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André Tchernia ha aperto il suo intervento in questo VIII Ciclo di

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André Tchernia ha aperto il suo intervento in questo VIII Ciclo di
ANFORE
E ARCHEOLOGIA SUBACQUEA
André Tchernia ha aperto il suo intervento in questo VIII Ciclo di lezioni sulla Ricerca Applicata in Campo Archeologico dedicato all’“Archeologia
Subacquea” con un’affermazione solo apparentemente provocatoria: ai fini
della ricostruzione della storia economica del mondo antico le informazioni
che provengono dalle ricerche subacquee rappresentano uno dei tanti elementi che concorrono alla definizione delle tematiche relative alla produttività e al commercio antico. I ritrovamenti sottomarini hanno infatti la stessa
valenza di quelli terresti, benché siano diversi il “mezzo” che li ha conservati
e le tecniche di recupero e di registrazione dei dati. Aggiungo da parte mia
che i contesti di provenienza non influiscono sulle metodologie di approccio
allo studio dei materiali, i quali, ovunque rinvenuti, per diventare “fonte”,
devono essere correttamente raccolti e criticamente esaminati.
Da questo punto di vista l’archeologia subacquea ha accumulato un
certo ritardo rispetto ad altre aree di ricerca, soprattutto a causa del carattere
sportivo ed amatoriale dell’attività sul campo che ha talvolta prevalso sull’aspetto scientifico della ricognizione e dello scavo con conseguente perdita
dell’oggetto dello studio sia a fini specifici, sia per settori di indagine più
ampi. È sufficiente a questo proposito sfogliare il libro di A.J. Parker (1992):
degli oltre mille e duecento relitti schedati da questo autore meno di un
centinaio appaiono scientificamente studiati. Se è vero che «il Mediterraneo
è uno straordinario museo involontario della cultura materiale europea»
(SCHIAVONE 1996, p. 96), occorre premunirsi, affinché la perdita di informazioni e di evidenze, che comunque accompagna qualsiasi scavo archeologico,
sia contenuta entro limiti accettabili.
È stato anche detto che i relitti offrono informazioni qualitativamente e
quantitativamente “diverse” da quelle dei ritrovamenti terrestri. A. Tchernia
ha già indicato alcune di queste peculiarità. Interi settori della ricerca archeologica, quali gli studi sulla tecnologia navale, sulla navigabilità delle acque e sulle rotte, sui metalli (assai frequentemente documentati nei carichi
delle navi sotto forma di lingotti) si basano quasi unicamente sulle evidenze
sottomarine. Inoltre, la conservazione dei resti di materie organiche, possibile quasi esclusivamente in acqua, apre orizzonti insospettabili alle ricerche
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botaniche e faunistiche, o a quelle relative ai processi di selezione e trasformazione delle materie prime attuate dall’uomo. È stato anche sostenuto che
debole o comunque di più difficile definizione, è l’impatto cronologico della
documentazione subacquea rispetto a quella derivante da contesti di altra
natura e formazione, così come scarse, sempre in confronto con questi ultimi, sono le quantità degli oggetti restituiti e la rappresentatività del campione, che, essendo il risultato di una selezione determinata dalla disponibilità
dell’offerta e dalla domanda dei consumatori, non possiede quei requisiti di
“involontarietà”, che caratterizza generalmente i depositi terrestri. Ma i carichi delle navi naufragate offrono anche altri elementi “esclusivi”, che giustificano l’interesse con cui archeologi e storici guardano a questo tipo di documentazione. Ne cito a mia volta alcuni, che finora non sono stati menzionati.
1. Contrariamente a quanto avviene nei contesti terrestri (ad eccezione dei
pozzi, delle tombe, delle stipi), il materiale dei relitti si preserva in gran parte
intero o ricostruibile, con conseguente ricaduta conoscitiva sulla tipologia
delle singole classi documentate, cioè sul principale strumento di cui disponiamo per l’individuazione dei centri di origine degli oggetti stessi. E la conoscenza delle aree produttive costituisce a sua volta un dato assai rilevante
ai fini della ricostruzione della storia economica. Completezza e integrità dei
reperti comportano, per quanto riguarda ad esempio le anfore commerciali,
che sono gli oggetti normalmente utilizzati nel mondo antico per il trasporto
transmarino delle derrate liquide e semiliquide, anche la conservazione di
alcuni accessori, quali i tappi in sughero sigillati da copritappi in pozzolana
con il loro apparato di iscrizioni (per il quale v. HESNARD, GIANFROTTA 1989 e
l’aggiornamento in GIANFROTTA 1994) impresso sull’impasto ancora molle, e
le etichette in metallo (talvolta anch’esse iscritte: LEQUÉMENT 1975).
2. La conservazione delle materie organiche, garantita in determinate condizioni dall’acqua, consente di recuperare, sempre in relazione alle anfore o ad
altri grandi contenitori fittili quali i dolia, tituli picti e residui di contenuti,
gli uni e gli altri irrimediabilmente “dissolti” dalle componenti chimiche dei
terreni nelle stratigrafie terrestri. Iscrizioni e merce trasportata forniscono
informazioni preziose sia sulla produttività agricola (olivicoltura, viticoltura)
e conserviera (itticoltura) di intere regioni, sia sul commercio a lunga distanza di beni di prima necessità.
3. I relitti presentano, come qualsiasi altro contesto, associazioni di categorie
e classi diverse di materiali e di tipi diversi all’interno delle classi. Ma, a
differenza di quanto avviene in altri tipi di deposito, si può essere certi che,
indipendentemente dalla cronologia assegnata al naufragio, tutti i materiali
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spettanti ad uno stesso carico sono contemporaneamente prodotti e smerciati e appartengono ad un tempo che non è molto lontano dal momento della
loro fabbricazione, trattandosi di oggetti che non sono stati ancora “consumati”, in quanto non sono riusciti a raggiungere i mercati. Questa certezza
raramente consegue dalle stratigrafie urbane o rurali in quanto il “tempo di
uso” degli oggetti, essendo del tutto casuale, sfugge ad ogni tipo di valutazione. Le associazioni inoltre hanno costituito e costituiscono spie, in qualche
caso incontrovertibili, dell’origine comune di alcune categorie di beni presenti nei relitti.
Cercherò di dar conto di questi tre punti, utilizzando alcuni ritrovamenti sottomarini che nello studio delle anfore da trasporto hanno fatto “storia”. Le mie osservazioni riguarderanno fondamentalmente l’età tardo-repubblicana, in quanto essa è, insieme alla prima età imperiale, l’epoca più
rappresentata all’interno della documentazione conservata (v. le figg. 3-4 di
PARKER 1992). Trattandosi di esempi, ho cercato di scegliere situazioni che
riflettessero una casistica ampia, ma soprattutto che mostrassero le interazioni esistenti tra i vari tipi di dati forniti dalla ricerca (morfologia delle anfore,
derrate trasportate, associazioni tra tipi di anfore e merci, iscrizioni).
I relitti del Grand Congloué: l’inizio degli studi delle anfore
repubblicane
Partendo dai relitti indagati agli inizi degli anni Cinquanta, F. Benoit e
N. Lamboglia tentarono per primi di organizzare una tipologia delle anfore
spettanti all’età repubblicana, fino a quel momento quasi del tutto assenti
nelle classificazioni correnti, basate essenzialmente o sulla grandi collezioni
di età imperiale di Roma (H. Dressel, CIL XV, 2, tav. II) e di Pompei (R.
Shoene, A. Mau, CIL IV, tavv. I-III), o sui ritrovamenti dei castra del limes
renano-danubiano (primi tra tutti, Haltern e Oberaden: LOESCHCKE 1909; ID.
1942) e della Britannia (Camulodunum: HAWKES, HULL 1947), i cui impianti,
per ragioni di storia politica e militare, non sono anteriori all’età augustea. Al
primo dei due studiosi (BENOIT 1954, pp. 40-41 e fig. 2; ID. 1957) va il merito sia di aver “scoperto” le anfore greco-italiche (presenti nel relitto del Grand
Congloué 1 presso Marsiglia e denominate “Repubblicana 1”), intuendo il
legame, riproposto anche attraverso il nome, che le più antiche produzioni
italiche intrattenevano con i contenitori da trasporto del mondo greco,
egemoni fino al IV secolo a.C. nel Mediterraneo, sia di aver cominciato a
distinguere all’interno di esse le tappe di un’evoluzione morfologica che dai
tipi più antichi, di IV e III secolo appunto, avrebbe portato alla nascita della
più nota anfora romana di età repubblicana, la Dressel 1 (BENOIT 1961, pp.
36-41). Benché il progresso delle conoscenze di questi ultimi anni abbia fatto
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emergere la necessità di fare ordine all’interno di questa famiglia che raccoglie una serie di contenitori molto eterogenea per origine e per cronologia (si
veda per tutti MANACORDA 1986, 1989) e benché, per le produzioni mediorepubblicane, sia stata proposta da VAN DER MERSCH 1995 una mappa dei
centri di origine in Magna Grecia e in Sicilia, non sono stati ancora raggiunti
risultati soddisfacenti, soprattutto in relazione alla tipologia. La situazione
degli studi (ai contributi già citati si aggiunga quello di LYDING WILL 1982)
consente tuttavia di tenere distinti i tipi più antichi, che fanno capo appunto
all’Italia meridionale e alla Sicilia, cioè ad ambienti ancora estranei all’Italia
romanizzata (le c.d. greco-italiche “antiche” secondo la definizione di D.
Manacorda), da quelli più recenti (le c.d. greco-italiche “tarde”) che fanno la
loro comparsa a partire dalla seconda guerra punica (ultimo quarto del III
secolo a.C.) e che sembrano aver avuto in Campania uno dei loro principali
centri produttori (Figg. 1-3). In essi è possibile riconoscere il primo contenitore da trasporto “romano”, se con questo termine si fa riferimento ad oggetti provenienti da regioni sottoposte al controllo politico, militare ed economico di Roma, ed è tra di essi che vanno collocati gli esemplari del più
antico dei due carichi del Grand Congloué, studiati da F. Benoit (1961 =
PARKER 1992, n. 472). Su questo importante contesto avremo modo di ritornare.
N. Lamboglia e la tipologia delle anfore Dressel 1
La nascita dell’archeologia subacquea in Italia è, come è noto, legata al
nome di N. Lamboglia e all’Istituto di Studi Liguri da lui fondato; ma anche
lo studio delle anfore repubblicane deve molto a questo studioso. Egli tentò
per primo, integrando i dati dei relitti, che restituivano esemplari interi, con
quelli delle stratigrafie dello scavo di Albintimilium, i quali, benché frammentari, fornivano il sostegno di precise datazioni, di delineare una suddivisione tipologica dell’anfora Dressel 1 (tipi A, B, C; Figg. 4-6) e un’interpretazione in termini cronologici dei tipi individuati (LAMBOGLIA 1955): più antica
la Dressel 1A, più tarde la Dressel 1B e la Dressel 1C. La tipologia ha resistito
al tempo e continua ad essere utilizzata. Ciò che non ha retto invece di fronte
al progresso degli studi è stata la presunzione che questi tre tipi corrispondessero a diversi orizzonti cronologici, che vi fosse, cioè, una sorta di evoluzione interna che dalla più antica Dressel 1A portasse alle più recenti Dressel
1B e Dressel 1C. Ugualmente è risultata erronea la datazione iniziale delle
Dressel 1, fissata agli inizi del II secolo a.C. sulla base del relitto già menzionato del Grand Congloué, che mal interpretato, conservava invece testimonianza di due carichi sovrapposti, il più antico dei quali era costituito dalle
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Fig. 1 – Relitto della Secca di Capistello (Lipari): 300-280 a.C. Anfora greco italica “antica”
(tipo Van der Mersch V = Will 1a) (da BLANCK 1978, p. 98, fig. 3). Scala 1:10
Fig. 2 – Relitto del Grand-Congloué 1 (Marseille, Bouches-du-Rhône): 190-180 a.C. Anfora
greco-italica “tarda” (tipo Will 1d) (da BENOIT 1961, tav. II, 2). Scala 1:10
Fig. 3 – Relitto della Chrétienne C (Saint-Raphaël, Var): 175-150 a.C. Anfora greco-italica
“tarda” (da JONCHERAY 1975, p. 80, fig. 34). Scala 1:10.
greco-italiche “tarde” (Grand Congloué 1, degli inizi del II secolo a.C.: 190180 a.C. secondo LONG 1987, p. 164) (cfr. Fig. 2), il più recente dalle Dressel
1A con bollo SES/SEST (Grand Congloué 2, della fine del II / inizi del I
secolo a. C.: PARKER 1992, n. 473; 110-80 a.C. secondo LONG 1987, p. 166)
(cfr. Fig. 8). Di fatto oggi è comunemente accettato che le greco-italiche
“tarde” abbiano costituito il prototipo delle Dressel 1, che una parte delle
officine dell’Italia tirrenica (dalla Campania all’Etruria) che avevano prodotto le prime, abbiano adottato intorno al terzo quarto del II secolo a.C. il
nuovo modello, attribuibile sicuramente alla Dressel 1A, che resta quindi,
all’interno di questi contenitori, il tipo più antico. La produzione delle Dressel
1B e delle Dressel 1C, di poco successiva, non interruppe la produzione della
Dressel 1A, che continuò ad essere fabbricata insieme agli altri due tipi, talvolta negli stessi impianti (bolli SES su Dressel 1A e Dressel 1C, v. oltre), fino
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Fig. 4 – Relitto di Cavalière A (Var): 100 a.C. ca. Anfora Dressel 1A (da CHARLIN et al. 1978,
fig. 11, 1). Scala 1:10.
Fig. 5 – Relitto della Madrague de Giens (Var): 70-50 a.C. Anfora Dressel 1B, serie 3 (da
TCHERNIA et al. 1978, tav. XIV, 3). Scala 1:10.
Fig. 6 – Relitto di Cavalière A (Var): 100 a.C. ca. Anfora Dressel 1C (da CHARLIN et al. 1978,
fig. 11, 3). Scala 1.10.
alla prima metà del I secolo a. C. (HESNARD et al. 1989, con bibliografia). A
questo proposito, oltre ai dati dei centri produttori, un contributo fondamentale è venuto proprio dai relitti ove i tre tipi, variamente incrociati, compaiono assai spesso in associazione: ad es. Dressel 1A e Dressel 1C (El Golfet
a N di Cap de Creus in Spagna: PARKER 1992, n. 458; Grand-Ribaud A (Hyères,
Var): PARKER 1992, n. 476; Cavalière A (Var): PARKER 1992, n. 282; qui Figg.
4, 6), Dressel 1B e Dressel 1C (Ponza, Secca dei mattoni: PARKER 1992, n.
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1060), Dressel 1A come carico principale e Dressel 1B e 1C come anfore di
bordo (Cap de l’Estérel = PARKER 1992, n. 393), garantendo a partire da un
certo momento (e fino ad un certo momento) la loro sostanziale contemporaneità.
Le anfore di Sestius
Benchè di così controversa interpretazione, non si può tuttavia non
tener conto del contributo che le due navi naufragate al Grand Congloué
hanno fornito non solo alla storia degli studi delle anfore dell’età repubblicana di cui si appena parlato, ma anche a quelli relativi alla storia economica di
questa età. In particolare le anfore bollate SES/SEST (Fig. 8), che costituivano il più tardo dei due carichi, hanno inaugurato una serie di ricerche volte a
far luce sul personaggio menzionato dai marchi e a localizzare gli impianti da
cui i contenitori provenivano (LYDING WILL 1956; EAD. 1979; MANACORDA
1981). Tali ricerche hanno coinciso con lo sviluppo delle tematiche che hanno caratterizzato interi settori di studio degli anni Settanta: l’individuazione
degli interessi economici dell’aristocrazia urbana nella commercializzazione
dei prodotti agricoli (nel caso specifico vino) (D’ARMS 1981) e la definizione
del modello produttivo che giustificasse nell’Italia centrale tirrenica la nascita di un’agricoltura intensiva che si dimostrava, anche sulla base dei tanti
relitti di Dressel 1 distribuiti sulle coste del Mediterraneo occidentale, capace di produrre, oltre che per l’autoconsumo, per un mercato, divenuto dopo
la caduta di Cartagine e la presa di Corinto del 146 a.C., mediterraneo. Tale
modello produttivo è stato identificato con il modo di produzione schiavistico
e con il sistema della villa (per tutti, CARANDINI 1989 con bibliografia precedente).
Il personaggio, il cui nome è impresso, insieme a svariati simboli, sulle
anfore del Grand Congloué 2, è stato identificato o con L. Sestius, tribuno
della plebe tra il 100 e il 90 a.C., che decise di abbandonare la vita pubblica
per dedicarsi ad altre attività evidentemente più redditizie, o con suo figlio,
P. Sestius, un uomo politico di spicco della metà del I secolo a.C., noto dalla
Pro Sestio e dall’epistolario ciceroniano (l’albero genealogico della famiglia è
in MANACORDA 1985a, p. 102). Di questo personaggio sono conosciuti i contatti con l’ager Cosanus e con la Gallia e con Marsiglia in particolare. Cronologie relative a ritrovamenti recenti rendono tuttavia più probabile l’attribuzione a L. Sestius della produzione bollata ed una datazione di quest’ultima,
in accordo con quella del Grand Congloué 2 tra la fine del II e i primi decenni del I secolo a.C. (v. sopra). In ogni caso la diffusione, soprattutto in Gallia,
delle anfore con questo bollo (CIL I2, 3538) non oltrepassa la metà di quest’ultimo secolo (Fig. 9). Gli scarichi nel porto di Cosa rendono infine sicura
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7b
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Fig. 7a-b – Relitto di Skerki Bank (acque internazionali a N della Sicilia): fine III - prima metà
del II secolo a.C. Anfora greco-italica “tarda” (tipo Will 1d) con bollo SES (da FREED 1994,
fig. 43). Scala 1:10; bollo a scala 1:1.
Fig. 8a-b – Relitto del Grand-Congloué 2 (Marseille, Bouches-du-Rhône): 110-80 a.C. Anfora
Dressel 1A con bollo SES (da LAMBOGLIA 1955, p. 247, fig. 3). Scala 1:10; bollo a scala 1:1.
la loro provenienza dall’ager Cosanus (LYDING WILL 1987). Alla gens, come è
noto, potrebbe appartenere anche la villa del poggio di Settefinestre. Nel
relitto infine le anfore di Sestius risultano associate al marchio su tappo
L.TITI.C.F. (HESNARD, GIANFROTTA 1989, p. 427, n. 36; CIL I2, 3541), che
restituisce il nome del mercator che stava trasferendo in Gallia il vino acquistato nel Cosano. La gens Titia è troppo diffusa in Italia perché si possa tentare una identificazione di questo personaggio. Un riscontro nell’epigrafia
della presenza di questa famiglia a Cosa è tuttavia nell’opera evergetica di
una Titia L. f. (CIL XI, 2630 = CIL I2, 1994).
A proposito dei Sestii, è necessario menzionare un recente ritrovamento subacqueo che ha riaperto una serie di problemi che si ritenevano definitivamente risolti. A Skerki Bank, nelle acque internazionali a NO della Sicilia,
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sono state recuperate tre anfore greco-italiche “tarde” (attribuite al tipo Will
1d), che appartengono sicuramente ad un unico relitto (FREED 1994, pp. 6467), e che possono essere datate, sulla base della tipologia, alla fine del III /
prima metà del II secolo a.C. (per J. Freed, secondo quarto del II secolo
a.C.). Su una di essa figura un marchio SES + tridente (FREED 1994, loc. cit.,
figg. 43, 47), che tende a spostare gli inizi della produzione anforaria di
questa famiglia in un’epoca nella quale non disponiamo di membri della gens
prosopograficamente noti (Fig. 7). Occorre aggiungere che questo nuovo
dato sembra dar ragione a E. Lyding Will, che, sulla base di indizi che erano
stati ritenuti finora assai fragili (un bollo frammentario su greco-italica
dall’oppidum di Pech-Maho vicino Narbona, e un graffito M.SE su un frammento di anfora da Cosa), aveva supposto che la fabbricazione di anfore
bollate SES potesse essere più antica, e l’aveva ipoteticamente ricollegata,
riprendendo un’idea di F. Benoit, ad un M. Sestius di Fregellae, noto a Delo
nel 190 a.C. (IG XI, 4, 757). Tale identificazione non può essere provata e
sembra per il momento da accantonare anche perché i membri conosciuti
della gens Sestia portano alternati i prenomi Publius e Lucius. È tuttavia sconcertante la coincidenza tra la datazione dell’iscrizione di Delo e quella che
possiamo avanzare, sulla base della morfologia del contenitore, per l’anfora
di Skerki Bank. Che poi il bollo impresso su quest’ultima possa essere avvicinato ai marchi SES/SEST degli inizi del I secolo a.C. (se non già della fine del
II secolo a.C. sulla base del termine cronologico più alto assegnato al carico
del Grand Congloué 2: 110 a.C.), è operazione che ci sembra corretta, anche
e soprattutto per la presenza del simbolo (un tridente) che lo accompagna.
Questa caratteristica, assai rara nell’epigrafia anforaria di età romana, ma
ben documentate sulle anfore greche di età ellenistica, è la norma nella serie
dei bolli SES/SEST più recente, benché questi ultimi figurino sempre sull’orlo (non alla base dell’ansa, come avviene nell’esemplare di Skerki Bank) e
benché il tridente sia disegnato diversamente. Se questa scoperta consente di
retrodatare l’inizio dell’attività economica dei Sestii, fermo restando che essa
raggiunge l’apice nella prima metà del I secolo a.C., non offre elementi certi
sulla zona di origine della produzione più antica. Finora si era ritenuto, partendo essenzialmente dal materiale anforario e dalle pochissime altre fonti
disponibili, che la gens si era insediata a Cosa forse a partire dall’età sillana.
Questa ipotesi può anche cogliere nel vero, ma in tal caso dovremmo cercare
altrove le officine da cui provengono le greco-italiche di Skerki Bank. Il che
sembra poco probabile per due ordini di ragioni: le caratteristiche macroscopiche dell’impasto avvicinano, a detta di chi ha pubblicato il ritrovamento,
questo esemplare alle assai più note anfore di Sestius; una produzione nel
Portus Cosanus di greco-italiche simili a quelle recuperate nelle acque a NO
della Sicilia (tipo Will 1d) sembra suffragata dalle quantità di vasi analoghi
rinvenuti nelle indagini effettuate dalle missioni americane che in questi anni
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hanno scavato sia a Cosa che nel suo porto (LYDING WILL 1987). Le grecoitaliche del tipo Will 1d sono in ambedue questi siti inferiori di numero solo
alle sicuramente locali Dressel 1A, molte delle quali bollate SES. Con queste
ultime condividono le caratteristiche mineralogiche e petrografiche dell’impasto (COZZUPOLI, TRIGILA 1987, e DE BOER 1987). E. Lyding Will si spinge,
nella pubblicazione di questo materiale, ancora oltre, attribuendo al Portus
Cosanus l’origine di un’altra greco-italica a suo avviso leggermente più antica (tipo Will 1b) che ella farebbe risalire, sulla base del bollo frammentario []ES di Pech-Maho (250-200 a.C.), alla fine del III secolo a.C., radicando in
tal modo l’attività dell’officina dei Sestii già da quest’epoca nell’ager cosanus.
È stato sostenuto che il tipo Will 1b non esiste, in quanto l’esemplare di PechMaho è il risultato di un cattivo restauro, e che il bollo a cui la studiosa
americana fa riferimento è di assai incerta lettura (EMPEREUR, HESNARD 1987,
p. 25). Le obiezioni hanno solido fondamento, ma è anche vero che il ritrovamento di Skerki Bank impone una rinnovata riflessione senza pregiudizi
sullo sviluppo in Etruria tra media e tarda repubblica di una produzione
vinaria destinata a mercati lontani, che già sembrava di poter assegnare al III
secolo a.C. sulla base della frequenza di greco-italiche “antiche” (tipo Will
1a) nella regione (oltre che a Cosa, a Orbetello, Populonia, Pyrgi, Vulci, Viterbo, Sovana, Orvieto: TCHERNIA 1986, p. 48). Le anfore di Skerki Bank
potrebbero costituire perciò l’anello mancante (la fase cioè di fine III / prima
metà del II secolo) tra la fase di pieno III secolo a.C., documentata dagli
esemplari di greco-italica “antica” appena citati – che per altro era stata finora, come si è detto, soltanto supposta – e quella di fine II / prima metà del I
secolo a.C., ricollegabile alle Dressel 1A con i bolli SES/SEST del Grand
Congloué 2, così come potrebbero gettare nuova luce sulla fortune di una
famiglia che ebbe un certo rilievo a Roma sul finire dell’età repubblicana. Un
altro dato di estremo interesse è che la nave naufragata a NO della Sicilia
sembrerebbe rimandare ad una rotta commerciale verso l’Africa, che non
appare finora frequentata dalle anfore di Sestius più recenti.
Il relitto della Madrague de Giens (Var) e le anfore di P. Veveius Papus
La classificazione delle Dressel 1B (cfr. Fig. 5) del relitto della Madrague
de Giens (TCHERNIA et al. 1978 = PARKER 1992, n. 616), databile agli anni 7050 a.C. circa, non avrebbe potuto essere stata effettuata in un contesto diverso da quello sottomarino. Si trattava di gestire un migliaio di pezzi, per un
terzo interi, riportabili a circa seicento anfore, appartenenti tutti ad una medesima forma. Va ai colleghi che hanno lavorato a questo progetto il merito di aver operato una scelta degli elementi da registrare e un trattamento
dei dati che si sono rivelati idonei alle finalità dello studio. L’analisi delle
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relazioni tra i tipi individuati e il corredo epigrafico presente su quasi tutti gli
esemplari (bolli, graffiti, contrassegni sui tappi) non ha solo costituito un’ulteriore verifica (e conferma) delle tre serie stabilite sulla base dei dati morfologici e metrologici, ma ha anche consentito di porre alcuni interrogativi
sull’organizzazione sia del lavoro delle officine che avevano lavorato per
quest’ultimo viaggio, sia sulle diverse (?) qualità di vino invasato in vista
della sua commercializzazione, riflessi in diversa misura nei messaggi affidati
ora alla forma degli oggetti, ora al loro apparato di iscrizioni. Al di là delle
questioni interpretative che rimangono, come di consueto, aperte, resta il
dato di fatto che l’operazione di recupero, lo studio e l’edizione del relitto
hanno avuto importanti ricadute conoscitive sia in termini di storia commerciale (provenienza e destinazione del carico: dall’ager Caecubus ai mercati
gallici) che di storia produttiva. Dei tre tipi individuati due provengono infatti dalla stessa officina, localizzabile – questa volta per merito dell’archeologia terrestre – a Canneto presso Fondi nell’immediato entroterra di Terracina (HESNARD, LEMOINE 1981) di proprietà di P. Veveius Papus il cui nome,
insieme a quello dei suoi schiavi, ci è tramandato dall’epigrafia anforaria.
I relitti di Santa Severa e del Dramont A
Come è accaduto per il relitto del Grand Congloué 2 con le anfore
timbrate da Sestius, altri carichi naufragati hanno consentito di arricchire il
panorama dei personaggi appartenenti al ceto dirigente urbano implicato in
attività agricole e manifatturiere redditizie. Citiamo solo il caso delle Dressel
1B delle navi di Santa Severa sulle coste laziali a N di Roma (GIANFROTTA
1982, pp. 75-77 = PARKER 1992, n. 1035) e del Dramont A presso SaintRaphaël (Var) (LIOU, POMEY 1985, p. 569 = PARKER 1992, n. 371) con il bollo
^
L.LENTV.P.F, riferibile forse a L. Cornelius P. f. Lentulus Crus, console del
49 a.C., a sua volta ipoteticamente identificato con il Lentulo proprietario di
navi ricordato da Cicerone (COARELLI 1983, pp. 45-46, 52-53), dai cui praedia
minturnesi i contenitori potrebbero provenire, e con il bollo SVL associato a
diversi nomi servili, per il quale sono stati proposti una lettura Sul(picius) e,
in via del tutto ipotetica, un collegamento del personaggio con i Sulpicii Galbae
ben attestati a Terracina (MANACORDA 1989, p. 454, nota 42). Nel carico del
relitto di Dramont A sono inoltre documentate le anfore timbrate da un (non
altrimenti noto) Fab(ius) con i suoi servi, assenti a S. Severa, e una Dressel 1B
con bollo DEM, che potrebbe trovare confronto con un analogo marchio
presente nel relitto già citato di Giens su un contenitore attribuito all’officina
di S. Anastasia presso Fondi. Quest’ultimo dato, insieme al sospetto di una
provenienza da Terracina dei contenitori con il bollo SVL, consente di configurare scenari diversi rispetto alla supposta origine comune da Minturno
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delle anfore dei relitti di Santa Severa e di Dramont A (GIANFROTTA 1982). Le
due navi, ad esempio, potrebbero aver completato il carico nel corso della
loro navigazione lungo le coste tirreniche, o potrebbero essersi rifornite in
uno stesso porto-emporio (nel caso specifico forse Terracina), che funzionava come punto di appoggio di beni di diversa provenienza in vista di una
successiva ridistribuzione ai mercati (sull’esistenza di questo tipo di porti in
più punti del Mediterraneo si vedano le osservazioni di BOST et al. 1992, pp.
200-201 a proposito del relitto della metà del III secolo di Cabrera III a
Maiorca). Non esistono invece dubbi sulla destinazione finale della merce
trasportata: a fronte delle poche attestazioni in Italia (S. Severa, Roma), vi
sono i numerosi ritrovamenti sia lungo le coste della Narbonese, sia nella
Gallia interna, i quali garantiscono che i mercati preferenziali del vino contenuto nelle anfore bollate L.LENTVPF e SVL erano quelli gallici (Fig. 10),
come era accaduto una generazione prima alle anfore di Sestius (carte di
diffusione in TCHERNIA 1986, pp. 401- 402, carte 6-7; qui Figg. 9-10). È
possibile infine immaginare che Lentulo sia, oltre che il proprietario di una
parte del carico, anche il proprietario della nave naufragata a S. Severa, mentre l’armatore e il commerciante di almeno una parte del carico della nave
del Dramont A, è Sex. Arrius, il cui nome figura sia sull’ancora, sia sui tappi
in pozzolana di alcune anfore restituite dal relitto (HESNARD, GIANFROTTA 1989,
p. 402 e p. 411, n. 6). Un ultimo dato va ricordato per quanto riguarda i
Lentuli. Il nome del console del 49 a.C. è stato con qualche probabilità riconosciuto, insieme a quello di Cornelius Lentulus Spinther, console del 57
^
^
a.C., anche nel marchio ORESTE.LEN TV LO (da leggere Oreste(s)
Lentulo(rum)) su anfore ovoidi prodotte nella fornace di Apani presso Brindisi (da ultimo SILVESTRINI 1996, p. 33, nota 13, con bibliografia precedente),
il cui smercio riguarda, a differenza di quanto accade per le produzioni tirreniche di cui abbiamo finora parlato, prevalentemente l’Oriente greco. E in
relazione a quest’ultimo ambiente sono noti dal corpus ciceroniano gli interessi economici di questi due personaggi, forse fratelli (MANACORDA 1988,
pp. 101-102). Ma la lettura e l’interpretazione di questo bollo di sicura provenienza brindisina, integrate dai marchi su Dressel 1 che sembrano riferirsi
al solo L. Cornelius Lentulus Crus, fanno intravedere l’esistenza di un altro
fenomeno estremamente sfuggente, ma che trova nelle fonti della tarda repubblica qualche appiglio, la dislocazione cioè delle attività produttive di
una stessa famiglia o di uno stesso personaggio su ambedue i versanti della
penisola (quello tirrenico e quello adriatico). Al caso già citato dei Lentuli si
potrebbe aggiungere quello di L. (Cornelius) Silla e P. (Cornelius) Silla, documentato il primo – o meglio il suo liberto Tarula – su anfore di Brindisi
prodotte ad Apani nel Brindisino (MANACORDA 1989, p. 458), il secondo (identificato con il nipote del dittatore) su Dressel 1 e Dressel 2-4, quasi certamente prodotte in area campana (MANACORDA 1989, p. 451, ZEVI 1995, p. 16). Ci
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Fig. 9 – La distribuzione delle anfore di Sestius (da TCHERNIA 1896, p. 401, carta 6).
Fig. 10 – Diffusione dei bolli del relitto di S. Severa e del Dramont A su Dressel 1B (indicati
con il pallino) e dei bolli di Malleolus su Lamboglia 2 (relitto di Planier 3) (indicati con il
triangolo) (da TCHERNIA 1986, p. 402, carta 7).
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si potrebbe chiedere a questo riguardo se, piuttosto che provenire tutti dalla
stessa officina dell’ager Caecubus, come oggi si tende a credere, non riflettano un caso analogo (MANACORDA 1994, pp. 35-38) i bolli di Veveius Papus,
proprietario dell’officina di Canneto presso Fondi, le cui Dressel 1B costituivano il grosso del carico del relitto già citato della Madrague de Giens, ma
che timbra anche anfore ovoidi ad imitazione del tipo “di Brindisi”, come
attestano gli esemplari rinvenuti ad Alessandria d’Egitto (EMPEREUR, HESNARD
1987, p. 35) e a Sala in Marocco (BOUBE 1985-86, pp. 401-404).
Le anfore Lamboglia 2
Un altro contenitore italico di età repubblicana deve la sua “scoperta”
all’archeologia subacquea e a N. Lamboglia. Tra i materiali del relitto di Albenga egli individuò, accanto alle Dressel 1B, un’anfora più bassa e panciuta,
che chiamò “olearia di Albenga” (LAMBOGLIA 1952 = PARKER 1992, n. 28): ad
essa assegnò, nella classificazione delle anfore di età repubblicana, il numero
2 (Fig. 13), una cronologia tra la fine del II e la metà del I a.C. sulla base delle
attestazioni negli oppida iberici di Numantia e di Azaila e delle stratigrafie di
Albintimilium (LAMBOGLIA 1955, p. 262), ed un contenuto ipoteticamente
oleario sulla base della presunzione che ad una diversa morfologia di recipienti dovesse corrispondere una merce differente. Essendo nella nave di
Albenga il vino sicuramente trasportato nelle Dressel 1, l’olio diventava un
possibile candidato per questo secondo tipo di anfora. La scarsa quantità di
esemplari documentati nel relitto faceva presumere, tra l’altro, che essi non
costituissero parte del carico, ma che fossero da considerare anfore di bordo.
I dati disponibili intorno alla provenienza, al contenuto e alla cronologia
delle Lamboglia 2 sono oggi abbastanza più numerosi e consentono di delineare un quadro complesso, benché ancora assai problematico, della sua nascita e del suo successo commerciale. Si ritiene infatti che esse, pur muovendosi, come la Dressel 1, nella tradizione morfologica inaugurata dalle grecoitaliche, si svilupparono in un ambiente diverso da quello tirrenico. All’origine, cioè, delle Dressel 1 e delle Lamboglia 2, ci sarebbe il modello costituito
dalla greco-italica “tarda”: da questo recipiente nel terzo quarto del II secolo
a.C. sarebbero derivate sulle coste della Campania, del Lazio e dell’Etruria le
prime, sul versante adriatico le seconde (Fig. 11). La sostituzione dovrebbe
essere stata graduale e il processo di trasformazione dovrebbe essersi concluso nello spazio di qualche decennio, come sembrano dimostrare alcuni ritrovamenti nei centri produttori sia della costa tirrenica che del versante adriatico (fabbricazione di greco-italiche e Dressel 1 ad Albinia e nel porto di
Cosa: HESNARD et al. 1989, pp. 21-24; anfore di transizione tra greco-italiche
e Lamboglia 2 ad Apani e Giancola nel Brindisino: PALAZZO 1989, tipo I: Fig.
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11
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Fig. 11 – Relitto di Cavalière A (Var): 100 a.C. ca. Anfora Lamboglia 2/greco-italica (da
CHARLIN et al. 1978, fig. 11, 5). Scala 1:10.
Fig. 12 – Anfora simile alla Lamboglia 2 dalle fornaci di Apani (BR), s. d.: tipo Apani I (da
PALAZZO 1989, p. 550, fig. 1, 1). Scala 1:10.
Fig. 13 – Relitto di Albenga (IM): 90-80 a.C. Anfora Lamboglia 2 (da LAMBOGLIA 1955, p.
262, fig. 17). Scala 1:10.
12). Piuttosto che ad una provenienza da un’area esclusivamente apula fino
qualche anno fa comunemente accettata (il tipo è infatti anche noto con il
nome di “anfora apula”: BALDACCI 1967-68; ID. 1972), si preferisce oggi pensare che un’ampia fascia di territorio compreso tra la Calabria e il Piceno
fino alla Venetia sia stata interessata dalla fabbricazione delle Lamboglia 2
(CIPRIANO, CARRE 1989, pp. 80-85). Non si esclude tuttavia che vi siano state
imitazioni anche sull’altro versante della penisola, suggerite dalla presenza di
alcuni esemplari recuperati nel relitto della Madrague de Giens con impasti
di tipo “vesuviano” (EMPEREUR, HESNARD 1987, p. 33 e nota 190) e dalla
notizia (che va verificata) di una fornace che avrebbe prodotto anfore di
questa forma a Montelupo Fiorentino (BRUNO 1995, p. 90). Il fenomeno produttivo a cui queste situazioni sembrano far riferimento appare tuttavia di
portata non definibile. Per quanto attiene infine alla merce trasportata, è
stato ancora una volta un rinvenimento sottomarino, quello già citato della
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14b
15
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Fig. 14 – Relitto delle Tre Senghe (isole Tremiti, FG): 30 a.C. Anfora Lamboglia 2/Dressel 6A
con bollo M.FVS (da VOLPE 1989, p. 557, fig. 2). Scala 1:10; bollo a scala 1:2.
Fig. 15 – Padova, s.d. Anfora Lamboglia 2 /Dressel 6A (da PESAVENTO MATTIOLI 1992, p. 121,
tav. 12, n. 140). Scala 1:10.
Madrague de Giens, a consentire di proporre, per queste anfore, un contenuto vinario, sulla base delle analisi chimiche condotte su uno degli esemplari
recuperati. Una conferma proviene dalla presenza di pece – di una materia
cioè che appare incompatibile con l’olio – sulle pareti interne degli esemplari
di numerosi relitti, tra gli altri quelli di Cavalière A (Le Lavandau, Var)
(CHARLIN et al. 1978 = PARKER 1992, n. 282) (Fig. 11), di Cap Roux (JONCHERAY
1974 = PARKER 1992, n. 197), di Punta de Algas presso Cartagena (MAS
1969-70 = PARKER 1992, n. 919), di Ponza in località Secca dei mattoni (GALLI 1993 = PARKER 1992, n. 1060), ma l’ipotesi che la Lamboglia 2 possa aver
trasportato olio continua ad essere prospettata anche in studi recenti, senza
tuttavia il sostegno di prove archeologiche certe (LYDING WILL 1989, p. 305).
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Carichi misti e rotte
Si è riscontrato inoltre che in Occidente, a parte pochissimi relitti (quello
di Sa Nau Perduda presso Cabo Bagur, a Gerona: FOERSTER, PASCUAL 1970 =
PARKER 1992, n. 728, e quello già citato di Punta de Algas), sono in genere le
Dressel 1 a costituire in età repubblicanala parte principale del carico (relitti
di Cap Roux, di Cavalière A, di Ponza, di Colonia Sant Jordi a Maiorca:
CERDÁ JUÁN 1980 = PARKER 1992, n. 326). Altrettanto frequentemente, all’interno dei carichi con quest’ultimo tipo di contenitori, le Lamboglia 2,
essendo limitate a poche unità, sono state interpretate come anfore di bordo:
nei relitti già citati di Albenga, della Madrague de Giens, di Dramont A e in
quelli della Chrétienne A (Saint-Raphaël, Var): BENOIT 1956, p. 30 e p. 25,
fig. 2, 18 = PARKER 1992, n. 302; di Les Negres presso Capo Bagur, Gerona:
BELTRÁN LLORIS 1970, p. 352 = PARKER 1992, n. 731. Nel relitto della
Chrétienne A, l’unica Lamboglia 2 recuperata era riempita di pozzolana, evidentemente utilizzata al momento dell’ imbarco per sigillare le Dressel 1A
che costituivano il carico della nave (HESNARD, GIANFROTTA 1989, p. 398 e p.
417, n. 16; per inciso, sui tappi in pozzolana di queste anfore compare il
bollo in alfabeto osco di M. e C. Lassii da identificare con proprietari del
carico, già da tempo riconosciuti come appartenenti ad una nota famiglia
pompeiana: HEURGON 1952). Nei casi di carichi misti di Dressel 1 e di
Lamboglia 2 è assai difficile avanzare ipotesi sui porti di imbarco: la presenza
delle Lamboglia 2 non può necessariamente significare che le navi provenissero dall’Adriatico e avessero poi fatto scalo sulle coste tirreniche per imbarcare le Dressel 1. Appare sempre più chiaro con il procedere degli studi che
dovevano esistere, come abbiamo già detto, dei porti che fungevano da luoghi di ridistribuzione delle merci delle più svariate provenienze. Forse solo
per la nave di Ponza si potrebbe pensare ad un tragitto che abbia toccato il
basso Adriatico, a causa sia della presenza nello strato inferiore della stiva di
anfore ovoidi del tipo di Brindisi, sia dei rapporti intrattenuti con l’Oriente
dal mercator che timbra le anfore del relitto, un A. Saufeius, membro di una
importante famiglia centro-italica, noto a Delo e a Minturno agli inizi del I
secolo a.C., in accordo quindi con la datazione attribuita al relitto (per la
bibliografia sul personaggio si rimanda alla sintesi di GIANFROTTA 1994, pp.
594-596). Gli editori del relitto di Cabrera III a Maiorca mettono tuttavia in
guardia dall’applicare semplicisticamente ai trasporti misti – i quali per altro
sono assai frequenti, soprattutto in età tardoantica – la teoria del cabotaggio
e dell’imbarco di merci nel corso di scali successivi (BOST et al. 1992, p. 200).
Essi fanno notare che i carichi sono abitualmente molto ben costituiti onde
evitare rotture e squilibri delle merci trasportate nelle fasi di rollio.
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Il relitto di Planier 3
Riunisce prodotti di diversa provenienza anche un altro relitto, quello
di Planier 3 presso Marsiglia (Bouches-du-Rhône) (TCHERNIA 1968-70 =
PARKER 1992, n. 826), che presenta un carico di Dressel 1B, completato da
alcune Lamboglia 2 timbrate dai servi di L. Malleolus, da alcune anfore ovoidi del tipo “di Brindisi” bollate da M. Tuccius L. f. Galeo e dai coloranti delle
fabbriche campane di C. Vestorius. Questo ritrovamento ha posto una serie
di problemi relativi sia all’ubicazione delle officine a cui appartengono i contenitori con questi marchi, sia all’identificazione dei personaggi menzionati
dai bolli. Si è già detto che la coesistenza di diversi tipi di anfore in una stessa
nave non può far presumere, come è chiaramente dimostrato anche in questo caso dalla presenza di Lamboglia 2 e Dressel 1, l’origine dell’intero carico
da una medesima area produttiva. Per quanto riguarda le Lamboglia 2 bollate dai servi di Malleolo, la forma del recipiente ci porterebbe a supporre che
esse siano state fabbricate in un’officina del versante adriatico della penisola.
A questa stessa zona – più precisamente all’ager Brundisinus o al Salento –
spetterebbero, sulla base della tipologia, le anfore ovoidi di Tuccius Galeo
(Fig. 16), ma in questo caso una serie di ragioni, nessuna al momento risolutiva, ha portato a prospettare l’ipotesi di una loro fabbricazione in officine
campano-laziali (DESY 1989, p. 170 e, in maniera più problematica, CIPRIANO,
CARRE 1989, pp. 74-77; tutta la questione è ora riassunta in MANACORDA
1994, pp. 32-37), confermata dall’esistenza di una produzione di contenitori
di questo tipo ad Astura sulle coste del Lazio meridionale (HESNARD et al.
1989, pp. 24-26) e forse, come abbiamo già detto, a Canneto presso Fondi
(se è da qui che provengono le anfore ovoidi bollate da Veveius Papus). Il M.
Tuccius Galeo in questione sarebbe un senatore originario forse di Perusia,
vissuto intorno alla metà del I secolo a.C., noto dall’epistololario ciceroniano
(la prosopografia del personaggio è in TCHERNIA 1968-70; v. anche NICOLET
1980, p. 894, nota 27). La datazione del relitto, che viene fissata sulla base
della ceramica fine rinvenuta a bordo alla metà circa del I secolo a.C., rende
possibile tale identificazione, così come essa riceve conferma dalla morfologia delle anfore “brindisine” qui documentate con un tipo che appartiene
appunto alla metà del I secolo a.C. (tipo Apani III) (Fig. 17). Ma questa data
rende problematica un’altra identificazione, quella di L. Malleolus, i cui servi
figurano sulle Lamboglia 2, con il (Publicius) Malleolus, famoso per essere
stato condannato come matricida alla poena cullei intorno al 100 a.C. (tale
ipotesi è stata prospettata con cautela da MANACORDA 1985, pp. 146-146; v.
anche MANACORDA 1989, p. 458, nota 54). Se si trattasse di questo personaggio, dovremmo pensare infatti che le Lamboglia 2 abbiano trasportato vino
vecchio di vari decenni, o che, sopravvissute per cinquant’anni, siano state
reimpiegate in occasione di quest’ultimo viaggio. Coerente con la cronologia
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Fig. 16 – Agde (Hérault), s.d. Anfora ovoide del tipo di “Brindisi” con bollo di M. Tuccius
Galeo (da EMPEREUR, HESNARD 1987, p. 69, fig. 40). Scala 1:10.
Fig. 17 – Roma, Museo Nazionale Romano, s. d. Anfora ovoide di Brindisi (tipo Apani III)
(da PALAZZO 1989, p. 550, fig. 1, 3). Scala 1:10.
proposta sarebbe invece l’identificazione di L. Malleolus con il figlio di C.
(Publicius) Malleolus, questore, quest’ultimo, in Cilicia con il propretore Cn.
Dolabella e assassinato nell’80 a.C. (TCHERNIA 1986, p. 118). Infine le Dressel
1, tutte anepigrafi, hanno i tappi in pozzolana timbrati da M. Alfius M. f.
Ung(uentarius) e da M. Ennius C. f. Questi personaggi, se vanno interpretati
come i commercianti che hanno acquistato le anfore per venderle oltremare,
comproverebbero l’esistenza di una pratica menzionata dal Digesto relativa
all’affitto di una stessa nave da parte di più commercianti (HESNARD ,
GIANFROTTA 1989, pp. 403-404).
Lamboglia 2 e mercati
I ritrovamenti terrestri delle Lamboglia 2 in Gallia e in Spagna, pur
essendo enormemente inferiori di numero rispetto a quelli spettanti alle anfore tirreniche, sono meno rari di quanto comunemente si sia portati a pensare (cfr. la carta di diffusione delle anfore bollate da Malleolo e dai suoi
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servi a Fig. 10). Esiste inoltre l’oggettiva difficoltà di distinguere le Lamboglia 2, se ridotte in frammenti (il che avviene quasi sempre nelle stratigrafie
di terra), dalle contemporanee Dressel 1A, con le quali condividono l’articolazione di alcuni elementi morfologici determinanti ai fini dell’identificazione (orlo di profilo triangolare, lunghe anse a bastone). Errori di attribuzione
potrebbero spiegare la modestia delle attestazioni in Gallia, che contrasta
con la relativa quantità di relitti registrati invece sulle sue coste. Per contro in
Spagna, pur sussistendo le stesse difficoltà di classificazione e pur essendo i
carichi di Lamboglia 2 piuttosto pochi (relitti di Punta de Algas, Sant Jordi, e
Sa Nau Perduda già citati), la distribuzione dei ritrovamenti terrestri sembra
dar conto di uno smercio di più ampia portata (sulla diffusione in Occidente
v. TCHERNIA 1986, pp. 68-69). È ovviamente rischioso trarre conclusioni da
queste osservazioni che riflettono lo stato delle ricerche piuttosto che reali
situazioni di rapporti commerciali. Se si dovesse giudicare solo dai relitti,
saremmo portati a ritenere che l’Oriente egeo non sia stato quasi mai interessato dalle esportazione delle Lamboglia 2: la nave naufragata a Taso (PARKER
1992, n. 1147) è l’unica finora registrata in quest’area che avesse un carico di
tali anfore. Eppure i principali mercati di riferimento di queste anfore sono
Delo, Atene, Alessandria, come attestano senza possibilità di dubbio i numerosi esemplari rinvenuti negli scavi o conservati nei musei. Il collegamento
tra il commercio del vino dei territori adriatici e l’altro filone assai redditizio
dell’età tardo-repubblicana, quello degli schiavi, che aveva a Delo il suo centro principale di smistamento, è stato efficacemente prospettato da A. Tchernia
(1986, pp. 70-74). Secondo tale ricostruzione le Lamboglia 2 costituirebbero
i carichi di ritorno delle navi impegnate a trasportare in Italia dall’Egeo schiavi,
marmi e opere d’arte, laddove il vino in esse contenuto costituiva a sua volta
la merce di scambio per i prodotti dell’Oriente e per i contatti commerciali
con il mondo barbarico (Tracia, Cilicia). Una situazione analoga (vino delle
coste adriatiche dell’Italia conto schiavi, bestiame, pelli dell’Illirico) spiegherebbe l’alta concentrazione di relitti costituiti quasi unicamente da Lamboglia
2 lungo le coste della Dalmazia. Le quantità di questi contenitori in mare, ma
anche in terra sono tali che si è pensato ad una loro produzione anche sul
versante orientale dell’Adriatico (in Albania: TARTARI 1982, pp. 240. 246247; in Dalmazia: CAMBI 1989, p. 321; BRUNO 1995, pp. 88-89), ma i riscontri archeologici sono ancora assai incerti, mentre il solo dato numerico non
può fornire indicazioni sicure intorno alla loro origine. D’altro canto, il successo commerciale delle Lamboglia 2 (ma anche delle anfore ovoidi di Brindisi e del tipo “di Brindisi”) sottintende lo sviluppo di un’agricoltura intensiva (viticoltura, olivicoltura) nelle regioni interessate dalla loro produzione
(Calabria, Apulia, Picenum, Aemilia e Venetia), sviluppo che si attua parallelamente a quello del versante tirrenico della penisola. Nell’uno e nell’altro
territorio, lo sfruttamento delle risorse agricole sembra da collegare alla cre550
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azione delle colonie latine e romane che si intensifica, soprattutto per ragioni
militari (ma poi anche per ragioni economiche), nel corso del III e II secolo
a.C. (BRUNO 1995, p. 296 ss.), si basa su modelli produttivi analoghi, è gestito dalle stessi attori (siano essi membri dell’aristocrazia urbana e, in minor
misura, dei ceti dirigenti municipali) e si giova, per l’esportazione delle eccedenze, dell’affermazione di quell’economia mercantile di portata mediterranea, a cui abbiamo già accennato a proposito dello sviluppo della viticoltura
nelle regioni centrali tirreniche.
Il relitto delle Tremiti e gli esiti finali della produzione delle Lamboglia 2
La conoscenza dell’ultima fase produttiva delle Lamboglia 2 deve infine molto alla scoperta di alcuni relitti sulle coste del basso Adriatico. Si tratta
in primo luogo della nave naufragata intorno al 30 a.C. in località Tre Senghe
nelle isole Tremiti (VOLPE 1989; PARKER 1992, n. 1176). Essa ha restituito
esemplari con il bollo M.FVS, morfologicamente vicini alle Dressel 6A, cioè
alle anfore destinate a sostituire tra la fine dell’età repubblicana e la prima
età imperiale le Lamboglia 2 (cfr. Figg. 14-15). Recipienti analoghi compaiono nel Brindisino, nel relitto di Punta della Contessa / Torre Cavallo (PARKER
1992, n. 933) e forse in quello di Punta Patedda (PARKER 1992, n. 950), il cui
carico comprendeva vasi potori a pareti sottili e bicchieri del tipo ACO, ben
databili in età augustea. Essi confermano l’esistenza di un tipo “di transizione” tra queste due forme, mentre alcuni bolli (il più conosciuto è quello del
produttore HOS associato a nomi servili: ZACCARIA 1989, p. 475) assicurano
che alcuni impianti del versante adriatico (uno di questi potrebbe essere quello
di Torre di Palma presso Fermo nel Piceno: BRECCIAROLI TABORELLI 1984) hanno
realizzato negli ultimi decenni del I a.C. ambedue i recipienti. Ci troviamo
perciò di fronte ad un fenomeno per certi versi analogo a quello che aveva
interessato, una generazione prima, le regioni tirreniche, ove la fine della
produzione delle Dressel 1 coincide con l’adozione di un nuovo modello (le
Dressel 2-4), nato ad imitazione delle coeve anfore di Cos. Anche in questo
caso alcuni bolli (quelli, ad esempio, di P. Veveius Papus e di P. Sulla) attestano che la “riconversione” è avvenuta talvolta in officine già impegnate nella
fabbricazione di Dressel 1. Le logiche che presiedono a questi cambiamenti
morfologici sono tuttavia difficilmente interpretabili. Per le Dressel 2-4 si è
pensato a ragioni di carattere utilitario, dal momento che queste anfore, a
parità di contenuto, risultano più leggere e maneggevoli delle Dressel 1, hanno cioè i vantaggi della tenuitas riconosciuta da Plinio come una qualità proprio delle anfore di Cos da cui esse derivano (PLIN., NH, 35.161: su questo
passo hanno richiamato l’attenzione TCHERNIA 1986a e ZEVI 1989, pp. 1415). Ma queste stesse ragioni non possono essere invocate per giustificare la
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graduale sostituzione delle Lamboglia 2 con le Dressel 6A. Queste ultime,
essendo più solide e pesanti delle Lamboglia 2, presentano un rapporto contenente/contenuto meno “economico” del loro prototipo. È possibile però
che in questo caso si debba tener conto proprio dei vantaggi offerti dalla loro
firmitas: ad essa allude Plinio nel passo sopra citato riferendosi alle anfore di
Hadria/Atri, che possiamo oggi identificare con un certo margine di sicurezza proprio con le Dressel 6A.
I relitti della Betica della prima età imperiale
Un impressionante intreccio di dati caratterizza alcuni relitti appartenenti ad un altro orizzonte cronologico e produttivo. Assai diversificati per
merci, ma unitari per provenienza, essi si situano tra le testimonianze archeologiche più antiche di una delle correnti commerciali più importanti
dell’alto impero, quella che fa capo alla Betica. Si tratta delle navi di PortVendres II (Pyrenées-orientales) (COLLS et al. 1977 = PARKER 1992, n. 875),
di Sud-Lavezzi 2 (LIOU, DOMERGUE 1990 = PARKER 1992, n. 1118) e di Lavezzi
1 (LIOU, GASSEND 1990 = PARKER 1992, n. 584) in Corsica, datate rispettivamente al 42-48 d.C., al 10-30 d.C. e al 25-50 d.C. Ciò che colpisce in questi
tre contesti è la somiglianza dei materiali trasportati che rimanda ad una loro
sostanziale contemporaneità. In due casi (Sud-Lavezzi 2 e Lavezzi 1) la destinazione era assai probabilmente Roma, secondo una rotta che, oltrepassato
lo stretto di Bonifacio, prevedeva una navigazione in mare aperto fino alle
coste tirreniche. La nave di Port-Vendres II poteva invece essere diretta in
uno dei porti della Narbonese, ove una parte del carico sarebbe stata forse
reimbarcata su battelli per proseguire, seguendo la rete delle acque interne, il
suo viaggio verso i mercati centro-europei, come tende a suggerire la diffusione terrestre dei bolli che figurano sulle anfore del relitto (COLLS et al.
1977, p. 136, fig. 53; qui Fig. 18). Tutte e tre le navi avevano un carico che
comprendeva lingotti (in piombo e/o in rame), anfore olearie (Dressel 20),
una gamma assai diversificata di anfore da garum e da conserve di pesce (tipi
Dressel 7-11, Schoene VII, Beltrán IIA = Dressel 38, Dressel 14), anfore
vinarie o meglio adibite al trasporto di vino cotto (defrutum) e/o di olive
conservate in questa specie di vino (Haltern 70) e qualche esemplare di Dressel
28 (forse anch’essa vinaria). Su tutti questi recipienti un ricco apparato di
segni (iscrizioni dipinte e bolli); all’interno di essi residui di contenuto (resti
di pesce nelle anfore da garum, noccioli di olive in qualche Haltern 70); sulle
pareti interne in alcuni casi (Haltern 70 e Dressel 28) tracce di pece. Tra i
tanti elementi forniti da tale documentazione alcuni vanno segnalati: la sostanziale contemporaneità di produzione e di smercio dei differenti tipi di
anfore da garum presenti in ciascun relitto (tale circostanza tenderebbe a
552
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Fig. 18 – La diffusione e la frequenza in siti terrestri dei bolli su Dressel 20 del relitto di PortVendres II (da COLLS et al. 1977, p. 138, fig. 54).
mostrare che ciascun tipo era “specializzato” per il trasporto di una qualità
di pesce o di una qualità di salsa); la cronologia relativamente alta da assegnare alla Dressel 14, già segnalata, ma con un solo esemplare, nel relitto
leggermente più antico di Lavezzi 3 del primo quarto del I secolo d.C. (CORSI
SCIALLANO, LIOU 1985, p. 144); la certezza dell’esistenza di una produzione
betica (ma con caratteristiche proprie) di anfore a fondo piatto (denominate
Dressel 28), la cui fabbricazione era stata assegnata fino ad allora alla sola
Tarraconese (tipo Oberaden 74); la conferma dell’origine betica delle anfore
note con il nome di Haltern 70, mentre i tituli picti conservati su di esse
menzionano un contenuto collegato ad un vino dolce (defrutum) e/o alle
olive conservate in tale vino (TCHERNIA 1986, pp. 140-142), già noto su anfore di questa stessa forma di Pompei (COLLS et al. 1977, p. 86 ss.); l’acquisizio553
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ne attraverso i bolli impressi sulle Dressel 20 di numerosi nomi di proprietari
di figline della valle del Guadalquivir (in particolare nel relitto di Port-Vendres
II), bolli che, confrontati con quelli dei ritrovamenti terrestri, hanno consentito di ricostruire, relativamente alla metà del I secolo, la mappa dei principali centri importatori dell’olio betico, distribuiti lungo l’asse Rodano-SaonaReno fino alla Britannia, nei centri e nei siti, cioè, ove erano dislocate le
legioni e le truppe ausiliarie (COLLS et al. 1977, p. 136, fig. 53); l’acquisizione, attraverso i tituli picti, dei nomi di numerosi mercatores, uno dei quali
appare “polivalente”, cioè impegnato nell’esportazione di merci diverse (è il
caso di Q. Vrittius Revocatus che compare sia sulle Dressel 20, sia sulle Haltern
70 del relitto di Port-Vendres II: COLLS et al. 1977, nn. 12-15, 31-38). Questo
apparato epigrafico (bolli, iscrizioni dipinte) costituisce un corpus abbastanza eccezionale per due ordini di ragioni: relativamente a ciascun relitto, le
iscrizioni sono tutte contemporanee (cosa che non è, come si è già detto in
premessa, quasi mai accertabile nei depositi di terra); l’epoca a cui esse appartengono (metà del I secolo) non trova confronti se non con la documentazione iscritta delle anfore del Castro Pretorio di Roma edita nel CIL XV.
Commercio vinario e relitti con dolia
Non posso chiudere queste note senza accennare alle navi con carichi
di dolia, cioè ad una delle scoperte più interessanti dell’archeologia sottomarina di questi ultimi anni. Una serie di relitti ha rivelato che tali recipienti
potevano essere istallati “a posto fisso” nella parte centrale dei battelli, trasformandoli in una specie di navi-cisterna (per la problematica su questo tipo
di imbarcazioni, v. TCHERNIA 1986, pp. 138-139; HESNARD et al. 1988, pp.
149-156, e Gianfrotta 1989, con bibliografia). La presenza di anfore vinarie
a completamento del carico e l’impeciatura delle pareti interne dei dolia hanno fatto supporre che anche questi ultimi fossero abitualmente riempiti di
vino e utilizzati, quindi, come le anfore, nel commercio transmarino di questa derrata. L’individuazione di questo modo di trasporto “all’ingrosso” ha
consentito di interrogarsi sulla credibilità delle stime relative al commercio
vinario, finora ricavabili unicamente dalle quantità di anfore rinvenute nei
siti di consumazione. Tuttavia, il fenomeno, per quanto di grande rilevanza,
va valutato criticamente, partendo dai dati oggi disponibili. Tra gli oltre mille
e duecento relitti schedati da Parker, solo una ventina sembrano aver contenuto dolia. Tra questi solo pochi sono stati oggetto di indagini ed offrono
perciò elementi significativi (associazioni con altro materiale, bolli) ai fini
della datazione e dell’interpretazione, mentre un altro piccolo nucleo è ipotizzabile solo sulla base del ritrovamento in mare di dolia isolati (l’elenco è in
Gianfrotta 1989, p. 178; v. anche Relitti di storia, pp. 85-89). Per quanto
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riguarda la cronologia, un relitto (quello di Cap Bénat 2: PARKER 1992, n.
173) risulta anteriore all’età augustea (ma i due piccoli dolia associati a Dressel
1C campane non consentono di identificarlo con i battelli attrezzati con questo tipo di contenitori), un altro (quello di Punta Ala in Toscana) si data alla
metà del III secolo (GIANFROTTA 1989, p. 178), mentre sei appartengono tutti
ad un’età compresa tra Augusto e la metà del I secolo e presentano dolia
associati a Dressel 2-4 italiche (relitti di Ladispoli a N di Roma: PARKER 1992,
n. 565; CARRE 1993; di La Garoupe A presso Antibes: PARKER 1992, n. 436;
del Grand-Ribaud D presso Tolone (Hyères, Var): HESNARD et al. 1988 e
PARKER 1992, n. 477, o a Dressel 2-4 di Tarraconese (relittio di Diano Marina
in Liguria: PARKER 1992, n. 364; da ultimo PALLARÉS 1995-96; del PetitCongloué a Marsiglia: CORSI SCIALLANO, LIOU 1985, pp. 26-43; PARKER 1992,
n. 806; e dell’Ile-Rousse in Corsica: PARKER 1992, n. 510). In tutti e sei questi
casi i dolia provengono dalle officine dei Pirani (come dimostrano i bolli,
tutti in planta pedis, che menzionano i nomi dei liberti di questa famiglia),
localizzabili con molta probabilità a Minturno, nel Lazio meridionale, nel cui
territorio esisteva fin dall’età repubblicana un’importante produzione vinicola ampiamente esportata in anfore fabbricate nel territorio (Dressel 1 e
Dressel 2-4: HESNARD et al. 1989, p. 26). Tale localizzazione comporta che
nel porto di Minturno, alle foci del Garigliano, siano state costruite le navi
così attrezzate. Alla stessa zona produttiva sono stati recentemente riportati
anche i ritrovamenti di sei dolia isolati della costa maremmana (di cui uno
con bollo, anch’esso in planta pedis, di un C. Cahius preceduto da nome
servile, già noto a Civitavecchia: MANACORDA 1985a, p. 103). Alcuni di essi
segnalati o trovati insieme fanno supporre l’esistenza di due altri relitti, rispettivamente a Cala Grande (Monte Argentario) e tra Capalbio e Montalto
di Castro nel Grossetano (Relitti di storia, cit.). La relativa frequenza di tali
recipienti in un tratto di costa così ridotto conferma l’esistenza di due rotte
principali seguite da questa che è stata interpretata come una piccola flotta di
navi vinarie, la prima di cabotaggio lungo il Tirreno verso la Liguria e il
Golfo del Leone (e ritorno): relitti di Diano Marina, La Garoupe, GrandRibaud D e Petit-Congloué; la seconda d’alto mare, attraverso l’arcipelago
toscano, la Sardegna e la Corsica diretta verso la Francia occidentale e la
Spagna (e ritorno): relitti dell’arcipelago toscano, Ile-Rousse. L’innovazione
nel trasporto marittimo documentata da questi ritrovamenti, innovazione
che va valutata sia in termini di ingegneria navale (CARRE 1993, pp. 26-27),
sia in termini economici (il risparmio volumetrico derivante dall’impiego dei
dolia rispetto alle anfore è di circa un terzo, mentre per quanto riguarda il
peso esso non risulta rilevante: HESNARD 1988, p. 150 ), appare perciò finora
abbastanza circoscritta nel tempo, così come sembra che essa non abbia avuto largo seguito e sia rimasta peculiare di un’area geografica precisa (la zona
di Minturno). Evidentemente, come osserva A. Hesnard, i vantaggi derivanti
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da questo modo di trasporto non furono sufficienti a garantirne la generalizzazione.
In conclusione, pur avendo tralasciato, per motivi di tempo e di spazio,
una serie di altre tematiche e di altre situazioni (oltre ai relitti veri e propri,
va almeno segnalata l’importanza documentaria degli scarichi portuali, v. ad
esempio quelli di Port-La-Nautique ricollegabili a Narbona: BERGÉ 1990),
penso che i casi su cui ho richiamato l’attenzione, integrati con quelli presentati da altri colleghi, possano suggerire al lettore la complessità dei percorsi
di ricerca e la quantità di problemi, che nonostante l’accrescimento delle
acquisizioni, restano ancora da risolvere. La recente ed utilissima raccolta
dei relitti del Mediterraneo curata da A.J. Parker non solo fotografa lo stato
(non sempre confortante) dell’archeologia subacquea, ma fornisce gli strumenti indispensabili per riflettere, in modo sistematico, sul patrimonio di
informazioni disponibili, molte delle quali spettano proprio alle anfore, cioè
a quei recipienti “inventati” per rispondere alle esigenze del trasporto di
generi di prima necessità nel commercio su lunga distanza, di cui i protagonisti sono nel mondo antico il mare, i fiumi, il vento.
CLEMENTINA PANELLA (*)
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