al tempo stesso rapporti più stretti con i comunisti e con la sinistra studentesca (formazione delle Organizzazioni Rivoluzionarie Riunite, che nel 1962 si trasformarono in Partito Unito della Rivoluzione Socialista, dal 1956 Partito Comunista Cubano), fino a dichiarare socialista la propria rivoluzione (ottobre 1960). Il governo statunitense, che già aveva reagito alla nazionalizzazione dei trust americani sospendendo l’acquisto di zucchero cubano, ruppe le relazioni con L’Avana il 3 gennaio 1961. Nel tentativo di rovesciare il nuovo gruppo dirigente castrista, il presidente J. F. Kennedy autorizzò i servizi segreti degli Stati Uniti a organizzare una spedizione militare i esuli cubani (millequattrocento uomini equipaggiati con armi e mezzi aeronavali statunitensi), che però venne annientata mentre tentava di sbarcare a Cuba nella Baia dei Porci (Playa Girón, 17 aprile 1961). Fattosi ormai evidente l’inserimento di Cuba nel campo sovietico (la repubblica socialista fu proclamata il 1° maggio 1961 e un accordo di mutua assistenza con l’Unione Sovietica venne siglato un anno più tardi), gli USA, dopo la “crisi dei missili” dell’ottobre 1962 (invio di missili strategici sovietici a Cuba e conseguente azione navale e diplomatica statunitense per bloccarne la fornitura e imporne il ritiro), ottennero l’espulsione de L’Avana dall’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) nel 1964 ed eressero intorno all’isola un vero e proprio cordone sanitario. L’isolamento politico e l’embargo economico, i cui effetti furono in parte ridotti dagli aiuti degli Stati socialisti e non allineati, non deviarono però il corso della rivoluzione cubana, volta a realizzare un modello di società socialista originale, con forme di potere aperte alla dialettica tra diverse tendenze politiche e una permanente mobilitazione delle masse. All’esaltazione della spontaneità popolare contro possibili involuzioni burocratiche o settarie, che contrassegnò l’esperienza cubana di tale periodo (per “settarismo” fu 62 espulso da Cuba nel 1962 il leader comunista A. Escalante, rientrato poi nel 1964), fece riscontro in politica estera il tentativo di fare di Cuba il polo di riferimento delle lotte anticoloniali e antimperialiste del Terzo Mondo, sfociato nella creazione dell’Organizzazione Tricontinentale, con sede a L’Avana (1966). L’”internazionale delle guerriglie”, come fu chiamata, ebbe però vita effimera sia per il perdurare dell’accerchiamento esterno dell’isola, impossibilitata a reggere economicamente un indefinito slancio rivoluzionario, sia per le obiettive difficoltà politiche di inserire il disegno castrista nella ferrea logica dell’equilibrio dei blocchi. Divergenze sorte in seno allo stesso gruppo dirigente cubano circa le modalità dell’industrializzazione e dell’impegno antimperialista, sottolineate dall’allontanamento di Guevara, caduto poi alla testa dei guerriglieri boliviani (1967), imposero sulla fine degli anni Sessanta una graduale revisione politica nel senso di una strategia generale a più lungo termine entro il quadro della distensione perseguita dalla Russia. Così agli inizi degli anni Settanta si andò elaborando una politica estera che puntava sull’alleanza con i governi riformisti sorti in alcuni Paesi latinoamericani (concretatasi nella revoca delle sanzioni politiche ed economiche imposte nel 1964 e nell’ammissione di Cuba nel mercato comune degli Stati sudamericani, 1975, premessa al rientro nell’OSA) e su un processo di allineamento al disegno sovietico di coesistenza (ingresso nel Comecon; avvio della normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti). In politica interna, un’analoga revisione degli orientamenti iniziali verso l’industrializzazione spinta (autocritica di Castro del 1970) ha portato, insieme col decentramento amministrativo e con forme di potere popolare (democrazia di base sancita dalla costituzione del 1976), a un rilancio delle produzioni agricole tradizionali (zucchero, tabacco, caffè), come presupposto per la diversificazione dell’apparato produttivo verso nuovi rami d’attività: l’industria leggera, le colture specializzate e la valorizzazione del patrimonio minerario, le cui risorse potrebbero consentire a Cuba di diventare uno dei maggiori produttori mondiali di nichel. 63 L’indiano Anno di pubblicazione 1981 Casa discografica Ricordi Produzione De André - Bubola 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. QUELLO CHE NON HO CANTO DEL SERVO PASTORE FIUME SAND CREEK AVE MARIA HOTEL SUPRAMONTE FRANZISKA SE TI TAGLIASSERO A PEZZETTI VERDI PASCOLI In seguito chiamato “L’indiano”, per la copertina di Frederic Remington raffigurante un pellerossa, il nuovo album uscirà con il semplice nome e cognome dell’artista “Fabrizio De André”. È un lavoro di grande qualità, che beneficiò del buon clima creatosi in sala di registrazione grazie ad un De André voglioso di rituffarsi nella sua attività dopo la tremenda avventura del sequestro. Tranne “Verdi pascoli”, da considerare musicalmente come un divertissement, il disco contiene canzoni molto belle, da “Hotel Supramonte”, chiaramente ispirata al rapimento, a “Canto del servo pastore”, all’epica “Fiume Sand Creek”, divenuta una dei classici live di Fabrizio, a “Se ti tagliassero a pezzetti” che ribadisce il legame dell’autore con la natura, i suoi elementi. “L’indiano” viene inciso nei mesi di giugno e luglio 1981 al castello di Carimate, negli studi Stone Castles, la nuova scommessa di Toni Casetta. Per lanciarli, Casetta si avvalse della collaborazione di Alessandro Colombini, tra l’altro autore delle registrazioni della caccia al cinghiale assieme alla Compagnia di caccia di Marco Lattuneddu, che aprono il disco nel brano “Quello che non ho”. Il pezzo “Ave Maria” è invece una rielaborazione di un canto tradizionale sardo di Albino Puddu ed è cantata a due voci con Mark Harris. Infine nell’album c’è un maniacale ritorno alle stelle, in brani come “Fiume Sand Creek”, “Franziska” e “Verdi pascoli”, viste come luce nella notte. Chi non possiede stelle non possiede il lume per potersi addentrare nelle tenebre. A Carimate De André rivide dopo tanto tempo Mauro Pagani, il quale gli fece ascoltare alcuni pezzi ai quali stava lavorando e gli illustrò il proprio originale e intenso progetto musicale. Stava per iniziare la marcia di avvicinamento che avrebbe portato al capolavoro “Creuza de mä”. Con una aggueritissima formazione Fabrizio ritorna sulla strada a presentare il nuovo 33 giri. Uscito a fine agosto, nel giro di una sola settimana venderà ben 180.000 copie, un successo corroborato da quello delle esibizioni dal vivo. Massimo Bubola, oltre a eseguire con Fabrizio De André “Una storia sbagliata” (singolo uscito l’anno prima, abbinato a “Titti”), accompagnato dal gruppo presenterà alcuni brani tratti da “Tre rose”, l’album uscito per la Fado (etichetta di De André). Ad agosto la Rai riprenderà il concerto alla Bussoladomani di Lido di Camaiore, riproponendolo il 26 novembre in prima serata su Rai Uno. A fine estate De André è ospite della finale del Festivalbar, dove viene premiato Massimo Bubola. Il 29 ottobre, all’età di sessant’anni, muore Georges Brassens, ucciso da un tumore. 64 - La vita nei campi Il “Canto del servo pastore” riassume malinconicamente la vita solitaria di un pastore sardo, servo del signore, che passa le sue giornate ad ammirare le sue bestie e a fare nostalgici pensieri sulla sua famiglia, sperando che la notte spenga la sua tristezza. Giacomo Leopardi nel suo “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” parla di un ingenuo e primitivo pastore asiatico che passa le serate a chiedere invano alla luna quale sia il destino e il senso della vita umana; molto prima di lui già Tibullo e Virgilio nelle loro opere avevano immaginato un mondo agreste pacifico e sereno, in pieno contrasto quindi con l’idea di solitudine leopardiana. Infine ho scelto il bellissimo quadro di Teofilo Patini “Vanga e latte”, in cui l’artista ha dipinto la quotidianità ma soprattutto gli stenti che molte volte accompagnano la vita nei campi. - La solitudine della vita agreste (Giacomo Leopardi) Con il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” Leopardi nuovamente si volge a considerare più in generale, tramite la figura esemplare del pastore errante, la costitutiva infelicità dell’intero genere umano e anzi di tutti gli esseri viventi. Nel paesaggio desolato dell’immensa steppa asiatica, sovrastato dalla misteriosa vastità del cielo stellato, un pastore interroga la luna sul perché delle cose e sul senso del destino umano. Ma le sue domande non trovano risposte, e il silenzio del cielo sconfinato gli conferma ciò che già sapeva, cioè che l’universo è un enigma indecifrabile nel quale l’unica cosa certa è il dolore degli uomini e di tutti gli esseri viventi. Scegliendo una figura umile come protagonista della lirica, Leopardi vuole dimostrare come tutti, ricchi o poveri, intellettuali o analfabeti, si pongono le stesse domande senza risposta sul significato della vita e sull’esistenza del male; anzi, sulle labbra di un semplice pastore questi interrogativi acquistano una forza particolare, primordiale e assoluta, che esprime la “radice” comune della condizione umana. In questo canto le strofe si presentano come una successione di domande rivolte alla luna. Il colloquio del pastore con la luna oscilla tra due spinte contrastanti; da un lato, egli sembra sperare che le sofferenze della vita abbiano una spiegazione che la luna conosce; dall’altro ne dubita e pensa che la negatività del destino umano sia un dato troppo tragico quanto indiscutibile. Il pastore non rinuncia all’idea che la luna possa svelare i misteri della vita e della morte, dell’infinito andar nel tempo e mutare delle stagioni e dell’inquietante vastità dell’universo. La bellezza della primavera e del cielo stellato devono giovare a qualcuno, non possono essere semplici apparenze di un universo indifferente. Ma lo sconforto emerge nell’ammissione finale, in cui i dubbi fiduciosi lasciano spazio ad una certezza terribile: “a me la vita è male”. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita o voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l’ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e più e più s’affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergin luna, tale è la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, 65 ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core, e consolarlo dell’umano stato: altro ufficio più grato non si fa da parenti alla lor prole. […] Spesso quand’io ti miro star così muta in sul deserto piano, che, in suo giro lontano, al ciel confina; ovver con la mia greggia seguirmi viaggiando a mano a mano; e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e dalla stanza smisurata e superba, e dell’innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d’ogni celeste, ognio terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell’esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors’altri; a me la vità è male. […] Se tu parlar sapessi, io chiederei: dimmi: perché giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale. - L’esaltazione della vita agreste (Albio Tibullo) Nel I libro del “Corpus Tibullianum”, oltre alle poesie d’amore per Delia, trovano posto elegie sulla deplorazione della guerra e sulla vita agreste. All’orrore per la guerra, Tibullo accompagna l’esaltazione della pacifica e serena vita dei campi, a cui il poeta si augura di potersi dedicare, onorando gli dei dei suoi padri e rimanendo fedele alla semplice religiosità tradizionale. La poesia tibulliana risulta più ”vera” e più efficace non quando vuole esprimere i conflitti e le drammatiche contraddizioni della passione amorosa, ma quando diventa evasione, astrazione e rifugio in un mondo soggettivo e illusorio, costruito al di fuori dei confini della vita reale. Il tema che il poeta sente più congeniale e che sa rendere con sensibilità ed accenti suoi peculiari è infatti l’aspirazione alla serena e pacifica vita dei campi, idealizzata secondo i moduli della poesia bucolica (non senza influssi delle “Bucoliche” di Virgilio), ma inserita in un contesto tipicamente romano nei frequenti richiami ai valori della tradizione e della primitiva civiltà latina, dominata dalla semplice religiosità agreste. La campagna è per Tibullo, come per i poeti alessandrini e per Virgilio, un luogo idilliaco di evasione, lontano e al riparo dai vizi, dalla corruzione e dalla violenza, dalla politica e dalla guerra: un mondo di pace e d’innocenza, una sorta di paradiso perduto ove rifugiarsi con la fantasia, abbandonandosi ad un sogno nostalgico. Rispetto alle “Bucoliche”, si possono rilevare da un lato un maggiore realismo nella descrizione delle occupazioni agricole, dall’altro una maggiore indeterminatezza nei riferimenti alla realtà storica da cui il poeta vuole astrarsi: non troviamo infatti la deplorazione esplicita delle guerre civili; anzi, le guerre di cui parla Tibullo si configurano sempre come guerre di conquista, intraprese per avidità di ricchezze. Hic placatus erat, seu quis libaverat uva, Seu dederat sanctae spicea serta comae, Atque aliquis voti compos liba ipse ferebat Postque comes purum filia parva favum. 66 - La quotidianità della vita agreste (Teofilo Patini) La famiglia di “Vanga e latte” è formata dalle figure essenziali, padre, madre e figlio, ritratte in aperta campagna: l’uomo è intento a vangare il terreno mentre la donna, interrotto momentaneamente il lavoro, si siede in terra e allatta il figlio neonato. Sul terreno giacciono gli oggetti che compongono il quadro e descrivono simbolicamente la vita della famiglia: la culla e l’ombrello posto a ripararla, il basto, la piccola botte, il cencio rosso e, sulla destra, la giacca, il cappello e il piatto di polenta con le due posate di legno; anche il cielo, visto dal basso, sembra poggiare pesantemente sulla terra, generosa solo di sterpi e stoppie. I contadini sono impastati della terra che lavorano. L’anonimo vangatore incarna la fatica dell’umanità, la sua grandezza statuaria è priva di ogni retorica. La donna, descritta con tenerezza nelle vesti logore, nei gesti forti ma delicati, è una “Madonna” del latte, la cui forza sta proprio nell’accettazione di un’esistenza di stenti. Il bimbo succhia avidamente, con un’energia vitale che è il presupposto necessario delle lotte che dovrà combattere. Le figure sono disposte lungo una fuga prospettica verso l’infinito, segnalata sul piano di terra dalle gambe della donna, dal piede d’appoggio del contadino e dalla vana conficcata nel terreno, sul piano superiore dalla linea che parte dal gomito levato dell’uomo e che cade all’estremità destra del dipinto, formando con la direttrice precedente un angolo acuto. L’impostazione rigorosamente prospettica del dipinto, che degrada dalle nitide nature morte del primo piano alle zolle che increspano il terreno e alla costa montana segnata dalle prime nevi, riserva quasi metà della tela al cielo, che conferisce alla scena la limpidezza del primo mattino. Patini dà volume alle figure attraverso il colore, che assorbe in sé la luce e che ha fatto parlare di “caravaggismo all’aria aperta”. La pennellata è ampia, con lievi chiaroscuri, come nelle gambe del bimbo, e punti in cui il colore si rapprende e diventa materico, come nelle stoppie in primo piano. L’adesione sentimentale di altri pittori ai propri personaggi lascia qui il posto ad un’interpretazione rigidamente oggettiva della realtà, che assume valore storico: una storia “minore” di piccoli eventi quotidiani, raccontata dai protagonisti. Teofilo Patini, Vanga e latte, 1883-84 olio su tela, 213x372 cm Roma, Ministero dell’agricoltura e delle foreste 67 Creuza de mä Anno di pubblicazione 1984 Casa discografica Ricordi Produzione Pagani - De André 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. CREUZA DE MÄ JAMIN-A SIDUN SINAN CAPUDAN PASCIÁ A PITTIMA A DUMENEGA DA A ME RIVA Le registrazioni si svolsero alla fine del 1983 tra i Felipe Studio di Milano e gli Stone Castles di Carimate. Il disco riuscirà ad evocare suoni, profumi, voci, odori, sapori e bellezze di tutto il Mediterraneo ma sarà, soprattutto, un canto d’amore a Genova. Uscito quasi in sordina ai primi di febbraio, solamente ai primi di maggio riuscirà ad entrare tra i top ten. La stampa italiana in questa occasione darà prova di maturità cogliendo in pieno la grandezza della proposta di De André e Pagani spingendo le vendite del disco. Articoli, interviste, recensioni, special radiofonici e televisivi, ammirate dichiarazioni dei colleghi avranno la meglio sulla iniziale indifferenza del pubblico. Il grande interesse nato intorno a “Creuza de mä” non sfuggì al promoter che nel mese di giugno doveva portare in tour per l’Italia Bob Dylan e Carlos Santana con i rispettivi gruppi, e che propose a Fabrizio di aprire il concerto allo stadio San Siro di Milano. Fabrizio rifiutò. De André intanto, dopo aver approfondito la conoscenza della musica mediterranea, grazie anche al preziosissimo confronto con Mauro Pagani si appassionò alla letteratura islamica e preislamica. Con l’arrivo dell’estate giunse anche il momento di presentarsi dal vivo con il viaggio di “Creuza de mä”. I due produttori dovettero risolvere diversi problemi di ordine tecnico e raccogliere una band capace di riproporre in maniera adeguata il suono e le difficili partiture del disco. “Jamin-a” è un ritratto a tutto tondo di una prostituta araba che ogni marinaio vorrebbe incontrare a terra; “Sidun” è il canto straziante di un padre che assiste alla violenta morte del figlio. “Sinan capudan pasciá” è l’antica vicenda di un marinaio genovese che salvò nel XV secolo la vita di un sultano, fu nominato “gran vizir” ma rigettò l’accusa di aver rinnegato per essersi convertito all’Islam perché in fondo aveva semplicemente vissuto la sua vita “bestemmiando Maometto al posto del Signore”. “A dumenega” è la magistrale ricostruzione delle tipiche passeggiate che le prostitute facevano con le loro “madame”; “A pittima” è il freddo ritratto degli esattori genovesi alle dipendenze dei signorotti. Infine “Da a me riva” esplica tutto l’amore di Fabrizio per Genova. Si deve ricordare che “Creuza de mä” fu premiato come miglior album del decennio 1980-89 dalla rivista “Musica e dischi” e premiato anche per la meravigliosa copertina. La grande intuizione di Mauro Pagani e Fabrizio De André fu quella di utilizzare, accanto a strumenti etnici, la classica sezione ritmica costituita da basso e batteria e, soprattutto, il synclavier, il più evoluto synth a livello commerciale: la commistione si rivelò riuscitissima e vincente, ed il suono di questo capolavoro si sarebbe caratterizzato per una sua affascinante originalità. 68 - La morte di un figlio Sidone, protagonista della canzone “Sidun” (interamente in dialetto genovese) è un padre che assiste ad una delle cose più strazianti che possano accadere ad un genitore: vede il suo bambino morire di tumore. A testimonianza della disperazione che un genitore prova di fronte ad un evento tale ho deciso di portare il celebre componimento “Pianto antico” di Giosue Carducci, in cui il poeta comunica il suo dolore per la perdita del suo piccolo Dante. Anche il regista Nanni Moretti si è dato da fare per delineare il sentimento di vuoto che prova un genitore colpito dalla morte di un figlio: questo sentimento è ben espresso nel riuscito film “La stanza del figlio”. A differenza di questi due artisti ho voluto analizzare anche il dipinto “Saturno che divora uno dei suoi figli” di Francisco Goya, in cui viene tremendamente ritratto appunto il dio Saturno nell’attimo di uccidere, divorandolo, suo figlio: metafora della cieca bestialità del potere che teme l’usurpazione. - Il piccolo Dante (Giosue Carducci) Di fronte al dolore per la morte del proprio bambino non ci sono più parole, c’è solo il pianto, la manifestazione, cioè, più individuale e intima, nascosta, privata, di una sofferenza altrimenti inesprimibile. Ed allo stesso tempo è un pianto antico, universale ed esteso, quasi, al dolore di tutti gli esseri viventi, capace di esternare in quattro quartine di settenari un sentimento inaccessibile, legato ad un evento a ed un momento particolari, ma insieme estendibile al passato, anche attraverso una densa filigrana di rimandi testuali e concettuali alla poesia classica, ed in particolare al lirico greco Mosco, e al futuro, nel momento in cui questo “Pianto antico” si fa emblema della condizione esistenziale dell’uomo. Giù il titolo di questa breve lirica, legata alla scomparsa del piccolo Dante, unico figlio maschio, oltre alle due bambine Beatrice e Laura, di Carducci, ed inserita nella raccolta “Rime nuove” (1887), ci dà l’esatta percezione del periodo storico e degli sviluppi della poetica dell’autore. Il componimento si colloca, infatti, in quella fase che segna per Carducci il passaggio da poeta “artiere” a poeta “artista” che, abbandonato lo strale polemico-satirico di “Giambi ed epodi” e la foga giacobina e libertaria della fase “satanica”, si concentra su temi più intimi e privati, affrontando appunto il problema del dolore, della morte, della memoria e della nostalgia con un atteggiamento di virile accettazione del destino, lontano sia da tentazioni nichilistiche ed autodistruttive, che da prospettive consolatorie di marca spirituale-cristiana, ma sempre confortato dalla lezione della poesia classica. Anche un altro componimento della stessa raccolta, infatti, “Funere mersit acerbo”, che prende il titolo da un emistichio virgiliano dell’”Eneide”, rievoca la scomparsa del piccolo Dante, legata idealmente a quella dell’altro Dante, fratello ventenne dell’autore, morto suicida pochi anni prima. Anche “Pianto antico” presenta la tematica centrale della poesia carducciana, l’opposizione luce-ombra, vita-morte. Le due polarità in opposizione sono nettamente ripartite tra le prime due strofe e le ultime due. Nelle prime due dominano immagini di luce e di calore, con intense note coloristiche, e rendono il senso della vitalità prorompente della natura primaverile. A questi motivi, nelle ultime due si contrappone il motivo dell’aridità, del freddo, del buio, dell’assenza di gioia vitale e d’amore. La serie delle opposizioni si può così ricostruire sulla base della trama delle parole chiave: “rinverdì vs inaridita”, “luce vs terra negra”, “calor vs terra fredda” e “amore vs inutil vita”.Ma già nella prima parte, pur dominata dalla solarità, è presente una nota cupa che anticipa il clima 69 della seconda parte: il “muto orto solingo”. È un’immagine di morte: il giardino è muto perché non risuona più dei giochi del bambino. L’io lirico si protende disperatamente, ma vanamente, verso immagini di solare vitalità, per scacciare l’immagine della morte che l’ossessiona. Il ritmo si sviluppa dalla prima all’ultima strofa in un crescendo di drammaticità, rendendosi man mano più asciutto, franto, spezzato dall’allitterazione della lettera “r” e da suoni duri e aspri. Parallelamente lo stile volge verso una perentorietà che si fa lapidaria, al punto che l’ultima quartina è quasi un epitaffio, nelle ripetizioni anaforiche e nella rigidità icastica del costrutto. L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior, nel muto orto solingo rinverdì tutto or ora e giugno lo ristora di luce e di calor. Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita, tu de l’inutil vita estremo unico fior, sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra; né il sol più ti rallegra né ti risveglia amor. - Il ricordo del figlio (Nanni Moretti) L’ormai celebre film “La stanza del figlio” di Moretti si presenta scabro, essenziale, al limite dell’oscenità intesa come esibizione del privato. Qui (nella stanza del figlio) la disarmante fisicità del dolore (contrizione e pianto) al lavoro produce lo strappo del sipario del palcoscenico della vita. Forse Moretti era partito cinematograficamente da Kieslowski e la sua rappresentazione minimale dell’esistenza legata al caso; se così fosse l’ispirazione si sarà persa strada facendo perché il film non riesce mai a trascendere gli eventi che mette in scena, la quotidianità (i gesti, gli sguardi, le parole, le cose) non si traduce in metafisica né sotto il profilo contenutistico né sotto quello squisitamente linguistico. Al di là di tutto è comunque singolare il suggerimento che lo psicanalista di Moretti consiglia per liberare i pazienti e se stesso dal male di vivere: praticare lo sport che più si avvicina alla propria indole. Se si soffre l’agonismo e la competizione come nel caso di Andrea, il figlio, è più naturale essere un sub piuttosto che un tennista, se il rapporto con la gente non è positivo meglio misurare i propri limiti individuali con un sano footing, se al contrario è piacevole e stimolante immergersi nella collettività ecco che ideale può essere il basket come sport di squadra. Splendida la figura di Laura Morante, unica della famiglia a non praticare alcuno sport perché unica spettatrice del film (vede il doppio del figlio che la sfiora in corsa, vede il figlio negli occhi di Arianna, la ragazza di cui forse era innamorato ma non ne parlava, vede la stanza del figlio con i suoi abiti e scopre le sue lettere). Forse il film più attoriale di Moretti svela malinconicamente e soprattutto involontariamente l’intima autorialità dell’autarchico (ergo il suo stato d’animo). Questa ultima fatica del regista di Brunico, nonostante il quasi unanime consenso di pubblico e critica, è destinata a dividere la sua filmografia e probabilmente gli stessi suoi estimatori di sempre ma è fisiologico per una 70 pellicola che rappresenta la divisione-lacerazione (conseguentemente il dolore) di un essere umano. - L’uccisione di un figlio (Francisco Goya) Il “Saturno che divora uno dei suoi figli” è una rappresentazione di un tema mitologico che fa parte della famosa serie di pitture “nere” della Quinta del Sordo, così chiamate per la predominanza di timbri tenebrosi. Appartiene all’attività più tarda di Goya e venne eseguita, con altri tredici, per la decorazione della Quinta del Sordo, la sua abitazione privata nella campagna sulle sponde del Manzanarre. L’artista, settantaquattrenne, è ormai quasi completamente sordo, solo, sfiduciato dalla piega che hanno preso le vicende politiche europee e spagnole in particolare, ed è preda dell’angoscia di cui testimonianza gran parte della produzione della sua vecchiaia. Goya, in questa terribile figurazione, fa riferimento ad un tema che iniziò ad essere trattato nell’arte occidentale a partire dal Medioevo, Saturno che divora un figlio, e lo dipinge con inedita crudezza. Quest’opera, assieme alla raffigurazione di “Giuditta e Oloferne”, dipinta nello stesso luogo, ha probabilmente un significato politico. “Giuditta e Oloferne” esalta, infatti, il tirannicidio, mentre “Saturno che divora uno dei suoi figli” sembra simboleggiare il tiranno che divora i suoi sudditi, un’allusione di Goya a Ferdinando VII. L’atmosfera allucinata e la potenza fantastica della scena si manifestano nel concentrare la rappresentazione su pochi elementi, mediante un uso altamente suggestivo della luce, che fa emergere dal fondo scuro la figura mostruosa, trattata con toni ocra e grigiastri, sui quali spicca, nota raccapricciante, il rosso del sangue del corpo dilaniato del figlio. La modernità nell’uso dei mezzi pittorici mette quest’opera tra i principali precedenti dell’Espressionismo. Francisco Goya, Saturno che divora uno dei suoi figli, 1820-23 olio su intonaco trasportato su tela, 143,5x81,4 cm Madrid, Prado 71 Le nuvole Anno di pubblicazione 1990 Casa discografica Fonit Cetra Produzione Pagani - De André 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. LE NUVOLE OTTOCENTO DON RAFFAÈ LA DOMENICA DELLE SALME MEGU MEGUN LA NOVA GELOSIA A CIMMA MONTI DI MOLA Nonostante la ferita ancora aperta della morte del fratello Mauro, Fabrizio, con il sostegno di Dori, inizia la fase finale della produzione del nuovo album. Il recente premio assegnato a “Creuza de mä” non fa che aumentare le responsabilità, che obbligare a produrre qualcosa di unico. L’album è scritto a quattro mani con Mauro Pagani, suo compagno di viaggio dal 1984. A loro si affiancheranno Massimo Bubola, con il quale Fabrizio scrive i testi di “Don Raffaè” e Ivano Fossati per i testi di “Megu megun” e “A cimma”. Fa inoltre la sua comparsa Piero Milesi, invitato da Pagani insieme a Sergio Conforti a realizzare gli arrangiamenti di “Le nuvole” e “Ottocento”. “Le nuvole” è, di tutta la discografia del cantautore genovese, il disco più apertamente e volutamente politico. “La domenica delle salme”, in particolare, avrà il compito di dare una vibrante sferzata al potere accusando il sistema del pentitismo. Palese il riferimento a Renato Curcio, brigatista carcerato, il quale, per non aver aiutato la giustizia, non gode dei privilegi offerti ai suoi “bravi colleghi”. Ma “Le nuvole” sarà anche un atto di autocritica nei confronti di status symbol, cianfrusaglie, sovrastrutture di stampo prettamente borghese. Da un punto di vista stilistico, “Le nuvole” è un disco meno omogeneo del precedente, ma non per questo meno interessante anche musicalmente. Basti pensare ad “Ottocento”, che riporta all’opera buffa dell’inizio del diciannovesimo secolo e al primo Rossini. E come dimenticare i profumi del mare, e della sua Genova, che escono da “Megu megun” e da “A cimma”, diretta continuazione di “Creuza de mä”, i cui testi vengono scritti assieme a Fossati durante un soggiorno sulla costiera amalfitana e poi a casa di Ivano. “Monti di mola” è invece un divertente omaggio alla Sardegna cantato in gallurese e ispirato ad una delle tante storie raccontategli dagli amici pastori. La hit del disco è “Don Raffaè”, cantata in un napoletano maccheronico, che narra con l’ironia tipica di Fabrizio situazioni sociali che di divertente hanno ben poco. Il brano susciterà qualche polemica, ma raccoglierà anche molti consensi, come quello di don Raffaele Cutolo. “Le nuvole” è un disco di pensiero forte, di dichiarazioni chiare e nette. L’apertura, spiazzante e suggestiva, è affidata al brano omonimo, dove De André sceglie di non apparire con la sua voce, lascia il proscenio alla splendida orchestra diretta da Piero Milesi e alle melodiose voci dal chiaro accento sardo che declamano il testo. Registrato al Metropolis di Milano, l’album viene pubblicato il 26 settembre 1990 dopo un paio di rinvii che contribuiscono ad aumentare l’attesa. In copertina le nuvole. 72 - Il pentitismo Il pentitismo è sempre stato uno dei temi caldi di Fabrizio De André, in quanto egli non hai mai potuto accettare l’idea del perdono di un criminale attraverso un aiuto, quasi sempre manipolato e fasullo. Cosicché ne “La domenica delle salme” Fabrizio ha voluto parlare di Renato Curcio per evidenziare quanta ingiustizia ci sia in Italia. In un’intervista del 6 maggio 1993 De André dirà di Curcio: «Lui che non ha commesso nessun delitto è ancora in galera, perché non si è dissociato, ovvero non ha approfittato di quella regola, peraltro immorale, attraverso la quale si possono avere dei benefici di legge. Insomma, Curcio, che non è una spia, resta dentro mentre vedo alcuni dei miei sequestratori circolare liberamente in Gallura». È per questo che voglio parlare del fenomeno del pentitismo, da anni in voga per le stragi mafiose, attraverso l’analisi dei pro e dei contro di questo sistema investigativo. - La nascita del circuito degli speciali La prima norma sui cosiddetti pentiti fu introdotta dalla legge Cossiga del 1980, una delle più importanti innovazioni legislative nate in quegli anni per contrastare il fenomeno della lotta armata. Questa norma fu voluta personalmente dal generale Dalla Chiesa, che intuì, prima di altri, la necessità di strumenti legislativi nuovi. Le leggi speciali in materia di ordine pubblico erano certo state utilissime, ed i risultati si erano visti. Ma questo non bastava a superare la logorante guerra di trincea che si combatteva ormai da anni. Serviva uno strumento nuovo, in grado di agire contemporaneamente sia militarmente che politicamente, che fosse capace, anche pagando costi ingenti sul piano dell’autorità statale, di creare divisioni nel fronte avversario. Bisognava liberarsi da un astratto principio di legalità che impediva il pieno dispiegamento di un agire pragmatico e flessibile, laicamente disposto a misurare, nelle singole contingenze, costi e benefici, non pregiudizialmente contrario a meditazioni, trattative e contrattazioni, qualora queste fossero risultate utili. Nella prassi poliziesca lo scambio impunità-delazione è una pratica antica e consuetudinaria. L’azione investigativa ha da sempre utilizzato questo strumento, che è senza dubbio tra i più efficaci. La novità che la legislazione sul pentitismo introduce sta nel fatto che questa pratica riceve adesso un riconoscimento giuridico, diviene forma legale, interviene nella procedura penale, determina l’entità delle pene, subordinando il giudizio sull’atto criminoso alla capacità di delazione del suo autore. Dopo due anni di concreta sperimentazione sul campo, la materia del pentitismo trovò una sua sistemazione definitiva nella legge n. 304 del 29 maggio 1982. La pressione che gli organi inquirenti operarono sul legislatore affinché fosse data concretezza alle esigenze di una nuova contrattualità tra Stato e organizzazioni politiche armate fu decisiva per l’approvazione di questa norma. Il suo meccanismo è tanto semplice quanto efficace: lo Stato rinuncia, del tutto o in parte, ad esercitare la sua pretesa punitiva nei confronti dell’autore del reato associativo che interrompe il vincolo che lo lega ai concorrenti, fornendo informazioni utili sulla struttura e sulla organizzazione dell’associazione o della banda. La natura del contratto di collaborazione prescrive tassativamente che il collaboratore operi un netto passaggio di campo sul piano concreto dell’azione militare. L’utilità della collaborazione è misurata, in denaro, dalla quantità di nomi che egli rivela, dal numero di basi che indica, dalle informazioni sugli organigrammi e sui ruoli che fornisce, dal disvelamento delle responsabilità su singoli eventi delittuosi. Questa grande innovazione avrà egli effetti dirompenti sul piano operativo, e costituirà un paradigma delatorio premiale che dimostrerà una forte efficacia soprattutto 73 nella gestione di altre emergenze criminali che vivrà il nostro Paese negli anni a venire. Le norme delatorio-premiali sono, comunque, tutte dentro la logica della soluzione militare delle emergenze sociali. Ciò che questa legislazione consegna nelle mani degli inquirenti è un arnese di enorme potenza, che è stato fabbricato direttamente sul campo e, solo successivamente, formalizzato e reso ampiamente operativo. La figura sociale del pentito nasce prima dell’apparire della sua forma giuridica. - La sperimentazione del meccanismo Nel febbraio 1980, dopo appena un mese dalla sua cattura, Patrizio Peci, militante della colonna torinese delle BR e membro della Direzione Strategica, inizia il suo lungo e dettagliato racconto, rivelando nomi, basi, struttura organizzativa, storia e progetti della più forte formazione armata del Paese. Il pentimento di Peci avvenne nel reparto di isolamento del carcere speciale di Cuneo. Il dibattito sul ruolo che il carcere duro svolge nel predisporre, favorire ed incentivare le scelte di collaborazione è a tutt’oggi ancora aperto. Sul piano storico, della storia recente del nostro Paese, è innegabile che le due emergenze che hanno dato luogo a questi regimi detentivi, la lotta armata e la criminalità organizzata degli anni Novanta, hanno trovato nell’istituzione di un modello detentivo speciale un momento di grande efficacia dell’azione repressiva. In entrambi i casi, dagli speciali è venuta fuori una fitta schiera di defezioni, abbandoni delle organizzazioni, passaggi di campo e collaborazioni, e questi risultati non sono assolutamente da sottovalutare. Non sono da sottovalutare le conseguenze che hanno sui singoli condizioni di detenzione di questi livelli di rigidità. Le sofferenze fisiche, l’isolamento, l’essere faccia a faccia, soli, con la crudezza del carcere, l’improvvisa perdita della deprivazioni sensoriali ed propria vita di relazione, le affettive, la paura della violenza, sono fattori che indubbiamente concorrono a creare una condizione di grande debolezza e fragilità degli individui. Ed in queste condizioni qualsiasi gesto è possibile, dalla violenza contro se stessi, a quella contro gli altri, dall’autodistruzione, all’esplosione dell’istinto di sopravvivenza, dal rafforzamento dei propri vincoli di appartenenza all’abbandono del campo, al ritiro, alla fuga. Non c’è da stupirsi che da un carcere speciale esca un pentito, come non deve suscitare stupore se esce un impiccato o un malato di mente. Ma un pentito non fa il pentitismo. Chi arriva al tradimento ci arriva perché sente una sconfitta, incombente o avvenuta. Il carcere duro, da solo, può creare un delatore, ma non è in grado di produrre una cultura del pentitismo. Ci vuole altro, sono necessarie altre condizioni affinché ciò avvenga. Nessuna guerra è stata vinta perché si è riusciti ad infiltrare delle spie tra le fila dell’avversario. Il pentitismo è tale quando entra in una deriva, quando il soggetto che riceve l’attacco perde forza di movimento, arretra, deperisce. Qui si parla di soggetti collettivi, di entità sociali complesse, non della piccola banda di ladri d’appartamento. Gli speciali erano in piedi già dal 1977, e fino al 1980 dalla numerosa schiera di coloro che finirono in carcere non venne fuori nessun significativo caso di cedimento. E molti tra essi avevano attraversato le realtà più dure della massima sicurezza. Peci iniziò a collaborare dopo appena un mese dall’arresto, ed il suo fu soltanto l’inizio di un fenomeno destinato ad estendersi. Al carcere duro si può resistere quando si è forti, finché si è forti, sia sul piano soggettivo, sia su quello dell’identità collettiva. Solo quando questa forza non 74 c’è, o si incrina, o viene meno, per un qualsiasi motivo, la tecnologia di induzione alla delazione di cui il carcere dispone riesce a raccogliere tutti i suo frutti. E questa tecnologia nel carcere è ampiamente collaudata e sperimentata. L’utilizzazione sistematica dell’informatore, l’”infame” per la cultura carceraria, che fornisce informazioni per decifrare le dinamiche comunitarie, è lo strumento privilegiato dallo staff per controllare la sicurezza dentro gli istituti. Il prezzo di questa collaborazione, nel carcere prima della riforma, era prevalentemente il lavoro, che abbiamo visto essere risorsa ambitissima, quanto scarsa, nei nostri penitenziari. E lo è ancora oggi. Ma, con la nuova normativa sui pentiti, il modello delatorio-premiale riceve ben altra forza. In cambio dell’occhio vigile e dell’orecchio attento il delatore adesso può ambire addirittura a modificare la sua condizione di detenuto, può contrattare l’uscita anticipata dal carcere. Quella sistematica opera di costruzione della delazione, prima confinata nel lavorio silenzioso delle forme del potere interne all’istituzione totale, assume adesso importanti risvolti esterni. Oltre che a custodire ed a redimere, il carcere si sente anche chiamato ad una presenza diretta nell’azione inquirente, e su questa chiamata alle armi si giocarono in questi anni un bel po’ di carriere di membri dello staff ministeriale. La classe dirigente dei penitenziari ed i vertici del corpo degli agenti di custodia entrarono con piena titolarità in concorrenza con le altre forze di polizia e con la magistratura, in quella particolarissima industria che produce un bene dall’altissimo valore sociale aggiunto: il pentito. - La crisi del sistema Il fenomeno del pentitismo segnala una crisi profonda delle organizzazioni criminali e del loro sistema di potere, percepito dai suoi stessi leader come scricchiolante, incapace di garantire protezione, privo di futuro. Ma l’occasione non è stata colta dallo Stato, che ha rinunciato a governare il pentitismo: e tale rinuncia, tollerabile quando i collaboratori erano pochi e selezionati, è diventata insostenibile, sino a trasformarsi in boomerang, quando il pentitismo è diventato un arcipelago esteso e variegato. Le questioni di carattere etico relative ai limiti dello scambio tra collaborazione e impunità (soprattutto per gli autori di crimini atroci commessi sino a pochi giorni prima del pentimento) si sono presto intrecciate con fatti clamorosi ed inquietanti (la commissione di nuovi reati da parte di collaboranti o l’emergere, in alcuni casi, di accuse calunniose), abilmente sfruttati dal sistema di potere messo in crisi da diserzioni e collaborazioni. Il pentitismo è così diventato, anche per parte dell’opinione pubblica, un fenomeno sospetto, le organizzazioni criminali hanno riguadagnato terreno e il fiume delle collaborazioni è divenuto un ruscello che rischia di sparire. Eppure le vie per un governo efficace del fenomeno sono da tempo chiare (ed oggetto persino di un disegno di legge da tempo approvato dal Senato): individuazione di benefici commisurati ai reati commessi, ché i premi devono essere appetibili ma non possono spingersi fino all’impunità di fatto, soprattutto in presenza di delitti efferati; previsione di un tempo ragionevole entro cui il pentito deve dire ciò che sa, evitando stillicidi di accuse nel corso degli anni (fonte inevitabile di sospetti); soluzioni organizzative idonee a garantire il massimo di genuinità delle dichiarazioni, evitando contatti con altri collaboranti e colloqui investigativi paralleli; separazione tra attività di protezione e gestione processuale del pentito, la cui contestualità produce inevitabilmente pressioni e coinvolgimenti impropri. Resta la domanda sul perché sia prevalsa l’inerzia e il dibattito si sia concentrato esclusivamente sul valore processuale delle dichiarazioni dei pentiti. 75 Anime salve Anno di pubblicazione 1996 Casa discografica Bmg Produzione De André - Milesi 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. PRINCESA KHORAKHANÈ (a forza di essere vento) ANIME SALVE DOLCENERA LE ACCIUGHE FANNO IL PALLONE DISAMISTADE Â CÚMBA HO VISTO NINA VOLARE SMISURATA PREGHIERA I primi giorni in sala di registrazione passano senza problemi, il materiale arrivato in preproduzione è decisamente buono, molto bella una composizione di Ivano basata tutta sul piano. L’impostazione eccessivamente pianistica sarà probabilmente la causa dell’interruzione del progetto. Fabrizio si sente “accerchiato” dallo staff di Fossati, che potrebbe portare alla realizzazione di un album molto più vicino allo stile del collega. Dopo un chiarimento Fossati decide di assecondare De André. Il tema fondamentale di “Anime salve” è quello della solitudine che deriva per lo più da emarginazione, emarginazione che trae origine da comportamenti diversi da quelli della maggioranza, della norma. Spiegato così potrebbe sembrare semplicemente un disco che parla di minoranze emarginate. In effetti queste persone, nella difesa dei loro diritti, tentano semplicemente, senza fare del male a nessuno, di somigliare a se stesse e così facendo difendono la loro libertà. “Anime salve” viene presentato a Milano nello Spazio Guicciardini. Oltre alla stampa sono presenti alcuni amici intimi, come Fernanda Pivano e Beppe Grillo. L’accoglienza è trionfale. De André nelle interviste parla dei suoi programmi, che prevedono con l’anno nuovo il tour di “Anime salve”, un disco nel 2003 e la pubblicazione di un romanzo scritto insieme ad un giovane scrittore. Il tour viene procrastinato anche a causa della scomparsa del percussionista Naco, morto in estate in un incidente stradale a al quale l’album è dedicato. In una settimana “Anime salve” raggiunge il primo posto nelle classifiche; poi improvvisamente le vendite rallentano; comunque l’album in pochi mesi supererà le 300.000 copie, un buon risultato se confrontato al periodo di crisi del mercato, ma certamente non adeguato ad un’opera di così grande valore artistico. Il disco si apre con la storia di un transessuale brasiliano e della sua vita estrema; “Dolcenera” è una melanconica ballata che parla di un tradimento amoroso. “Disamistade” è lo scontro fra due famiglie e la musica struggente aiuta ad entrare nella vicenda; “Ho visto Nina volare” è legato a ricordi infantili. Infine “Smisurata preghiera” è l’elegia dell’album da cui si evince la tematica fondamentale delle minoranze. Il brano è ispirato alla saga di “Maqroll - il gabbiere“ di Alvaro Mutis: un marinaio che continua il suo viaggio errando senza mai arrivare alla meta prefissata. Il suo andare è però solo un pretesto per capire le cose importanti della vita, il senso dell’avventura e gli affetti. 76 - L’alienazione Il transessuale di “Princesa”, gli zingari di “Khorakhanè”, le minoranze della “Smisurata preghiera” sono tutti personaggi al limite, descritti da Fabrizio nel loro stato di alienazione di fronte alla vita e al mondo intero. Difatti Fernandino (il trans) vive completamente estraniato un’esistenza dove la paura è il sentimento che lo accompagna sul palcoscenico del suo lavoro (il marciapiede); gli zingari dell’Est vivono nel fango, perché respinti e storicamente perseguitati; infine tutte le minoranze in generale costrette a difendersi da un mondo così brutale che tende ad omologare tutto e ad appiattire ogni differenza, per la paura della diversità. Marx ne “Il Capitale” ha elaborato la sua dottrina sull’alienazione dell’operaio e Luigi Pirandello, in quasi tutte le sue opere, ha ironicamente evidenziato la “trappola” dell’estraneità degli uomini alla vita. Il filosofo tedesco Feuerbach si è invece preoccupato di studiare l’alienazione nella religione, arrivando a dire che essa è la causa della dipendenza dell’uomo da Dio. - L’alienazione del lavoro (Karl Marx) Sulla terra “ferma” e “tonda” Marx non trova un uomo che si fa o si realizza trasformando o umanizzando, insieme ad altri uomini, la natura nel senso dei bisogni, dei concetti o dei progetti o piani dell’uomo stesso. Quel che trova sono uomini alienati, vale a dire espropriati del loro valore di uomini ad opera dell’espropriazione o alienazione del loro lavoro. In realtà, come dice lo stesso Marx ne “Il Capitale”: «Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta “nella sua testa” prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale, qui egli realizza il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare». Tutto questo vuol dire, per Marx, che l’uomo può vivere umanamente, cioè farsi in quanto uomo, umanizzando appunto la natura secondo i suoi bisogni e le sue idee, insieme agli altri uomini. Il lavoro sociale è antropogeno. E distingue l’uomo dagli altri animali: l’uomo, infatti, può trasformare la natura, oggettivarsi in essa, umanizzarla; può far di essa il suo corpo inorganico. Sennonché, se guardiamo la storia e la società, vediamo che il lavoro non viene più fatto per il bisogno di appropriarsi, insieme agli altri uomini, della natura esterna, vediamo che non viene compiuto per il bisogno di oggettivare la propria umanità, le proprie idee e progetti, nella materia prima. Vediamo invece che l’uomo lavora per la sua pura sussistenza. La proprietà privata, fondata sulla divisione del lavoro, rende il lavoro “costrittivo”. All’operaio viene alienata la materia prima; vengono alienati gli strumenti di lavoro; gli viene strappato via il prodotto del lavoro; l’operaio, con la divisione del lavoro, viene mutilato della sua creatività e umanità. L’operaio è una merce nelle mani del Capitale. È questa l’alienazione del lavoro, dalla quale, ad avviso di Marx, derivano tutte le altre forme di alienazione, come quella politica (in cui lo Stato si erge al di sopra e contro gli uomini concreti) o quella religiosa. Il superamento di questa situazione in cui l’uomo è trasformato in bruto avviene, secondo Marx, attraverso la lotta di classe che eliminerà la proprietà privata e il lavoro alienato. 77 Esattamente l’alienazione del lavoro consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è “esterno” all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni “estranei”. Per tutto ciò, l’uomo si sente libero solo nelle sue funzioni animali (mangiare, bere, procreare, ovvero ancora abitare una casa e vestirsi), e si sente niente di più che una bestia nelle sue funzioni umane, cioè nel lavoro. Giacché l’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per “sé stante”; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea. E, per concludere, l’estraneazione dell’operaio nel suo oggetto si esprime nel fatto che quanto più l’operaio produce tanto meno ha da consumare; quanto maggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più bello è il suo prodotto, tanto più l’operaio diventa “deforme”; quanto più raffinato il suo oggetto, tanto più egli si “imbarbarisce”; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente; quanto più il lavoro è spirituale, tanto più egli p diventato materiale e “schiavo” della natura. L’alienazione del lavoro fa sì che l’operaio diventi tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. - L’alienazione dalla realtà (Luigi Pirandello) L’idea classica dell’individuo creatore del proprio destino e dominatore del proprio mondo, dalla personalità inconfondibile e coerente, che era rimasta alla base della cultura della borghesia ottocentesca nel suo momento di ascesa, ora tramonta: in una prima fase questi processi inducono a rifiutare la realtà oggettiva e a chiudersi gelosamente nella soggettività, ma poi progressivamente anche questa finisce per sfaldarsi; l’individuo non conta più, l’io si indebolisce, perde la sua identità, si frantuma in una serie di stati incoerenti. Pirandello è uno degli interpreti più acuti di questi fenomeni, e li riflette lucidamente nelle sue teorie e in quasi tutte le sue opere letterarie. La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. L’avvertire di non essere “nessuno”, l’impossibilità di consistere in un’identità, provoca alienazione ed orrore, genera un senso di solitudine tremenda. Viceversa l’individuo soffre anche ad essere fissato dagli altri in forme in cui non può riconoscersi. L’uomo si “vede vivere”, si esamina dall’esterno, come sdoppiato, nel compiere gli atti abituali che gli impone la sua “maschera”, e che appaiono assurdi, destituiti di ogni senso. Queste forme sono sentite come una trappola, come un carcere in cui l’individuo si dibatte, lottando invano per liberarsi. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti sociali, al di sotto delle civiltà e delle buone maniere. La società gli appare come un’enorme “pupazzata”, una costruzione artificiosa e fittizia, che isola irreparabilmente l’uomo dalla vita, lo impoverisce e lo irrigidisce, lo conduce alla morte anche se egli apparentemente continua a vivere. Alla base di tutta l’opera pirandelliana si può scorgere un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che essa impone, e un bisogno disperato di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. Anche se la sua 78 vita si svolge sui binari del perbenismo esteriore, Pirandello è nel suo fondo un anarchico, un ribelle insofferente dei legami della società, contro cui scaglia la sua critica impietosa e corrosiva. Le convenzioni, le finzioni su cui la vita sociale si fonda, le maschere fittizie che essa impone, vengono nella sua opera narrativa e teatrale irrise e disgregate. L’istituto in cui si manifesta per eccellenza la “trappola” della forma che imprigiona l’uomo, separandolo dall’immediatezza della vita, è la famiglia. Pirandello è acutissimo nel cogliere il carattere opprimente dell’ambiente familiare, il suo grigiore avvilente, le tensioni segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, le menzogne che si mescolano torbidamente alla vita degli affetti viscerali ed oscuri. L’altra trappola è quella economica, costituita dalla condizione sociale e dal lavoro, almeno a livello piccolo-borghese; i suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata, di lavori monotoni e frustranti, di un’organizzazione gerarchica oppressiva. L’unica via di relativa salvezza che si dà ai suoi eroi è la fuga nell’irrazionale: nell’immaginazione che trasporta verso un “altrove” fantastico. Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell’opera pirandelliana ad una figura ricorrente, emblematica: il “forestiere” della vita, colui che ha capito il “gioco”, ha preso coscienza del carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere gli altri dall’esterno della vita e dall’alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di assumere la sua “parte”, osservando gli uomini imprigionati dalla “trappola” con un atteggiamento umoristico, di irrisione e pietà. È quella che Pirandello definisce anche filosofia del “lontano”; essa consiste nel contemplare la realtà come da un’infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l’abitudine ci fa considerare “normale”, e in modo quindi da coglierne l’inconsistenza, l’assurdità, la mancanza totale di senso. In questa figura di eroe estraniato dalla realtà si proietta la condizione stessa di Pirandello come intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo perseguito dagli altri intellettuali del primo Novecento e, nel suo pessimismo radicale, si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida coscienza critica del reale. Sceso giù in istrada, mi trovai ancora una volta sperduto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo: solo, senza casa, senza meta. «E ora?» domandai a me stesso. «Dove vado?». Mi avviai, guardando la gente che passava. Ma che! Nessuno mi riconosceva? Eppure ero ormai tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto almeno pensare: «Ma guarda quel forestiero là, come somiglia al povero Mattia Pascal! Se avesse l’occhio un po’ storto, si direbbe proprio lui». Ma che! Nessuno mi riconosceva, perché nessuno pensava più a me. Non destavo neppure curiosità, la minima sorpresa… - L’alienazione nella religione (Ludwig Feuerbach) Per il filosofo tedesco Feuerbach La religione è la prima reazione alla limitatezza dell’uomo: l’infelicità, la sofferenza conducono l’uomo a Dio. Nella sofferenza, l’uomo si concentra su se stesso e la risposta è data da Dio, essere immaginario rispetto al mondo e alla natura in genere, ma reale per l’uomo. Ma se la religione è la prima ma indiretta coscienza che l’uomo ha di se stesso, essa precede dappertutto la filosofia, non solo nella storia dell’umanità ma anche in quella degli individui. Dunque dalla religione bisogna passare alla filosofia, dalla fede bisogna arrivare all’ateismo, visto che lo sbaglio della religione è proprio questo: considerare l’essere divino come se fosse qualcun altro, distinto e indipendente dall’uomo, da cui anzi l’uomo dipende. È proprio qui la debolezza della religione, l’origine del suo errore e del suo fanatismo, per cui essa aliena (l’uomo sposta il suo essere fuori di sé, prima di ritrovarlo in sé) l’uomo da se stesso e gli fa preferire un altro mondo a questo, allontanandolo dalla sua vera natura. Ma se la religione pone tutto in Dio e toglie tutto 79 all’uomo, allora l’ateismo diventa un dovere morale, affinché l’uomo recuperi i predicati positivi che ha proiettato fuori di sé nell’essenza divina. Ne “L’essenza della religione” (1846), Feuerbach dice che il fondamento della religione è il sentimento di dipendenza che l’uomo prova istintivamente nei confronti di Dio. Ma Feuerbach sostiene che è vero dire che la religione è innata nell’uomo, se però per religione si intende il sentimento dell’uomo di non poter esistere senza un ente che sia altro da lui, cioè di non dovere a se stesso la propria esistenza. Dunque ciò da cui dipende la vita e l’esistenza dell’uomo è da lui considerato Dio. La credenza che Dio abbia un’esistenza indipendente da quella dell’uomo dipende dal fatto che, in origine, è considerato come Dio l’ente che esiste fuori dell’uomo, che non è altro che il mondo o la natura. L’uomo, inconsapevolmente, fa, in un primo momenti, della natura una sorta di essere vivente, un essere personale. In un secondo momento ne fa consapevolmente un oggetto di preghiera e di religione. Mentre in realtà nella religione l’uomo ha come oggetto solamente se stesso e la natura. Il presupposto della religione è il contrasto tra volere e potere, desiderare e ottenere. Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare, l’uomo è illimitato, onnipotente, Dio; mentre nel potere, nell’ottenere, nella realtà, l’uomo è condizionato, dipendente, limitato. Il fine della religione è togliere tale contrasto; e l’ente in cui sono tolte le contraddizioni è Dio. Esiste Dio solo nella religione e nella fede. Si trova Dio solo nella fede perché Dio non è altro che l’essenza della fantasia e del cuore umano. Dio è, secondo Feuerbach, il principio fantastico della realizzazione totale di tutti i desideri umani. Quali sono i desideri degli uomini, tali sono le loro divinità. Il segreto della teologia è allora l’antropologia. Se la religione è la prima ma inconsapevole conoscenza che l’uomo ha di sé, essa, considerando l’essere divino come distinto dall’uomo, contiene in sé un elemento di illusione e di errore. Essa è l’alienazione, visto che l’uomo sposta il suo essere fuori di sé prima di trovarlo in sé. Il superamento dell’alienazione consisterà nel capire che è l’uomo che ha creato Dio e non viceversa. A ogni mancanza nell’uomo è contrapposta una pienezza in Dio: Dio è e ha precisamente ciò che l’uomo non è né ha. Quanto è attribuito a Dio è tolto all’uomo e, viceversa, quanto è dato all’uomo è sottratto a Dio. […] Tanto meno è Dio, tanto più l’uomo; tanto meno l’uomo, tanto più Dio. Se vuoi avere Dio, devi perciò rinunciare all’uomo; e se vuoi avere l’uomo devi rinunciare a Dio; altrimenti tu non hai né l’uno né l’altro. La nullità dell’uomo è il presupposto dell’aver Dio un’essenza. Affermare Dio significa negare l’uomo; onorare Dio, disprezzare l’uomo; lodare Dio, denigrare l’uomo. La gloria di Dio si fonda esclusivamente sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana. 80 Conclusione …Insomma, da queste pagine spero si sia capito che Fabrizio De André è un artista poliedrico, addirittura didattico. Con le sue opere, le sue idee e la sua vita si possono fare infiniti collegamenti a personaggi, eventi e concetti vari. Difatti quelli che ho deciso di presentare in questo lavoro sono la minima parte di quelli che avrei potuto analizzare; ho dovuto quindi fare una cernita degli argomenti a mio avviso più importanti, tralasciando per esempio grandi uomini della storia come Carlo Martello e Giovanna D’Arco delle omonime canzoni, letterati come Edgar Lee Masters (“Non al denaro non all’amore né al cielo”, lo ricordo, è la trasposizione musicale dell’”Antologia di Spoon River”), Pierpaolo Pasolini di “Una storia sbagliata” o Cecco Angiolieri di “S’i’ fosse foco”, commediografi come Aristofane per il confronto tra le sue “Nuvole” e quelle di Fabrizio, eventi storici come il massacro degli indiani della bellissima “Fiume Sand Creek” o il movimento della Carboneria de “I carbonari”; inoltre concetti di fisica come la complessa ottica di “Un ottico” o la sregolatezza degli artisti de “Il fannullone”. È arrivato il momento che i grandi cantautori vengano studiati anche nelle scuole, al pari di poeti, scrittori e filosofi: i testi di Fabrizio sono poesie e al tempo stesso spaccati di storia italiana. Forse dovremo aspettare ancora molto prima che un Ministro dell’Istruzione faccia una tale rivoluzione nei programmi di studio, o forse la nostra è una società troppo legata alle tranquille e monotone poesie-falsità da fiction televisiva, per poter accettare libri di testo che contengano le opere di De André, De Gregori, Battiato, Guccini o Vasco Rossi. Nel 2003 la scuola italiana non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso quei vecchi schemi di educazione ottocentesca: non è riuscita cioè ad accantonare o perlomeno a minimizzare l’approfondimento di autori “inutili”, anche se indubbiamente grandi, come Petrarca, Cavalcanti, Tasso, Ariosto, ecc.. Se siamo nel 2000, dobbiamo prepararci per il 2000. Non in qualità di “fan” ma di studente sono addolorato dal fatto che la musica, la letteratura e in generale la cultura italiana abbiano perso troppo presto un autore che avrebbe potuto offrir loro ancora tanto. Non a caso era infatti in preparazione per il 2001 un album che aveva come tema centrale quello della notte e del buio: si sarebbe dovuto intitolare “La paura dura più dell’amore”, dove Fabrizio, assieme al maestro Oliviero Malaspina avrebbe firmato i testi e le musiche. Dell’album Fabrizio De André è riuscito a completare solo due brani: quello che porta il nome dell’album stesso e “Un’ombra inquieta”. La moglie Dori Ghezzi non ha acconsentito alla pubblicazione ridotta dell’album, ammettendo che il marito era solito tornare sui brani completati per ritoccarli al meglio. In questo modo ha giustamente rispettato l’idea di Fabrizio riuscendo inoltre a non farsi adescare dalle regole del mercato. Con questo lavoro di ricerca, di confronto e di analisi che ho tentato di fare per l’esame di maturità, penso di aver almeno portato un argomento nuovo e di aver cercato di far conoscere meglio quale genio si nascondesse dietro il più grande autore italiano del Novecento. 81 Bibliografia AA.VV., Lezioni di arte, Electa/Mondadori, Arese (MI) 2002. ADORNO P., L’arte italiana, D’Anna, Firenze 1994. BALDI G., GIUSSO S., RAZETTI M., ZACCARIA G., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, Paravia, Milano 2001. BARDOTTI S., In via dei matti numero zero, Edizioni Associate, Roma 1997. BORZINI A. R., Il malamore, Cinesi, Roma 1966. BRANCATI A., PAGLIARANI T., La storia: rete & nodi, La Nuova Italia, Scandicci (FI) 1999. CARDUCCI G., Poesie, Garzanti, Milano 1982. COLERIDGE S. T., La ballata del vecchio marinaio, Feltrinelli, Milano 2002. CRAVERI M., I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1969. DAVICO BONINO G., I capolavori della poesia italiana, Mondadori, Milano 1986. 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