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Untitled - Rizzoli Libri
JEAN-PAUL SARTRE LE MOSCHE PORTA CHIUSA Prefazione di Pier Aldo Rovatti Traduzione di Giuseppe Lanza e Massimo Bontempelli I GRANDI TASCABILI BOMPIANI L’editore dichiara di aver fatto tutto il possibile per identificare i proprietari dei diritti dell’immagine di copertina e ribadisce la propria disponibilità alla regolarizzazione degli stessi. Jean-Paul Sartre, Les Mouches © 1943 Édition Gallimard, Paris Traduzione in italiano di Giuseppe Lanza Jean-Paul Sartre, Huis Clos © 1945 Édition Gallimard, Paris Traduzione in italiano di Massimo Bontempelli ISBN 978-88-452-7523-4 © 1947/2013 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano I edizione con testo francese a fronte Tascabili Bompiani novembre 2013 Prefazione di Pier Aldo Rovatti 1. “Eravamo troppo leggeri...” Sartre scrive Les mouches, dramma in tre atti, nel 1942, in piena guerra. È il primo lavoro teatrale, se si eccettua Bariona, una sorta di sacra rappresentazione che aveva allestito per i compagni di prigionia dello Stalag XII D (tra il ’40 e il ’41). Le mosche sono pubblicate nell’aprile del ’43 e dedicate a Charles Dullin: e sarà proprio Dullin a portare sulla scena questo singolare rifacimento delle Coefore di Eschilo, nel giugno del medesimo anno, in qualità di regista e anche di attore (nella parte di Giove). La “prima” avviene il 3 giugno al Théâtre de la Cité: non è un successo, anzi la critica ha parole dure. Vengono sottolineati i difetti formali e qualcuno dice che Sartre è un Giraudoux minore. Solo Michel Leiris e Maurice Merleau-Ponty si esprimono in modo nettamente positivo. Ma più che estetica la questione sembra di natura politica. La situazione francese del momento è più che allusa dalla trama ispirata all’antica tragedia:1 Oreste, 1 Cfr. per tutte queste informazioni Michel Contat, Michel Rybalka, Les écrits de Sartre, Gallimard, Paris 1970, pp. 88-92. Nello studio dedicato alle Mosche dallo svedese Thure Stenström (Existentialism, Natur & Kultur, Stockholm 1966, pp. 190-260) si segnala che Sartre aveva tenuto presente anche Les mithes romaines di Georges Dumézil. 5 figlio di Agamennone e di Clitennestra, è stato allontanato da Argo all’età di tre anni da Egisto, assassino del padre e amante della madre. Dopo diciassette anni Oreste torna ad Argo e trova la città pervasa dal rimorso. Il rimorso è diventato la cifra quotidiana, il modo in cui la città vive e funziona: ogni anno un rituale corona questa quotidianità. È la festa dei morti: Egisto in persona, il simbolo della colpa, richiama sulla terra per un giorno le anime dei morti. Ogni abitante di Argo si ritrova faccia a faccia con i suoi morti: gli ricorderanno dolorosamente le sue colpe, le sue mancanze, le sue responsabilità, lo tortureranno con il rimorso, andranno a casa con lui, mangeranno e dormiranno con lui come quando erano in vita. Per un giorno, ogni anno, la macabra cerimonia cementa il rimorso che le mosche che infestano la città ogni giorno si incaricano di tenere sveglio. Nessuna angoscia, però: gli abitanti di Argo si sono abituati alle mosche e attendono il giorno dei morti come la loro festa. Il rimorso li lega, come appunto lega una religione: è diventato la loro condizione sociale. In questa scena giunge Oreste come un estraneo che non sa e non può capire. Elettra, la sorella umiliata e ridotta a serva, lo spinge all’atto di vendetta sul quale Oreste è dapprima in dubbio. Oreste compie l’atto, uccide Egisto e Clitennestra. Adesso il rimorso prende Elettra e assedia Oreste stesso. La gente di Argo non lo saluta come un liberatore, anzi vorrebbe linciarlo come chi ha attentato alla tranquilla esistenza della città. Oreste deve di nuovo andarsene. Le mosche lo seguono. È il dramma della libertà di Oreste: libero di compiere la vendetta criminosa, in preda a questa libertà. “Egli – scrive Sartre nella nota di accompagnamento al testo – dovrà infine uccidere, caricarsi il proprio 6 delitto sulle spalle e passare sull’altra riva. La libertà, infatti, non è un potere astratto di sorvolare la condizione umana: è il più assurdo e inesorabile degli impegni. Oreste andrà avanti per la sua strada, senza giustificazioni, senza scuse, senza ritorni, solo. Come un eroe. Come non importa chi.”2 Dal giugno 1940 il regime di Vichy aveva tentato di imporre ai francesi la sua politica di contrizione. Un anno più tardi Philippe Pétain (Egisto?) aveva detto alla Francia: “Voi soffrite e soffrirete ancora a lungo perché non abbiamo ancora finito di espiare tutte le nostre colpe.” E Sartre dichiara che con Le mosche vuole cercare di estirpare “questa malattia del pentimento”. “Oreste è quel piccolo gruppo di francesi che compiono attentati contro i tedeschi e si caricano di questa angoscia del pentimento resistendo alla tentazione di andarsi a denunciare.”3 Oreste sarebbe allora la personificazione del terrorista: la decisione individuale di agire, il peso morale del suo atto, il prezzo della sua libertà. Libertà e impegno, responsabilità e atto sono appunto i temi su cui Sartre sta misurandosi. L’être et le néant, la prima grande opera filosofica pure pubblicata nel 1943, si condude con la promessa di una continuazione, un libro sulla morale. Al quale Sartre dedicò in quegli anni molti sforzi scrivendo centinaia di pagine, per poi interrompersi negli anni cinquanta e riprendere ancora il progetto dopo la pubblicazione della Critique de la raison dialectique.4 Ma si può dire che 2 Cfr. Contat, Rybalka, op. cit., p. 88. Ivi, p. 90. 4 Parte di questo materiale è ora disponibile nei Cahiers sur la morale, Gallimard, Paris 1983. 3 7 il libro sulla morale, poiché era nato come il libro della scelta individuale, fosse destinato al fallimento di fronte alla successiva scoperta sartriana della dialettica storica. Paragoniamo, per esempio, Le mosche con la posteriore e più nota opera teatrale Le diable et le bon dieu (1951): Oreste è l’eroe positivo che se ne va solo con il suo pesante destino di libertà, Goetz è il fallimento dell’eroe positivo, la via del bene, come via individuale, gli è sbarrata tanto quanto la via del male, l’atto non può essere puro, ci deve essere un compromesso, una dialettica, il progetto non può più essere quello di un’esistenza singola e deve continuamente attraversare le inerzie storiche, sociali e naturali. Il protagonista de La nausée (1938) segnava la paralisi: non c’era azione possibile. Matteo, il protagonista dei Chemins de la liberté (ciclo di romanzi rimasto incompiuto), simbolizzava lo scacco dell’azione individuale: il fallimento del velleitarismo piccolo-borghese e poi la scoperta della politica. Le mosche possono essere considerate un testo di transizione: possiamo leggere questa pièce come un punto d’arrivo, l’approdo della filosofia senza storia dell’Essere e il nulla; ma anche come un punto di partenza, l’atteggiamento di Oreste come “riflesso” della lacuna storica, oggettiva, della Francia occupata.5 E il lettore di oggi? La morale esistenziale ed Egisto/Pétain sono entrambe scene a noi remote. Ci è difficile percepire come tratto davvero significativo l’orizzonte dell’impegno politico alluso per negazione dal gesto eroico di Oreste. E così ciò verso cui questa pièce sarebbe una prima, tormentata transi5 Cfr. Pierre Verstraeten, Violence et éthique, Gallimard, Paris 1972, p. 27. 8 zione, non ci appare come uno spazio più vero, meno illusorio. Poiché la scena culturale è mutata, si è spostata, e nessun incanto di progressività dialettica, neppure di una dialettica duramente criticata, ci attende più avanti (l’epoca della morale astratta sta finendo, più oltre avremo l’agire concreto...). Le mosche di Sartre mostrano con maggiore evidenza altri lati. Non è questo – forse – il dramma farsesco della “confessione” come tecnica di governo? L’autocoscienza che diviene regime sociale, autocontrollo? Non c’è bisogno che il delitto originario venga effettivamente commesso: basta l’idea di peccato, e per costruire questa idea è sufficiente che ciascuno impari a guardare dentro se stesso con uno sguardo che sia contemporaneamente il proprio e quello di un altro. Dell’altro più prossimo: della parte già morta del nostro ambiente circostante che torna a porgerci lo specchio, nel quale, beninteso, ciascuno non vedrà altro che la propria immagine. Egisto è il significante esterno di tale macchina, l’angolo di rifrazione di ogni colpo d’occhio che ritorna verso il sé. Le mosche sono la materializzazione di quei piccoli esseri fastidiosi e immondi che abitano i sogni di ogni coscienza. Una rudimentale psicanalisi è qui messa in scena come modus vivendi che, lungi dall’impedire, rende possibile una convivenza che non è detto debba essere infelice. Gli abitanti di Argo, grazie alla loro autoterapia, stanno bene. Non c’è bisogno – Sartre lo mostra chiaramente – di una repressione costituita: niente costrizioni, niente nemico, né campi di concentramento, ma neppure macchine sociali più sofisticate o dissimulate. Il panopticon non deve esistere materialmente per funzionare. C’è solo un rito pro9 piziatorio che tiene desto il ricordo di un’origine che potrebbe essere puramente immaginata: neppure una celebrazione sinistra, ma una festa in cui i dèmoni (non diversamente dagli dei romani) hanno libera uscita e si accompagnano ai vivi facendosi invitare a pranzo e chiedendo per sé un po’ di spazio nel loro letto. Sartre può forse additarci beffardamente una condizione futura o ormai quasi futura (assai più caustica della logica resistenza/occupazione nemica) proprio perché si tratta di uno scenario antico: la commedia della coscienza e della colpa imbeve la cultura occidentale. Qui, nelle Mosche, Giove ha poco della divinità pagana: è viceversa un dio cristiano, sornione, che può togliersi tranquillamente dal centro della storia perché ormai il dispositivo funziona. Sartre non amava Nietzsche. Eppure l’aria che si respira per tutti i tre atti della pièce ha toni nietzschiani: Argo è una città microfisicamente governata dal risentimento, una società in cui la morte di dio ha prodotto il suo risultato più temibile, è stata interiorizzata. Non ci sono più valori superiori, né dei né ideali: non servono più. Giove può starsene a lato. È lo spirito reattivo di ciascuno a regnare: il senso di colpa è la laicizzazione della divinità. Nessuna angoscia in questo gregge: la confessione si produce senza torture né pressioni, con deliberata partecipazione. Un nuovo paganesimo, ma falso e truccato: sublimazione del vecchio cristianesimo. Al posto della penitenza, la festa sociale. E Oreste? Come leggere questo “spirito libero” di fronte al quale, come Giove ammette nella pièce, gli dei nulla possono? Oreste arriva da Corinto dove si vive diversamente, “in questa stessa ora, sotto questo 10 stesso cielo, nelle piazze di Corinto ci sono bambini che giocano. E le loro madri non chiedono perdono di averli messi al mondo,” dice con tristezza Elettra. Gli abitanti di Argo hanno dimenticato il contadino che cammina sulla sua terra e chiede: “Il tempo è bello?” “Io danzo” continua Elettra, “vedete, danzo, e non sento altro che il soffiare del vento tra i capelli. Dove sono i morti? Credete che danzino con me, a tempo?” Elettra sa questo; al tempo stesso attendeva un vendicatore, Oreste con il suo atto di forza. Ci sono come due volti in Elettra: la voglia di danzare e la volontà di vendetta. Alla fine le rimarranno solo i rimorsi del gesto assassino compiuto dal fratello. Di Oreste, quando ancora questi esita, dice: “Pensavo soltanto alla sua forza, mai alla sua debolezza.” E Oreste, una volta compiuta la vendetta: “Eravamo troppo leggeri, Elettra: ora i nostri piedi sprofondano nella terra come le ruote di un carro in una carreggiata.” Aggredito dal popolo di Argo cui ha spezzato il gioco (“il nostro gioco nazionale: il gioco delle confessioni pubbliche”), Oreste fugge incantando dietro a sé le mosche come il suonatore di flauto di Sciro. Non ha avuto rimorsi, ma si è condannato alla solitudine. È diventato pesante. Ha sconfitto Giove ma non se stesso. Non ha saputo rimanere leggero: anche lui ha perso la voglia di danzare. Sappiamo come Sartre abbandonerà poi l’immagine di Oreste e teorizzerà che bisogna “sporcarsi le mani”, calpestare la terra, appesantirsi, senza nessuna idealizzazione, di lotta in lotta, di inerzia in inerzia, mirando a un farsi della storia, non a un atto risolutore. Però, il lettore di oggi, di fronte alla narrazione delle Mosche e al suo esito, può chiedersi: qual è la via o le vie che riportano alla leggerezza? 11