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Periferie del mondo e globalizzazione
ECONOMIA, DEMOGRAFIA E SOCIETÀ IpErtEStO Periferie del mondo e globalizzazione Il centro e la periferia IPERTESTO B Secondo lo storico francese Fernand Braudel, perché un’economia di tipo capitalistico possa svilupparsi appieno è necessario un vastissimo spazio geografico, caratterizzato dalla presenza di almeno tre aree, in stretto collegamento fra loro. Innanzi tutto, va ricordato quello che Braudel chiama il «centro» dell’intero complesso (denominato, dallo stesso Braudel, «economia-mondo»); in passato, il centro era una città (come Venezia, nel Cinquecento, o come Amsterdam, nel Seicento) verso la quale confluivano le merci più richieste o più preziose, per poi essere redistribuite nei vari mercati. Oggi, in situazioni di maggiore complessità, il centro è principalmente un grande polo finanziario, sede di una grande Borsa, vero cuore pulsante dell’intero sistema economico. Intorno al centro si trovano poi – secondo Braudel – due fasce di territori, dislocate sempre più lontano rispetto al centro stesso; mentre la fascia intermedia partecipa in modo significativo della ricchezza del centro (con un fecondo e articolato gioco di importazioni ed esportazioni), la zona più periferica è sottosviluppata, cioè si caratterizza per il fatto di essere solo la grande fornitrice di materie prime a basso costo, capaci di alimentare l’economia del centro. Quando Venezia era il centro di una complessa economia-mondo, vi affluivano i prodotti dell’Italia centro-settentrionale e della Germania, terre che, a loro volta, erano gli acquirenti privilegiati di quanto Venezia importava dall’Oriente (che Venezia, tuttavia, non controllava completamente, e quindi era già fuori dalla sua economia-mondo). La periferia, nel caso di Venezia, era rappresentata in primo luogo dalle sue isole nell’Egeo, già caratterizzate dalla monocoltura della canna da zucchero o della vigna, in quanto strettamente asservite agli interessi dei grandi mercanti veneziani. Nel caso olandese, il meccanismo era analogo: mentre Amsterdam, intorno al 1650, era il nuovo centro, e l’intera Europa occidentale era la fascia intermedia in diretto collegamento con esso, le grandi pianure polacche produttrici di grano, le isole dei Caraibi produttrici di zucchero e alcune isole orientali produttrici di spezie erano la sua estrema periferia. Periferie del mondo e globalizzazione 1 MODELLO TEORICO DI UN’ECONOMIA-MONDO Trasforma le materie prime e distribuisce prodotti finiti CENTRO I suoi abitanti godono di un elevato livello di libertà e di ricchezza È in stretti rapporti commerciali con il centro FASCIA INTERMEDIA I suoi abitanti vivono in condizioni di libertà e ricchezza accettabili Fornisce materie prime al centro PERIFERIA La popolazione e l’economia sono asservite alle esigenze del centro F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IpErtEStO ➔Londra e New York Man mano che ci si allontana dal centro, le condizioni di vita dei lavoratori tendono a peggiorare; utilizzando sempre un esempio relativo all’età moderna, possiamo dire che un contadino o un lavoratore urbano olandese godeva di un regime alimentare molto più equilibrato di quello dei suoi equivalenti francesi o tedeschi: la sua maggior ricchezza e la disponibilità più ampia di generi alimentari consentivano infatti una dieta sufficientemente variata. All’opposto, cioè all’estrema periferia, coloro che lavoravano per il centro dell’economia-mondo erano del tutto asserviti alle esigenze produttive olandesi e spietatamente sottoposti a esse. rispetto al sistema gravitante su Venezia, l’economia-mondo che ruotava intorno ad Amsterdam presentava una differenza fondamentale: le periferie olandesi erano molto più lontane nello spazio rispetto a quelle della città lagunare, il che stava a significare che l’area occupata dall’economia-mondo egemonizzata dall’Olanda era molto più estesa di quella dell’economia-mondo veneziana. Nell’Ottocento, Londra e l’Inghilterra divennero il centro di uno spazio economico ancora più vasto, che comprendeva, come propria periferia, l’India, gran parte dell’Africa, dell’Asia e dell’America del Sud. Dopo la prima guerra mondiale, questo ruolo centrale fu assunto dagli Stati Uniti: la grande crisi del 1929 toccò tutto il mondo capitalistico, ma ebbe il suo atto iniziale nel collasso della Borsa di Wall Street, a New York. UNITÀ XII Africa e America Latina, periferie degli Stati Uniti NOVECENTO GLOBALE 2 Sia in Africa sia in America Latina, nelle grandi metropoli (nell’immagine una veduta dei quartieri poveri di Lima, la capitale del Perù) le periferie sono diventate estesi quartieri abitati in prevalenza da una massa di diseredati, con un alto tasso di delinquenza e di mortalità. trasferiti e applicati al Novecento, i concetti di economia-mondo e di periferia permettono di capire, meglio di altre categorie interpretative, il posto specifico occupato nella storia del secolo scorso sia dal continente africano (e, più in particolare, dalle sue regioni nere, sub-sahariane), che dall’America Latina. Nel corso del Novecento, entrambi i continenti hanno registrato un cospicuo aumento della popolazione; sia nell’America del Centro-Sud (negli anni Cinquanta e Sessanta), sia in Africa (negli anni Settanta), il tasso medio di incremento è stato a lungo del 3%. «Dai circa 60 milioni nel 1900 – scrive Manuel plana per l’America centro-meridionale – si è passati ai 360 milioni del 1980 e ai 570 milioni previsti per la fine degli anni Novanta dalle proiezioni degli organismi internazionali, una crescita che appare in tutta la sua portata dirompente se si considera che nel corso del xIx secolo la popolazione latinoamericana era poco più che raddoppiata mentre alla fine del Novecento essa sarà cresciuta dieci volte rispetto all’inizio del secolo, con i relativi problemi sul piano della struttura economica e sociale». F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IpErtEStO Riferimento storiografico 1 ➔Violenza allo stato puro 3 ➔Neo-colonialismo La globalizzazione Nei suoi studi, Braudel ha più volte precisato che il termine economia-mondo non significava economia di dimensioni planetarie. Un’economia-mondo, infatti, occupa un preciso spazio geografico, cioè dei limiti, che la individuano e la separano da altre economie-mondo concorrenti e rivali. Negli anni compresi tra il 1945 e il 1989, ad esempio, l’economiamondo capitalista (che aveva il proprio centro in New York e negli Stati Uniti) non controllava né la Cina, né i territori che si trovavano sotto l’influenza sovietica. Il crollo del comunismo a Mosca e le radicali trasformazioni economiche introdotte dal regime cinese (formalmente ancora comunista, ma ormai privo di un’identità ideologica precisa) hanno fatto sì che anche queste due immense aree si integrassero nel grande meccanismo dell’economia capitalistica gravitante su New York. In pratica, per la prima volta nella storia, un’economia-mondo capitalistica ha raggiunto dimensioni universali: F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IPERTESTO B pag. 5 Riferimenti storiografici pagg. 7 e 8 2 e 3 Periferie del mondo e globalizzazione A tale vertiginosa crescita demografica si è accompagnata una esagerata e patologica espansione delle grandi città, verso le quali si è diretto un numero sempre più elevato di contadini che non trovavano più lavoro e possibilità di sopravvivenza nelle regioni a economia agraria. poiché le metropoli non erano attrezzate per accogliere un simile flusso di immigrati, le periferie dei grandi centri urbani si sono trasformate in distese di baracche prive dei più elementari servizi, in cui la mortalità (soprattutto infantile) è elevatissima. La causa primaria di questi gravi squilibri, della miseria e della sottoalimentazione che caratterizzano l’Africa e l’America Latina, va ricercata nel fatto che le economie dei principali Stati latino-americani e africani non sono state orientate prioritariamente alla nutrizione o al benessere delle popolazioni indigene, bensì a garantire il profitto del centro dell’economia-mondo capitalista (gli Stati Uniti) e delle altre regioni (l’Europa occidentale e il Giappone, ad esempio) che partecipano alla ricchezza e allo sviluppo del centro, pur collocandosi, rispetto a esso, in posizione leggermente subordinata e complementare. Analogamente, il concetto di periferia ci permette di capire come mai in queste aree la democrazia abbia una vita stentata e difficile, o meglio, perché la libertà e i diritti dell’uomo siano stati così frequentemente e spietatamente negati. Soprattutto parlando dell’Africa e dei numerosi conflitti che l’attraversano, l’osservatore europeo cade spesso vittima di un pregiudizio che, al limite, sfiora il razzismo; le violenze che insanguinano il continente nero, infatti, sono in genere attribuite a non meglio precisati odi tribali, espressione che si carica inevitabilmente di una valenza dispregiativa, quasi che i popoli africani fossero per natura violenti, selvaggi e feroci. In tal modo non viene messo in luce che, in moltissime circostanze, quelle lotte hanno avuto e hanno tuttora, come posta in gioco, il controllo delle relazioni economiche con l’Occidente, cioè nascono da motivi concreti e precisi, direttamente connessi con il sistema produttivo europeo o statunitense. Il caso più chiaro è quello del Sud Africa, una nazione ricchissima, in cui le risorse economiche sono state a lungo saldamente controllate da una minoranza di origine europea (e non da gruppi dirigenti indigeni). La violenza dominatrice, qui, appare nel suo stato più puro, priva di ogni maschera, talmente esplicita da osare l’attivazione di un regime spudoratamente razzista, che da solo mostra fino a che punto una regione di periferia possa far ricorso a strumenti di dominazione e di sfruttamento dei propri abitanti impensabili nelle regioni centrali di un’economia-mondo capitalista, fiere della propria libertà e del livello raggiunto dalla propria civiltà. In termini simili, si pensi ai numerosi golpe e alle dittature militari in America Latina, che in genere avvenivano quando nuovi governi usciti da libere elezioni (Cile, 1973) o proteste e sommosse popolari (Messico, 1913) rischiavano di mettere in discussione i consolidati interessi americani. Sia gli Stati Uniti (in America Latina), sia vari paesi europei (in Africa) restarono di fatto padroni delle risorse economiche di vastissimi territori, anche dopo che essi da molto tempo avevano ottenuto l’indipendenza. In tutti questi casi, nei quali la sovranità era solo formale, ma non sostanziale, si può utilizzare l’espressione neo-colonialismo, a indicare una forte continuità rispetto al passato, cioè il permanere di una pesante dipendenza da potenze straniere. IpErtEStO UNITÀ XII Un’immagine che meglio di mille parole chiarisce il concetto di globalizzazione: una nota bevanda viene trasportata da alcuni ambulanti africani in viaggio verso il Mozambico, a testimoniare che il mondo è ormai diventato un unico mercato universale. NOVECENTO GLOBALE 4 ➔Salari più bassi e lavoro minorile è divenuta un fenomeno globale, che investe (e mantiene sotto il proprio controllo) tutto il pianeta. Il termine globalizzazione serve proprio a indicare che, negli ultimi decenni del xx secolo, il mondo è diventato un unico ed enorme mercato universale. Il primo evidente risultato di questo fenomeno è la presenza in tutti i paesi del mondo degli stessi marchi e dei medesimi prodotti: a Mosca, a rio de Janeiro e a tokyo, coma a Chicago o a parigi, è possibile utilizzare gli stessi software, vedere al cinema gli stessi film, bere la stessa bevanda frizzante o mangiare i medesimi hamburger. D’altra parte, come ogni economia-mondo del passato, anche quella globale del xxI secolo ha dei gravi risvolti. per ridurre i costi dei beni che smerciano in tutto il mondo, le grandi aziende multinazionali (americane, giapponesi ed europee) tendono a decentrare la produzione, cioè impiantano filiali in paesi poveri e arretrati, in cui i lavoratori non godono né di pensione né di assistenza medica, e tanto meno sono tutelati da efficienti organizzazioni sindacali. In tali contesti spesso si riesce a sfruttare il lavoro minorile, severamente condannato in Europa, in America e in Giappone. Oppure, è possibile inquinare l’ambiente in misura impensabile nei paesi industrializzati da tempo, ove l’opinione pubblica è molto sensibile alle tematiche ecologiche e la legislazione obbliga le aziende a dotarsi di numerosi (e costosi) sistemi di prevenzione, per evitare intossicazioni dei lavoratori o vere e proprie catastrofi ecologiche (fuoriuscita di nubi tossiche, avvelenamento di fiumi ecc.). per questo motivo, il processo di globalizzazione è stato pesantemente criticato e avversato da numerosi intellettuali e organizzazioni internazionali, che hanno sottolineato il rischio di un aggravamento del divario economico tra il Nord del mondo, ricco e industrializzato, e il Sud del pianeta, povero e sfruttato. Il primo vasto episodio di contestazione della globalizzazione ebbe luogo nel 1999 a Seattle, negli Stati Uniti, quando i disordini scoppiati impedirono il regolare svolgimento di una conferenza internazionale, convocata per coordinare e regolare il commercio mondiale. proteste fortissime si sono verificate anche a Genova, nel luglio 2001, allorché la città italiana ospitò l’incontro al vertice dei capi di Stato e di governo degli otto paesi economicamente più sviluppati del mondo (i cosiddetti G8). In quell’occasione, gruppi di contestatori violenti compirono un gran numero di atti vandalici, distruggendo automobili, arredi urbani e vetrine di negozi. Nel corso della guerriglia urbana che esplose e coinvolse diverse strade di Genova, uno dei contestatori violenti rimase ucciso da un carabiniere. Inoltre, preoccupata di riportare l’ordine a qualunque costo, la polizia colpì anche molti manifestanti pacifici, che esercitavano il loro diritto di esprimere pubblicamente le proprie opinioni contrarie alla globalizzazione. F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 I problemi alimentari dell’Africa La popolazione africana, nel dopoguerra, aumentò a tassi sempre crescenti. Tuttavia, ai contadini fu consigliato di coltivare caffè, cacao, tabacco e altri prodotti destinati all’esportazione sui mercati dei Paesi capitalistici. Il risultato fu che i Paesi africani non poterono più soddisfare la domanda interna di generi alimentari. Rifornimenti alimentari italiani giungono sulla spiaggia di Berbera in Somalia nel 1986, per aiutare il Paese africano duramente colpito da una carestia in quel periodo. 5 Periferie del mondo e globalizzazione Durante gli anni Settanta divenne evidente che, benché la stragrande maggioranza degli africani di tutto il continente fossero agricoltori, sempre più paesi dell’Africa non riuscivano a produrre alimenti sufficienti a nutrire la propria popolazione, e di conseguenza erano costretti a spendere una parte dei proventi delle loro esportazioni in generi alimentari di importazione, diminuendo così, chiaramente, le loro possibilità di acquistare all’estero beni e servizi necessari ai loro programmi di sviluppo. Il motivo di base per cui ai paesi africani era impossibile produrre generi alimentari sufficienti era che, a partire da un certo periodo, la loro popolazione era aumentata a tassi sempre crescenti. Negli anni Settanta l’incremento naturale (cioè l’eccesso delle nascite sulle morti) in tutto il continente era di circa il 3% annuo. Un tasso così elevato dimostra che quasi ovunque ci si sarebbe potuti aspettare che le bocche da sfamare sarebbero raddoppiate in meno di un quarto di secolo. Questo avrebbe inciso molto meno sulla produzione alimentare in Africa se i programmi di sviluppo si fossero concentrati maggiormente sul miglioramento della vita degli agricoltori, dotando le campagne di migliori infrastrutture per l’istruzione, i servizi sanitari, gli approvvigionamenti di acqua e altre cose di questo genere, e si fossero anche impegnati a incoraggiare la produzione e il miglioramento della distribuzione di generi alimentari per il consumo interno. Ai contadini fu invece consigliato di coltivare quei raccolti che rendevano maggiormente nell’esportazione, e tra i prodotti africani più richiesti sui mercati mondiali vi erano il caffè, il cacao, il tè, il tabacco, il sisal ed il caucciù, che non potevano soddisfare la domanda interna di generi alimentari. Come ci si rese conto, i guadagni ricavati dalle esportazioni dovevano es- IPERTESTO B 1 IpErtEStO Riferimenti storiografici F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IpErtEStO UNITÀ XII NOVECENTO GLOBALE 6 Che posto occupa il fenomeno dell’urbanizzazione, in Africa, nel dopoguerra? Quale fenomeno naturale intervenne a complicare il già difficile quadro demografico dell’Africa, a partire dal 1973? sere impiegati nei settori moderni dell’economia, nell’estrazione dei minerali richiesti sui mercati mondiali e soprattutto nello sviluppo dell’industria e nell’ampliamento delle città che ospitavano la manodopera e i servizi richiesti dall’industria e dal settore minerario. Non solo, quindi, si prestò un’attenzione, generalmente scarsa allo sviluppo rurale, ma la campagna e i contadini vennero tassati e sfruttati per ottenere mezzi necessari ad accrescere il settore minerario, l’industria e le città. Mentre questi nuovi settori si sviluppavano, c’era sempre meno gente in grado di produrre generi alimentari e sempre più persone che ne avevano bisogno. Dalle città fu sottratto lavoro alle campagne, dal momento che l’industria e le miniere offrivano salari relativamente più alti. [...] Nel breve periodo di trent’anni, dopo il 1945, il numero delle città africane con più di 100 000 abitanti crebbe da 49 a 120 e più. Era difficile trovare un solo paese che non ne avesse almeno una (e la Nigeria ne contava non meno di 32). Nel caso dell’Africa subsahariana fu calcolato che durante gli anni Sessanta e Settanta il numero delle persone che vivevano nelle città raddoppiasse, che nel 1980 più di un quinto della popolazione abitasse in città e che, se l’urbanizzazione fosse continuata a crescere a questa velocità, all’incirca negli anni Novanta ci si sarebbe potuti attendere che metà della popolazione sarebbe vissuta in città. Dal 1973 in poi, il problema di produrre alimentazione sufficiente a nutrire una popolazione in crescita e sempre più urbanizzata peggiorò molto, perché per alcuni anni le piogge, soprattutto nelle zone semidesertiche tra il 10o ed il 30o parallelo sia a nord che a sud dell’Equatore furono molto inferiori alla media. Non vi furono raccolti e i pascoli si esaurirono, con il risultato che gli animali erbivori morivano o dovettero essere trasferiti in terre che fino a quel momento erano in grado di produrre raccolti o offrire un livello più alto di generi alimentari. Il risultato fu una serie di disastrose carestie, alle quali i paesi africani e i loro governi non poterono far fronte senza l’intervento di massicci aiuti stranieri. Essi mancavano dei fondi necessari per acquistare i generi alimentari in surplus prodotti dai paesi europei occidentali e dagli agricoltori nordamericani, e non possedevano i veicoli e l’organizzazione necessaria a distribuire una consistente quantità di cibo al grande numero di persone che fino a quel momento erano state autosufficienti. Prima morirono gli animali e poi milioni di persone, specialmente i malati, i giovanissimi o i più anziani. I sopravvissuti andarono ad aumentare la popolazione delle città o furono condotti nei campi-profughi, dotati di un minimo riparo o di servizi igienici di prima necessità, e qui poterono ricevere cibo e cure mediche offerte dagli enti di soccorso internazionali, in una quantità che si sperava fosse sufficiente per fare in modo che il maggior numero di persone possibile potesse sfuggire alla carestia, alle epidemie di diarrea infettiva, al morbillo, alla polmonite e alla tubercolosi che ad esse si accompagnava. J.D. FAGE, Storia dell’Africa, SEI, torino 1995, pp. 490-494, a cura di A. BONO Le terribili condizioni di vita di alcune donne e bambini somali fotografati davanti alla loro abitazione. F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IpErtEStO Caratteri della globalizzazione La globalizzazione è un fenomeno complesso, emerso dopo la crisi dei sistemi comunisti in Cina e in URSS, che ha permesso la trasformazione dell’intero pianeta in un unico mercato globale. In secondo luogo, la globalizzazione è figlia della rivoluzione informatica, che ha permesso il trasferimento di dati, informazioni e denaro ad una velocità inconcepibile fino a pochi decenni fa. IPERTESTO B Il processo di globalizzazione, ovvero di un’internazionalizzazione delle relazioni economiche tale da creare una «economia mondo», non era certamente un fatto nuovo e aveva anzi radici lontane, in quanto i suoi precedenti risalivano quanto meno all’epoca delle grandi scoperte geografiche. Ma era stato nel quarantennio precedente al 1914 che la globalizzazione aveva raggiunto un grado assai elevato di intensità e organicità. In seguito le grandi fratture che avevano caratterizzato le relazioni tra le grandi potenze tra la prima guerra mondiale e il crollo dell’Unione Sovietica avevano reso impossibile lo sviluppo del processo, il quale dopo quest’ultimo evento aveva potuto riprendere il suo cammino. Senonché la globalizzazione dell’ultimo decennio del Novecento ha poggiato su una serie di componenti che davano a essa la sua tipicità e un’intensità in precedenza neppure pensabile, frutto della combinazione di fattori economici, tecnologici, sociali, politici e culturali del tutto nuovi, liberati, per così dire, dagli epocali mutamenti geo-politici. Occorre partire dal dato che tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta si assistette in tutti i Paesi sviluppati, con particolare intensità in America, a una forte riduzione del peso della grande industria, soprattutto metalmeccanica e siderurgica e quindi anche di quello della classe operaia, alla dilatazione del settore terziario [quei lavoratori impegnati non nell’agricoltura (settore primario, perché fornitore di cibo), non nell’industria (settore secondario, fornitore di beni di consumo), bensì nell’ambito della fornitura di servizi, n.d.r.] (che nel 1995 comprendeva ormai negli Stati Uniti oltre il 70% della forza lavoro) e alla sempre maggiore automazione degli impianti. L’arretramento della grande industria tradizionale, i cui cicli di vita erano in genere notevolmente lunghi, è andato di pari passo con la moltiplicazione di nuove imprese di piccole-medie dimensioni, basate su un tasso assai elevato di informatizzazione, tese a rispondere con rapidità all’evoluzione delle tecnologie e alle richieste del mercato, destinate a nascere e a sparire spesso rapidamente, con la conseguenza di non assicurare più agli addetti un «lavoro per la vita», ma un’occupazione precaria. Tutto ciò si è accompagnato alla drastica diminuzione del ruolo dell’intervento nell’economia dello Stato – che in molti Paesi specie europei aveva assunto la fisionomia di Stato imprenditore – e a un ruolo corrispondentemente maggiore della libera iniziativa. […] L’attacco si rivolse del pari contro il Welfare State, accusato di pesare in maniera insostenibile sulle finanze pubbliche e di abituare i suoi beneficiari all’inerzia e al parassitismo. 7 Lo sviluppo dell’elettronica e dell’informatica ha contribuito notevolmente al processo di globalizzazione. F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 Periferie del mondo e globalizzazione 2 IpErtEStO UNITÀ XII NOVECENTO GLOBALE 8 Spiega l’espressione «privatizzare al massimo l’economia». Che peso hanno gli Stati, in un’economia sempre più globalizzata? Il benessere delle persone doveva essere invece affidato allo sviluppo spontaneo del mercato e alle sue ricadute sull’insieme della società. La globalizzazione trovò così la sua filosofia nel neoliberismo conservatore. La parola d’ordine dominante divenne: privatizzare al massimo l’economia, smantellare mediante le liberalizzazioni la proprietà pubblica e il sistema di dirigismo statalistico. La globalizzazione della nostra epoca ha tra i suoi presupposti più importanti la rivoluzione informatica, la quale ha dato vita a una rete che avvolge il mondo intero. Le merci oggi si spostano da un continente all’altro con mezzi terrestri, navali e aerei che operano incessantemente e sempre più fittamente; ma è la rete che rende possibile – in tempi pressoché immediati – di trasmettere informazioni, far conoscere agli operatori finanziari e industriali quel che avviene in ogni luogo, muovere i capitali, investire o disinvestire, emettere direttive e comandi. Senza la rivoluzione informatica la globalizzazione non sarebbe stata tecnicamente possibile e non avrebbe potuto assumere le proprie caratteristiche. Orbene, mentre gli ostacoli di spazio e di tempo all’interscambio globale venivano abbattuti dalla rivoluzione informatica su un versante, l’ingresso a pieno titolo dei Paesi dell’ex-impero sovietico nell’area del capitalismo e quello della Cina comunista nel mercato internazionale fecero cadere gli ostacoli su un altro versante. […] La globalizzazione ha esaltato il potere dei maggiori centri finanziari e industriali internazionali, lo ha collocato a un livello che ha reso via via più obsoleti il concetto e la realtà delle «economie nazionali» e ha dato luogo non soltanto a un «mercato globale», ma a un sistema globale, di cui le economie dei singoli Paesi costituiscono delle articolazioni, dei sottosistemi. Questi centri assumono essi in prima persona, al di fuori di qualsivoglia legittimazione politica e democratica e mettendo in crisi la tradizionale sovranità degli Stati, le decisioni fondamentali circa la dislocazione, l’uso e le finalità di immense risorse da cui dipende per tanta parte la vita dei popoli. A vedere pressoché annullata o quanto meno fortemente sminuita la propria sovranità sono soprattutto gli Stati piccoli e medi. Oggi gli unici Stati in grado, se e quando lo vogliano, di resistere al potere delle oligarchie economiche sono i grandi Stati o le unioni di Stati: gli Stati Uniti, l’Unione europea, l’Unione Indiana e la Cina. Ma a tal proposito è da considerare che vi sono grandi Stati, come gli Stati Uniti, il Paese che è il più forte motore della globalizzazione in quanto in esso hanno sede i maggiori centri del potere economico mondiale, nel quale il connubio tra questi centri e il governo – è il caso tipico dell’amministrazione di G.W. Bush jr. – è arrivato al punto da conferire ai primi il diretto controllo sul potere politico. M.L. SALVADOrI, Il mondo attuale e le sue contraddizioni, in La Storia. 15 Il mondo oggi, UtEt, torino 2004, pp. 18-22 3 Globalizzazione: pro e contro La globalizzazione suscita grandi entusiasmi e altrettanto appassionati rifiuti. In realtà, si tratta di un fenomeno complesso, in cui i vantaggi e i problemi spesso si bilanciano, sia per regioni ricche come l’Europa, sia per zone più povere come l’Asia. I veri esclusi dal processo sembrano i Paesi africani, in cui l’emigrazione di massa pare l’ultima disperata risorsa per partecipare al benessere del resto del mondo. Se cerchiamo di definire il fenomeno attuale [la globalizzazione – n.d.r.], ci si accorge che esso, almeno per un verso decisivo, ha una data di nascita che coincide con il crollo dell’Unione Sovietica. Venne in quel momento meno non solo un sistema politico e sociale che aveva marcato il secolo, ma un sistema economico che divideva il mondo in due mercati ben distinti. Da un lato la libera economia, dall’altro una pianificazione autoritaria, protezionistica e totalizzante in ogni settore, con prezzi e valori, compreso quello della moneta, fissati non dal gioco della domanda e dell’offerta ma dal potere amministrativo. Esso assicurava un pieno impiego improduttivo [garantiva l’assenza di disoccupazione, anche a costo di impiegare più lavoratori di quelli necessari, con ovvi risultati negativi per il bilancio delle aziende, tutte di Stato, n.d.r.] in un quadro di penuria permanente, di arretratezza tecnologica e di bassissimo tasso di sviluppo, con l’eccezione dell’industria pesante legata agli armamenti. Gli scambi tra le due aree erano sostanzialmente regolati da accordi politico-diplomatici. Alla fine il confronto divenne devastante per l’Est che crollò su se stesso, non per impulso esterno. Il sistema protezionistico-autoritario aveva, peraltro, fatto proseliti anche in molti paesi ex coloniali che si illusero di salvaguardare, mimando gli schemi del socialismo reale, le proprie imprese e produzioni dalla concorrenza e dalle importazioni. Così facendo aggravarono, però, ancor più le condizioni di sottosviluppo. Gli ossessionati critici della globalizzazione non si rendono neppure conto che il rifiuto da essi proclamato della libera economia di mercato – piena di difetti e non esente da crisi, epF.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 M. pIrANI, È scoppiata la terza guerra mondiale? Le democrazie tra pacifismo e difesa, Mondadori, Milano 2004, pp. 275-279 Spiega l’espressione «sistema protezionistico-autoritario», usata per descrivere il sistema sovietico. Spiega l’affermazione secondo cui la libera economia di mercato è «piena di difetti e non esente da crisi, eppur riproduttrice di continue potenzialità». F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IpErtEStO IPERTESTO B 9 Una manifestazione del movimento no global. Periferie del mondo e globalizzazione pur riproduttrice di continue potenzialità – avrebbe un solo logico sbocco: la riesumazione di un sistema chiuso, autoritario, statalista, protezionistico, già ampiamente verificato nei suoi esiti disastrosi. La fine dei due mercati è, peraltro, solo uno dei presupposti dell’odierna globalizzazione. Essa ha assunto la dinamica dirompente che conosciamo in coincidenza con un’altra di quelle casualità che la storia imprevedibilmente offre: la rivoluzione informatica che, attraverso il computer, Internet e quant’altro le nuove tecnologie offrono, ha unificato il mondo in tempo reale. Informazioni, notizie, capitali, saperi, comunicazioni individuali e collettive, tutto si muove da un capo all’altro della terra nello spazio temporale di pochi impulsi elettronici. Gli effetti sono stati molteplici e in questo spazio non è possibile neppure catalogarli. Ne elenco schematicamente i tre che mi paiono prioritari. 1. La libera circolazione non solo dei capitali ma dei più vari strumenti finanziari ha assunto velocità e dimensioni esponenziali mai verificatesi nel passato. La ricchezza si è moltiplicata, anche se con fortissimi squilibri e crisi tipiche dei periodi di decollo economico, quando la rapidità dell’indebitamento supera quella del rientro dei capitali investiti e degli interessi corrisposti [alle banche, n.d.r.] per le nuove allocazioni [i campi in cui i capitali presi a credito sono stati investiti, n.d.r.]. Ciò non ha impedito la dislocazione diffusissima di un’industrializzazione avanzata e di reti finanziarie in zone del mondo un tempo arcaiche o marginali. 2. L’incrocio dei fattori sopra esposti, con la disponibilità di una manodopera a costi bassi ma capace di rapido apprendimento tecnologico, ha dato allo sviluppo di una parte del Terzo mondo caratteri del tutto imprevedibili. L’India, la Cina e quasi tutti i paesi asiatici, dalle Filippine alla Thailandia, sono diventati concorrenti diretti del Primo mondo anche in molte produzioni tecnologicamente avanzate (basti pensare alla capacità informatica dell’India) oltre che in quelle tradizionali. L’approdo insperato al mercato mondiale e alla concorrenza ha provocato fenomeni di disoccupazione nei settori statalmente protetti (ad esempio in Cina) ma ha contemporaneamente favorito la creazione di milioni di nuovi posti di lavoro, anche se sottopagati in rapporto all’Occidente e privi di Welfare [di assistenza pubblica, n.d.r.]. 3. I paesi del Terzo Mondo, soprattutto quelli africani, rimasti ai margini della mondializzazione e della rivoluzione informatica risultano ancor più arretrati e impoveriti. Nessun aiuto sarà sufficiente al loro decollo senza il loro pieno inserimento nel mercato globale. Per ora esso si è verificato solo con l’accentuazione della spinta migratoria verso l’Europa e gli Stati Uniti, resa più intensa a attrattiva proprio dal diffondersi dell’informazione e dal miraggio di modelli di vita, percepibili attraverso i mass media in ogni parte del globo. Da questo quadro discende il paradosso di un movimento no-global che ha il suo fulcro nei paesi avanzati, e ignora le ragioni di miliardi di esseri umani in marcia, faticosa ma prorompente, verso la modernità. […] Questo spiega perché la protesta che ha incendiato le strade vada in scena in primo luogo sui palcoscenici dell’uomo bianco (da Seattle a Göteborg, da Salisburgo a Genova) e non sembri per ora sfiorare le metropoli e le campagne degli altri continenti, da dove, se mai, arrivano richieste di più globalizzazione, nel senso di maggiori investimenti, nuovi prestiti, più larghe possibilità di emigrazione.