Comments
Description
Transcript
Leggi il testo in italiano
Razza, genere e riproduzione nella metropoli migrante: da migranti ‘illegali’ a cittadini ‘criminali’ di Nicholas De Genova (Traduzione di Irene Peano) Vi sono due forme emblematiche di stigma razzializzato, che circolano in maniera persistente e perniciosa nelle rappresentazioni dominanti dei latinos (e in particolare dei messicani) negli Stati Uniti: una é la figura dell’‘illegal alien,’ lo straniero illegale, e l’altro é lo spettro della gang di strada. In particolare, in una apparente sovrapposizione con il fatto di essere stranieri e illegali, attribuito ai migranti senza documenti, le gang di latinos tendono ad essere distinte, per contrasto, in termini di una cittadinanza abietta, delinquente, e ‘criminale’ (De Genova 2008; vedi anche Brown 2002; Ramos-Zayas 2004). Mentre i migranti vengono caratterizzati come invasori, i loro figli vengono ritenuti corruttori. Ed in effetti la forza della posizione bellicosa, per cui i migranti minacciano ‘la nazione’ attraverso una sorta di contagio, deriva la prova della sua supposta veridicità precisamente in riferimento agli apparenti fallimenti della loro progenie. Poiché molti figli di migranti sono nati negli Stati Uniti, sono cittadini statunitensi per diritto di nascita, e le loro cosiddette disfunzionalità arrivano quindi a rappresentare un difetto nella cittadinanza stessa. Non c’é forse bisogno di dire che queste dinamiche generali non sono in alcun senso confinate alle peculiarità etnografiche o socio-storiche degli Stati Uniti, e lo scopo principale di questo intervento non é quello di elaborare nessun esempio etnografico o storico specifico come tale. Piuttosto, i principali obiettivi di questo discorso sono teorici. Su una scala di fatto globale – ovunque una parte significativa della politica dominante di uno stato destinatario di immigrazione abbia costruito la sua popolazione ‘straniera’ in termini di un ‘problema immigrazione’ – esiste un continuum ideologico che abitualmente raggruppa i migranti ‘illegali’ e certe categorie di cittadini ‘criminali.’ Questo sembrerebbe essere particolarmente significativo in paesi dove quella ‘seconda generazione’ nata in loco comprende in effetti non cittadini veri e propri, ma semplici residenti ‘immigrati’ (potenziali cittadini), che non hanno mai essi stessi intrapreso una migrazione ma rimangono in una condizione permanente di ‘stranieri’ ufficiali. La relazione tra migranti ‘illegali’ e cittadini ‘criminali’ tende ad essere configurata come una relazione ‘di sangue.’ Mentre il simbolismo ideologico del sangue condiviso è senza dubbio intrappolato nelle odiose fantasie sulla ‘razza,’ tuttavia, é importante sottolineare che queste figure, distinte ma collegate, sono di solito concepite non semplicemente come vagamente legate da qualche sorta di antenato condiviso, ma in effetti – direttamente, e senza dubbio – da parentela comune. Inoltre, queste due figure – l’‘illegalità’ migrante e la cittadinanza criminale – tendono ad essere collocate all’interno dello stesso tipo di spazi – in particolare, quegli spazi distintivi di segregazione razializzata e privazione materiale generalizzata convenzionalmente denotati come ‘ghetti immigrati.’ L’illegalizzazione dei migranti deve quindi essere vista nella sua relazione di perno rispetto ad una più ampia rete, in cui una cittadinanza razzialmente demarcata viene minacciata dalla criminalizzazione. Inoltre, nella misura in cui la collocazione specifica di queste connessioni è comunemente quel vituperato mondo sotterraneo conosciuto come la ‘inner city’ (o la sua controparte suburbana, come nel caso delle banlieues che circondano città come Parigi), occorre che dirigiamo i nostri immaginari critici verso le tipologie di spazio urbano differenziale che qui designerò come la metropoli migrante. Congiunture spaziali transnazionali Esistono certo molte manifestazioni storicamente e socialmente specifiche di quella che chiamo la metropoli migrante. Vi è in effetti una molteplicità in continua espansione di queste diverse metropoli migranti, e non un singolo o singolare caso paradigmatico. Potrebbero spesso esistere metropoli migranti multiple che prendono forma anche in una stessa città o regione metropolitana. Così come non vi è una ‘esperienza di immigrazione’ generica o universale, allo stesso modo non può esservi una metropoli migrante generica, una ‘esperienza migrante’ di vita urbana. Dobbiamo sempre guardarci da quello che altrove ho designato come l’essenzialismo ‘immigrato’ (De Genova 2005). Ciononostante, se ho coniato il concetto della metropoli migrante al singolare, è perché spero di delineare i contorni schematici di una lente teorica attraverso la quale guardare le città da una nuova prospettiva, e apprezzare una delle più solide espressioni della nostra società urbana globale (Lefebvre 1970b). Tuttavia, ciò che bisogna enfaticamente chiarire fin d’ora è che questo concetto non deve ridursi al banale fatto di una mera presenza fisica di alcuni migranti, di questo o quest’altro tipo, in una data città. Sulla base della mia ricerca etnografica condotta tra i migranti messicani a Chicago a metà degli anni ’90, ad esempio, ho in precedenza avanzato l’idea di una Chicago messicana (De Genova 1998; 2005). Il punto a proposito di Mexican Chicago era che dovesse essere percettibile come una Chicago che potesse dirsi appartenente al Messico in maniera sostanziale e significativa, e quindi situarsi all’interno dell’America Latina – una Chicago che, seppur rimanendo fisicamente posizionata entro i confini territoriali degli Stati Uniti, era divenuta elusiva, persino irrecuperabile, per la nazione statunitense. Poiché questa era una Chicago che corrispondeva ai molteplici ‘presenti’ pratici e futuri immaginati di innumerevoli comunità di tutto il Messico, di cui i migranti erano originari, e in relazione a cui i migranti continuavano in maniera materiale e pratica (oltre che simbolica) a sostenere un insieme di relazioni sociali che eccedevano, o persino trascendevano, il confine dello stato-nazione. Il confine che costituisce la divisione primaria tra gli spazi nazionali degli Stati Uniti e del Messico in altri modi forniva la faglia decisiva e caratterizzante a cavallo della quale, e attraverso la quale, queste traiettorie e questi progetti migranti transnazionali prendevano forma e raggiungevano la loro particolarità socio-politica e spaziale. E tuttavia, argomentavo che questa era una Mexican Chicago – apparentemente contenuta entro i confini dello stato americano, ma anche un sito per la loro produzione. E qui, sottolineando la produzione di questi confini, che sono sempre anche limiti, proponevo che Chicago potesse diventare allo stesso modo uno spazio della loro contingenza. In questo modo, si può vedere come il confine sia imploso in profondità nell’‘interno’ del paese, ma come simultaneamente il confine sia stato in questo modo riconfigurato. Nella Chicago messicana come in innumerevoli spazi simili, diventava possibile vedere come il confine non fosse più semplicemente una linea che poteva essere immaginata a separare il ‘dentro’ dal ‘fuori’ di un territorio nazionale presumibilmente integrato ed unificato. Al contrario, il confine ere stato di fatto ripiegato su se stesso, compresso, perforato ed annodato, lacerato e frammentato. Per come veniva vissuto a Mexican Chicago, il confine era divenuto una sorta di proliferazione frattalizzata e sempre mobile di limiti e zone di confine incerti, dove l’essere altro dei migranti poteva essere circoscritto ma mai del tutto confinato o contenuto, e dove il confine ‘nazionale’ veniva ora riarticolato come un segno di demarcazione ordinario di distinzioni di classe razzializzate, di discriminazione razziale e segregazione. Tuttavia, nulla di tutto ciò era semplicemente l’effetto di una particolare strategia di controllo a senso unico. Se il confine dello stato nazionale era stato fratturato e frammentato, e caricato di complessità impreviste, questo era la conseguenza diretta dell’autonomia e dell’energia soggettiva dei migranti stessi. Le sovversioni dei confini operate dai migranti non erano semplicemente un evento isolato in coincidenza di attraversamenti fisici del confine, ma piuttosto un vero e proprio modo di vivere completamente contenuto dalla loro ‘inclusione’ o ‘incorporazione’ illegalizzata come lavoratori nella vita quotidiana capitalista entro lo spazio degli Stati Uniti. I migranti, suggerivo, stavano producendo uno spazio congiunturale con ripercussioni trasformative in tutte le direzioni, e in certi aspetti Chicago stessa si era così radicalmente disarticolata dai poteri di assimilazione del nazionalismo statunitense e dai vincoli del suo spazio suppostamente sacrosanto ed inviolabile. Supponendo una Chicago che corrisponda all’America Latina nell’ambito socio-spaziale, l’incisività del mio intervento era diretta specificatamente contro la stabilità epistemologica dello stato-nazione americano come presupposto. Mexican Chicago intendeva denotare una interruzione permanente dello spazio nella nazione statunitense. Tuttavia, questo non rendeva Mexican Chicago facilmente recuperabile per lo stato-nazione messicano, sebbene vari progetti dello stato messicano e dei suoi principali partiti politici cercassero di incorporare ed addomesticare la loro cosiddetta diaspora. Più che un avamposto o una mera estensione dello stato-nazione messicano, quindi, la ‘messicanità’ di quest’altra Chicago – questa metropoli migrante – era essa stessa qualcosa di nuovo che emergeva soltanto dal vero incontro e dall’interazione dei lavoratori migranti di origini messicane con l’ordine sociale e la politica economica razzializzati degli Stati Uniti. La metropoli migrante, quindi, intende segnalare la possibilità vitale di qualche cosa di veramente nuovo, una formazione sociale radicalmente diversa. Mexican Chicago, come metropoli migrante, era quindi assunta anche come posizione di critica. Sebbene questo ‘oggetto’ (o ‘spazio’) virtuale possa dirsi al di fuori di qualsiasi fatto (empirico), non era né è affatto una finzione, una mera invenzione della mia immaginazione teorica. Invitavo i miei lettori a concepire insieme a me l’esistenza di uno spazio eminentemente sociale, un ‘oggetto’ incipiente e possibile che comprendesse numerosi luoghi reali, ma anche attivantesi in maniera contingente come lo spazio prodotto negli innumerevoli ed effimeri siti di particolari relazioni sociali. In questo senso, Mexican Chicago non era un ‘luogo’ nel senso positivista del termine, anche nonostante l’esistenza di diversi e pressoché omogenei (segregati) quartieri e periferie ‘messicani.’ Al contrario, Mexican Chicago veniva prodotta al negativo più che al positivo, vale a dire che emergeva in maniera relazionale. La sua crescita e il suo sviluppo potevano analizzarsi in relazione a vari processi sociali e pratiche spaziali, profondamente radicati nell’attività produttiva pratica e nelle energie creative di persone vere, immerse in un complesso insieme di relazioni sociali, simultaneamente situate all’interno della regione metropolitana di Chicago e allo stesso tempo operanti a livello transnazionale in circuiti in continua proliferazione, orientati intorno a località altrimenti apparentemente remote sparse su gran parte del territorio messicano. Mexican Chicago era (e continua ad essere) uno spazio reale, ma ciò nonostante non era (né è) riducibile ad alcun luogo in particolare, un ghetto ‘immigrato’ delimitato o un’enclave ‘etnica,’ un presunto ‘villaggio all’interno della città,’ o una sorta di semi-autonoma ‘isola’ entro i confini di un più ampio spazio urbano che si poteva altrimenti pensare la circondasse e contenesse completamente. Invece di un recinto, la proposta di una Mexican Chicago segnalava un’apertura radicale e critica, e al più prosaicamente conosciuto e convenzionalmente conoscibile spazio della città, sovrapponeva un’altra (altra) metropoli. Una metropoli aliena Black Metropolis, il libro di St. Clair Drake e Horace Cayton, fu una pietra miliare nella storia dell’etnografia urbana. Uno studio di Bronzeville, il ghetto segregato afroamericano della South Side di Chicago, Black Metropolis é un lavoro il cui titolo é ovviamente pertinente al titolo di questo intervento poiché, come cercherò di chiarire ulteriormente, non si può pensare adeguatamente al significato della metropoli migrante, in particolare in molti contesti europei, senza comprendere che essa è anche una metropoli Nera. Com’è ovvio, non mi riferisco qui ad una presunta categoria razziale ‘oggettiva’ o ‘naturale’ (fenotipica, pseudo-biologica) che si potrebbe prevedibilmente attribuire in particolare a persone di discendenza africana, ma piuttosto ad una più ampia accezione dell’essere nero/a. In altre parole, intendo l’essere nero/a come una categoria sociologica razzializzata che comprende l’intero spettro delle identità sociali prodotte specificatamente come non-bianche.1 Anche per quei migranti che in effetti vengono razzializzati come Neri, dobbiamo certamente guardarci dal naturalizzare ciò che è sempre uno specifico processo socio-politico di produzione di questi soggetti come ‘Neri.’ L’identità ‘nera’ della metropoli migrante è quindi sempre qualche cosa di fondamentalmente nuovo, che va continuamente ‘scoperto’ dai migranti sopportando e confrontandosi con forze sociali complessive che lavorano alla loro produzione come oggetti razziali e quindi anche come soggetti (ri)razzializzati, e quindi ‘riscoprire’ se stessi. Mexican Chicago è ancora una volta istruttiva, precisamente perché può essere compresa come una metropoli migrante subordinata a livello razziale (quindi, ‘nera’), anche quando la sua specificità razzializzata come ‘messicana’ viene assunta non soltanto in relazione alla supremazia bianca ma anche in una inderogabile e profondamente contraddittoria sovrapposizione con l’essere nero/a afro-americano/a (De Genova 2005:167-209; vedi anche De Genova e Ramos-Zayas 2003:57-82). È particolarmente degno di nota che Drake e Cayton, esplicitamente sulle orme di W.E.B. Dubois, sostenessero che la lotta per la supremazia bianca fosse fondante nel mondo moderno, e quindi una caratteristica esplicativa di spicco nella loro analisi specifica della continua migrazione di nuovi arrivati afro-americani dal sud degli Stati Uniti alla metropoli nera di Chicago. Ai fini di questo intervento, è degno di nota il fatto che anche in questo contesto di segregazione urbana, sociale e politica, di cittadini subordinati per questioni di razza, la metropoli Nera era sempre e comunque anche una metropoli migrante. Richard Wright, il più importante scrittore afro-americano del tempo, che aveva trascorso alcuni degli anni della sua formazione negli stessi quartieri di Chicago ritratti nello studio di Drake e Cayton e vi aveva anche ambientato alcuni dei suoi più 1 Con questo non intendo ovviamente minimizzare l’importanza della crescente e sempre più intensa migrazione globale degli africani stessi. Sotto questo punto di vista, AbdouMaliq Simone scrive: ‘Oggi, la persistente appropriazione delle risorse africane per alimentare le capacità industriali di altre regioni, e la conseguente riproduzione di economie interne incapaci di assorbire le masse di giovani, spingono molti a migrare attraverso diversi circuiti. Sempre di più, le risorse istituzionali, familiari, burocratiche, e sociali di molte città africane sono volte a facilitare la partenza. Con l’aumento del volume dell’esodo, la spazializzazione del movimento diventa frattale e le sue temporalità sporadiche e disperate’ (2007: 227). importanti lavori letterari, scrisse l’introduzione originale a Black Metropolis. In apertura, Wright scrive: Nello scrivere questo studio decisivo sull’urbanizzazione negra, [gli autori] erano consci del problema dell’America tutta ed hanno dovuto dare per scontato che gli americani bianchi conoscessero poco o nulla del negro, che una semplice asserzione del problema sarebbe stata in contraddizione con il pensiero ed il sentire americano; hanno dovuto dare per scontato che la personalità negra, le condizioni di vita negre, i sentimenti negri, e la fervente e spesso amara natura delle aspirazioni negre costituissero un campo alieno per gli americani bianchi, che fossero per loro irreali. Quindi, ciò che a prima vista appare come una specificità socio-storica prettamente afro-americana della metropoli Nera, tuttavia solleva un problema più generale per la riflessione teorica – quello di uno spazio all’interno della città che acquista il carattere di ‘un campo alieno.’ In qualsiasi tentativo di scrivere una futura analisi dell’urbanizzazione migrante transnazionale, in Europa in particolare, è bene tenere a mente il problema postcoloniale generale. Perciò, parafrasando le riflessioni di Richard Wright su Black Metropolis, dobbiamo dare per scontato che gli europei bianchi (in maniera del tutto simile ai bianchi statunitensi in relazione alle ‘minoranze’ razzializzate, vecchie come nuove) sappiano poco o nulla dei migranti in questione, che il semplice dar voce ai loro problemi andrebbe significativamente contro il pensiero ed il sentimento dominanti, e che le reali condizioni di vita, prospettive, e la fervente e spesso amara natura delle loro aspirazioni costituiscano un campo alieno per i bianchi (europei e statunitensi in ugual misura). La metropoli migrante è davvero una metropoli ‘aliena’ – soggetta ad una alienazione di tipo sistemico, ad uno sfruttamento pronunciato e ad un’esclusione di lungo corso, per i migranti stessi. Ma la metropoli migrante diventa anche uno schermo per la proiezione di fantasie su un senso del privilegio nativista (bianco) invaso o addirittura sotto assedio, ora alienato dai suoi presunti diritti di nascita. Contro l’insediarsi di una politica identitaria fondamentalmente nativista, che serve a riaffermare in maniera aggressiva la priorità dei ‘nativi’ su nessun’altra base se non la loro identità natale e presunto diritto alla ‘nazione’ (De Genova 2005:56-94; 2010a), la metropoli migrante è una metropoli semplicemente Nera. I dibattiti contemporanei sulla migrazione sono profondamente razzializzati, anche quando vengono condotti in quel linguaggio apparentemente neutro dal punto di vista della razza quale è quello della politica della cittadinanza o della ‘differenza culturale insormontabile’ (Balibar 1991: 22), per cui la categoria dell’’immigrazione’ stessa funziona come un surrogato di routine della razza (21). Inoltre, è la figura dell’urbano come tale che segnala un intero, complesso terreno discorsivo ed un ambito sotterraneo ancor più contorto di motivazioni, impulsi e paure più ambigui. Riprodurre l’abiezione È quindi negli spazi transnazionali di congiuntura, cui mi riferisco come alla metropoli migrante, che possiamo meglio individuare e analizzare in maniera critica i processi attivi di inclusione per mezzo dell’esclusione che sono centrali nella produzione di nuovi ordini sociali di classe, razza e cittadinanza. I vari mezzi della pretesa esclusione anti-immigrati rivelano sistematicamente e prevedibilmente ramificazioni sostanzialmente incorporative: esse sono semplicemente cruciali per produrre e sostenere l’‘illegalità’ dei migranti stessi, desiderabili come forza lavoro soprattutto perché di essi ci si può fondamentalmente disfare e sono resi particolarmente vulnerabili. Tuttavia, queste stesse tecnologie di inclusione subordinata si riproducono anche nella trasmissione di una precarietà pronunciata e protratta per i figli di questi migranti. In pratica, alcune categorie di migranti vengono ritenuti ‘indegni di contribuire alle future generazioni di cittadini’ (Roberts 1997: 215). Il lavoro, declinato attraverso le categorie di genere (procreativo, riproduttivo ed affettivo), per la creazione e il sostegno stessi delle famiglie e delle comunità migranti viene ad essere identificato con la proliferazione di crescenti popolazioni di ‘minoranze’ eccezionalmente povere e razzialmente soggiogate. Questa confluenza dell’‘essere straniero’ del migrante con la presunta ‘criminalità’ di cittadini (o, in alcuni paesi, non-cittadini di seconda generazione) abietti non è razzializzata semplicemente in senso banalmente ‘biologico’ (peraltro anacronistico). Essa diventa percepibile, in maniera decisiva, in termini di una inesorabile coincidenza di razza, ‘cultura,’ e spazio. Sulla base del fatto che gli ‘stranieri’ riproducono le loro differenze culturali, ostili ed incompatibili, attraverso la loro prole ‘di seconda generazione,’ emerge l’odiosa figura di una ‘underclass’ patologica, disprezzata come il ricettacolo infettivo di ‘criminalità’ pericolosa o ‘disfunzione’ irrimediabile. E davvero tali formazioni ‘etniche’ multi-generazionali si suppongono derivare la loro fondamentale incorreggibilità precisamente a partire dall’atto originario di rifiuto compiuto dai loro progenitori migranti – il loro presunto rifiuto di ‘assimilarsi’ (De Genova 2005: 56-94). Tutta questa paventata incompatibilità ‘culturale’ è di regola attribuita a ‘gruppi etnici’ giudicati come fortemente coesi al loro interno in strutture ‘claniche’ e ‘isolati’ (a livello di spazio), ed apparentemente incapaci di (o restii a) produrre la propria ‘assimilazione.’ Ciò nonostante, in queste accuse la apparente intransigenza ‘culturale’ rimane profondamente legata al crudo fatto della riproduzione biologica. Come lucidamente sostiene Dorothy Roberts: ‘I moderni sostenitori di queste politiche anti-immigrazione forse non propongono la teoria eugenetica, ma, come gli eugeneticisti in precedenza, temono “non solo gli immigrati stessi ma anche i loro discendenti”’ (1997: 212). Siamo quindi senza dubbio in presenza di un discorso insistentemente razziologico, per il quale la ‘cultura’ aliena è imprescindibile da sesso e genere, dando quindi adito alle cifre aleatorie di ‘demografia,’ fertilità, genia, parentela, e la traiettoria multi-generazionale dei ‘gruppi etnici.’ Allo stesso modo, nella misura in cui ruota in maniera insistente intorno ad alti livelli di concentrazione (e quindi visibilità) geografica specificamente urbana, questo discorso apprensivo rispetto ai migranti e ai loro figli inevitabilmente li confina in spazi specifici: li colloca (e li limita) all’interno dei ‘ghetti’ a loro consoni. Le donne migranti senza documenti, quindi, nella misura in cui vengono identificate con la riproduzione biologica, sono centrali nel sostenere il nesso ideologico razializzato tra l’‘illegalità’ migrante e la cittadinanza abietta (o ‘criminale’). Negli Stati Uniti, storicamente, la figura dello ‘straniero illegale’ (‘illegal alien’) – come ‘soggiornante’ (eterosessuale) – aveva sempre attributi di genere maschile, e l’efficacia del suo sfruttamento si affidava al mantenimento di ‘costi di riproduzione’ relativamente bassi in conseguenza alla prestabilita separazione dei lavoratori uomini (migranti) dalle donne che rimangono nei paesi di origine (Chock 1991; 1995; 1996; González and Fernández 1979; Kearney 1986; cf. Burawoy 1976). Alla fine del ventesimo secolo, tuttavia, attraverso la crescente equiparazione delle donne migranti senza documenti con la residenza (famigliare) permanente, la politica dell’immigrazione dominante degli Stati Uniti rispetto a questa preoccupazione si è ossessivamente articolata con una ‘demografia’ in cambiamento e la prospettiva di una proliferazione di nuove ‘minoranze’ razziali (Chock 1995; 1996; Roberts 1997). La fertilità delle donne senza documenti – la loro capacita letterale di ‘figliare’ e ‘moltiplicarsi’ – viene indicata come amplificatore del ‘rischio per la nazione’ (1995: 173). Perciò l’incorreggibilità degli ‘illegal aliens’ rispetto a progetti nazionalisti di ‘integrazione’ e ‘assimilazione’ ha infine portato negli ultimi decenni a rimodellare la questione della ‘permanenza’ dei migranti in accezioni di vendetta nativista tangibile (Roberts 1997; cf. De Genova 2005:56-94; 2010c). Ribaltando le immagini dominanti dei primi del novecento, per cui i migranti messicani arrivavano negli Stati Uniti unicamente per lavorare, per periodi relativamente brevi, ma non cercavano di stabilirsi in maniera permanente e di assimilarsi, l’inizio del ventunesimo secolo vede un riemergere di iniziative promosse dai datori di lavoro per programmi di ‘guestworker’ atti a regolarizzare la disponibilità di lavoro migrante a breve termine e strettamente temporaneo, precludendo nettamente la residenza a lungo termine (De Genova 2009). Contemporaneamente, i dibattiti legali e le manovre legislative per spogliare i figli nati negli Stati Uniti da genitori senza documenti del loro diritto alla cittadinanza si sono tradotti in campagne politiche organizzate. La fertilità delle donne migranti ‘illegali’ è stata cosi sempre più mobilizzata per rappresentare la minaccia principe dei residenti impoveriti e soggiogati dal punto di vista razziale che inevitabilmente non possono che moltiplicare e riprodurre la loro condizione marginalizzata in una ‘unerclass’ (di cittadini o possibili cittadini) fatalmente distaccata e incline al crimine. Perciò la drammatica escalation delle deportazioni dagli Stati Uniti a partire dal 1996, associata a nuovi mandati per ‘rimuovere’ i cosiddetti ‘stranieri criminali’ (‘criminal aliens’) – i cui esempi più sensazionali sono stati i membri delle gang di strada di Latinos, cresciuti negli Stati Uniti ma senza documenti – prendono di mira direttamente i figli (non cittadini) dei migranti senza documenti, ma servono in maniera più cruciale a re-inscrivere il presunto status di ‘straniero’ nella ‘seconda generazione,’ in generale (Coutin 2010; 2011; O’Neill 2010; Zilberg 2004; 2011). E davvero i figli degli stranieri ‘immeritevoli,’ confinati all’isolamento dei loro ‘ghetti,’ sono relegati agli abietti mondi sotteranei all’interno della ‘nazione.’ È quindi precisamente la metropoli migrante a fornire lo spazio differenziale in cui genere, razza, e riproduzione si intersecano e cospirano nel relegare i migranti ‘illegali’ e i cittadini ‘criminali’ ad una condizione condivisa di marginalizzazione protratta e intoccabile. Ciò nonostante, è nella metropoli migrante dove allo stesso tempo il potere produttivo e riproduttivo e le capacità creative della vita dei migranti sono implicate in una ricomposizione di base della relazione capitale-lavoro. La forza e la vitalità dirompenti delle mobilità migranti stanno ricreando lo spazio a tutti i livelli – dal senso più localizzato del quartiere alla scala globale di regioni transnazionali complesse e di meta-regioni trans-continentali configurate dalle traiettorie migranti e dai nuovi insiemi di relazioni sociali sostenute dai migranti. In radicale contraddizione con i regimi di confine securitari e militarizzati degli statinazione, ma sempre comunque articolati attraverso i molteplici e necessariamente semi-permeabili campi di forza di questi regimi di confine, la metropoli migrante è emersa come una forma spaziale cruciale per la riformulazione della relazione della specie umana allo spazio del pianeta. Bibliografia Asad, Talal 1973 “Introduction.” pp. 9-19 in Anthropology and the Colonial Encounter. Atlantic Highlands, NJ: Humanities Press. Balibar, Étienne 1991 “Is There a ‘Neo-Racism’?” Pp. 17-28 in Étienne Balibar and Immanuel Wallerstein, Race, Nation, Class: Ambiguous Identities. London and New York: Verso. Bogardus, Emory S. 1926 The City Boy and His Problems. Los Angeles: Rotary Club of Los Angeles. 1934[1970] The Mexican in the United States. San Francisco: R and E Research Associates. Bridges, Khiara M. 2011 Reproducing Race: An Ethnography of Pregnancy as a Site of Racialization. Berkeley: University of California Press. Brown, Monica 2002 Gang Nation: Delinquent Citizens in Puerto Rican, Chicano, and Chicana Narratives. Minneapolis: University of Minnesota Press. Burawoy, Michael 1976 “The Functions and Reproduction of Migrant Labor: Comparative Material from Southern Africa and the United States.” American Journal of Sociology 81(5): 105087. 2000 “Introduction: Reaching for the Global.” Pp. 1-40 in Michael Burawoy et al. Global Ethnography: Forces, Connections, and Imaginations in a Postmodern World. Berkeley: University of California Press. Chandler, Nahum D. 2006 “The Figure of W.E.B. Du Bois as a Problem for Thought.” CR: The New Centennial Review 6(3): 29-56. 2010 “Of Horizon: An Introduction to ‘The Afro-American’ by W.E.B. Du Bois – circa 1894.” Journal of Transnational American Studies 2(1). Available at: <http://escholarship.org/uc/acgcc_jtas>. Chatterjee, Partha 1993 The Nation and Its Fragments: Colonial and Postcolonial Histories. Princeton, NJ: Princeton University Press. Chock, Phyllis Pease 1991 “‘Illegal Aliens’ and ‘Opportunity’: Myth-Making in Congressional Testimony.” American Ethnologist 18(2): 279-294. 1995 “Ambiguity in Policy Discourse: Congressional Talk About Immigration.” Policy Sciences 28:165-184. 1996 “No New Women: Gender, ‘Alien’” and ‘Citizen’ in the Congressional Debate on Immigration.” PoLAR: Political and Legal Anthropology Review 19(1): 1-9. Coutin, Susan Bibler 2010 “Exiled by Law: Deportation and the Inviability of Life.” Pp.351-70 in Nicholas De Genova and Nathalie Peutz, eds. The Deportation Regime: Sovereignty, Space, and the Freedom of Movement. Durham, NC: Duke University Press. 2011 “Legal Exclusion and Dislocated Subjectivities: The Deportation of Salvadoran Youth from the United States.” Pp. 169-183 in Vicki Squire, ed. The Contested Politics of Mobility: Borderzones and Irregularity. London: Routledge. De Genova, Nicholas 1998 “Race, Space, and the Reinvention of Latin America in Mexican Chicago.” Latin American Perspectives 25(5): 91-120. 2002 “Migrant ‘Illegality’ and Deportability in Everyday Life.” Annual Review of Anthropology 31: 419-47. 2005 Working the Boundaries: Race, Space, and “Illegality” in Mexican Chicago. Durham, NC: Duke University Press. 2006 “Introduction: Latino and Asian Racial Formations at the Frontiers of U.S. Nationalism.” Pp. 1-20 in Nicholas De Genova, ed. Racial Transformations: Latinos and Asians Remaking the United States. Durham, NC: Duke University Press. 2007 “The Stakes of an Anthropology of the United States”. CR: The New Centennial Review 7(2): 231-77. 2008 “Inclusion through Exclusion: Explosion or Implosion?” in Amsterdam Law Forum 1(1) (available at: www.amsterdamlawforum.org). 2009 “Conflicts of Mobility, and the Mobility of Conflict: Rightlessness, Presence, Subjectivity, Freedom.” Subjectivity 29: 445–466. 2010a “The Deportation Regime: Sovereignty, Space, and the Freedom of Movement.” Theoretical Overview (pp. 33-65) in Nicholas De Genova and Nathalie Peutz, eds. The Deportation Regime: Sovereignty, Space, and the Freedom of Movement. Durham, NC: Duke University Press. 2010b “Migration and Race in Europe: The Trans-Atlantic Metastases of a PostColonial Cancer.” European Journal of Social Theory 13(3): 405-19. 2010c “The Queer Politics of Migration: Reflections on ‘Illegality’ and Incorrigibility.” Studies in Social Justice 4(2): 101-126. 2011 “Alien Powers: Deportable Labour and the Spectacle of Security.” Pp. 91-115 in Vicki Squire, ed. The Contested Politics of Mobility: Borderzones and Irregularity London: Routledge. De Genova, Nicholas and Ana Y. Ramos-Zayas 2003 Latino Crossings: Mexicans, Puerto Ricans, and the Politics of Race and Citizenship. New York: Routledge. Drake, St. Clair and Horace R. Cayton 1945[1993] Black Metropolis: A Study of Negro Life in a Northern City. Revised and Enlarged Edition. Chicago: University of Chicago Press. Du Bois, W. E. B. 1900 “The Present Outlook for the Dark Races of Mankind.” A.M.E. Church Review 17(2 [Issue No. 66]): 95–110. 1903[1982] The Souls of Black Folk. New York: Signet/ Penguin. Geertz, Clifford 1973 “Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture.” Pp. 3-30 in The Interpretation of Culture: Selected Lectures. New York: Basic Books. González, Rosalinda M. and Raúl A. Fernández 1979 “U.S. Imperialism and Migration: The Effects on Mexican Women and Families.” Review of Radical Political Economics 11(4): 112-23. Habermas, Jürgen 1996/1998 The Inclusion of the Other: Studies in Political Theory. Cambridge, MA: The MIT Press. Hall, Stuart & Les Back 2009 “At Home and Not at Home: Stuart Hall in Conversation with Les Back.” Cultural Studies 2(4): 658-687. Hannerz, Ulf 1980 Exploring the City: Inquiries Toward an Urban Anthropology. New York: Columbia University Press. Harvey, David 1996 Justice, Nature, and the Geography of Difference. Cambridge, MA; Blackwell. 2009 Cosmopolitanism and the Geographies of Freedom. New York: Columbia University Press. Holloway, John 1994 “Global Capital and the National State.” Capital and Class 52: 23-49. Kearney, Michael 1986 “From the Invisible Hand to Visible Feet: Anthropological Studies of Migration and Development.” Annual Review of Anthropology 15: 331-61. Lefebvre, Henri 1970a[2009] “Reflections on the Politics of Space.” Pp. 167-84 in State, Space, World, edited by Neil Brenner and Stuart Elden. Minneapolis: University of Minnesota Press. 1970b/2003 The Urban Revolution. Minneapolis: University of Minnesota Press. 1974/1991 The Production of Space. Cambridge, MA: Blackwell Publishing. Marx, Karl 1867[1976] Capital: A Critique of Political Economy, Volume One. New York: Vintage/ Random House. 1870[1971] “From Confidential Communication.” Pp. 252-55 in Karl Marx and Friedrich Engels, Ireland and the Irish Question. Moscow: Progress Publishers. O’Neill, Kevin Lewis 2010 “The Reckless Will: Prison Chaplaincy and the Problem of Mara Salvatrucha.” Public Culture 22(1): 67-88. Park, Robert E. 1915/1952 “The City: Suggestions for the Investigation of Human Behavior in the Urban Environment.” In Human Communities Glencoe, IL: The Free Press. 1929a “Introduction” in Harvey Warren Zorbaugh, The Gold Coast and the Slum: A Sociological Study of Chicago’s Near North Side. Chicago: University of Chicago Press. 1929b “The City as a Social Laboratory.” Pp. 1-19 in T.V. Smith and L.D. White, eds. Chicago: An Experiment in Social Science Research. Chicago: University of Chicago Press. Park, Robert E. and Ernest W. Burgess 1921[1969] Introduction to the Science of Sociology. Chicago: University of Chicago Press. Pateman, Carole 1988 The Sexual Contract. Stanford, CA: Stanford University Press. Ramos-Zayas, Ana Y. 2004 “Delinquent Citizenship, National Performances: Racialization, Surveillance, and the Politics of ‘Worthiness’ in Puerto Rican Chicago.” Latino Studies 2(1): 26– 44. Roberts, Dorothy E. 1997 “Who May Give Birth to Citizens? Reproduction, Eugenics, and Immigration.” Pp. 205-19 in Juan F. Perea, ed. Immigrants Out! The New Nativism and the AntiImmigrant Impulse in the United States. New York: New York University Press. Sahlins, Marshall 2000 “On the Anthropology of Modernity, or, Some Triumphs of Culture over Despondency Theory.” Pp. 44-61 in Antony Hooper, ed. Culture and Sustainable Development in the Pacific. Canberra: Australian National University Press. Schinkel, Willem 2010 “Culturalism and the Sociology of ‘Integration’.” Paper presented to the conference “The Language of Difference: Mechanisms of Inclusion and Exclusion of Migrants, 1945- 2005,” sponsored by the Department of History, University of Leiden (Netherlands), 14 January 2010. Simone, AbdouMaliq 2007 “Deep into the Night the City Calls as the Blacks Come Home to Roost.” Theory, Culture & Society 24(7–8): 224–237. Thrasher, Frederick M. 1927 The Gang: A Study of 1,313 Gangs in Chicago. Chicago: University of Chicago Press. Wacquant, Loïc 1997 “Three Pernicious Premises in the Study of the American Ghetto.” International Journal of Urban and Regional Research 21(2): 341-53. 2008 Urban Outcasts: A Comparative Sociology of Advanced Marginality. Malden, MA: Polity Press. Wimmer, Andreas and Nina Glick Schiller 2003 “Methodological Nationalism, the Social Sciences, and the Study of Migration: A Lecture in Historical Epistemology. International Migration Review 37(3): 576610. Wirth, Louis 1928 The Ghetto. Chicago: University of Chicago Press. 1931 “Culture Conflict and Misconduct.” Chap. 16 in T.V. Smith and L.D. White, eds. On Cities and Social Life: Selected Papers. Repr., Chicago: University of Chicago Press, 1964. Wright, Richard 1945[1993] “Introduction.” Pp. xvii-xxxiv in St. Clair Drake and Horace R. Cayton, Black Metropolis: A Study of Negro Life in a Northern City. Revised and Enlarged Edition. Chicago: University of Chicago Press. Zilberg, Elana 2004 “Fools Banished from the Kingdom: Remapping Geographies of Gang Violence between the Americas (Los Angeles and San Salvador).” American Quarterly 56(3): 759- 779. 2011 Space of Detention: The Making of a Transnational Gang Crisis between Los Angeles and San Salvador. Durham, NC: Duke University Press.