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2015 PERIFERIA PERIFERIE - Ordine degli Architetti

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2015 PERIFERIA PERIFERIE - Ordine degli Architetti
appunti d’architettura
2015
PERIFERIA
PERIFERIE
numerounoduemilaquindici
sommario
architettilecce
appunti di architettura
Pubblicazione periodica quadrimestrale in
abbonamento postale.
Registrazione presso il tribunale di Lecce n. 562
del 28 ottobre 1992.
N. 1_2015
Direttore responsabile
Massimo Crusi
Coordinamento editoriale
Alessandro Epifani
Carla Petrachi
Hanno scritto
Marco Asciutti, Walter Carrozzo, Massimo Crusi,
Fabio Dell’Erba, Stefania Galante, Valentina Galluccio,
Raffaele Gorgoni, Carla Petrachi, Franco Purini,
Katy Tundo
La redazione ringrazia per la collaborazione e la cortese
disponibilità Angela Barbanente, Leopoldo Freyrie,
Raffaele Gorgoni, Franco Purini
Direzione e redazione
Ordine degli Architetti PPC della provincia di Lecce
Galleria Mazzini 42
73100 Lecce
T/F 0832 316128
www.architettilecce.it
[email protected]
Consiglio dell’Ordine
Massimo Crusi
Presidente
Vicepresidente
Antonello Sforza
Segretario
Fabiana Cicirillo
Tesoriere
Flavio De Carlo
Consiglieri: Nicoletta Cavalera, Rocco
De Matteis, Alessandro Epifani,
Salvatore Mininanni, Andrea
Toscano, Vincenzo D’Alba, Fabio Rimo
Gruppo attività culturali
Katy Tundo (coordinatrice), Marco Asciutti, Walter
Carrozzo, Fabio Dell’Erba, Francesco D’Ercole, Stefania
Galante, Valentina Galluccio, Marcello Messa
Consigliere delegato Gruppo attività culturali
Alessandro Epifani, Vincenzo D’Alba, Andrea Toscano
Editore
Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Lecce
Progetto Grafico
Alessandro Epifani
Layout
Marco Asciutti
Contributi fotografici
Marco Asciutti, Stefania Galante, Gruppo Città Fertile,
Carlo Ragaglini
Stampa
Torgraf
Distribuzione gratuita a tutti gli iscritti dell’Ordine degli
Architetti
PPC della provincia di Lecce
Ogni contributo esprime il punto di vista
dell’autrice/dell’autore, e non vincola in alcun modo
l’editore. Quando non diversamente specificato,
i contributi sono a cura della redazione
© Tutti i diritti riservati
4
guardare le periferie, pensare la città
8
rigenerazione urbana
massimo crusi
intervista ad angela barbanente
materia urbana
16 della
intervista a leopoldo freyrie
città di tutti
20 lafranco
purini
riformismo e l’urbanistica
26 ilraffaele
gorgoni
una città
28 scorrendo
marco asciutti
8
16
20
26
comunità dispersa
30 lastefania
galante
di un quartiere
34 anatomia
lecce, gli anni ‘50, santa rosa
voilà la qualità
38 et
fabio dell’erba
della distanza
42 elogio
katy tundo
bordo e bordo
46 tra
walter carrozzo
muro per un poeta
48 un
intervista a giorgio leaci e chekos’
34
dell’aperto
50 leperforme
una nuova piazza mazzini
54 news
condizione del presente
60 lariletture
geniale
62 l’amica
recensioni
50
60
editoriale
4
guardare le periferie
pensare la città
massimo
crusi
presidente
ordine architetti
ppc Lecce
Guardare le periferie significa pensare la città. Per noi architetti è un dato assolutamente evidente e, per certi aspetti, assodato.
Lo avevamo sottolineato anche nel numero precedente nell’evidenziare, a proposito
della sostenibilità, l’esigenza di prestare attenzione, con più forza, a questioni come
la densificazione, la crescita o decrescita
urbana, la cura dei luoghi. Al modo in cui,
nelle nostre città, alcune parti crescono
smisuratamente e altre vengono abbandonate o non adeguatamente manotenute, alla
relazione tra forma urbana e sviluppo, alla
manutenzione come attenzione e pratica
costanti per una concreta qualità di vita e
delle relazioni che si danno nei luoghi.
La sostenibilità diveniva, dunque, la lente
per leggere meglio quei territori di mezzo privi di forma immediatamente riconoscibile, in
parte edificati, in parte incolti, in parte agricoli, in parte abitati. Quelli che chiamiamo
periferie.
Da quella riflessione alla redazione del progetto “Di.Ri.Go_Disegnare Rucire Governare le periferie” che come Federazione degli
Ordini degli Architetti di Puglia ci ha visti impegnati, il passo è stato breve.
Una riflessione che ci ha pienamente coinvolti con la messa a punto di un programma di lavoro ambizioso ed entusiasmante:
chiamare a raccolta con una Call for paper
non solo gli architetti, o i pianificatori, o i
paesaggisti, ma anche sociologi, donne e
uomini di letteratura, di cinema, antropologi,
sociologi. Tutte e tutti coloro che si misurano quotidianamente con le periferie, e restituendo il proprio sapere possono concorrere ad arricchire e sviluppare una sorta di
valigia degli attrezzi che vorremmo mettere
a disposizione dell’intera regione e delle Isti-
tuzioni territoriali.
Certo, la riflessione di Renzo Piano sul Sole24Ore, il suo impegno per Librino, il coinvolgimento di un gruppo di professionisti
under30 ha avuto il merito – grazie anche
all’esposizione mediatica del Senatore - di
rimettere al centro la questione, riannodando i fili di una riflessione che ha visto in campo concretamente il nostro Consiglio nazionale e che per molto tempo è stata condotta
solo ed esclusivamente nel chiuso delle
Università, degli studi professionali o degli
uffici tecnici, e di conseguenza più marcatamente privata che pubblica. Una questione
che nel Progetto RIUSO è stata posta per
tempo e declinata, correttamente, sul versante della rigenerazione urbana e della più
complessiva qualità urbana.
Rispolverare la memoria è importante, per
riconsiderare esperienze importanti vissute
anche nel nostro territorio in tempi non sospetti. Ricordo ancora con emozione e un
pizzico di nostalgia i mesi del Laboratorio di
Quartiere ad Otranto quando l’ Amministrazione comunale del tempo ebbe il merito
di coinvolgere Renzo Piano e Gianfranco
Dioguardi in un’esperienza di pensiero sulla
città e il suo futuro rimasta per molto tempo
unica e ancora eccezionalmente moderna
nello spirito e nel merito.
La partecipazione prima della partecipazione, si potrebbe dire, prima dei Pirp, della
rigenerazione urbana come modello di intervento amministrativo, prima dei Fondi strutturali.
Quando si era ancora in tempo per correggere, o evitare, alcune derive oggi evidentissime: consumo di suolo, ampliamento
smisurato dei margini urbani e speculazio-
ne, edilizia economica e popolare
ad alto impatto ambientale e basso costo, assenza totale di funzioni
urbane nelle zone di espansione.
C’è stato un tempo in cui la periferia non era ancora periferia.
Erano spazi urbani lontani dal centro storico, per arrivarci bisognava
camminare un po’ di più ma se dovessimo (forse dovremmo) decidere di percorrere a piedi il Salento
per fermarci, con più attenzione,
con più precisione dello sguardo
e intelligenza della sosta, davanti a
palazzine che un tempo nei nostri
paesi erano chiamate case popolari, ex Ina, forse ancora adesso
rimarremmo stupiti.
C’è qualcosa, nelle volumetrie,
nello spazio aperto seppure recintato che quasi sempre le circonda, nelle verande con balcone che
spesso caratterizzano i primi o secondi piani, nell’armonia – magari
anche inconsapevole – della relazione con lo spazio intorno, che si
trasforma in vera e propria lezione.
Così, mi dico, per parlare delle periferie oggi, qui nel Salento o nelle
città formicaio, nelle città metropolitane e anche nelle nuove città, le
smart city, forse vale la pena tornare per un attimo a quel paradigma.
Chiamiamo periferie, e in queste
pagine lo affermano sia pure con
declinazioni differenti Leopoldo
Freyrie e Franco Purini, soprattutto
atti incompiuti. Processi costruttivi
dove le amministrazioni locali han-
no scelto, o a volte vi sono state
costrette dalla scarsità delle risorse, di non dare seguito ai progetti
così come erano stati immaginati.
Alla fine, anche l’idea di casa, nella
relazione con lo spazio pubblico,
nella dialettica vuoto-pieno, nella
dimensione di luogo ospite degli affetti e dell’intimità, è venuta
meno.
Il grado zero, quello della manutenzione, oggi sembra essere l’obiettivo più ambizioso.
Una delle regole auree dell’economia e della buona amministrazione,
la cosiddetta economia di scala,
qui trova la sua antitesi: quello che
con una regolare, direi addirittura
modesta, manutenzione avrebbe
incontrato anche una sua qualità,
nel tempo è diventato il paesaggio sgrammaticato a cui siamo per
forza di cose abituati. L’assenza di
manutenzione delle cose ha finito
con il divenire assenza di manutenzione delle relazioni tra gli umani. E la politica ha smarrito il compito di governo della complessità.
Attraversiamo i vuoti urbani delle
periferie senza volto (meravigliati
spesso di come le relazioni tra le
persone possano a volte incredibilmente trasformare luoghi anonimi,
riannodando legami e senso) e allo
stesso modo le intercapedini tra
paesi e paesi cui adesso cerchiamo di dare soluzione con la pianificazione intercomunale. Proprio lì,
come nelle periferie, si annida una
sfida enorme che dobbiamo avere
il coraggio, anche come architetti, di affrontare. Se è nelle periferie
che la città trova il suo volto e la
sua verità, quali che essi siano, la
stessa cosa accade anche nelle
no man’s lands che spesso sono
le intercapedini tra paese e paese. Coraggio e attenzione. Questo
non significa replicare all’infinito
nei luoghi che definiamo periferie
la forma città. Sarebbe troppo facile e ancora una volta perderemmo sul piano del confronto con
la complessità. Riqualificazione e
riuso a scala intercomunale deve
poter significare un esercizio concreto e reale sul tema della qualità,
anche della qualità del paesaggio.
Lì dove il margine urbano è già
quasi campagna replicare la città significherebbe forse violare o
violentare non tanto l’identità dei
luoghi quanto la loro natura. Chi
ci dice che in quel caso non sia
necessario un pensiero su come
attrezzare la campagna piuttosto
che su come replicare la città?
Rammendare e ricucire pensando
alla relazione con uno o più centri urbani è necessario quando
è questa, realmente, la posta in
gioco. Altrimenti rischia di essere
altro. Invece di fissare modelli di intervento buoni per tutte le stagioni
e da replicare dovunque, la sfida
è cercare nuove opzioni. Produrre
le domande giuste, prima che arrivino le risposte sbagliate. Essere
capaci di ascoltare i luoghi, anche
quando saremmo tentati di trasformarli radicalmente. Non è solo una
6
Lecce
Quartiere 167 B
questione di consumo di suolo,
peraltro fondamentale. È la nostra
capacità di essere in sintonia tra
luogo e luogo, tra esigenza ed esigenza. Quel ‘tra’ è essenziale.
Qui si apre una questione importante, a noi cara. La consapevolezza che il paesaggio è, sempre,
oggetto e contemporaneamente
soggetto di una incessante trasformazione. Rigore e cura dovrebbero essere i nostri alleati più
preziosi.
Non è un caso dunque se, come
Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia, a proposito della
formazione degli addetti ai lavori per una corretta conoscenza e
applicazione del PPTR, abbiamo
lavorato perché gli incontri fossero aperti non solo ai Dirigenti degli
Uffici tecnici o ai Componenti le
Commissioni paesaggistiche ma a
tutti i colleghi della regione. Siamo
e sono convinto, infatti, non solo
della necessità e bontà del Piano, ma anche del fatto che la sua
corretta attuazione passi da una
consapevolezza complessiva e
soprattutto da una qualità del lavoro libero professionale e non solo
degli Uffici tecnici.
E infine se, insieme alla Regione e
agli altri Ordini professionale, abbiamo fortemente voluto un Protocollo che sostenesse le Amministrazioni territoriali nelle azioni di
rigenerazione urbana e nel coinvolgimento dei privati. Questo infatti è
mancato finora: la diffusione di un
senso comune della qualità urbana e della riqualificazione capace
di radicarsi compiutamente sia nel
pubblico che nel privato attivando
risorse private in questa direzione.
Sfida non da poco, se si considera la percentuale del patrimonio
privato nel nostro territorio, anche
per la nostra professione, sempre
più centrale nelle dinamiche di produzione di nuovo paesaggio. Una
sfida che si lega, fortemente, al futuro delle città intelligenti.
Con il numero 1 della nostra Rivista proseguiamo la discussione
sul paesaggio avviata col Numero 0 focalizzandoci sulle periferie
e pensandola destinata a durare
anche nei numeri successivi. Ogni
contributo tematizza una questione
e ci auguriamo che, anche a partire da qui, possa svilupparsi una
riflessione ulteriore. D’altra parte,
già nelle note del numero precedente, avevo auspicato che questo nostro house organ potesse
divenire esso stesso strumento di
formazione, declinando i temi, sviscerando le questioni, affermando
con forza la necessità di legare
formazione e professione. Un progetto editoriale, per noi, ha senso
se diviene esso stesso momento
del nostro pensare, qui ed ora, i
luoghi che siamo chiamati – contemporaneamente – a trasformare
e a salvaguardare. Un nuovo paesaggio per una nuova qualità, si
potrebbe dire.
A partire dalla periferia.

rigenerazione urbana
8
l’esperienza pugliese
intervista ad
angela barbanente
vicepresidente
regione puglia assessore qualità del
territorio
a cura
di carla petrachi*
Dieci anni sono tanti. Sul sito www.orcapuglia.
it la prima immagine che compare è quella di
una Puglia interessata quasi dovunque da progetti integrati di riqualificazione delle periferie o
di rigenerazione urbana. Città e piccoli centri.
Trasformando, in alcuni casi radicalmente, il
volto delle periferie urbane con interventi su
intere porzioni di città.
Se il volto della periferia muta, e si trasforma, la
città cambia. Questa – in estrema sintesi – la
consegna del lavoro svolto. Ed è per questo
che Angela Barbanente, urbanista, vicepresidente della Regione Puglia, Assessore nelle
due giunte Vendola alla Qualità del territorio e
all’Urbanistica, prima ancora di tirare le somme
sul lavoro svolto, avverte: “Noi tecnici, urbanisti ma anche amministratori e amministratrici,
abbiamo un compito importante. Far comprendere alle persone, al più vasto pubblico, ai
cittadini, che l’urbanistica e l’architettura hanno
moltissimo a che vedere con la qualità della vita
quotidiana. Occuparsene significa occuparsi
della propria esistenza e dell’esistenza dei propri simili. Un compito importantissimo. Quello
che mi preoccupa maggiormente, dopo dieci
anni di lavoro e di esperienza maturata in Assessorato, è che si torni a relegare l’urbanistica
in una sfera tecnica autoreferenziale, priva di
connessioni, di aperture, di permeabilità, e di
influenza nei confronti di chi abita e lavora nei
luoghi della città”.
Domanda: Tornare indietro sarà comunque difficile. Osservando la mappa dei Comuni pugliesi
beneficiari di risorse finalizzate ai Piani integrati di
riqualificazione delle periferie o, a valere sui Fesr,
ai Programmi di Rigenerazione urbana la sensazione è che il volto delle periferie pugliesi e, in
alcuni casi, di buona parte delle città, sia mutato.
Risposta: Me lo auguro. Anche se considero importante innanzitutto aver posto per la
prima volta in questa regione, e forse anticipando anche le riflessioni di grandi architetti
come Renzo Piano, l’attenzione sul tema della
riqualificazione delle periferie proponendo un
approccio integrato e partecipato. Ricordo ancora quando nel lanciare un bando dovemmo
organizzare ben quattro forum per spiegare
cosa intendevamo per approccio integrato,
progettazione partecipata, riqualificazione sostenibile delle periferie urbane: in Puglia non
c’era alcuna esperienza in questo campo. È
stato un processo importante, ritengo, sia per
i saperi tecnici che ha prodotto in tante periferie, sia sopratutto dal punto di vista culturale,
teorico.
D: Approccio integrato o partecipazione dal basso sembrano ormai essere entrati in un lessico
vasto, non ristretto ai soli ambiti tecnici, caposaldi
assodati. Dal suo osservatorio privilegiato, crede
che siano riuscite a diventare parola d’ordine, sapere comune, in ogni Amministrazione?
R: Mi piace pensare che sia maturata soprattutto una crescita culturale. Giudicare il proprio
lavoro è difficile, certo, anche se mi pare che
siano in tanti a rilevarne la positività. Che nei
Comuni ormai si sappia cos’è la riqualificazione
urbana, come si pratica, perché è importante
che avvenga in modo partecipato è uno snodo fondamentale. Significa la consapevolezza
che parlare di riqualificazione equivale parlare
dei luoghi nei quali gli abitanti vivono e che accade solo coinvolgendoli, perché nessuno più
di loro conosce i problemi ma anche le opportunità di questi luoghi, i bisogni, le domande, le
aspettative di chi li abita.
D: Il che in molti casi ha significato il coinvolgimento di pluralità di soggetti caratterizzati da una
pluralità di saperi e competenze, e soprattutto
dei soggetti dell’abitare chiamandoli in causa in
modo molto diretto. Quasi dislocando
il concetto stesso di competenza.?
R: Sono d’accordo, anche se non
vorrei si ingenerassero equivoci. Il
ruolo del tecnico è e deve rimanere
centrale. Anzi, c’è da lavorare molto
per una formazione tecnica mirata
alla riqualificazione urbana più in generale e delle periferie in particolare.
Bisogna però comprendere che ai
fini delle efficacia dell’intervento è essenziale aprirsi. Da un lato al sapere
esperienziale, contestuale, fondato
sull’esperienza, che è una delle forme insostituibili del sapere, e poi ad
altri saperi specialistici. Per esempio
il tema della messa in sicurezza del
territorio, strategicamente importante
nella riqualificazione delle periferie, o
quello essenziale della infrastrutturazione verde che a sua volta richiama
altre discipline e altri saperi. Forse
ogni tanto gli architetti dovrebbero
interrogarsi: le nostre città contemporanee non sono sempre belle, e
non sempre all’altezza delle città storiche. Questa dovrebbe essere colta
come una opportunità, perché possa migliorare la qualità dell’intervento
tecnico sulla città.
D: Lei si riferisce, a giusta ragione, agli
architetti. Non crede però che, contemporaneamente, sia una questione
che coinvolge anche l’urbanistica e gli
urbanisti? E, più in generale il modo in
cui anche, o forse soprattutto, le Amministrazioni territoriali hanno immaginato le espansioni edilizie? Da tempo
ad esempio l’Ordine degli Architetti di
Lecce sottolinea come la qualità ur-
bana e territoriale dipenda dalla qualità
della committenza, della progettazione
e della realizzazione. E anche dalla
modalità delle gare. Il massimo ribasso
non è quel che si dice un invito alla
qualità…
R: Le responsabilità sono distribuite tra molti attori, e gli architetti non
possono certo essere considerati i
principali responsabili. Mi sono riferita
agli architetti perché questa intervista
immagino che sarà letta soprattutto
da loro e, quindi, per indurli a riflettere sui propri errori e a fare ancora
di più e meglio. Non dimentichiamo
poi che, come recita il codice deontologico, “l’Architetto ha il dovere
di conservare la propria autonomia
di giudizio e di difenderla da condizionamenti esterni di qualunque natura”. Questo non significa chiudersi
in una muta autoreferenzialità ma
sentire il dovere di far comprendere
a committenti pubblici e privati, per la
verità talvolta inconsapevoli, i possibili effetti negativi di determinate trasformazioni del territorio sulla qualità
della vita dei cittadini. Tuttavia, non vi
è dubbio che la legislazione italiana
in materia di edilizia e lavori pubblici
sia davvero assai poco attenta alla
qualità dell’architettura: si pensi ai
tanti vani tentativi di approvare una
legge quadro in materia, alla rarità dei concorsi di progettazione o
di idee o, ancora, alla distanza che
separa la nostra prassi di progettazione delle grandi opere pubbliche
ad esempio da quella francese, nella
quale la procedura dell’Avant-Projet
Sommaire fornisce gli elementi di
conoscenza del paesaggio quali indirizzi per definire il tracciato di una
infrastruttura e il suo inserimento nel
contesto.
D: Dicevamo prima del sito orcapuglia, un Osservatorio della condizione
abitativa che racconta il vostro lavoro
in questi anni, provando a riflettere su
condizione abitativa e qualità dei luoghi, altro punto cogente. In questa
mappatura ideale dei programmi integrati di riqualificazione tutti i Comuni
hanno lavorato nello stesso modo? La
qualità è stata uniforme?
R: Assolutamente no, e questo va
detto con forza. La stessa graduatoria iniziale si basa su qualità della
progettazione già all’origine diverse.
Ma anche i Comuni hanno lavorato
in modo molto diverso.
La stessa partecipazione in alcuni
casi è stata colta come una opportunità per migliorare i progetti, in altri
casi viceversa come un adempimento, un modo per avere punteggio e liquidata con una assemblea
pubblica magari poco partecipata. In
alcuni casi la collettività è stata declinata in modo figurativo, estremamente innovativo. Penso ad una serie di programmi che hanno utilizzato
materiali riciclati, che hanno reso le
periferie più permeabili, che hanno
previsto del verde integrato tra verde
pubblico e verde privato o addirittura hanno realizzato un impianto di
fitodepurazione per manutenere e
gestire un’area a verde in una periferia. Contiamo moltissime esperienze innovative e altri casi dove si è
10
San Cesareo (Lecce)
Quartiere Lamia
trattato soprattutto di un’operazione
di maquillage. Per carità, considerato l’abbandono – questo ci terrei a
dirlo - nel quale erano confinati tanti
quartieri, mai toccati in 30-40 anni,
mai oggetto di alcun intervento, anche il solo maquillage ha comunque
prodotto dei benefici. Ognuno di noi
sa quale fosse la condizione delle
periferie. Quartieri dove mancavano
le infrastrutture primarie, dove mancavano perfino i marciapiedi, quindi
va bene anche il maquillage. Nel
progettare e organizzare però la Mostra convegno sulla Riqualificazione
e Rigenerazione che abbiamo presentato a Bari e a Lecce abbiamo
cercato di tirare fuori il meglio della
progettazione e delle esperienze
perché potessero essere considerati paradigmi, e diventare anche uno
sprone a fare meglio.
D: Una sorta di Archivio delle buone
pratiche, necessario anche per il futuro. Anche se a volte si ha l’impressione che, in luoghi diversi, alcuni dei
progetti siano sostanzialmente simili. Al
netto dei bandi formulati dalle Amministrazioni, la loro gestione ha prodotto a
suo parere quella necessaria varietà di
proposte utile anche a una valutazione
di merito ex post e in ogni caso a un
buon archivio di riferimenti, oppure si è
corso il rischio di progetti sovrapponibili
pur in contesti sostanzialmente ed evidentemente differenti?
R: Naturalmente quando sono così
numerosi gli interventi realizzati in un
periodo relativamente breve rispetto
ai tempi di costruzione e trasforma-
zione delle città, non possono mancare interventi simili in contesti diversi, magari perché i bandi comunali
non hanno tenuto conto delle specifiche domande sociali e dei caratteri
del luogo, o perché le amministrazioni si sono affidate a progettisti che
antepongono la quantità alla qualità,
la routine professionale alla sperimentazione, il guadagno alla gratificazione. Al solito, le responsabilità
sono ben distribuite e, nella nuova
programmazione, stiamo cercando
di ovviare a queste distorsioni destinando le risorse alla realizzazione di
progetti selezionati tramite concorso.
In particolare, di recente abbiamo
sottoscritto cinque protocolli di intesa con raggruppamenti o singoli comuni per il perfezionamento, tramite
concorsi di progettazione, delle proposte di valorizzazione e riqualificazione integrata dei paesaggi costieri
in attuazione dei progetti territoriali
previsti dal nuovo Piano paesaggistico regionale. Stiamo anche realizzando il progetto “Qualità Apulia”
assieme alla Direzione Architettura e
Arte contemporanee del Mibact, che
prevede l’accompagnamento dei
Comuni nella realizzazione di concorsi di idee o di progettazione.
D: Viceversa, ancora in tema di periferie, proprio i Pirp hanno fatto emergere
quanto di periferico si annidasse anche nei centri storici.
R: Assolutamente sì. La nostra idea
di periferia, l’accezione di periferia,
non è meramente geografica. È periferico qualsiasi luogo della città che
sia stato emarginato dai progetti di
sviluppo e di riqualificazione recente,
e penso a una riqualificazione promossa autonomamente soprattutto
dai privati. Tanti centri storici pugliesi
sono stati riqualificati perché scoperti
come luoghi eccellenti.
Il che oggi permette di pensare alla
manutenzione ordinaria come azione
automatica, necessaria.
Inoltre, voglio ricordare che oltre ai
Pirp e alla Rigenerazione urbana con
i Fondi Fesr, noi abbiamo finanziato
con 10 milioni di euro interventi di
recupero di singoli alloggi privati prevedendo premialità per i centri storici
e per le aree periferiche in modo tale
da stimolare e facilitare anche l’intervento del privato. D’altra parte nei
centri storici come nelle periferie non
è il patrimonio pubblico a prevalere,
anche se in questo caso abbiamo
erogato risorse agli Iacp e ai Comuni
per consentire il recupero di immobili pubblici anch’essi abbandonati
e degradati e abbiamo previsto nei
Pirp una premialità per interventi su
immobili Iacp.
D: Dieci anni sono tanti: nelle periferie oggetto degli interventi è cambiato
qualcosa anche in termini di inclusione
sociale?.
R: Io ritengo di sì. In questi anni sono
andata in giro per la Puglia, invitata
cortesemente dai sindaci ma anche
per sopralluoghi in modo autonomo.
Il miglioramento è percepibile. Nelle
periferie dove si è lavorato abbiamo
visto le persone recuperare anche
un senso di appartenenza ai luoghi.
E devo dire che i piccoli centri sono
stati i più veloci, quelli che hanno lavorato meglio. Spesso noi parliamo
delle difficoltà che incontrano i piccoli Comuni, dell’assenza di strutture tecniche adeguate, dei limiti degli
uffici. Invece la vicinanza, la prossimità agli abitanti, alle popolazioni, ai
luoghi, fa la differenza. E credo che
questo meriti una riflessione.
D: Ovviamente i processi non hanno
avuto dovunque lo stesso esito. La
Regione ha svolto un ruolo importantissimo ma probabilmente, anche in
virtù dei bandi a regia regionale, sembra che riqualificazione e rigenerazione
siano avvenute più per spinta esogena che endogena. In qualche modo è
quel che si afferma anche nel Protocollo d’intesa firmato con la Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia
e una pluralità di soggetti istituzionali e
territoriali, finalizzato alla costruzione di
uno strumento di valutazione finanziaria
atto a sostenere i Comuni nelle azioni
di riqualificazione e rigenerazione. La
domanda è semplice: come il lavoro
svolto pone le condizioni del futuro? Il
patrimonio edilizio è per l’80 per cento
privato, e prima o poi l’intervento pubblico tenderà, anche con l’uscita della
Puglia dalle Regioni convergenza, a
ridursi notevolmente. A suo avviso la
Regione ha peccato di autoreferenzialità non stringendo per tempo alleanze
anche con le comunità dei professionisti finalizzate ad un’azione di reale ra-
dicamento di culture e pratiche?
R: Non mi pare che la Regione abbia operato in modo autoreferenziale: tutti i programmi e le norme
più importanti, dai Pirp alla legge
21/2008 sulla rigenerazione urbana,
sono stati messi a punto con la partecipazione del partenariato socioeconomico e istituzionale. La legge
14/2008 sulla qualità dell’architettura
è stata addirittura scritta a quattro
mani con gli Ordini degli architetti e
degli ingegneri di Puglia. Il punto cruciale credo che sia un altro: promuovere la riqualificazione urbana quale
alternativa sostenibile a decenni di
politiche urbanistiche incentrate sulla
espansione, traducendo la norma e
il programma in concreta attuazione,
non è così facile. E ancor meno facile è nelle realtà nelle quali norme e
programmi orientati alla riqualificazione impattano su strumenti urbanistici
generali vecchi, che di fatto ignorano
la città esistente e la sua domanda
di recupero e rigenerazione. Le alleanze, dunque, vanno di volta in volta
costruite o rinnovate per conseguire
obiettivi specifici, per superare nodi
problematici rivelati dalla traduzione delle norme e dei programmi in
concreta realizzazione. Il protocollo
di intesa promosso dalla Regione,
che ha coinvolto Anci, Ance, Abi,
Politecnico e Federazioni degli architetti e degli ingegneri, mira proprio
a superare alcuni problemi attuativi
evidenziati dall’esperienza di questi
anni: rafforzare gli strumenti di valutazione delle convenienze pubbliche
e private è indispensabile perché la
rigenerazione urbana esca dalla sfera dell’eccezionalità e diventi pratica
ordinaria di trasformazione del territorio.
D: Dai Pirp al Patto Città-campagna
del PPTR possiamo immaginare una
linea che si dipana coerentemente: è
giusto leggerlo in questo modo?
R: Assolutamente sì. Il Patto Cittàcampagna cerca di andare oltre i
Pirp. Con i Programma integrati di
riqualificazione delle periferie noi abbiamo essenzialmente guardato alla
parte esclusivamente urbana delle
città, alle periferie geografiche, alla
parte del margine che guardava verso l’urbano. Dico essenzialmente
perché nei piccoli e anche in alcuni
casi medi centri il rapporto tra centro
storico e campagna è un rapporto
da ricucire e valorizzare ma, anche
quando si è intervenuti in questa direzione, lo si è fatto avendo come
punto di riferimento la città, l’urbano.
Oggi, ed è questo il salto di qualità
che abbiamo proposto con il PPTR,
è necessario lavorare tenendo insieme la parte rurale e la parte urbana,
agendo anche sulla parte rurale perché apporti qualità al Piano. In Puglia
non abbiamo, come in Campania o
nel Lazio, metropoli dilatate a dismisura. È un’armatura urbana fatta di
città medie e di piccoli centri, il che
12
ci consente un rapporto con la campagna che possiamo più facilmente
recuperare anche come luogo destinato alla ricreazione, al tempo libero,
al benessere, alla natura. Anche per
compensare la mancanza di aree
verdi attrezzate, e penso soprattutto
alle cosiddette zone b, di completamento, quelle costruite e sviluppatesi soprattutto con sostituzioni
edilizie dense negli anni ’60, ‘70, ‘80
assolutamente carenti di aree verdi.
Recuperare questo rapporto con la
campagna significa appunto compensare un deficit di verde urbano
che soprattutto le città del mezzogiorno registrano in modo persistente. Sono sufficienti gli indicatori
dell’Istat o la ricognizione annuale di
Legambiente sulla qualità dell’ambiente urbano per rendersi conto
che le città del mezzogiorno sono
caratterizzate da carenze molto gravi
da questo punto di vista.
D: Fermiamoci un attimo sul Pptr,
strumento fondamentale dalla genesi
complicata. Le osservazioni giunte,
anche grazie alla riapertura dei termini,
sono state centinaia. C’è chi ha chiesto che l’adozione avvenisse in Consiglio e non esclusivamente in Giunta.
A pochi giorni dall’adozione in agosto
2013 alla Regione era pervenuta, a
firma di tutti gli Ordini regionali coinvolti
nel processo, la richiesta di una moratoria-stralcio sui procedimenti in itinere.
La Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia nell’ottobre 2013 aveva
indicato non solo il ruolo strategico e
fondamentale del Piano, ma anche
alcuni limiti nella sua formulazione che
lo rendevano oggetto di critiche e attacchi.
A oltre un anno dall’adozione di Giunta, qual è il bilancio?
R: Mi pare che agli attacchi iniziali,
dovuti anche all’oggettiva difficoltà
di comprensione delle innovazioni
introdotte dal Pptr, sia seguita una
progressiva assimilazione e condivisione del Piano. L’adozione del primo piano paesaggistico in Italia adeguato al Codice non è operazione
semplice: richiede uno sforzo di interazione e copianificazione allo stesso tempo con la comunità regionale,
fatta di amministrazioni locali, tecnici,
operatori economici, cittadini, e con
un Ministero ancora privo di indirizzi
consolidati di applicazione del Codice. Un piano paesaggistico non può
essere inteso come un mega-Prg:
l’impatto sulle pianificazioni locali
deve essere graduale, specie in Puglia, regione già dotata di un piano
paesaggistico ai sensi della legge
Galasso del 1985, il Putt/P. Questo
lo ha compreso anche il Ministero,
consentendo le modifiche dell’ottobre 2013 alle norme di salvaguardia
e transitorie. Quanto all’approvazione in Consiglio regionale, da un lato
questa non è prevista dallo Statuto
della Regione e, di conseguenza,
dalla legge regionale n. 20 “Norme
per la pianificazione paesaggistica”
approvata nel 2009. Cambiare la
legge? Certo, è sempre possibile
se lo condivide la maggioranza del
Consiglio regionale. Mi sono permessa, però, di sollevare dubbi circa
l’opportunità di una simile modifica
della legge: in base al principio che
un piano deve essere variato dall’organo che lo approva, l’approvazione
del Pptr da parte del Consiglio regionale contrasterebbe con uno degli
obiettivi che ci siamo posti con la sostituzione del Pptr al Putt/P, avere un
Piano più dinamico e più facilmente
adeguabile al passaggio dalla scala
regionale a quella comunale. Quanto
alle osservazioni, il numero elevato
è per me un dato positivo: significa
che la Regione ha garantito a tanti
enti, associazioni e singoli privati il
ricorso a un essenziale strumento
di partecipazione democratica alla
formazione del Piano. Tengo a precisare che, comunque, nessuna delle
osservazioni mette in discussione la
filosofia del Piano, l’interpretazione
del paesaggio e delle sue dinamiche
che lo ha ispirato, né la capacità del
Piano di promuovere uno sviluppo
del territorio regionale basato sulla
tutela, valorizzazione e riqualificazione dei paesaggi di Puglia. Mi auguro,
quindi, che il Pptr diventi strumento
largamente condiviso dalla comunità
regionale, in grado di assicurare, non
solo con le norme di tutela ma anche
con i progetti territoriali e le linee guida, la conservazione di straordinari
valori ambientali e culturali, la riqualificazione dei paesaggi degradati e
lo sviluppo sostenibile del territorio
regionale.
D: Alla luce della sua esperienza, prevale ancora nel Mezzogiorno il pensiero che a tirare l’economia debba es-
sere l’edilizia intesa come consumo di
suolo e costruzione del nuovo piuttosto che riqualificazione, rigenerazione,
riuso?
R: Veramente penso che anche per
noi questo ormai sia un pensiero datato. Lo hanno capito i costruttori ma
lo hanno capito soprattutto i cittadini
che, infatti, nelle periferie comprano
sempre di meno perché sanno che
lì i servizi non arriveranno. È talmente
evidente: nelle nostre città c’è tanto
dismesso, tanto patrimonio in disuso, tanto da ricucire. È come dice
Piano. Le nostre città vanno ricucite,
rammendate, noi abbiamo il più delle
volte isole insediative non connesse
tra loro. Il ritorno di interesse verso i
centri storici muove anche da questo, dai cittadini, che dopo essersi
trasferiti nelle periferie hanno verificato come non offrissero quello che
cercavano o auspicavano. Si torna
ad abitare nel centro storico perché
lì c’è quella vitalità, quell’effetto-città
che la periferia non è riuscita a creare. Il che non significa, voglio sottolinearlo, penalizzare l’edilizia.
Significa però che l’edilizia deve innovarsi. La domanda degli anni ’60,
del boom edilizio, non c’è più, né
permane la crescita di valori immobiliari che ha tenuta in vita l’edilizia negli anni ‘2000. Significa che le cose
sono cambiate. D’altra parte io ricordo sempre che negli anni ’80 il Piano strategico olandese aveva come
titolo “La città al centro”.
D: Ricucire, rammendare, tessere,
ritessere: tutte operazioni sartoriali ma
soprattutto saperi del femminile. Interessante questa idea che per riprendersi cura del periferico, dello smangiato, dello sbrindellato, si invochino
come paradigma saperi tipicamente
femminili.
R: Certo. Il potere è stato largamente
nelle mani maschili, per decenni: è
un dato di fatto. Quello che abbiamo prodotto lo si deve largamente
all’esercizio di un potere decisionale e operativo esercitato da uomini.
Adesso io penso che introdurre un
pensiero differente, uno sguardo
differente su queste periferie sia importante ed è più facile per una donna semplicemente perché l’ha fatto
per secoli. Mettersi nei panni di una
mamma cha deve accompagnare
un bambino a scuola in una periferia urbana e che ha difficoltà di accessibilità, di percorsi sicuri in quella
periferia. Ci mettiamo più facilmente
nei panni di chi abita in quei luoghi
molto banalmente perché lo abbiamo sperimentato e lo sperimentiamo
ancora. È un sapere utile.
D: La presa in carico delle periferie
come questione ineludibile e centrale
nei processi di trasformazione urbana
e territoriale è il fil rouge del Progetto
Di.Ri.Go., ovvero: “dirigere, ricucire,
governare le periferie”, promosso dalla
Federazione degli Architetti di Puglia,
parte integrante di un Protocollo d’intesa già siglato con l’Amministrazione
comunale di Lecce a sostegno della
candidatura a Capitale europea della
Cultura 2019. Primo momento del
progetto una Call for paper rivolta non
solo alla comunità degli architetti e degli urbanisti, ma anche sociologi, designers, donne e uomini di cultura, per
costruire una valigia degli attrezzi utile a
leggere e a rovesciare i paradigmi consueti dell’approccio alle periferie.
R: Il progetto mi pare particolarmente
in sintonia con l’approccio alle periferie che abbiamo cercato di promuovere sin dai Pirp e poi, con maggiore
organicità, con le norme sulla rigenerazione: l’uso dei termini “integrati”
e “rigenerazione” indicano processi
che devono interessare non solo la
dimensione fisica ma anche quella
sociale ed economica, non solo le
pietre ma soprattutto le persone, inducendole a riappropriarsi della città
e a prendersene cura, ossia processi che non implichino solo progetti di
riqualificazione urbanistica ed edilizia
ma che si basino su strategie integrate di rinascita culturale, sviluppo
economico, inclusione sociale.
D: Torniamo un attimo ai Piani. Mi corregga se sbaglio ma la sensazione è
che, in fondo in fondo, anche ogni
Pug generi a sua volta una periferia. Il
che ha dato l’avvio ai Pug intercomunali che, di fatto, assumono come elemento centrale proprio la relazione tra i
comuni, anzi tra le fasce più esterne e
meno curate dei comuni. Alla fine però
anche un Pug intercomunale deve
tracciare una riga. Come fare ad impedire che quel che è ai bordi venga
considerato con scarsa o insufficiente
attenzione?
R: Anche in questo caso ci sono
Pug e Pug. Quelli intercomunali sono
14
San Cesareo (Lecce)
Quartiere Lamia
ancora in formazione: non abbiamo
esperienza di Pug intercomunali già
adottati o addirittura approvati.
Se lei fa un ragionamento teorico io
direi che, al contrario, il Pug intercomunale dovrebbe mettere a valore
l’interfaccia tra un comune e l’altro.
Un’interfaccia che, soprattutto in alcuni territori come quello salentino,
è sostanzialmente un’interfaccia di
contiguità. In un Pug intercomunale
dovrebbe essere più facile, dunque,
creare delle centralità, magari ambientali o culturali, nelle aree periferiche, che sono alle stesso tempo le
periferie di un comune e dell’altro.
Poi ci sono Pug comunali, e di questi abbiamo esperienza. Rispetto ai
tradizionali Prg, soprattutto grazie
agli indirizzi del Drag, ritengo di poter
dire che noi abbiamo dei Piani che
finalmente prestano attenzione al Patrimonio edilizio esistente e alla sua
qualità, introducendo parametri che
tradizionalmente non venivano considerati. Intanto si parte dalle risorse
piuttosto che dal dimensionamento del Piano guardando alle risorse
paesaggistiche, ambientali, insediative: il patrimonio edilizio esistente è
considerato una risorsa da utilizzare
a fondo e da valorizzare. E finalmente si usano parametri diversi rispetto
a quelli tradizionali anche in questo
territorio. Penso all’indice di permeabilità del suolo, all’indice di piantumazione, così importanti per contrastare gli allagamenti, i problemi di
tipo idrogeologico che caratterizzano
i nostri territori. Così importanti ai fini
della qualità urbana, per contrastare
la formazione di isole di calore, mitigare l’inquinamento atmosferico.
Le valenze importanti sono tante e i
nuovi Pug operano in questo modo
sia nella città compatta anche se,
oggettivamente, con un po’ più di
difficoltà, sia nelle altre zone urbane.
D: Nel recente Leggere la città - Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di
Franco Riva per i tipi Castelvecchi, a
un certo punto Ricouer afferma che
l’architettura è per lo spazio quello che
la narrativa è per il tempo perché l’architettura lavora sugli stessi parametri
cari all’arte del narrare: prefigurazione,
configurazione, riconfigurazione. Sottoscrive questa riflessione filosofica?
R: Assolutamente, in toto. Oggi abbiamo molto da lavorare sul rifigurare
e riconfigurare, e ancora sul prefigurare. Del presente, dell’epoca contemporanea personalmente trovo
preoccupante questo vivere immersi
nel presente. Per l’architetto la visione è fondamentale.
D: Anche perché la città è comunque
e sempre un progetto rivolto all’avvenire, come avverte Hannah Arendt.
R: Non c’è dubbio. Abbiamo bisogno di visioni, abbiamo bisogno di
speranza, di guardare al futuro, e
quindi abbiamo bisogno di pianificazione. Questo vivere immersi nel
presente, immaginando di poter
risolvere i problemi della nostra società attraverso interventi che hanno
esclusivamente impatti immediati io
credo che sia profondamente illusorio.
D: E dunque in questo senso i Pug,
e più in generale gli strumenti urbanistici, non sono solo strumenti tecnici
ma anche grandi narrazioni con cui si
immagina cosa i luoghi possano diventare…
R: Ed è importante, quando parliamo di città, che la narrazione sia collettiva. Questo è importante da comprendere. Fare un Pug non è fare
un’opera di architettura, è un grande
progetto collettivo.
Per questo abbiamo bisogno di insistere ancora sull’importanza della
partecipazione nella pianificazione.
Quella che noi dobbiamo costruire è
una visione condivisa, e con i nostri
strumenti tecnici dobbiamo essere
capaci di individuare le risorse pubbliche e private, non solo finanziariamente, che siano capaci di tradurre
quella visione in realtà, in opera concreta.

* L’intervista ad Angela Barbanente è del dicembre
2014.
Il 16 gennaio 2015, a Roma, il Ministro dei Beni e
delle Attività culturali e del turismo Dario Franceschini
e il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola hanno sottoscritto il Piano Paesaggistico Territoriale della
Regione Puglia, primo Piano sottoscritto in Italia sulla
base di una norma del Codice dei Beni culturali e del
paesaggio del 2004.
Con delibera n. 176 del 16 febbraio 2015, pubblicata
sul Burp n. 40 del 23 marzo, la Giunta Regionale pugliese ha approvato il PPTR.
della materia urbana
16
vite muri tetti piazze strade
intervista a
leopoldo freyrie
presidente
CNAPPC
Lecce
Mercato settimanale
Nel “Progetto Riuso” è delineato nero su bianco: ripensare le città a partire dalle periferie.
Leopoldo Freyrie, presidente CNAPPC, il concetto l’ha ribadito in numerose occasioni: “Non
è più l’epoca dell’architettura magniloquente,
del grande gesto architettonico nel chiuso degli empirei professionali ma di progetti partecipati, in una relazione di ascolto dei bisogni e
di confronto.
La partecipazione chiama direttamente in causa la qualità. Non solo dei monumenti o di
uno stadio ma dell’architettura diffusa, casescuole-fabbriche, caratterizzata da standard
ambientali e di sicurezza molto più elevati di
quelli attuali. Non sono standard definiti dalle
norme o, meglio, lo sono, anche se le leggi
in Italia servono a poco o quasi a niente. Per
questo è necessaria una consapevolezza da
parte dei cittadini e una preparazione tecnica e
progettuale differente da parte degli architetti”.
Così, la rilevanza mediatica assunta dal Manifesto di Renzo Piano che indicava la priorità
strategica delle periferie nel pensiero delle città, l’attenzione rivolta al primo rapporto annuale
realizzato dal “Gruppo di lavoro G124” guidato dal Senatore a vita e pubblicato sulla rivista
“Periferie”, lo spingono a dire: “Finalmente il
tema dell’importanza del progetto e del ruolo
dell’architettura, del suo essere al servizio della società civile, torna ad essere di attualità,
mostrando la sua fondamentale importanza.
Iniziative come questa dimostrano la funzione
che l’architettura può svolgere nel nostro Paese, recuperando, attraverso progetti di rigenerazione, il rapporto con i bisogni dei cittadini,
forse dimenticato dopo anni di architettura magniloquente, ed il confronto con le comunità.
D’altra parte è un tema su cui lavoriamo da
anni”.
Domanda: Presidente Freyrie, si può conside-
rare questa attenzione mediatica alla stregua di
un grimaldello che permetta maggiore attenzione
al tema in sé e a quanto di positivo già accade in
questa direzione sui territori?
Risposta: Speriamo di sì. Il punto vero è che
è cambiato il paradigma. Dobbiamo consumare meno suolo e rimettere mano alle città. Un
paradigma già presente nel Progetto Riuso.
Rimettere mano alle periferie è una delle declinazioni del Riuso.
D: Rimetterci mano, ma come?
R: C’è bisogno di spazi pubblici adeguati, sotto tutti i punti di vista. Una delle caratteristiche
delle periferie, non solo italiane, è che sono
contenitori di umani privi di quelle caratteristiche che fanno città. Non hanno strade pubbliche, illuminazione, parchi giochi per i bambini,
giardini, negozi, tutto quello che fa città. La
città non è fatta dall’avere edifici che contengono persone ma dalla relazione fra le persone
che vivono questi edifici. C’è bisogno di luoghi.
Questo è uno degli elementi fondamentali.
D: Il che può spingerci ad affermare che in realtà quello che è mancato nella messa a punto
di questi spazi di città sono proprio le opere di
urbanizzazione, di socializzazione, magari contemplate nelle progettazioni originarie e poi mai
compiutamente realizzate?
R: Assolutamente sì.
D: Come a dire che il vulnus non è tanto nella
pianificazione o progettazione, quanto nel modo
in cui le amministrazioni hanno proceduto alla realizzazione dei comparti?
R: È il primo problema. Lasciamo un attimo da
parte l’architettura. Se consideriamo alcuni degli esempi di quartieri popolari ritenuti peggiori,
ci rendiamo conto che sono firmati da architetti
molto bravi. E che considerati da soli, fuori dal
contesto, sono architetture di assoluto valore estetico.
D: Cos’è che non ha funzionato, allora?
R: Non ha funzionato sostanzialmente l’integrazione sociale e il porre le
condizioni per una vita normale. Sugli
spazi pubblici non è stato fatto nulla
di quello che andava fatto. L’edificazione allo scopo di ospitare le persone non è stata accompagnata;
condizione che invece nella periferia
storica si è verificata. Gli edifici delle
periferie storiche non sono migliori,
però sono inseriti in una condizione
di urbanità che attualmente, in tutto
il mondo, consente di considerare
le periferie storiche dei luoghi chic,
per cui gli attori di Hollywood vanno
ad abitare nel Bronx. Accade anche
nelle nostre città. Perché, appunto,
sono città. Per cui c’è una certa indipendenza dal valore estetico, diciamo così, anche se approfondendo il
ragionamento in realtà non è proprio
così.
Questo è, evidentemente, il requisito minimo per la condizione delle
periferie. In particolare per le periferie italiane, che sono state costruite
in fretta e furia: in trenta anni sono
stati realizzati milioni e milioni di metri
quadri. Certo, oggi c’è un problema
anche di qualità dell’edificazione, di
decadimento dello stato di sicurezza
e di habitat degli edifici. La priorità,
però, è rendere quei luoghi urbani.
D: Quanto ha influito, a suo parere,
su questa inurbanità la totale assenza di manutenzione che negli anni ha
contraddistinto gli edifici, di proprietà
sostanzialmente pubblica. È stato soprattutto il pubblico, pare, a venir meno
alla una cura del proprio patrimonio.
R: Assolutamente. C’è, è evidente,
una questione di manutenzione. Ma
non è che la situazione nei centri sia
migliore. La questione è specificamente l’assenza delle cose. Faccio
un esempio molto semplice. Nei piani regolatori con le destinazioni d’uso
si obbliga, nei centri delle città, ad
avere certe quote di artigianato, di
piccolo commercio, spesso illusorie: se gli artigiani non ci sono più è
abbastanza inutile destinare il 15 per
cento degli spazi ad attività e persone inesistenti.
18
Lecce
Quartiere 167 A
Paradossalmente nelle periferie nulla
di ciò è stato previsto. Viceversa, se
c’era un luogo dove il potere pubblico poteva, anche forzando un po’ la
sua potestà, imporre che ci fossero
delle funzioni obbligatorie, l’edicola, il
bar, lo sportello bancario, la farmacia, tutto ciò che fa città, quello era
proprio nei quartieri periferici. Lì, non
c’è nulla.
Il colpo di grazia l’ha dato il Ministro
Tremonti permettendo ai Comuni di
fare cassa con gli oneri di urbanizzazione. Poi, certo, c’è una complessità nel rapporto sociale, non sono
un sociologo e mi fermo qui. Ma il
problema è fondamentalmente quello, il cosiddetto effetto finestre rotte.
D: Lo dimostrano le esperienze più interessanti di riqualificazione. Alle case
si arriva. Si parte dalla rifondazione delle relazioni di socialità, dal fondamento
dell’essere comunità.
R: Proprio così.
L’elemento più interessante del lavoro di Piano è l’approccio, non la
sostanza dei progetti che, in fondo,
sono molto piccoli. Ha fatto quello
che poteva, e il gruppo è composto da giovani professionisti che si
stanno provando su questo tema.
Però l’approccio è assolutamente
condivisibile, proprio nel senso da
lui affermato: “sono andato a cercare
le scintille, quello che già c’era”. La
squadra di rugby che non ha il cam-
po, il prete che cerca di far socializzare i ragazzi sottraendoli alle mani
della malavita.
È andato a cercare le vite, le esistenze, le comunità che già ci sono e
operano controcorrente rispetto alle
condizioni dei contesti e, da architetto, ha dato una mano aggiungendo il
valore del progetto.
D: Una dinamica che, come lei ha affermato, rimette al centro l’architettura.
R: Assolutamente sì. Non perché da
sola può risolvere i problemi, perché
è uno strumento, un mezzo, per risolverli.
D: Forse anche un modo per pensare
la bellezza, per sottolinearne l’esigenza, per considerarla un incipit segreto
del progetto.
R: È un modo per dimostrare materialmente le istanze positive che
vengono dalla società. Per evidenziare con la materia, e d’altra parte
di questo noi ci occupiamo: di costruire, o di definire o trasformare gli
spazi. Il parroco che cerca di avere
il campo di rugby così i ragazzi non
vanno a delinquere, nel momento in
cui ha un luogo in cui questa esigenza si rappresenta, la trasformazione
diventa reale.
L’altra faccia di quel che fanno i dittatori quando usano l’architettura per
dimostrare il loro potere.
D: Le smart city, che oggi vanno
così tanto di moda, possono divenire
un’occasione concreta in questa direzione, un percorso capace di generare occasioni?
R: Bisogna intendersi.
Le città intelligenti sono quello di cui
abbiamo bisogno. In realtà, la declinazione molto limitativa, dal mio punto di vista, che viene data delle smart
city risente dell’aver centrato tutto
sulla tecnologia. È uno strumento
utile all’interno di un quadro un po’
più complesso. Possiamo avere anche le fibre ottiche ma se poi ci si
trova in quartieri come il Libretta di
Catania è difficile che questo, di per
sé, risolva i problemi. In uno spazio
pubblico rigenerato, in cui i ragazzi
possono essere in connessione ad
alta velocità, non doversi spostare
per lavorare, per produrre start up è
assolutamente positivo.
E così poter consentire ad un medico di raggiungere rapidamente
una persona anziana, anche solo
via internet, e dunque aiutarla in un
momento di difficoltà. È un valore aggiunto. Però dobbiamo ripartire dalle
cose, e le cose sono fatte di materia,
di muri, di tetti, di piazze, di strade,
di verde.
D: E di partecipazione, lei lo ha ribadito
più e più volte.
R: Soprattutto di partecipazione. 
la città di tutti
20
nel segno di minerva
franco
purini
architetto
Un complesso parrocchiale in una delle due 167
leccesi progettato rispondendo ai nove “Concorsi a invito per la realizzazione di nuove architetture
ecclesiastiche” promossi dalla Conferenza Episcopale tra il 1998 e il 2001 e – adesso – l’idea
di un murale lungo 256 e altro 2.60 metri sulla
superficie esterna del muro di recinzione, autore
Mimmo Paladino.
Tra questi due poli, una conversazione capace di
saldare una riflessione sulle periferie (qui e adesso) da un osservatorio particolarissimo e privilegiato e sul ruolo della pratica artistica (il murale
appunto) come catalizzatore di una nuova identità urbana.
“Andare verso le periferie: un muro che unisce”:
è stato il tema del pomeriggio svoltosi a Lecce
nell’ottobre scorso ospitato nella luminosa sala
conferenze del complesso San Giovanni Battista, quartiere Stadio di Lecce, via Novara, primo
momento di un programma più articolato e di
ampio respiro organizzato col contributo dell’Ordine degli architetti e dell’Accademia di Belle Arti
di Lecce e il patrocinio del Comune e dell’Arcidiocesi di Lecce, finalizzato a promuovere e valorizzare il complesso stesso (architettura civile e
religiosa dove l’estrema pulizia delle linee e la luce
assoluta restituiscono, più di mille parole, una
perfetta sintesi dell’idea progettuale) come casa
per la comunità del quartiere.
Naturalmente qui più che “andare verso”, dal
momento che il complesso architettonico è esattamente nel cuore di una delle periferie leccesi,
l’obiettivo è più ambizioso.
Non a caso la tavola rotonda con cui si è concluso il pomeriggio ha avuto il compito di esplicitarlo
grazie ad una pluralità di voci con la presenza insieme a Franco Purini, l’architetto che con Laura
Thermes firma il Complesso, di Severo Martini,
assessore comunale all’Urbanistica, don Nicola
Macculi, Toti Carpentieri (giornalista e critico d’ar-
te), Claudio Delli Santi (direttore dell’Accademia
Belle Arti di Lecce) cui si sono aggiunti successivamente gli interventi di Paolo Perrone, sindaco
di Lecce, e Luigi Maniglio, dirigente del settore
Urbanistica sempre del Comune di Lecce.
Moderatore dell’incontro Massimo Crusi, presidente dell’Ordine degli Architetti della provincia di
Lecce.
“Non il vuoto ma il silenzio”, scrivono tra l’altro
Franco Purini e Laura Thermes nel ‘narrare’ il progetto citando esplicitamente Rudolf Schwarz e la
sua idea di ‘comunità celebrante’.
Così dopo la proiezione del video “Il Complesso parrocchiale San Giovanni Battista a Lecce:
storia di un progetto fortemente voluto dalla Comunità” realizzato per raccontare la storia e le caratteristiche della struttura, e la prima tornata di
interventi in tema, la domanda di Massimo Crusi
a Franco Purini: “Le periferie sono quei luoghi fisici lontani dal centro oppure gli spazi non vissuti? Ancor più esplicitamente: un centro storico
non vissuto è centro o è periferia? Faccio questa
domanda anche alla luce del progetto “Di.Ri.Go
_ Disegnare, ricucire, governare le periferie” promosso dalla Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia per chiamare a raccolta sul tema
non solo la nostra categoria ma più in generale
tutti coloro che si misurano, da punti di vista e
differenti discipline, con il tema delle periferie. Un
tema che sembra essere divenuta la questione
delle questioni. Certo noi architetti abbiamo delle responsabilità se, dopo aver disegnato, oggi
siamo nella necessità di ricucire, come afferma
Renzo Piano, il tessuto urbano e anche di governarlo. Qual è il suo punto di vista sullo stato
dell’arte e come questo tema continua ad interrogare la nostra professione?”
Quello che qui pubblichiamo è dunque il testo
dell’intervento, rivisto dallo stesso architetto Purini.
22
Riconnettere i tessuti periferici all’interno di una nuova idea della città,
consistente nel vederla come una
realtà la quale, superate quelle differenze funzionali e morfologiche che
sono state e sono alla base di problemi urbani e sociali di difficile soluzione, si ridefinisce come un insediamento unitario, seppure composito e
articolato, è un obiettivo quanto mai
necessario e urgente. Per questo
motivo sono convinto che l’iniziativa
della Federazione degli Architetti di
Puglia sia di grande interesse. Per
comprendere in tutti i suoi aspetti
questo tema è forse utile, però, fare
alcune considerazioni preliminari.
Inventata tra la metà dell’Ottocento
e l’inizio del Novecento, la periferia
è nata all’insegna dell’emergenza.
La rivoluzione industriale aveva prodotto un’imponente emigrazione di
forza lavoro dalle campagne verso
la città. Da qui vari tentativi di dare
a questa presenza una adeguata
rappresentazione urbana, che fin
dall’inizio risultò ambigua. Per un
verso tale rappresentazione doveva
dimostrare l’ingresso della classe
operaria, una nuova classe, nella
compagine sociale come una sua
parte fondamentale; dall’altro questa
stessa presenza andava contenuta
e in fondo marginalizzata in quanto
portatrice di istanze rivendicative che
potevano mettere in pericolo il sistema al potere. Questa ambiguità non
è stata finora superata. Essa è una
delle cause principali della distanza
non fisica, ma sociale e culturale, da
ciò che dovrebbe essere la periferia,
una lontananza che la rende instabile
e indeterminata.
I limiti storici della periferia sono a mio
avviso tre. Il primo è l’isolamento. In
effetti i quartieri periferici, tranne poche eccezioni, si configurano come
altrettante zolle urbane separate
l’una dall’altra, grandi frammenti che
non comunicano tra di loro e con la
città storica, entità sostanzialmente
atopiche non in grado di esprimere
caratteri riconoscibili. Inoltre la periferia è autoreferenziale, nel senso
che rischia sempre di implodere
all’interno di una circolarità di poche
funzioni essenziali e di ritualità insediative esclusivamente locali, nonché ripetitive e generiche. Per tale
motivo essa non si pone in relazione
con l’intera città. Infine i quartieri periferici sono realtà monodimensionali,
nel senso che in essi non c’è una
stratificazione sociale complessa né
esistono attività artigianali e produttive diversificate. Per tali limiti, quando
a proposito di periferia si parla di città dormitorio non si è molto lontani
dal vero. Non basta per fare della
periferia una parte di città autentica,
organica e compiuta provvedere a
qualche pista ciclabile, realizzare superfici verdi o percorsi per correre.
Lo sport è senz’altro importante, così
come lo sono tutte le cose che si
possono fare nel tempo libero, ma gli
esseri umani hanno anche esigenze
più importanti e urgenti. Tra queste
la qualità architettonica dell’abitare e
dello spazio pubblico, oggi quasi del
tutto assente. Lo spazio pubblico è
costituito da un insieme di strade e
di piazze che chi abita sente per un
verso come proprie, per l’altro come
una risorsa di socializzazione, un luogo di confronto con gli altri. In breve
lo spazio pubblico da una parte ci
identifica, dall’altro è il risultato della
nostra produzione di senso comunitario. In altre parole noi apparteniamo
allo spazio pubblico nel momento
stesso in cui esso ci appartiene. Tale
appartenenza si rende però possibile solo quando lo spazio pubblico è
dotato di confini precisi, siano essi
visibili o invisibili, reali o virtuali. Se
questa misurabilità non esiste nasce
in chi abita una forte sensazione di
disagio spaziale, di disorientamento,
di labilità orientativa.
In sintesi non si sa dove si è, e ciò
causa malessere. Il carattere di un
quartiere, inteso come un elemento
morfologicamente determinante, è
quindi una conseguenza diretta della presenza di margini, di confini, di
perimetri leggibili. Ad esempio il passaggio graduale dallo spazio pubblico a quello semiprivato fino a quello
privato della propria casa, è qualcosa di profondamente rassicurante.
Nella nostra mente i confini di questi
spazi si organizzano in una mappa
che ci consente di muoverci con sicurezza, permettendoci al contempo
di conoscere in modo più appropriato il nostro abitare. Purtroppo quasi
tutti i quartieri periferici sono privi della tessitura spaziale determinata dal
sovrapporsi di questi recinti reali e
virtuali che conferiscono all’ambiente costruito, quando ci sono, un suo
ordine logico e una struttura chiara
e immediatamente decifrabile. Presente negli interventi effettuati prima
della 167 questa tessitura metrico –
topologica si è del tutto perduta nei
grandi quartieri nati a seguito di quella legge. In essi la grande dimensione ha esautorato ogni ambito progettuale che non fosse quantitativo,
con il risultato che la maggior parte
di quanto è stato costruito negli Anni
Settanta nell’edilizia popolare è risultato anonimo, superdimensionato,
indecifrabile.
La città storica era bella anche perché accanto al palazzo del signore
c’era la bottega del falegname. La
chiesa, simbolo del potere religioso, si contrapponeva alla sede del
Comune, luogo dell’autorità civile.
Questa vicinanza si faceva così convivenza dialettica, armonia di opposte autonomie. La modernità ha
invece preferito dividere per mezzo
dello zoning, la città per aree specializzate. Qui la residenza; lì l’industria.
In altre parti ancora il commercio, il
verde, il centro degli affari, gli spazi
per la cultura e il divertimento. L’unità
della città si è in questo modo perduta mentre lo spazio pubblico si è
frammentato diventando sempre più
disperso e occasionale. Il problema
è dunque quello di superare la separazione della città in zone specializzate recuperando la sua originale
unitarietà, ma anche facendo sì che
le contrapposizioni classiche della
città moderna, quella tra città e campagna, città e periferia, tra tessuto e
monumento non siano più operanti.
È questo il nodo che la cultura architettonica e urbana deve sciogliere,
al fine di procedere non più a una
semplice riqualificazione della città,
ma alla sua rigenerazione. Questo
termine indica la ricostruzione delle energie interne dell’organismo
urbano il quale, se non crescerà
ancora perché ha ormai raggiunto la sua massa critica, dovrà però
trovare una nuova identità a partire
dalla ridefinizione della sua parte, da
fondere in un aspetto morfologico
più solido e più avanzato. In questo
quadro una questione centrale è
quella della rinaturalizzazione, ovvero
il pieno rientro della natura nel tessuto urbano non in senso ornamentale
né simbolico, ma in quanto presenza di processi vitali. C’è anche da
chiarire che la rinaturalizzazione non
comporta l’assunzione di un punto
di vista estetizzante o performativo,
ma implica la necessità che tra amministratori e cittadini si stabilisca un
nuovo patto. Questa grande operazione, ormai divenuta urgente in ogni
città, ha un costo che non è soltanto
economico, ma soprattutto sociale
coinvolgendo abitudini, mentalità,
stili di vita, valori culturali.
Si dice spesso che la periferia è
brutta. In realtà se lo è lo è perché
per un verso i quartieri periferici non
sono mai stati finiti, per l’altro perché
manca in essi una vera manutenzione. I famosi casi dello Zen di Palermo, del Corviale di Roma e delle
Vele di Scampia a Napoli sono da
questo punto di vista esemplari. Nel
Corviale il piano dei servizi che Mario Fiorentino aveva pensato come lo
spazio pubblico del suo edificio, uno
spazio dotato di negozi, di luoghi di
sosta e di incontro, di servizi pubblici, è stato occupato abusivamente.
Una serie di alloggi hanno preso
il posto delle attrezzature comuni.
Anche se è necessario comprendere le difficoltà di coloro che non
avevano un altro modo di procurarsi
una casa è anche vero che questa
trasformazione, ormai stabilizzata,
ha privato gli abitanti del Corviale,
compresi gli occupanti, di qualcosa
di insostituibile, ovvero un tessuto di
relazioni spaziali senza il quale la vita
si fa sterile, unidimensionale, monotona. Anche la manutenzione è un
aspetto di fondamentale importanza.
Lasciare che un quartiere si degradi perché la sua vita non viene accompagnata da una costante cura
che ne assicuri l’integrità è un delitto
che colpisce tutti, chi lo abita, chi ci
lavora, chi semplicemente lo sta attraversando. A ciò va aggiunto che
anche chi ci abita deve avere rispetto per la propria casa. In realtà tutti
noi possiamo constatare che la città,
e specialmente la città periferica, è
oggetto di manipolazioni arbitrarie,
di superfetazioni di ogni tipo, di aggiunte a caso di canne fumarie, di
cancellate, di inferriate, di tende e di
pergole di ogni foggia e misura. Per
non parlare delle antenne e dei condizionatori, divenuti ornamenti architettonici assurdi e infestanti, e della
chiusura di logge e balconi, con in-
24
fissi l’uno diverso dall’altro, che compongono un paradossale catalogo di
vetrate incongrue e sgrammaticate.
Oltre agli aspetti critici citati, ai quali
occorre dare una risposta, ciò che
però può veramente cambiare la
periferia è quel carattere che oggi,
con un termine che a me non piace
molto, è chiamato la mixité. Si tratta
in sintesi di fare degli abitanti della città periferica un insieme di ceti
diversi, la compresenza, tanto per
essere chiari, di ricchi, di poveri, del
ceto medio. Come nella Firenze del
Cinquecento o nella Roma barocca
la città deve accogliere negli stessi
spazi le differenze sociali senza dare
vita a ghetti più o meno dissimulati.
Lecce storica è già così. Anche la
sua periferia deve essere ripensata
in una chiave socialmente complessa, che veda convivere una comunità non divisa secondo il reddito ma
messa a confronto negli stessi luoghi
in tutte le sue componenti. È questa
la condizione perché la città sia di
nuovo bella. Per Stendhal la bellezza
è “una promessa di felicità”. Quando
si entra in un quartiere che diventa
più bello tutto ci sembra più possibile. Ci sentiamo pronti a cambiare, a
diventare migliori, ad aprirci agli altri,
soprattutto a realizzare i nostri desideri. Quanto sto dicendo mi riporta a
un libro che ritengo molto importante, La città giusta, di Ugo Ischia1, un
urbanista purtroppo scomparso nel
pieno della giovinezza. La città giusta è quella di cui sto parlando, una
città che offre ai suoi abitanti maggiori possibilità di essere più liberi e
più felici. Liberi e felici nella città reale,
non in una città parallela, alternativa,
e utopica. Oggi va molto di moda la
smart city, una copia virtuale di quella reale. Una città intelligente contro
l’attuale città chiusa, difficile, ostacolo resistente per chi la vive. Io però
non credo molto al mito di una città
tecnicamente più efficiente, versati-
le, adattabile. Sono convinto che la
città contemporanea, della quale la
periferia è la parte prevalente, debba essere un luogo di accordo e al
contempo di conflitto, un contesto
organico di spazi pubblici attraverso
i quali costruire una comunità che
si riconosce nel tempo in una dialettica creativa tra i singoli e la collettività. Una polis, dunque, avventurosamente evolutiva, molteplice,
complessa, intelligente nel senso di
Minerva, e non di Mercurio, l’abile
dio dei commerci, una figura che è
l’emblema mitologico di tutto ciò che
è smart. Noi abbiamo il dovere di
rendere concreto il sogno di abitare
in una città giusta e bella, che sia di
nuovo una città per tutti.
Fino ai tredici anni ho abitato al Quadraro, un quartiere, o meglio una borgata nella quale la povertà era quasi
totale. Pier Paolo Pasolini lo scoprì
appena giunto a Roma. Nonostante
il Quadraro fosse degradato, isolato,
privo di luoghi di incontro tranne una
chiesa con il campetto per il calcio
e un piccolo cinema, il Folgore, provo un senso si riconoscenza per me
stesso perché lo trovavo bello. Noi
non possiamo pensare che chi vive
in periferie degradate sia automaticamente degradato. Sarebbe un
errore imperdonabile. Ovviamente
un quartiere che presenta problemi
sociali e ambientali rende la vita più
difficile ai suoi abitanti ma nello stesso tempo sa suscitare una volontà
di reazione, un bisogno superiore
di socialità, una grande capacità
di cercare e di costruirsi un futuro
migliore. Purtroppo è molto diffusa
un’opinione contraria che associa il
degrado fisico di molti quartieri periferici a un inevitabile degrado sociale costruendo così una mitologia
negativa che è difficile contrastare
perché gran parte del pensiero sociologico la sostiene. Tra l’altro esiste
anche una vera e propria estetica del
degrado a causa della quale si rinuncia a migliorare l’esistente, anche se
in condizioni inaccettabili, perché
ritenuto un valore. Io penso invece
che le periferie vadano completate,
dotate di servizi, di verde, di spazi per la cultura e l’incontro, curate
con assiduità, aperte a ceti diversi
da quelli per i quali furono costruiti.
Il tutto rispettandole assieme ai loro
abitanti. Voglio chiudere quest’intervento con un ringraziamento sincero
per l’invito a essere qui oggi. Per me
è stata un’esperienza emozionante
tornare nell’architettura della Chiesa
di San Giovanni Battista, che prima
di esistere nello spazio reale è stata nella mia mente. In occasione di
un’altra visita, che mi auguro prossima, spero di vedere il Murale di
Mimmo Paladino, che costituirà un
segno di unione e di speranza. Non
a caso Edoardo Persico, un critico
che nei primi decenni del Novecento
ha contribuito a far nascere in Italia
l’architettura moderna, definiva l’architettura come “sostanza di cose
sperate”. Anche l’arte è speranza
visibile, speranza attuata. Alleandosi
con l’arte l’architettura può aiutare la
città a ritrovare se stessa in modo
più profondo, in tempi più brevi e per
ciascuno dei suoi abitanti.

Roma 20/02/2015
1 Ugo Ischia, La città giusta – Idee di piano e atteggiamenti etici, a cura di Monica Bianchettin Del Gran,
Roma, Donzelli, 2012. Il volume, postumo, viene pensato e scritto tra il 1985 e il 1996 e, come si legge in
quarta di copertina, “porta con sé tracce delle assidue
conversazioni con Bernardo Secchi e della lettura dei
testi di Giulio Preti. Non può essere tuttavia disgiunto da
quanto accadde e da quanto vissuto dall’autore negli
anni serranta” (ndr)
Lecce
Chiesa di San Giovanni Battista
Franco Purini e Laura Thermes
ph. marco asciutti
il riformismo
e l’urbanistica
26
raffaele
gorgoni
giornalista, rai tre
Bologna
Centro storico
C’era una volta una città, dove un frate domenicano
aprì un locale con un menu prendere o lasciare e dove
avventori che sarebbero divenuti famosi si riunivano
per una bicchierata e per cantare. Il frate si chiamava
Michele Casali, il locale Osteria delle Dame, gli avventori, Francesco Guccini, Lucio Dalla e, di passaggio,
Paolo Conte.
Messico e nuvole è stata registrata
dal vivo nell’Osteria delle Dame.
A quei tavoli nacquero Opera Buffa,
La Locomotiva e molte canzoni raccolte in Via Paolo Fabbri 43.
Non sappiamo se anche Pier Luigi
Cervellati, Roberto Scannavini, Carlo Monti e la non piccola band che
stava lavorando al Piano di Intervento Pubblico sul Centro Storico di
Bologna, di tanto in tanto, dismessi
i tecnigrafi, si rifocillassero all’Osteria
delle Dame.
Questo comunque per dire che anche Bologna ebbe un suo magic
moment.
Cervellati era Assessore all’Edilizia
Pubblica di una giunta guidata da un
sindaco con l’aria del principe rinascimentale: lo storico Renato Zangheri.
Il periodo va dalla fine degli anni sessanta alla fine degli anni settanta.
Un tempo difficilissimo che a Bologna lascia tracce terribili se si indica
come termine ad quem la strage della Stazione dell’agosto 1980.
Sul Piano di Intervento Pubblico nel
Centro Storico di Bologna la bibliografia specifica è sterminata. Meno
ricca la riflessione politica che, a ben
vedere, si potrebbe rivelare persino
utile a comprendere vicende assai
recenti.
A Bologna tra i sessanta e i settanta
la spinta propulsiva dell’URSS è tutt’altro che esaurita e il Compromesso
Storico è formalmente indiscutibile.
Nella sostanza però l’Alternativa di
Sinistra dilaga sin dai tempi della Liberazione e l’Unione Sovietica è sta-
ta confinata nella fantasie domenicali
di Peppone
In altre, banali parole, in attesa del
compimento della via italiana al socialismo, di ipotetiche unità tra le
forze popolari comuniste, socialiste e
cattoliche, il Pci bolognese governa
e il timone è un riformismo schietto
e pragmatico. L’urbanistica è il volto pubblico di questo riformismo, i
centri storici sono il biglietto da visita
sul quale è tracciata una visione del
mondo fatta di asili nido-modello,
trasporti efficienti e soprattutto un
robusto reticolo di manifatturiero,
agroindustria, intervento pubblico,
privato e cooperativo.
Pur essendo la spina dorsale del Pci
in termini d’iscritti e di risorse economiche, i dirigenti emiliani dovranno attendere la non felice parabola
di Bersani per raggiungere i vertici
del partito.
Chissà come mai.
Oggi varrebbe la pena chiedersi se
nei consessi di Botteghe Oscure
si discusse del Piano di Intervento
Pubblico nel Centro Storico di Bologna; se un Comitato Centrale ne
diede mai una valutazione politica.
In altre parole quel riformismo che,
nella pratica, sembrava contraddire
tutto o quasi tutto degli esercizi palingenetici della via italiana, fu mai oggetto di confronto?
E perché se riformismo prevalse nel
dibattito, questo fu quello migliorista,
partenopeo, tra Napolitano e Chiaromonte che, con l’eccezione della
parentesi di Maurizio Valenzi, mai
esercitò nella pratica alcun riformismo, fino agli esiti tragici del bassolinismo?
Si potrebbe azzardare che proprio
l’esperienza urbanistica bolognese
in particolare ed emiliano romagnola
in generale sono all’origine del sostanziale disconoscimento politico di
quella cultura riformista.
Il Piano di Bologna metteva in discussione troppe cose e la sola idea
che la mano pubblica potesse prevalere e con ampio consenso sulla
mano invisibile del mercato, metteva
in allarme un Pci che, all’incontro
con le forze cattoliche, doveva sacrificare proprio la pubblicizzazione dei
diritti dello sviluppo urbano.
Era un terreno sul quale la Dc non
ammetteva mediazione alcuna. Lo
sviluppo della città e del territorio,
per la Dc, doveva restare un fatto
assolutamente privato e la stessa
Dc non aveva esitato a crocifiggere
Fiorentino Sullo, uno dei suoi esponenti storici, per avere azzardato una
timida riforma urbanistica.
A Bologna un picco di riformismo
urbanistico era diventato sostanzialmente un atto rivoluzionario, eversivo
agli occhi di quell’intreccio paludoso
di rendita fondiaria urbana e profitto
edilizio che governava sostanzialmente la città e il territorio.
In troppi ebbero paura dell’esperienza bolognese. Anche a sinistra.
Il Piano di Bologna, per quanto studiato e, per qualche verso, celebrato
nelle accademie, doveva restare un
episodio circoscritto. Tra la Via Emilia
e il West.

scorrendo una città
28
le tessiture, il network
marco
asciutti
architetto
Lecce
Quartiere 167 B
In un documento televisivo del 1973, Pasolini
e... la forma della città, il poeta-regista, parlando della città di Orte, attraverso una serie di
inquadrature mostrava come il rapporto tra la
città storica “nella sua perfezione stilistica” e la
nuova edilizia residenziale avesse segnato irrimediabilmente quel paesaggio. Allargando
l’immagine dalla città di Orte verso le nuove
costruzioni circostanti, rivolgendosi a Ninetto
Davoli, evidenziava come la forma della città,
il suo profilo architettonico fosse deturpato “da
qualcosa di estraneo, che è quella casa che si
vede là a sinistra”.
Tale affermazione, seppure nella semplicità
del discorso, rappresenta uno dei primi atti
d’accusa nei confronti della degenerazione
ambientale e urbanistica del paese. Da allora
le periferie sono diventate il luogo della contraddizione, in cui è ben visibile lo strappo tra
città e campagna e di conseguenza la perdita
di equilibrio tra queste due polarità. Tale cambiamento ha portato alla nascita di una nuova
condizione urbana dell’abitare e ancor di più
ad un nuovo immaginario urbano basato sulle
regole della ripetitività dei modi in cui lo spazio
cambia e si forma (gated communities, grandi
quartieri isolati, urbanizzazione diffusa) e che
spesso coincide con una dimensione sociale,
un modo di pensare e vivere la città.
In tal senso le periferie sono il paradigma della
città europea contemporanea. Una città nata
dalle ceneri della seconda guerra mondiale per
rispondere ad una esigenza abitativa e dallo
svuotamento dei centri storici inadatti a offrire
condizioni di vita adeguate in quel particolare
momento storico segnato dalla necessità di
ripartire. Le periferie sono state il campo di
sperimentazione privilegiato per la generazione
degli architetti del dopoguerra distanti dal dualismo storico tra città e campagna e impegnati
sul tema della loro connessione, allo stesso
tempo evidenziando i limiti di interventi che,
seppur ambiziosi, non hanno resistito all’incessante consumo di suolo massificato in un paesaggio sempre più effimero. I centri storici evidenziavano nel loro disegno urbano di strade e
piazze funzioni specifiche fortemente correlate
anche alle attività economiche. Guardando alle
periferie non si riesce a cogliere una identità
propriamente detta. La stessa ripetitività con
cui sono state pianificate e che ne accomuna la forma a livello globale è ben distante dai
modi e dalle strategie di riconquista dello spazio pubblico, per lungo tempo assente e scarsamente considerato tanto da apparire negato.
Luogo del confronto-scontro tra stili di vita differenti, le periferie divengono così veri e propri
laboratori urbani dove le pratiche di sussistenza si trasformano in nuovi modi di intendere
l’economia, la socialità, lo spazio: la nascita
sempre più frequente di orti urbani, librerie di
quartiere, pratiche di autorganizzazione, autogestione degli spazi e riutilizzo dei vuoti urbani,
il graffitismo come forma d’arte, hanno rotto la
tendenza a considerarle luoghi impermeabili.
Trasformandoli in luoghi porosi verso la città.
Queste esperienze, per lungo tempo relegate e confinate nella residualità degli interventi, hanno viceversa modificato il nostro modo
di intendere la città nella sua totalità, facendo
emergere la necessità di riconquista degli spazi verdi e imponendo la rilevanza dello spazio
pubblico come parte integrante del processo
creativo.
Come negli anni sessanta e settanta ha avuto
inizio la stagione del recupero dei centri storici,
adesso considerati piccoli gioielli del territorio
italiano, così oggi il nostro sguardo torna a
considerare le periferie come la “nostra” città,
quella che lasceremo in eredità alle generazioni future. Ben lungi dal volerli ancora relegare
alla funzione di quartieri dormitorio, attraverso
la progettazione di infrastrutture di
collegamento questi territori vengono riorganizzati e riconnessi con
percorsi ciclabili e pedonali, l’inserimento di nuove funzioni, la creazione
di spazi verdi e attrezzati. Una nuova
sperimentazione, attraverso la creazione di nuovi attrattori urbani, cerca
di restituire coerenza ad una città
frammentata. Eppure la creazione di
uno spazio pubblico o di una infrastruttura non sempre è sufficiente a
restituire, o creare ex novo, identità
ai luoghi. Se l’etimologia della parola
rammendare consiste nella riparazione del danno, in ambito urbanistico si
arricchisce di un significato molto più
dinamico. Intervenire nelle periferie
significa, deve significare, instaurare
un dialogo tra la città monumentale
e storica e quella a margine, riconoscere come luoghi reali, carichi di
simboli e messaggi, quegli spazi per
lungo tempo considerati non-luoghi.
E significa anche disponibilità a modificare canoni e procedure, con
l’uso informale e improvvisato dello
spazio che diviene risorsa e terreno
di sperimentazione.
La riscoperta di questi luoghi è possibile solo considerando la città nella
sua totalità, come un unico progetto
urbanistico dove è saldo il legame tra
gli spazi dell’abitare, del lavoro, della
cultura, e dove la ricerca dell’identità consiste nell’acquisire una nuova
coscienza urbana attraverso la lettura del rapporto tra le diverse parti. La
stessa provvisorietà che caratterizza
il presente delle periferie, dovuta ai
repentini mutamenti socio-economici che molto più evidentemente
riplasmano vite e spazi, può essere
intesa come una lente attraverso cui
cogliere l’evoluzione o involuzione
della città contemporanea e al tempo stesso le modalità per comprendere le sue future trasformazioni.
Ciò che ora consideriamo un vuoto
urbano può essere il fulcro del cambiamento, ed è a questi luoghi che
dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, alla ricerca di quella relazione
tra la città istituzionale e la realtà performativa che emerge dalla periferia.
È in questo iato che si gioca il futuro
stesso della città.

la comunità dispersa
30
inurbamenti e altre storie
stefania
galante
architetto
Lecce
zona P.I.P.
ph. stefania galante
Dal secondo dopoguerra ad oggi il consumo di
suolo in Italia è cresciuto e continua a crescere
intorno ai 70 ettari al giorno, circa 8 metri quadri al secondo, ininterrottamente notte e giorno. Il 30% del totale di suolo consumato viene
destinato ad aree coperte da edifici, il 47%
a infrastrutture di trasporto, il 14% a superfici
asfaltate, compattate o scavate, parcheggi,
piazzali, cantieri, discariche o aree estrattive.
Dal 1990 al 2006 il consumo di suolo agricolo è passato dal 7,9% al 9%, quello del suolo
delle fasce costiere entro i 10 Km dal 4% degli
anni ‘50 al 10,5 % del 2012.
Tra le cause del consumo di suolo vi è, senza dubbio, la crescita delle aree urbane, con
l’ampliamento della zona delle periferie e la
creazione di nuovi quartieri o aree residenziali. A questa si deve aggiungere l’espansione,
senza un’adeguata pianificazione, delle frange
urbane e periurbane, caratterizzata da insediamenti a bassa densità e tipologie d’uso del
suolo diversificate.
Per definire quest’ultimo fenomeno oggi,
spesso genericamente, viene utilizzato il termine anglosassone di urban sprawl, che originariamente indicava il processo di dispersione urbana, esploso negli Stati Uniti dopo
la Seconda Guerra Mondiale, dovuto al boom
demografico, alle politiche sull’abitazione che
favorirono la crescita dei sobborghi, e ai movimenti di popolazione bianca che scelsero il
sobborgo “bianco” come reazione ai trasferimenti della popolazione Afro-Americana verso
il centro delle città.
Per semplificazione linguistica, il termine sprawl
è stato successivamente utilizzato anche per
indicare quel complesso fenomeno di insediamenti periurbani ed extraurbani: «diffusione»,
«dispersione», «peri-urbanizzazione», eparpillement, che si è avuto anche in Europa dagli
anni 70 e che presentava caratteristiche tipo-
logiche e morfologiche specifiche, legate al
territorio in cui si andava manifestando e alle
relative condizioni sociali, culturali, economiche, storiche, nonché ai fattori di evoluzione
dei modelli e degli stili di vita.
Dalla campagna urbanizzata agli insediamenti
continui, ma allo stesso tempo dispersi, strutturati lungo direttrici di infrastrutture viarie o in
maniera puntiforme, le aree residenziali sono
andate alternandosi a quelle industriali e ai
complessi direzionali o turistico ricreativi, e lo
sprawl urban ha assunto la veste estetica del
frammento e della giustapposizione, della abitazione personalizzata in funzione del proprio
status sociale, quella iperreale degli shopping
mall e delle altre architetture destinate al loisir.
Nella città diffusa le architetture sono isole autonome che non dialogano con il contesto,
non ci sono marciapiedi, e lo spazio pseudopubblico degli shopping mall, ha sostituito
quello pubblico delle piazze, spesso irraggiungibile a piedi.
La dispersione è in parte un fatto casuale,
generato da errori, da auto organizzazione
e spontaneismo, ma anche un fatto voluto,
dovuto a dinamiche politiche intenzionali, a
scelte individuali e collettive. A seconda dei
contesti territoriali sono state individuate delle
macro categorie di cause che in misura maggiore o minore hanno determinato il fenomeno: l’esplosione del mercato delle costruzioni,
l’insediamento dei centri commerciali fuori dai
centri abitati, l’aumento del numero delle automobili, il costo nettamente più basso delle
aree esterne alla città, che ha favorito la costruzione di abitazioni più grandi, l’esigenza di
un nuovo modello abitativo, quello della casa
unifamiliare di proprietà con giardino, che ha
consentito la fuga dalla città congestionata e
di ritrovare il rapporto con la natura, la competizione tra i comuni, che si è tradotta proprio in
crescita di urbanizzazione dispersa e
in una pianificazione debole.
Il tema della diffusione urbana ha
assunto, nel tempo, in Europa, rilevanza tale da diventare argomento di
studio da parte della Comunità Europea che già nel 1990 ha pubblicato
un primo documento, il Libro verde
sull’ambiente urbano, con cui, per la
prima volta, ha cercato di definire
una politica di azioni urbane condivise, nell’ottica della sostenibilità. Da
questo momento in poi, nella strategia politica dell’UE, il binomio città/
sostenibilità si è configurato come un
punto fermo delle successive azioni
di governance, che sono scaturite
dai rapporti dell’EC Expert Group on
the Urban Environment, istituito dopo
la pubblicazione del Libro verde.
Il documento dal titolo Verso una
strategia tematica sull’ambiente urbano (Commission of the European
Communities, 2004) è stato, forse,
il primo passo per l’attuazione di una
strategia di cooperazione e contiene le linee direttive, rivolte agli Stati
membri e alle autorità locali, per consentire loro di migliorare la gestione
dell’ambiente nelle città europee.
Parallelamente all’attività della Commissione delle Comunità Europee,
dal 1994, si svolge quella dell’Agenzia Europea dell’Ambiente che ha il
mandato di orientare la Comunità
ed i paesi membri nelle decisioni
sull’ambiente, integrate con le politi-
che economiche e indirizzate verso
la sostenibilità. Nel 2006 AEA pubblica la relazione “Urban sprawl in
Europe — the ignored challenge” (La
sovracrescita urbana in Europa — la
sfida ignorata), che ha sottolineato
come, nonostante gli indirizzi di politica urbana dell’UE, l’espansione urbana incontrollata costituisse ancora
un problema in Europa, e ha messo
in risalto l’urgenza di porre un limite al
fenomeno adottando iniziative e politiche specifiche.
In Italia, l’interesse ai processi di diffusione urbana, si è sviluppato sin dagli
anni ‘80 con ricerche concentrate su
aree geografiche localizzate perlopiù
nel centro nord, che presentavano
specificità territoriali e sociali e che,
secondo quanto è emerso, sono
state determinanti nella diffusione del
fenomeno (la “città diffusa veneta”, la
“megalopoli padana”, l’area milanese, l’area bolognese).
La città a bassa densità dell’area veneta è indubbiamente un caso emblematico. Sviluppatasi negli ultimi
30 anni in conseguenza della rapida
crescita economica, la città diffusa
veneta si caratterizza per una mixitè
funzionale, relazionale e formale, in
cui le attività produttive si alternano
all’edilizia residenziale a bassa densità, e che ha sostituito lo storico paesaggio agrario di pianura. Le funzioni
proprie della città si sono strutturate
secondo un’articolazione e gerar-
chizzazione orizzontale che ha conferito carattere di urbanità ai contesti
territoriali.
La città diffusa è diventata la città
dell’automobile, perché la dispersione delle funzioni ha comportato
la necessità di spostamento per le
attività quotidiane, per lavoro, per
studio, per piacere, per raggiungere servizi di carattere territoriale e
collettivo anch’essi dispersi, provocando un alto livello di congestione
dell’area. La ricerca di una qualità del
vivere incentrata sul rapporto con la
naturalità, che il modello urbano non
dava e che ha spinto la popolazione
a trasferirsi, si è scontrata quindi con
la dipendenza dall’automobile, con
l’assenza di servizi pubblici nelle vicinanze e con la mancanza di uno
spazio pubblico condiviso. Il processo di urbanizzazione del territorio
veneto è un fenomeno che continua
ancora oggi sia con interventi di micro-residenzialità sia con aree produttive e commerciali, ma la mancata soddisfazione delle aspettative di
un miglioramento dello stile di vita ha
portato la popolazione ad essere più
attenta e a contestare le trasformazioni paesaggistiche quando creano
disagio o risultano impattanti.
L’Università di Venezia (IUAV) e Legambiente Veneto hanno raccolto le
proteste della popolazione e hanno
avviato un “Atlante del malessere territoriale”, che consiste in un osserva-
32
torio che raccoglie i conflitti generati
da trasformazioni territoriali al fine di
informare, suggerire una riflessione
critica e stimolare una collaborazione
tra i diversi soggetti coinvolti.
Nonostante la carenza di studi specifici sul fenomeno della diffusione
periurbana nel sud Italia e nello specifico in Puglia, non manca però nella regione un’attenzione al fenomeno
che anche qui si è manifestato da
diverso tempo. Anzi sono proprio
le istituzioni preposte al governo del
territorio che hanno rilevato il problema e stanno puntando ad un azione
di controllo dello spazio attraverso
strumenti di accompagnamento nei
processi di trasformazione.
La Regione Puglia, infatti, nell’ambito
del Piano paesaggistico territoriale
regionale, per il Progetto Integrato
di Paesaggio “Patto Città-Campagna”, ha redatto le Linee guida per
la riqualificazione delle periferie e
delle aree agricole periurbane, una
sorta di manuale che contiene raccomandazioni per orientare la redazione di strumenti di pianificazione,
di programmazione, per coordinare
settori e istituzioni diverse all’interno
di un progetto comune, quello di restituire qualità sia alla città che alla
campagna. Attraverso l’individuazione di sette strumenti progettuali, La
campagna del ristretto, I parchi agricoli
multifunzionali, Il parco CO2, La campagna urbanizzata, La campagna abitata, Il parco naturale costiero, Il parco
agroambientale costiero, il Patto città
campagna mira a contrastare il consumo di suolo agricolo, valorizzare
il patrimonio rurale storico culturale,
migliorare la qualità urbana, salvaguardare lo spazio agricolo come
invariante ambientale e pasaggistica
nelle possibili trasformazioni.
La necessità di una soluzione e di
politiche mirate al controllo della diffusione urbana trova ragione nel fatto che le conseguenze alla crescita
indiscriminata delle aree urbanizzate
a bassa densità consistono, così
come individuato dall’Unione Europea, in costi collettivi, ambientali e
sociali, quantificabili: inquinamento
atmosferico, traffico, incidenti, rumore e emissioni dannose per il clima.
Le ricerche non sono più, infatti, solamente incentrate sull’analisi delle
manifestazioni morfologiche dello
sprawl ma, sull’onda delle teorie sulla
sostenibilità ambientale, riguardano,
ora, anche l’applicazione di metodi di
valutazione monetaria del consumo
di suolo e degli effetti sociali e ambientali dell’inquinamento.
È, dunque, la città a bassa densità,
un problema contemporaneo che va
analizzato e affrontato e la cui difficile
soluzione richiede la determinazione
di un nuovo modello di sviluppo a
crescita controllata, capace di tenere conto della complessità del problema, delle implicazioni ambientali
e del rapporto tra sistema urbano e
paesaggio.

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- F. Indovina, La città diffusa, Daest-IUAV, Venezia,
1990
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Napoli, 17-19 October, 2005
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gionale, Linee guida per il patto città campagna: riqua-
per on the urban environment, Communications from
lificazione delle periferie e delle aree agricole periurbane
Lecce
zona P.I.P.
ph. stefania galante
anatomia di un quartiere
34
lecce, gli anni 50, santa rosa
Lecce
Quartiere Santa Rosa
targa INA-Casa
È una storia italiana, da nord a sud della penisola, ancora esemplare e modernissima nel
suo porre l’architettura al centro. Una storia
che a Lecce significa, a due passi dal centro storico, attraversare la Circonvallazione ed
entrare in uno dei quartieri più verdi della città,
oggi meta di una nuova borghesia professionale e di un’idea dell’abitare “a misura”.
Tra Bruno Zevi: “Ogni famiglia che abiterà i
nuovi centri dell’Ina-Casa scoprirà, sia pur lentamente, che l’architetto le ha dato qualcosa in
più della mera funzionalità, qualcosa di impercettibile che una mente acritica non accoglie
immediatamente ma che si sente nel viverci:
qualcosa che trasforma quattro mura in quattro mura pensate, e pensate affettuosamente, e che in definitiva determina il passaggio
dall’edilizia all’architettura”.1
Amintore Fanfani: “Il Piano per la costruzione di
case per lavoratori è nato per la preoccupazione in me vivissima fin dai primi mesi dopo l’assunzione del Ministero di recare un contributo
al riassorbimento dei troppi disoccupati italiani.
Reputai utile rivolgere lo sguardo alle costruzioni edilizie visto che esse sono le più capaci
a fungere da volano nel sistema economico”. 2
E Filiberto Guala, presidente Comitato d’attuazione Ina-Casa: “La concezione del Piano è
partita dalla visione del disagio di tanti milioni
di disoccupati italiani, non solo nel fisico per la
mancanza del pane quotidiano ma anche nello
spirito perché privati del lavoro come componente della propria personalità”.
Così la versione italiana del Piano Marshall
(che il Ministro Fanfani interpretò come una
rivoluzione sociale e urbanistico-costruttiva
senza precedenti) divenne quella che l’architetto e urbanista Giuseppe Samonà definì allora una “grandiosa macchina per l’architettura”,
portando in pochi mesi all’apertura di oltre 650
cantieri in tutta Italia e coinvolgendo il fior fiore
degli architetti italiani.
A “pieno ritmo” questa grandiosa macchina
produsse settimanalmente 2mila 800 vani riuscendo a dare una casa a circa 560 famiglie
a settimana. E fino al 1962 i 20mila cantieri
diffusi in Italia, nelle grandi città e nei piccoli
centri, offriranno un posto di lavoro ogni anno
a 40mila lavoratori edili.3
“Al centro di quell’esperienza, come di altre
coeve in Europa”, ha scritto Carlo Olmo, “ci
sono alcuni principi: la progettazione integrale
di esterno ed interno, la centralità della distribuzione – che nasce dalle infinite discussioni
sulla casa minima – l’importanza dell’integrazione tra casa e servizi per poter parlare di un
abitare e non solo… di un posto per dormire,
la centralità dello spazio pubblico, dei luoghi di
incontro per realizzare davvero un’idea di cittadinanza e non solo di residenza. Idee che
si ritrovano, in maniera certo diseguale, nei
progetti che l’ufficio, diretto sino al 1952 da
Adalberto Libera, doveva insieme indirizzare
con normative tipo e poi approvare. Idee che
spiegano come, al momento delle scelte dei
responsabili del Piano, siano stati interpellati e cerchino di fare parte del gruppo che ne
indirizzava gli esiti personaggi forse inattesi
come ad esempio Giò Ponti a Milano, Gabetti
e Isola e Mollino a Torino, Quaroni a Matera e a
Roma. Quei quartieri oggi si distinguono nella
città senza qualità perché il progetto politico e
quello professionale avevano al centro un’idea
di cittadinanza e di solidarietà. Il piano viene
finanziato attraverso una piccola trattenuta sugli stipendi dei lavoratori e dei datori di lavoro,
oltre che attraverso investimenti dello Stato.
Una partecipazione universale a favore di chi
meno aveva, che spiega molto del confluire in
quel piano delle diverse radici solidariste che
attraversano l’Italia del dopoguerra. Così la
geografia del piano comprende oltre le grandi
città, Modena, Ferrara, Mestre e realtà come Colleferro. Il Sud e le isole
vedono, sull’intero quindicennio, investimenti che sfiorano il sessanta
per cento di quelli del Nord”. 4
È il 23 ottobre del 1960. Su una
macchina della Prefettura di Brindisi,
accompagnato dalla leadership democristiana territorial nazionale, certo
di una accoglienza più che festosa,
Amintore Fanfani arriva a Lecce per
‘inaugurare’ il quartiere Santa Rosa5 .
Le foto dell’epoca, rigorosamente in
bianco nero e grigio, restituiscono il
clima “lieto”, come un filmato dell’Istituto Luce descrisse l’inaugurazione
di Fuorigrotta a Napoli nel “bianco
luminoso dei nuovi edifici”.
“Ricostruire le case ma anche gli
uomini” e, ancora, “buona volontà
di tutti per allargare l’orizzonte del
lavoro”: sono alcune delle dichiarazioni riportate dai giornali dell’epoca
ma che, c’è da giurarlo, parola più
parola meno, vennero ripetute quasi
dovunque.
A ragione: in 14 anni oltre 350mila
famiglie ebbero, finalmente, una
casa. Come racconta un’indagine
dell’epoca promossa dall’Ina tra gli
assegnatari, infatti, il 40% di quei
nuclei familiari prima di trasferirsi
nei nuovi alloggi abitava in cantine,
grotte, baracche, sottoscala. Il 17%
in coabitazione con altre famiglie.
Moltissimi erano gli immigrati dalle
campagne, dal Sud, e molti profughi
dall’Istria e dalla Dalmazia.
Non fu solo una macchina caritatevole o assistenziale. Quello che oggi
potremmo definire un brain storming
nazionale vide all’opera intere generazioni di architetti che interpretarono
il Piano come un modo per realizzare
una grande ricostruzione e, al contempo, un immenso laboratorio sulla
forma quartiere e sull’abitare urbano.
Non a caso oggi si potrebbe identificare l’intelligence di quella stagione nell’Ufficio Architettura all’ultimo
piano dell’Ina-Casa in via Bissolati a
Roma; non a caso nel primo e nel
secondo settennio furono pubblicati,
complessivamente, quattro piccoli
‘manuali’ per suggerire, raccomandare, orientare, indicare modelli, guidare alla progettazione. Non a caso
Giorgio La Pira, nell’inaugurare nel
’55 la nuova città dell’Isolotto, a Firenze, prese a prestito l’esergo del
discorso da Leon Battista Alberti: “La città è una grande casa per
una grande famiglia”, descrivendo la
città come una “unità organica che
presenta ai suoi membri presenti e
futuri tutti gli elementi essenziali per
il sereno sviluppo della loro vita”. E
ancora: “Ogni città racchiude in sé
una vocazione e un mistero. Amatela
dunque, come si ama la casa comune destinata a noi e ai nostri figli”.
Quello che La Pira affermava per Firenze poteva di fatto essere tradotto
anche per Lecce. Non tanto per il
retorico, e abusato, luogo comune
di Firenze delle Puglie quanto perché
insieme all’Isolotto tra le best practice
del Piano figura proprio il quartiere di
Santa Rosa, sia nella versione primo
nucleo, risalente al I° Settennio del
Piano Casa, sia con il secondo nu-
cleo, realizzato dal ’56 al ’63, e con
le opere finanziate dal II Settennio.
“Il primo nucleo”, dice Simonetta
Guido, architetto, laurea nella Facoltà di Architettura a Firenze con la tesi
Ipotesi di restauro urbano attraverso
il recupero del colore e del decoro
dei fronti prospettici nel Quartiere InaCasa “Santa Rosa” a Lecce (febbraio
2013), “fu ideato come una sorta di
piccola città nella città, destinata ad
edilizia residenziale pubblica a beneficio dei meno abbienti. Successivamente, sul lato nord/ovest del primo
intervento, vengono ad insediarsi tra
il ’56 e il ’63 le opere finanziate dal II°
Settennio”.
Un’area di 17 ettari per un totale di
1.150 alloggi e di 5mila 750 vani,
con una densità di 226 abitanti per
ettaro, lungo un’ariosa passeggiata
porticata e attorno a piazze e unità
di vicinato: così appare, ancora oggi,
il ‘miracolo’ Santa Rosa, che alterna
edifici abitativi alti con case unifamiliari e una rete di edifici a servizio:
centro sociale, chiesa, mercato,
scuole, giardini pubblici e privati. Tra
gruppo A e gruppo B furono coinvolti
sedici progettisti attorno ad architetti
formatisi alla scuola romana come
Rossi-De Paoli, i fratelli Mainardi (coordinatori del progetto urbanistico e
del progetto degli edifici del gruppo
A con gli ingegneri Ferranti e Minchilli
e l’architetto Nati), l’architetto B. Barletti (tra i fondatori dell’Associazione
per l’Architettura Organica) coordinatore del Gruppo B (con gli architetti
Antonaci, Rispoli, Tempesta, l’ingegner Fabbri, il geometra Aralla), e altri
36
Lecce
Quartiere Santa Rosa
progettisti come gli architetti Ciarla
Berarducci, Colazingheri, Dall’Olio,
Mirri, Puccione, Russo.
“Nel secondo settennio l’area destinata al complesso Santa Rosa”,
racconta ancora Simonetta Guido,
“ebbe tale estensione da formare un
quartiere autosufficiente. Lo abitarono i 4mila residenti del secondo settennio e i millecinquecento del primo. I servizi naturalmente si riferivano
anche ai gruppi edilizi precedenti.
Qui possiamo capire, ad esempio,
come funzionavano concretamente
le indicazioni dei fascicoli Ina-Casa
quando, riservando una particolare attenzione alla progettazione
dell’ambiente, consigliavano come
fosse necessario considerare i bisogni dell’uomo che non ama le sistemazioni a scacchiera ma gli ambienti
raccolti e allo stesso tempo mossi”.
È quella cura, della progettazione e
dei dettagli, che oggi impedisce di
considerare Santa Rosa una periferia urbana così come siamo stati
abituati a pensarle dalle 167 in poi,
piuttosto un quartiere residenziale
anche nelle scelte architettoniche
(prevalentemente alloggi composti
da 3 o 4 vani e, più in generale, “un
pensiero urbanistico e una pratica
costruttiva dove la composizione architettonica assume grande valore rispetto alla produzione edilizia del secondo dopoguerra”), ed estetiche, il
vero oggetto del lavoro della Guido.
“L’ordine strutturale”, scrive, “fu evidenziato utilizzando architettonicamente le peculiari caratteristiche
naturali, lasciando in vista il cemento
e le sue strutture ed impiegando dei
tamponamenti ‘a pannello’ di pietra
di tufo ‘carparo’ la cui tinta dorata
apportava una nota di colore con
due evidenti benefici: conservazione dell’aspetto secondo le intenzioni
dei progettisti ed eliminazione delle
spese di manutenzione per quanto
si riferisce alle tinteggiature; fattore
importante per edifici di carattere popolare ed altamente economico”.
È importante sottolineare e Sandra
Zappatore, direttore generale Iacp
ora coordinatore generale Arca Sud
Salento, lo fa nel suo intervento nel
bel volume Città Nuova – Lecce negli
anni cinquanta e sessanta, non solo
l’attenzione che all’epoca fu rivolta a
prevenire eventuali disagi con l’istituzione di un vero e proprio Ufficio
di assistenza ma anche la composizione sociale ‘trasversale’ che fin
da subito caratterizzò il Quartiere e
che impedì di fatto sia una funzione esclusivamente dormitorio sia
la riduzione a ‘ghetto’ urbano o più
modernamente banlieue, caratterizzante invece le successive 167 più
indirizzate alla massimizzazione delle
volumetrie e alla realizzazione di manufatti di mediocre qualità.
Un paradigma ancora attuale che
andrebbe assunto nella debita considerazione, lo definisce Zappatore.
E che, en passant, non evita di ricordare speculazioni successive nella
realizzazione di edifici che di edilizia
economica e popolare’ avevano ben
poco.
D’altra parte, come rileva Simonetta
Guido, “Santa Rosa è sicuramente
tra i quartieri cittadini con una maggiore quantità e qualità di verde
grazie ai viali alberati, ad ampi spazi di verde attrezzato. Oltre a quello
pubblico è evidente l’importanza del
verde privato, giardini e aiuole condominiali, derivante sempre dai Suggerimenti dell’Ina Casa. Insieme al
verde, inoltre, fu considerato anche
l’elemento acqua con la realizzazione
di una fontana monumentale, oggi in
abbandono, parte terminale dello
spartitraffico dell’asse centrale”.
Infine, e parallelamente alle altre
puntualissime indicazioni costruttive, quelle caratteristiche “tesserine
di ceramica”, vero e proprio marchio
identitario dei quartieri Ina-Casa, targhe policrome (a firmare alcune di
queste furono artisti come Burri, Duilio Cambellotti, Cascella, Pietro De
Laurentis, Piero Dorazio), ispirate al
tema del progetto o della casa come
luogo felice. Non solo una questione
formale. L’applicazione delle targhe
sugli immobili, per le quali furono
stabilite le misure, i prezzi massimi
e la posizione, venne considerata
oltretutto una delle condizioni per il
rilascio del certificato di collaudo.
“Oggi”, conclude Simonetta Guido,
“non si tratta di guardare a quella storia solo con nostalgia e rimpianto, piuttosto di comprenderla e
reinterpretarla anche nell’urgenza di
pianificare al meglio strategie per la
tutela e conservazione. Per questo,
anche, ha senso considerare nella
giusta luce le indicazioni progettuali
e le modalità costruttive che vennero
impiegate.
L’intero iter della vita del quartiere,
comprese le più recenti modificazioni apportate dai residenti, fa intuire
come proprio gli abitanti debbano
essere ritenuti figure-chiave nel progetto di conservazione e riqualificazione degli edifici, da considerare assolutamente esempio di architettura
moderna, dal momento che proprio
nell’evolversi e dal modificarsi delle
loro esigenze sono nate le maggiori
alterazioni morfologiche e materiche
degli edifici.
È necessario mettere a punto tecniche di conservazione rispettose
dell’esistente e risolutive rispetto
ai problemi e alle carenze tecnicostrutturali evidenziate nel corso degli
anni. Non credo che il quartiere vada
soggetto a un ripristino ma deve
consentire l’opportunità di garantire
da parte dei residenti quegli adeguamenti opportuni, scongiurando trasformazioni di tipo materico/costruttivo. Tutto ciò è possibile non solo
con regolamenti e norme vincolistiche ma soprattutto attraverso la consapevolezza di vivere in architetture
che sono ormai parte del patrimonio del ‘Moderno’. Consapevolezza
che già esiste perché gli abitanti del
quartiere considerano Santa Rosa
un luogo privilegiato e sono portatori
di una forte identità comunitaria. Si
tratta pertanto di concepire un iter
metodologico che guidi gli interventi
delle facciate nel rispetto dei caratteri morfologici e materici dei fabbricati, da considerare “unità minime”
di progetto per evitare interventi
spot sulle singole proprietà. Non
bisogna inventare niente, piuttosto
reinverare un modello nel caso del
ripristino e del restauro riferendosi a
quello già standardizzato dell’edificazione. Magari predisponendo una
griglia di suggerimenti e normative
per poter affrontare nuovi interventi
sulle superfici dei fronti prospettici.
Ad esempio evitare la sostituzione
degli intonaci simili a quelli originari
con quelli plastici, o ancora la scelta
di nuovi intonaci prendendo spunto
da quanto inizialmente concepito
dagli architetti progettisti. Una nuova normativa capace di conservare
e valorizzare nel tempo le peculiarità
cromatiche, sintesi di rilevanza architettonica, storica e ambientale del
quartiere Ina Casa “Santa Rosa” 
(c.p.)
1 D. Dé Cocci, Il Piano Fanfani-Case, Roma, Edizioni
5 Lune, 1962
2 Nella seduta del Consiglio dei Ministri del 6 luglio
1948 Amintore Fanfani, Ministro del Lavoro e ideatore del Piano Ina-Casa, presentò il Disegno di Legge
per “incrementare l’occupazione operaia, agevolando
la costruzione di case per lavoratori”. Il 12 luglio la proposta viene illustrata alla Camera che la approva il 4
agosto. Successivamente, viene approvata dal Senato
con alcune modifiche e dunque nuovamente dalla Camera il 24 febbraio del ’49. Il 28 febbraio il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi firma la Legge n. 43
Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia,
agevolando la costruzione di case per lavoratori. Il 1°
aprile si avvia de ’49 si avvia il primo settennio di attività
del Piano Ina-Casa
3 Paola di Biagi, in Il piano Ina-Casa: 1949-1963 in
Treccani.it
4 La Stampa di Torino, edizione del 20 febbraio 2013
5 Città Nuova – Lecce negli anni cinquanta e sessanta,
a cura di M. Mainardi, Edizioni del Grifo, Lecce 2014
et voilà la qualità
38
idee per la progettazione condivisa
fabio
dell’erba
architetto
«L’architettura antica italiana (dopo il 1400) ricordava l’ospitalità, tetti sporgenti, sedili sulle vie,
grandi atri. L’architettura odierna – tutta cancelli,
punte, nessun spazio lasciato al pubblico – dimostra dappertutto ostilità»: così scriveva un
secolo fa Carlo Dossi in Note azzurre.
Vuoto, marginalità, disagio. Ma anche risorse
umane, sociali, ambientali, che vanno riconosciute e valorizzate. È su questo mix di contraddizioni e potenzialità che trovano terreno
fertile le buone pratiche per una progettazione
condivisa all’incrocio di una innegabile evidenza: le periferie rappresentano al tempo stesso l’immagine e la sostanza stessa della città
contemporanea, che cresce proprio con una
produzione incessante ed esponenziale di periferie. Con due differenti torsioni: esistono periferie che rimangono tali sul piano urbanistico
e sociale anche nonostante la vicinanza geografica con il centro cittadino, nella città spesso alcune zone sono integrate solo dal punto
di vista urbanistico ma socialmente ai margini
o ancora oltre.
Ambiente urbano e comportamento sociale
sono in forte relazione tra loro e dunque inclusione e partecipazione sono elementi fondamentali nei processi di progettazione in contesti
complessi. Per garantire la creazione di luoghi
dotati di un’identità condivisa e riconoscibile,
della riscoperta di un senso di appartenenza
per chi li frequenta, di una reale aderenza alle
necessità dei contesti in cui si realizzano.
Le periferie che partecipano, che accettano
la sfida, diventano laboratori di creatività che
possono raggiungere traguardi estendibili ad
ampie parti della città: ben lungi dal mortificarlo
inclusione e partecipazione valorizzano l’input
professionale del progettista moltiplicando le
opzioni di creatività.
Come si progetta in maniera partecipata?
È prioritario il coinvolgimento della popolazio-
ne interessata con adeguate metodologie in
un ventaglio di metodi che vanno dall’outreach
(ricerca verso l’esterno) all’ascolto attivo (coinvolgimento degli abitanti attraverso questionari
e/o incontri aperti di quartiere), alle camminate
di quartiere dove la popolazione partecipa con
il racconto della quotidianità, al project planning (metaprogetti inclusivi sviluppati insieme
ad associazioni, parrocchie, tecnici, semplici
cittadini).
Allargare i punti di vista
I dati raccolti nel corso del coinvolgimento attivo e della ricerca preliminare sono la base per
metodi più strutturati di progettazione. Come
l’Open Space Technology, assemblea aperta
(in alcuni casi con oltre 2.000 presenze) preziosa per conoscere lo stato dell’arte grazie ad
una unica domanda generale (per esempio “Il
Quartiere ….. quali prospettive di crescita?”)
cui i partecipanti, suddivisi in gruppi sufficientemente spontanei, rispondono producendo al
termine un istant report su specifici aspetti.
Per una analisi più puntuale e specifica si
può ricorrere allo Scenario workshop dove,
in modo mirato e con una partecipazione più
ristretta organizzata in gruppi omogenei (amministratori pubblici, associazioni, tecnici ed
operatori economici, stakeholders) si fa analisi
delle problematiche emerse grazie alla ricerca
sul campo. Metodologia interessante per la
possibilità offerta di lavorare inizialmente con
gruppi omogenei e poi, ricreandoli trasversalmente, eterogenei.
Il progetto prende forma: co-progettare
L’uso di new media e community network per
co-progettare creativamente, i tavoli di confronto creativo e i workshop di approfondimento progettuale sono fasi di incontro e di
confronto tra progettisti, amministratori e popolazione residente sulla forma e sui contenuti
del progetto.
Co-progettare significa però sapere
esattamente cosa si cerca e qual è
la posta in gioco come tema di progetto. Ovvero, come rispondere alle
esigenze degli abitanti?
La convergenza di interessi e l’integrazione di risorse, il miglioramento
della capacità degli attori di misurarsi
con i problemi della progettazione
(limiti e opportunità d’azione), decostruzione e ricostruzione dei problemi, miglioramento delle performance
delle iniziative di riqualificazione già in
atto (learning by doing) costituiscono
altrettanti momenti caratterizzanti il
farsi del percorso.
L’approccio è interdisciplinare (il progetto non sostituisce le varie competenze specifiche ma cerca di farle
collaborare meglio, tra loro e con
l’esterno) e un ruolo chiave è attribuito alla comunicazione e all’informazione, fondamento di qualsiasi forma
di partecipazione attiva dei cittadini.
È centrale la rivalutazione del ruolo
degli stessi residenti che in quest’ottica non sono solo destinatari ma
soggetti attivi di un percorso dove la
loro quotidiana esperienza è valorizzata come competenza specifica.
L’integrazione e il coordinamento tra
le varie azioni condotte in più ambiti
da soggetti pubblici, privati e privatosociali, la partecipazione, il coinvolgimento della popolazione e lo sviluppo locale sostenibile sono le linee
guida del Progetto. Questa modalità
si sviluppa attraverso i cosiddetti “tavoli sociali” cui partecipano le realtà
locali e l’Amministrazione, organizzati
e gestiti dai cosiddetti “soggetti terzi”
che nei Piani di Recupero Urbano
hanno il compito di coordinare e attuare i progetti di accompagnamento
sociale.
Un esempio virtuoso di questo me-
todo è dato dal progetto “SantaRosa-in-posa”, vincitore del secondo
premio del concorso Lecce Città
Pubblica “per l’attenzione alla ricerca di
spazi da sottrarre alla edificazione per
costruire accordi di condivisione e di
scambi di tempo e informativi. Per l’individuazione degli spazi sui tetti come
spazi esperibili e ri-progettabili: idea
non nuova ma interpretata al contesto
locale periferico. Per il coinvolgimento
non retorico dei cittadini”.
Dopo la premiazione, il 14 e15 gennaio 2012, i progettisti sono ritornati
nei luoghi dove la progettazione è
nata. Per raccontarsi agli abitanti, per
crescere, per diventare della Pubblica Amministrazione.
“Il nostro progetto”, scrivono le architette Gabriella Morelli e Valentina
Galluccio e l’ingegnere Mario Sarno,
“si propone come un sistema aperto e
vuol essere uno strumento per imma-
40
Lecce
Quartiere Santa Rosa
edificio del mercato
ph. città fertile
ginare il futuro del quartiere partendo
da un presente molto promettente,
sulla base di un passato profondamente attento al carattere sociale della
pianificazione urbana. Abbiamo elaborato mappe di indagine ed estrapolato
proposte, finalizzate alla produzione
di nuove idee condivise, su come si
potrebbe vivere, e possibilmente vivere bene, consumando meno risorse
e rigenerando la qualità dell’ambiente. Al fine di collaborare allo sviluppo
di un immaginario sociale capace di
coniugare creativamente idee globali
e specificità locali, abbiamo innescato
la discussione nel quartiere e un buon
terreno di confronto tra i diversi attori
coinvolti, facilitando la generazione di
idee circa la direzione da prendere
e le scelte da fare. Un confronto indispensabile, perché riteniamo che
non si possa prescindere dalla conoscenza dei bisogni e delle necessità di
chi abita e consuma la città. Questo
è solo il punto di partenza. La nostra
idea potrebbe costituire l’avvio di un’iniziativa più ampia, da programmarsi e
continuarsi nel tempo, con il coinvolgimento di un sempre maggior numero
di soggetti, privati e pubblici”.
Il progetto ripensa gli spazi esistenti
e genera nuovi luoghi, con un arricchimento delle funzioni originarie. È
dunque uno strumento per immaginare il futuro del quartiere, a bassa
intensità di risorse economiche e ad
alto potenziale rigenerativo perché il
motore immateriale sono le risorse
sociali e culturali già presenti, anche
se solo in nuce.
Il cuore è dentro i risultati degli incon-
tri con l’emersione di proposte sui
modi di vivere possibili e sui sistemi
di prodotti e di servizi.
La nuova vita del quartiere ruota intorno a parole chiave emerse nel corso
degli incontri e che costituiscono le
“nuove pose” di Santa Rosa:
l’area del Mercato - Rivisitata, rivitalizzata, con l’inserimento di aree esterne per le attività e nuove trasparenze;
l’InfoPoint Santa Rosa - Nuovo contenitore, tra il mercato e il vecchio
campetto di cemento. Una voce
del quartiere, nel cuore del quartiere, con ambienti che accolgono attività ripristinate come la “borsa del
tempo” e ne introducono di nuove:
book-crossing, bike-sharing, condivisione di luoghi per laboratori di
cucina e di giardinaggio, un punto
di informazione sui nuovi spazi di coworking;
il Municipio di quartiere - piccolo e
gestito dagli stessi residenti, spazio
di appuntamenti periodici con il consulente ambientale e con il vigile di
quartiere;
la Bocciofila “Luca Belfiore” - Riorganizzata e ammodernata, sulla base
delle esigenze attuali;
l’Arena Verde - Spazio di iniziative
culturali per il quartiere e per la città;
gli orti - Ovvero: consumo a chilometro zero. Spazi funzionali e simbolici, fruibili anche da chi non si è mai
confrontato con la coltivazione della
terra, affidati a residenti ed avventori,
per alternare la coltivazione a laboratori di giardinaggio e di cucina in
un’area abbandonata e predisposta
a verde sportivo dal piano urbano;
Santa Rosa isola verde - Tetti verdi
per migliorare il benessere abitativo.
Alberi e piante, per evitare gli allagamenti e per la micro fauna;
il quartiere produce energia - Impianti
fotovoltaici e pannelli solari, sui tetti
dei fabbricati più alti;
nuova mobilità - Con la pedonalizzazione dell’area mercatale, un ecobus ad alimentazione elettrica tra il
mercato, la zona a verde degli orti e
l’area sportiva attrezzata del CONI,
un nuovo Piano traffico di quartiere a
misura dei residenti;
Santa Rosa wireless - Un’infrastruttura tecnologica di comunicazione
wireless, secondo gli standard wimax e wi-fi, per l’accesso a servizi e
contenuti digitali.
Il progetto, dunque, si fonda sulla
centralità della sostenibilità e della
partecipazione come principi della progettazione, sposa l’idea che
sia strategico riconoscere merito
e valore a ciò che esiste e che la
conoscenza del quartiere sia possibile solo vivendo in prima persona
i differenti luoghi che lo abitano. È,
in sintesi, la strategia del cosiddetto
WE-lab, laboratorio di condivisione
e arricchimento comunitario di progetti urbani preliminari ideato da Città
Fertile (gruppo tecnico orizzontale di
professionisti e di cittadini attivi per le
strategie urbane partecipate), dove
we sta contemporaneamente per
“noi” ma anche per week-end, i fine
settimana di incontro e confronto, e
lab significa lavorare insieme e produrre senso.
Non si tratta di essere “necessariamente” in molti ma dii funzionare
come un luogo della politica urbana
dove l’esperienza dei singoli è infinitamente più preziosa di un percorso
tecnico ed intellettuale già depositato. Una comunità di progetto ma
anche uno spazio dove il linguaggio
tecnico riconquista la sua scala naturale, senza perdita dello sguardo
complessivo e dei principi identitari
della proposta, con regole semplici
e immediate.
Infine, i “tecnici” e gli abitanti scrivono il progetto insieme. Un po’ più sapienti tutti, un po’ più umani tutti. 
elogio della distanza
42
scegliere la periferia
katy tundo
architetto
Roma
Quartiere Garbatella
ph. arch. carlo ragaglini
Il senso di smarrimento del multiforme spazio
periferico, il suo incontrollato ed imbarazzante
allargamento verso la campagna, le difficoltà
intrinseche nel riuscire a definire queste realtà
tanto astratte quanto assolute hanno generato, nel corso degli anni, l’equazione, divenuta
poi luogo comune di cittadini, progettisti, amministratori e costruttori, “periferia=negazione”.
Negazione dello spazio abitativo che perde
non solo il suo significato ma anche il rapporto
con le forme urbane esistenti; negazione delle
regole stesse dell’abitare che, tralasciando la
loro chiarezza, si confondono in nuovi rapporti
forma - funzione; negazione di qualità ed identità storica, di uno sviluppo futuro razionale;
negazione di comunicazione e sostenibilità. La
periferia è in fondo, per definizione stessa, una
zona limite, è ciò che sta al di là di un confine
(un fiume, una ferrovia) che, naturale o artificiale, è e rimane sempre tale.
Al di là di questo confine è ammassato, così
come capita, un po’ alla rinfusa, ciò che la città così detta eccellente ha scartato. Il centro
rimane riferimento unico: lì si svolgono tutte
le attività, lì c’è il cuore della vita sociale, lì si
racchiudono le attività politiche e pulsano incessanti le attività commerciali ed economiche
di ogni genere. Le periferie rimangono tagliate
fuori dall’organizzazione funzionale dello spazio
urbano, sono dotate di spazi pubblici irrisolti, sovradimensionate dal punto di vista della
densità abitativa, sintesi di una monotona ripetizione di moduli residenziali per lo più carenti
di spazi aperti.
Tuttavia il rapporto architettura-periferia non è
stato sempre negativo. Esempi storici, parliamo
degli anni ’20 –’30, come i quartieri romani di
S. Saba e della Garbatella testimoniano tentativi di approccio differenti voluti da amministratori e progettisti che consideravano la periferia
come un’opportunità. La Garbatella, quartiere
destinato ad ospitare gli operai dell’Ostiense,
si rifà al concetto delle Città Giardino inglesi
e tedesche: palazzine piccole con l’orto vengono affiancate a condomini di quattro/cinque
piani dove negli anni ’20 del secolo scorso
architetti illustri come Giovannoni, Piacentini,
De Renzi propongono lo scenografico barocchetto romano concentrandosi sulle così dette
“case rapide” ma curando, in modo particolare, i cortili, i lavatoi, le scale esterne e i giardini. Non esistono spazi chiusi, vi è un ampia
libertà compositiva asimmetrica e mai ripetitiva,
a tal punto da sembrare persino casuale ma,
indubbiamente, estremamente moderna. La
qualità estetica e la presenza copiosa di spazi
comuni hanno favorito, nel quartiere, un’intensa vita comunitaria (pulsante ancora al giorno
d’oggi), occasioni di incontro nei giardini e negli spazi pubblici, determinando così il formarsi
di una forte identità territoriale. Analoga ricerca
architettonica ritroviamo nel quartiere S. Saba,
che prende il nome dall’omonima chiesa, dove
vennero realizzati, più o meno negli stessi
anni, lotti di edilizia popolare costituiti da villini
bifamiliari con giardino e palazzine di quattro
piani, con appartamenti luminosi e ampi cortili
rivestiti di cortina scelta sapientemente dello
stesso colore di quella delle antiche mura della
chiesa. Tipologie abitative, curate e funzionali,
riproposte anche per altri interventi che lo IACP
attuò in quegli anni all’interno della Capitale.
Un’ampia piazza centrale, piazza Bernini, è il
vero cuore di questo quartiere: alberi, fontane, panchine, il mercato, attività commerciali, il
campo della chiesa; tutto questo serve a rendere autonomo il quartiere, a far sì che i suoi
abitanti si riconoscano in esso, rafforzando nel
corso degli anni un senso di comunità ed appartenenza. Una zona periferica di una grande città assolutamente compiuta, lontana dal
traffico, filtrata dal parco archeologico e, nello
stesso tempo, collegata al cuore di
Roma. Il movimento moderno cerca
attraverso la progettazione della periferia di dare forma alla propria idea di
città fatta di quartieri dove residenza
ed attrezzature si integrano perfettamente e dove lo spazio abitativo,
alternandosi con quello esterno, dà
vita a comunità di cittadini consapevoli di far parte del medesimo luogo.
Questo tipo di approccio progettuale
è stato via via dimenticato: i quartieri
periferici perdono il loro carattere ur-
bano, non vengono strutturati come
parte della città; gli edifici diventano
oltremodo sovradimensionati e il loro
rapporto con lo spazio pubblico,
molto spesso ricavato tra una costruzione e un’ altra, è inesistente. La
vita degli abitanti si svolge tra molti
limiti e carenze, priva di stimoli ed
opportunità.
Studio di tipi edilizi da legare al contesto storico e progettazione attenta
di spazi comuni e verdi da utilizzare
come filtro tra vecchio e nuovo, tra
centro e periferia: queste le semplici regole degli interventi sopracitati.
Semplici regole, appunto, che servirebbero a ripartire: ripartire dalla
periferia per far ripartire l’architettura,
l’edilizia, la città. È questo il dibattito,
tanto attuale da essere proposto, fra
l’altro, come momento di riflessione
nel tema di Maturità 2014 partendo
dall’invito di Renzo Piano ai giovani
architetti di scegliere come campo di
esercizio le periferie.
D’altra parte è nelle periferie che si
44
Roma
Quartiere San Saba
ph. arch. carlo ragaglini
vive, oggi, la vera quotidianità. Qui
si costruiscono i rapporti sociali, il
senso di appartenenza, di comunità. Ormai saturi, i centri si consacrano alla staticità e all’immutabilità.
Le odierne periferie vanno dunque
ripensate e ridisegnate verso una
nuova identità urbana, una nuova
centralità, in relazione con le peculiarità acquisite nel tempo e che ne
fanno territori in costante sviluppo.
Vanno ripensati gli spazi aperti, quelli
comuni e anche quelli interni dei tipi
abitativi esistenti ormai inadatti alle
esigenze di chi oggi sceglie di vivere in periferia, per ragioni altre da
quelle meramente economiche. Il
patrimonio residenziale risulta ormai
strutturalmente vecchio, fisicamente
degradato ed inadatto dal punto di
vista funzionale a nuclei familiari che
richiedono una maggiore qualità abitativa. I vecchi alloggi vanno ripensati
internamente: suddivisioni ed accorpamenti, anche verticali, ma anche
integrazione di balconi, terrazze,
cortili. Un miglioramento della qualità
della vita nella periferia si ripercuoterebbe poi sull’intera città, facendola
risultare più compatta ed omogenea. Riqualificare allora, ma in maniera sostenibile: l’abitante non solo
spettatore ma parte integrante di
una ricerca di soluzioni adeguate alla
complessità dei luoghi le cui risorse
fisiche e sociali andranno valorizzate
e contrapposte alla città storica. Rimodellare gli edifici dal punto di vista
fisico, funzionale ed energetico. Un
incremento del benessere abitativo
non solo per fasce di utenza deboli
che la tradizione vuole residenti nelle zone marginali delle città ma per il
nuovo abitante della periferia che la
sceglie percependone le potenzialità
di aggregazione e relazione sociale,
la dimensione umana, la possibilità
di insediarvi nuove attività commerciali a carattere artigianale o piccolo
imprenditoriale, praticamente impossibili nel centro urbano ormai troppo
costoso. Per chi è convinto che questi luoghi possano produrre gli stimoli sociali e culturali di cui il nostro
paese ha bisogno per ripartire, per
creare occupazione, e considerano
la periferia paradigma della nuova
stratificazione sociale italiana, multietnica, multiculturale, che reclama
servizi adeguati ad un cambiamento avvenuto lentamente, in maniera
graduale, ignorato da Istituzioni che
risultano oggi obsolete.
Esempi di interventi sulla periferia
ci giungono, già consolidati, dal resto dell’Europa: spazi con gerarchie
proprie (pubblico, semipubblico e
privato); creazione di nuove zone
verdi, alternative all’esistente; accorpamento degli spazi aperti privati
comuni ormai in disuso; spinta per
una maggiore caratterizzazione dei
luoghi.
Le città, le sue zone marginali, tornano ad essere laboratorio di progettazione e ricerca. Si torna a disegnare
lo spazio in funzione degli equilibri
territoriali e sociali; il progettista, l’architetto, è consapevole di avere un
nuovo compito: disegnare, certo,
ma anche collaborare con gli abitanti, comprendere il loro rapporto
con i luoghi in cui vivono, progettare preservando le risorse ambientali
e ripensando gli edifici dal punto di
vista fisico ed energetico. Un quadro
attrattivo anche per investimenti economici: il privato si affianca al pubblico, investendo risorse per attirare
nei quartieri il nuovo: nuovi abitanti,
nuove funzioni, nuovi protagonisti
che chiedono, e già rappresentano,
il cambiamento.

- Calvino I., Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972
- Frampton K., Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1982
- Gideon S. ,Spazio tempo architettura, Hoepli, Milano
1984
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- Scateni S., Periferie, Laterza ,Bari 2006
- Piano R., Il rammendo delle periferie, da “Domenicale
de “IlSole24ore”, 26/1/2014
tra bordo e bordo
46
le sfide della pianificazione
walter
carrozzo
architetto
Strada Provinciale
Melendugno - Vernole
La periferia, e soprattutto la tematica della sua
pianificazione ed integrazione nel contesto urbanistico cittadino, rimandano di continuo a
riflessioni e discussioni verso la ricerca di una
soluzione definitiva alla questione. In questo
contesto la strumentazione urbanistica fornita
recentemente da PUG, PIRP e Piani Territoriali
di Coordinamento sembra poter infondere in
modo concreto un forte impulso per raggiungere l’obiettivo.
Tra i primi promotori a livello istituzionale nel
Salento troviamo proprio la Provincia di Lecce, attraverso il suo P.T.C.P., che ha assunto il ruolo efficace di chi indica ai Comuni la
strada della pianificazione intercomunale.
Con il Piano Territoriale di coordinamento Provinciale si sono iniziate così a determinare le
parti strutturali che individuano i contesti territoriali e i relativi patrimoni, identificandoli con
gli ambiti naturali e culturali (ambiente e paesaggio, beni culturali, insediamenti, infrastrutture) e che racchiudono in sé, quasi sempre,
aree più ampie dei singoli territori municipali.
In tal senso si è mossa anche la Regione
Puglia che, dopo aver aggiornato la normativa di riferimento con la Legge Urbanistica
Regionale n° 20/2001 (e successive modifiche e integrazioni), il Documento Regionale
di Assetto Generale (DRAG) che entra più nel
merito della formazione del Piano Urbanistico
Generale (PUG), sta sostenendo e agevolando la pianificazione intercomunale e che
così indica:”Obiettivo dell’Assessorato è anche
stimolare i Comuni alla redazione di PUG intercomunali o almeno di quadri conoscitivi e di
assetto strutturale condivisi, specie per i sistemi
interessati da processi di metropolizzazione e per
i piccoli centri, individuando a tal fine appositi incentivi, come peraltro previsto dall’art. 10 della
LR 20/2001”..
Le nuove leggi regionali in materia di governo
del territorio, e le nuove forme di pianificazione
già citate, favoriscono e incoraggiano l’intercomunalità per perseguire alcuni fondamentali
obiettivi: ridurre i conflitti tra comuni
contermini, agevolare lo sviluppo locale condiviso e partecipato, ridurre
i costi relativi alle attività attinenti al
governo del territorio.
Allo stato attuale in Provincia di Lecce si contano 16 Unioni di Comuni,
la cui finalizzazione primaria è quella della gestione di vari servizi ma
nessuna, tra queste, include specificatamente a livello statutario la gestione associata della Pianificazione
Territoriale.
Le realtà locali che nel Salento hanno voluto intraprendere questa strada sono state l’Unione dei Comuni
delle Terre di Acaya e di Roca con
i Comuni di Melendugno e Vernole,
ed i Comuni di Otranto e Giurdignano che hanno deciso di formulare il
proprio PUG Intercomunale, attual-
mente in fase di elaborazione.
L’omogeneità delle caratteristiche
degli ambiti comunali, unitamente
alla gestione del territorio in modo
congiunto, sono stati i principi su cui
le municipalità si sono mosse per
dotarsi della strumentazione urbanistica intercomunale.
Fasce costiere, beni ambientali, risorse archeologiche e immobili di
pregio architettonico sono quelle
caratteristiche che tipicizzano gli habitat, rafforzando e motivando così la
necessità di gestire in maniera condivisa tali valori.
Di questa modalità progettuale e
connessione territoriale le periferie
divengono parti costituive, un approccio che permette l’emergere di
soluzioni per uno studio comune di
questi spazi urbani verso la loro riqualificazione, il loro inserimento nel con-
testo di sviluppo del territorio, perché
le stesse periferie risultino non più
estremità ma centralità nella vita stessa che caratterizza i comuni. Comuni
che, da sistemi univoci, hanno preferito evolversi in pluralità territoriali.
Occorrerà, quindi, come per l’Unione dei Comuni delle Terre di Acaya
e di Roca e dei Comuni di Otranto e
Giurdignano, attraverso i PUG Intercomunali creare uno sviluppo urbanistico ed economico dei territori che
valorizzi le peculiarità di ciascuno dei
contesti comunali, potenziandone le
caratteristiche e lavorando al fine di
renderli sempre più complementari
tra loro, attuando un percorso concomitante di arricchimento reciproco
che eviti altresì di creare competizione tra comuni contermini sia nell’ambito urbanistico che paesaggistico.

un muro per un poeta
48
vittorio bodini in via taranto
Lecce, via Taranto, quartiere Borgo Pace. Un
palazzo di sette piani in ristrutturazione.
Un monaco rissoso vola tra gli alberi.
A Giorgio Leaci, che in quel palazzo di sette
piani ci vive da tempo, e a due artigiane che
nello stesso stabile hanno unaugurato un laboratorio di candele naturali, viene un’idea - complici i lavori di ristrutturazione della facciata - di
quelle che, a prima vista, sembrano difficilmente realizzabili: un murale sul prospetto laterale.
Leaci, a dire il vero, alle questioni poetiche e
alle imprese difficili è affezionato da tempo.
Per esempio, il progetto Librolio, in occasione della consegna del Premio Moravia 1999.
Ovvero “una pagina, un insieme di pagine su
cui fermare le voci di un lento racconto”, bottiglia particolarissima di olio extravergine d’oliva riprodotta in 99 copie numerate (chi scrive
conserva ancora, fortunatamente, la n.50). Un
progetto legato a “I Quaderni del Fondo Moravia”, ad un’amicizia più che decennale con
Toni Maraini, con poeti e scrittori del Mediterraneo di qua e di là del mare. Alla passione per
la scrittura e la poesia a queste latitudini, non
solo i più famosi Bodini o Bene o Corti, anche Comi e poi Pagano, Toma, Verri e Salento
Poesia. E alla capacità “fluviale” di raccontare
questa terra nelle sue pieghe più sconosciute
e segrete.
borgo pace
murales by chekos art
ph. marco asciutti
Duecentoquaranta metri quadri di superficie a
disposizione, il coinvolgimento di tutti i condomini che “hanno accolto il progetto fin dall’inizio”, la collaborazione con la 167B/Street Crew
e quella con Chekos’Art.
Racconta adesso Giorgio Leaci: “Certo, l’idea
è nata per caso ma a pensarci bene non tanto
per caso.
La riflessione sulla natura dell’architettura, sulla
qualità urbana, sulla periferia, temi a me cari da
sempre, è ben presente in questo progetto di
murales urbano e d’altra parte in me è ancora
viva l’esperienza del Laboratorio di Quartiere
a Otranto con Renzo Piano e Gianfranco Dioguardi.
Forse dovremmo essere capaci di una riflessione più accurata su quanto è avvenuto negli
anni in questa terra, perché molte cose sono
accadute e di molte si è quasi smarrita la memoria anche se hanno rappresentato esperienze fondamentali.
Chekos’ aveva già lavorato nel quartiere Santa
Rosa provandosi con il volto di Carmelo Bene
che, insieme a Bodini, considera punti di riferimento fortissimi del suo lavoro e della sua
scelta di vita.
Per come lo pensavo inizialmente, quel muro
era soprattutto una pagina, e dunque uno spazio su cui soprattutto scrivere, più che dipingere. Avevo immaginato un verso di Wislawa
Szymborska. Poi l’incontro con Chekos’ ha
portato un altro punto di vista e un’altra possibilità. Così come lavorare sull’immagine dal
vero.
Mi chiedi delle reazioni. Non so, posso solo
dirti di aver avvertito un grande silenzio intorno
a me…”.
Silenzio e cura, come sottolinea Chekos’.
Street artista senza concessioni, abituato piuttosto a ‘scegliere’ i muri su cui lasciare colori e
segno, alla parola ‘cura’ dedica un’attenzione
particolare poiché, dice, “la periferia è il fulcro,
ed è una questione che non riguarda solo la
città ma anche la nostra relazione intima con
le cose. In ognuno di noi c’è una periferia che
rimane tale se non siamo capaci di pensare le
cose in altro modo.
È vero nel mio lavoro prediligo soprattutto questi luoghi di bordo, hanno una forza che definisco energetica. Una forza che nelle città faccio
fatica a sentire. Credo che nella periferia ci sia
l’essenziale. E quell’energia è fondamentale
anche per la città. Bisogna averne cura. Anche
con i colori, anche con un segno”.

le forme dell’aperto
50
per una nuova piazza mazzini
Trecentomila idee
Davide Negro e
Sonia Luparelli
1° classificato
Primo classificato il progetto firmato da Davide
Negro e Sonia Luparelli.
Secondo quello firmato Antonio Longo, Loris
Causo, Marco Causo e Marco Mazzotta.
Terzo la proposta di Luciano Baldi, Giuliana
Baldi e Francesco Danielli.
Tre vincitori e, grazie alla rilevante partecipazione, una notevole messe di suggerimenti,
suggestioni, punti di vista e nuove angolature.
È l’esito del Concorso di idee per una rivisitazione di Piazza Mazzini, titolo non casuale “TrecentomilaIdee”, promosso nel maggio 2014 da
Aps Green Power e Sofran in collaborazione
con l’Ordine degli Architetti di Lecce nell’ambito della 5° Edizione di Externa, Fiera nazionale
dell’Arredo degli Spazi esterni, svoltasi dal 30
aprile al 4 maggio e ospitata da Lecce-Fiere,
Piazza Palio.
La premiazione, a conclusione della Fiera, è
stata anche occasione per un confronto tra
Fabio Novembre, architetto salentino di fama
internazionale, presidente della Giuria, Massimo Crusi, Presidente Ordine Architetti PPA di
Lecce, Paolo Perrone, Sindaco di Lecce.
“È tempo che Piazza Mazzini cambi radicalmente”, ha esortato Fabio Novembre che per
l’occasione dialogava con il giornalista Rosario Tornesello. “Possiamo essere legati affettivamente a questo luogo, possiamo averne
ricordi legati alla nostra infanzia ma dobbiamo
essere capaci di una valutazione estetica e riconoscere francamente che quella Piazza non
è bella”.
“Mettiamo a disposizione dell’Amministrazione
Comunale queste riletture di Piazza Mazzini e
dello spazio urbano”, ha evidenziato Massimo Crusi, Presidente Ordine Architetti PPA di
Lecce, “registrando con grande soddisfazione
il consistente numero di adesioni che il Concorso, privo peraltro di finalità immediata, ha
registrato. Ancora una volta questa formula
conferma la sua vitalità e la sua straordinaria
ricchezza. Promuovere e stimolare il confronto
nella forma del Concorso di idee o del workshop di progettazione sulle trasformazioni urbane credo sia uno dei modi migliori per garantire qualità alla stessa trasformazione urbana”.
“Siamo consapevoli del bisogno di ridisegnare
Piazza Mazzini”, ha affermato Paolo Perrone, “e
ringrazio l’Ordine degli Architetti che promuove
occasioni così feconde. Sono iniziative importanti per chi amministra perché consentono
nuovi punti di vista su settori strategici e delicati
come la crescita e la trasformazione della città,
la qualità urbana, la cultura”.
“Ripensare e riprogettare Piazza Mazzini non
era facile”, ha osservato Flavio De Carlo, architetto, responsabile scientifico del Concorso
d’idee, “e al di là delle singole qualità dei progetti pervenuti è interessante cogliere le letture e gli interrogativi che questi stessi progetti
mettono a disposizione suggerendo nuove
chiavi interpretative e nuovi modi di guardare
a questo luogo. L’iniziativa ha avuto il merito,
non scontato, di riaprire la discussione tra gli
addetti ai lavori e nella città su la funzione e
la qualità estetica di questa porzione urbana,
mettendo in discussione l’una e l’altra”.
D’altra parte già nell’intro di presentazione del
Concorso (la Giuria, presieduta da Fabio Novembre, era composta dagli architetti Claudia
Branca per il Comune di Lecce, Fulvio Tornese
per l’ Ordine degli Architetti PPC di Lecce, Flavio De Carlo - segretario senza diritto di voto -,
dall’ingegnere Gabriele Tecci per l’Amministrazione Provinciale di Lecce e da Marcello De
Giorgi per la Camera di Commercio), la suggestione era evidente: “Siamo partiti da una
domanda: quali forme ha l’aperto?”.
E ancora: “Siamo partiti dunque da qui, da
questa Piazza dei Trecentomila, per la più classica delle sfide: la riqualificazione, la rigene-
razione. E nella città che adesso è
intenta a pensarsi Capitale Europea
della Cultura chiamiamo a raccolta
chi ha voglia di provarsi con il progetto di nuove forme, e nuove vite,
per questa Piazza. Non solo in termini architettonici, ma spingendosi
fin dentro le pieghe della sua vita,
immaginando “il suo spirito, la sua
energia”.
È un invito a pensare, meglio ripensare, una piccola densa quanto mai
significativa porzione di spazio urbano, nelle sue relazioni e nella sua
vita”.
L’adesione al Concorso ha dimostrato, tra l’altro, quanto siano considerate necessarie occasioni del
genere, e come siano fondamentali
per immettere nella riflessione sulla
qualità urbana e sulla trasformazione
della città inediti punti di vista.
Grazie anche alla formula della votazione on line, infatti, è divenuto
una sorta di laboratorio progettuale
allargato e condiviso, “offrendo letture dei luoghi preziose per i cittadini
e soprattutto per gli amministratori,
oltre che per noi professionisti, sottolineato con forza il ruolo e il contributo fondamentali dell’architettura
nella trasformazione e nella rilettura
dello spazio urbano. Questo risultato
positivo insieme agli esiti registrati da
altre esperienze, promosse e realizzate dal nostro Ordine negli ultimi
tempi, ci spingono a rafforzare il percorso in questa direzione” (Massimo
Crusi).
“Concentrando l’attenzione su Piazza Mazzini”, conclude Flavio De Car-
52
Trecentomila idee
Luciano Baldi, Giuliana Baldi e
Francesco Danielli
3° classificato
lo, “abbiamo proposto un esercizio
progettuale delicato e difficile per i
livelli di significato urbano che proprio Piazza Mazzini racchiude in sé.
Come fare i conti con la storia urbana e sociale della città a partire dal
‘disegno’ dello spazio urbano.
I progetti pervenuti ed esposti in
mostra non hanno fornito risposte
chiuse ai quesiti posti dal bando, lasciando spazio a nuovi interrogativi.
Trecentomilaidee ha fornito un’oc-
casione per proporre prospettive e
stimoli a modificare il punto di vista
sui fenomeni di trasformazione urbana, suggerendo tra le righe della loro
sfuggevolezza chiavi interpretative
per la soluzione di problemi che, non
necessariamente, devono essere ricondotti a categorie codificate.
Non dimentichiamo, tra l’altro, che il
Concorso voleva essere anche un
contributo a reinventare Eutopia nel
percorso di Lecce 2019 Capitale
della cultura. Le Utopie si nutrono di
spirito creativo, generando il cambiamento e tracciandone il percorso in
direzioni talvolta inaspettate.
Anche per questo abbiamo immaginato, insieme ai promotori, che il
modo migliore di condividere con
l’intera città lo spirito del Concorso
d’Idee potesse essere quello della
votazione on line, chiamando i cittadini a misurarsi con i progetti e la
natura in divenire della Piazza”.

Trecentomila idee
Antonio Longo, Loris Causo,
Marco Causo, Marco Mazzotta
2° classificato
54
news
DisegnareRicucireGovernare
Per una nuova valigia degli attrezzi
Una mappatura delle buone pratiche. Un
Archivio delle idee e dei progetti. Una valigia degli attrezzi. Una esercitazione multidisciplinare. È tutto questo (e molto altro
ancora) il progetto “Di.Ri.Go”, disegnare_ricucire_governare le periferie, elaborato dalla Commissione Cultura della Federazione
degli Ordini degli Architetti di Puglia e che
già si avvale di un Protocollo d’Intesa con il
Comune di Lecce.
“Spesso guardiamo le cose con occhio rivolto troppo indietro”. È con una citazione di
Mario Cucinella (da un’intervista sul valore
delle periferie nel dibattito contemporaneo),
che si entra nel vivo del progetto il cui obiettivo è “promuovere e suscitare una riflessione accurata e approfondita sul tema delle
periferie urbane immaginando nuovi scenari
in ottica smart city per costituire, grazie ai
materiali prodotti, una valigia degli attrezzi,
una mappa delle possibilità e delle esperienze che verrà messa a disposizione del
territorio pugliese. A partire da un oggetto
specifico, si disegna dunque un metodo più
complessivo che informerà le attività della
Commissione culturale della Federazione
pugliese nel Programma quadriennale: costituire occasione di discussione e disseminazione di buone pratiche ed esperienze
per l’intera Puglia”.
E ancora: “Nonostante attualmente non abbiano una specifica identità, siano diffuse
ma spesso non definite, le periferie sono i
“potenziali luoghi” in cui si gioca il futuro delle città metropolitane. Perché accada, il problema periferia non si può risolvere operando con le tradizionali politiche di interventi
settoriali ma con interventi che coinvolgano
il processo generale di modernizzazione e
riorganizzazione fisica e funzionale della
città e che, contemporaneamente, abbiano carattere integrato e trasversale, siano
ispirati al modello urbano smart city. Negli
ultimi anni il concetto di smart city è entrato
a far parte in misura crescente della riflessione dedicata alla costruzione dello spazio
urbano, inglobando importanti sfide come
l’attenzione allo sviluppo sostenibile e il miglioramento della qualità della vita. Le Periferie hanno le potenzialità per divenire un
importante laboratorio progettuale per interventi smart. (…) Si deve ripartire, dunque,
da un lato, da piccoli interventi di messa in
sicurezza, di demolizione e di progettazione
di nuovi spazi pubblici; dal restituire qualità
al disegno urbano così come ai fronti degli
edifici, dal ridare energia alle piccole e medie imprese così come all’economia locale
e alla creatività dei cittadini; dall’altro, dallo
studio delle possibili relazioni e interconnessioni che queste aree possono avere con il
resto della città: strade, tangenziali, metro
e qualsiasi altro tipo di mobilità urbana che
favorisca lo scambio e l’interazione.
Lo scopo è creare luoghi nuovi, luoghi dove
lavorare, studiare, ideare, far partire start
up e co-working, sperimentare nuovi servizi
smart. Luoghi interattivi. Luoghi a cui dare
nuove funzioni per fruitori diversificati. Luoghi da occupare con entusiasmo. Luoghi
da condividere e da comprendere. Luoghi
di cui recuperare valore storico, economico
ed umano. Le figure professionali coinvolte
in questo processo di ricostruzione del valore delle periferie sono molteplici e devono
tutte collaborare nella fase di condivisione
dell’idea, dell’analisi dei bisogni e nella sintesi progettuale.
Così concettualmente pensata, la periferia
potrà e dovrà essere disegnata - ricucita governata, coinvolgendo i cittadini alla “vita
dentro”.
Call for paper (rivolta alla comunità nazionale
e internazionale degli architetti e a tutti coloro che si sono misurati con il tema della
periferia), workshop, seminari, convegni,
mostre, concorsi di idee e concorsi di architettura: queste le attività in cantiere.
“Con Di.Ri.Go intendiamo sottolineare l’urgenza di una pratica di lavoro, teorica e
insieme concreta, sullo stato dell’arte delle
nostre periferie”, afferma Massimo Crusi,
Presidente Federazione degli Ordini degli
Architetti PPC di Puglia. “L’obiettivo è sollecitare interventi che analizzino le condizioni
attuali (il disegno architettonico ed economi-
co esistente), quelle eventuali di progetto (il
disegno architettonico sociale ed economico immaginato), le esperienze di ricucitura
urbana, architettonica, sociale ed economica e i metodi per il governo di quanto immaginato o già realizzato per individuare buone
pratiche o idee nuove per la strutturazione
di un metodo. Anche grazie al Protocollo
d’intesa già siglato con l’Amministrazione
comunale, Lecce avrà la funzione di apripista, progetto pilota dove l’azione verrà sperimentata per essere poi riproposta nelle altre
città pugliesi”.

Riqualificare, rigenerare
Con un Protocollo il giro di boa
Sostenere la riqualificazione e la rigenerazione
urbana attraverso la realizzazione di uno strumento per la valutazione economico-finanziaria
degli investimenti pubblico-privati negli interventi di riqualificazione urbana.
È l’obiettivo del Protocollo d’Intesa siglato a
Bari il 6 novembre scorso tra Regione Puglia,
Anci Puglia, Ance Puglia, Abi Puglia, Federazione Regionale degli Ordini degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della Puglia,
Consulta Regionale Ordini degli Ingegneri di
Puglia, Politecnico di Bari.
Un Protocollo che, pur sottolineando la rilevanza strategica della riqualificazione e rigenerazione urbana nelle dinamiche di trasformazione
territoriale e il grande impulso impresso dalla
Regione in questa direzione, al contempo rileva una scarsa dinamicità da parte degli enti
territoriali e più in generale degli attori sociali
potenzialmente interessati. Con il fondato timore che la rigenerazione e la riqualificazione
possano incagliarsi nelle secche causa il venir
meno di risorse straordinarie destinate e più in
56
generale una non compiuta ‘rivoluzione’ culturale capace di coinvolgere appieno anche i privati e più in generale Istituzioni e mondo delle
professioni.
L’obiettivo è evidente: “l’iniziativa – normativa e
finanziaria – ha lo scopo di incidere sull’azione
ordinaria delle amministrazioni locali, promuovendo la riqualificazione urbana quale alternativa sostenibile all’espansione urbana e consentendo ad essa di attuarsi con programmi di
adeguato rilievo, che comportino la partecipazione di investimenti privati”.
E ancora: “La riqualificazione urbana e territoriale è attività complessa che richiede sia un
progressivo cambio di mentalità nei comportamenti imprenditoriali e amministrativi, sia un
uso mirato di finanziamenti pubblici, sia la definizione di strumenti tecnico-amministrativi che
favoriscano la formazione di validi programmi di
intervento e la loro approvazione in tempi non
solo rapidi a soprattutto certi”.
Perché la rigenerazione possa divenire a pieno
titolo un paradigma dell’azione amministrativa il
Protocollo favorisce dunque un’azione di sistema, coinvolgendo tutti i soggetti attori della riqualificazione nella definizione dello strumento
necessario alla valutazione economico-finanziaria degli investimenti pubblico-privati.
“Come Federazione”, è stato affermato nel
corso della presentazione, “mettiamo a disposizione i materiali di studio già prodotti sul tema
ma soprattutto una linea di lettura dello stato
dell’arte e delle azioni necessarie elaborata
in questi anni. Se è vero che le città sono lo
spazio privilegiato della qualità territoriale, della
produzione di relazioni sociali, dello sviluppo
economico, è altrettanto vero che la trasformazione non può avvenire solo per input istituzionale, in questo caso la Regione, ma deve
essere un processo costante capace di coinvolgere tutti i segmenti sociali.
Solo così anche la manutenzione potrà divenire azione costante, monitorata e monitorabile
nel tempo e, in prospettiva, un elemento di gestione virtuosa delle risorse sia pubbliche sia
private”.

Dagli uffici tecnici agli architetti
Tutti a scuola di PPTR
Il Piano Paesaggistico Territoriale della Puglia
alla luce della sua attuazione: è il filo rosso che
ha caratterizzato il percorso di accompagnamento (per i Responsabili dei Procedimenti di
rilascio delle Autorizzazioni Paesaggistiche e i
componenti delle Commissioni Locali del Paesaggio) e di formazione (per i professionisti)
promosso dalla Regione Puglia congiuntamente con la Direzione regionale dei Beni culturali
e Paesaggistici della Puglia, Innova Puglia,
Inarch, e che ha visto nella Federazione regionale degli ordini degli Architetti PPC di Puglia
l’alleato territoriale strategico.
Per dirla in altre parole, e come ha più volte
ribadito la Federazione degli Ordini degli Architetti pugliesi, l’attuazione del PPTR non è
esclusiva materia degli Uffici Tecnici e delle
Commissioni paesaggistiche ma, perché il
Piano possa essere concretamente strumento
di salvaguardia e tutela del territorio oltre che di
incubazione del futuro territoriale della Puglia,
deve divenire ‘pane quotidiano’ di tutti i professionisti coinvolti nella sua attuazione, in primo
luogo gli architetti.
Su proposta della stessa Federazione, condivisa dagli altri ordini professionali regionali
(Agronomi, Geologi e Ingegneri) e in collaborazione con gli stessi, i professionisti iscritti
agli ordini professionali hanno potuto seguire
la gran parte delle attività formative in diretta
streaming nelle sedi decentrate della Regione
Puglia, nelle sedi dei sei Ordini pugliesi e, per
il Basso Salento, nell’Auditorium di Casarano.
D’altra parte erano stati proprio i Laboratori di
Ascolto sull’attuazione del PPTR promossi nel
settembre scorso dall’Ordine di Lecce a Galatina, Nardò, Maglie, Gallipoli, Tricase, Lecce
e dagli altri Ordini nei territori di riferimento, a
far emergere la necessità di approfondimenti
tematizzati e mirati. Soprattutto, di un coinvolgimento pieno degli architetti nell’attuazione
perché la relazione con gli Uffici Tecnici e le
Commissioni Paesaggistiche evitasse l’ingenerarsi di conflitti e di contenziosi permettendo
al Piano di esplicare compiutamente la sua funzione di tutela e salvaguardia del paesaggio.
Strutturato in 15 incontri, con gli ultimi quattro
dedicati ai diversi ambiti territoriali pugliesi, il
percorso di approfondimento ha avuto come
obiettivo quello di agevolare la transizione dal
Piano Paesaggistico - PUTT al nuovo PPTR
per “migliorare l’efficacia e l’efficienza nell’esercizio delle funzioni paesaggistiche delegate da
parte degli enti locali e contribuire alla formazione dei professionisti del settore pubblico e
privato per offrire alle istituzioni e all’insieme del
corpo sociale e civile professionisti competenti
nella progettazione paesisticamente orientata”,
evidenziando la natura complessa del PPTR,
allo stesso tempo atto normativo ed evento
culturale “in quanto le trasformazioni che esso
è in grado di indurre non si possono misurare
solo con la sua cogenza tecnico-normativa,
ma anche con la capacità di trasformazione
delle culture degli attori che quotidianamente
producono il territorio e il paesaggio”.
Il PPTR, sottoscritto a Roma il 16 gennaio
scorso dal Presidente Vendola e dal Ministro
Franceschini, è il primo piano sottoscritto in
Italia sulla base degli adempimenti previsti dal
Codice dei Beni culturali e del Paesaggio del
2004.

Sicurezza degli edifici
120 architetti per la Protezione civile
Adesso il passo successivo potrà essere un
Sistema della Protezione civile degli architetti.
Forte dei 120 architetti, in prevalenza giovani,
specificamente competenti in attività di monitoraggio e verifica della sicurezza degli edifici
nella gestione dell’emergenza sismica, a disposizione della Protezione civile nazionale
regionale, formatisi nel Primo corso per la formazione degli architetti ai fini della Protezione
civile in Puglia.
Tenuto da esperti della materia, durato complessivamente 3 mesi, il Corso promosso
e organizzato dalla Federazione degli Ordini Architetti di Puglia con la collaborazione e
il coinvolgimento di tutte le sedi territoriali, ha
rappresentato in Puglia una vera e propria novità e un approdo lungamente e tenacemente
perseguito.
“Ci sono voluti anni”, sottolinea Gaetano Centra, Presidente Ordine Architetti Foggia, Coordinatore regionale Protezione civile della Federazione, “ma alla fine grazie al protocollo di
intesa tra il CNAPPC e la Protezione civile si
è disciplinata l’attività formativa sul tema della
gestione tecnica dell’emergenza e dell’agibilità
post-sismica, permettendo agli Ordini professionali riuniti in Federazioni e Consulte di intraprendere l’organizzazione di percorsi formativi
qualificati.
Oltre al suo “concreto” significato di ciclo formativo qualificato, che ha innescato tra l’altro
un proficuo ed efficace rapporto di collaborazione tra il sistema ordinistico degli architetti e
gli organismi nazionali e regionali di Protezione
Civile, è da evidenziare il forte segnale - in questa iniziativa - di una esplicita volontà di sensibilizzazione alla consapevolezza del delicato
equilibrio del territorio su cui viviamo.
58
Beni storico-artistici
La competenza è degli architetti
Federazione Regionale Ordini
Architetti PCC di Puglia
Corso di formazione
verifica sicurezza degli edifici
Aquila, 2013
Formazione intesa come approccio alla pianificazione e preparazione alle emergenze nonché come prevenzione per arginare e limitare
nuove situazioni di pericolo.
Mi auguro che questo sia solo il primo atto di
un percorso virtuoso con il quale si susseguiranno ulteriori iniziative finalizzate anche ad una
proposta di una normativa che “incentivi” la
demolizione di edifici di scarsa qualità costruttiva con la ricostruzione di nuovi edifici sicuri,
realizzati con le ultimissime tecnologie antisismiche sperimentate e collaudate nel territorio
dell’Aquila, con il riconoscimento di ragionevoli
incrementi di cubatura. Naturalmente per questo è necessario un grande lavoro di sensibilizzazione e una grande opera di coinvolgimento
dei privati, sia proprietari delle abitazioni che
delle imprese.
La posta in gioco è la sicurezza del territorio e
la tutela della vita umana”.

La Sentenza del Consiglio di Stato è netta: per
i beni architettonici di rilevanza storico-artistica
progetti e direzione dei lavori sono di esclusiva
competenza degli architetti.
Lo afferma il Consiglio di Stato, mettendo così
fine ad una discussione che si trascinava nel
tempo, lo ribadisce il Ministero dei Beni culturali – Direzione generale per il paesaggio, le
belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee
con una circolare inviata nel marzo 2014 alle
Direzioni generali per i Beni paesaggistici, lo
sottolinea nuovamente il Soprintendente per
i Beni architettonici e paesaggistici di LecceBrindisi-Taranto, architetto Canestrini, con una
comunicazione del gennaio scorso inviata stavolta a tutte le stazioni appaltanti pubbliche nel
territorio di competenza, alle Curie, agli Ordini
professionali “rammentando il rispetto della
normativa vigente in materia di competenze
professionali per la progettazione ed esecuzione di interventi sui beni culturali”.
La comunicazione della Soprintendenza, relativa all’istanza di autorizzazione di progetto,
rafforza dunque quanto già comunicato nei
mesi scorsi dalla Federazione degli Ordini degli
Architetti di Puglia a tutti gli enti territoriali della Puglia e alle Soprintendenze, con il duplice
obiettivo di informare su quanto disposto dai
giudici e soprattutto evitare l’insorgere di spiacevoli contenziosi circa incarichi, bandi pubblici, appalti, evidenziando il ruolo dell’architettura
nei progetti di restauro dei beni storici.
“Con la Sentenza”, si legge nella lettera inviata dalla Federazione, “il Consiglio di Stato
si esprime in modo definitivo sulla legittimità
dell’esclusione della categoria professionale
degli ingegneri dal conferimento di incarichi afferenti la direzione dei lavori da eseguirsi su im-
mobili di interesse storico-artistico, considerati
in via esclusiva di competenza degli architetti.
Più precisamente, i giudici affermano che l’attività di direzione dei lavori su immobili di interesse storico artistico non può essere ricondotta
ad attività di mero rilievo tecnico, non potendo
essere esercitabile dai professionisti ingegneri,
ma essendo riservata alla sola professione di
architetto.
Ne consegue, sempre secondo la Sentenza,
e in coerente applicazione dell’articolo 52 del
R.D. 2537 del 1925, che devono ritenersi precluse agli ingegneri la partecipazione alla gara
per l’affidamento del servizio di direzione dei
lavori e di coordinamento della sicurezza sugli
immobili di interesse storico-artistico”.
“Tutti i nostri interlocutori”, auspica la lettera
“sapranno e vorranno rispettare quanto contenuto nella Sentenza che ribadisce un principio
importante di natura soprattutto culturale, strettamente connesso alle nostra specifica preparazione coerente con la tutela del patrimonio
monumentale del Paese.
La sentenza infatti non impedisce la possibilità che altri professionisti tecnici partecipino ai
restauri, in una necessaria e auspicabile sinergia di saperi e competenze. Indica solo che,
per legge, la responsabilità e il coordinamento
dei lavori devono essere degli architetti e che,
peraltro, sarebbe sbagliato tirare per i capelli
le Direttive comunitarie piegandole verso una
equiparazione delle due professioni.
Equiparazione che viceversa, a tutela di tutti, il
Consiglio di Stato recisamente esclude”. 
Lecce
recupero delle
Mura Urbiche
60
riletture
la condizione del presente
Se questa è una città. La condizione urbana
nell’Italia contemporanea, di Vezio De Lucia,
urbanista, pubblicato nel 1989 e riedito nel
1992 e nel 2006, ripercorre le vicende delle
città italiane nella seconda metà del XX secolo. Vicende che hanno portato l’Italia, all’alba
degli anni Novanta, in una condizione di degrado, inquinamento, abusivismo e distruzione
dell’ambiente naturale e del patrimonio culturale paragonabile a quella di un paese del Terzo
mondo. Il libro, unanimamente considerato un
classico della letteratura territorialista italiana,
“rimane” come lucidamente diceva Pietro Bevilacqua nell’introduzione alla terza edizione,
“(…) un testo drammaticamente aperto sul nostro presente. Ci mostra il come siamo arrivati
fin qui e al tempo stesso ci comunica la sua
incompiutezza di testimonianza di fronte a una
realtà che appare come proseguire nei fatti,
con immutata gravità” e che, come scriveva
Antonio Cederna nella prefazione della riedizione del 1992, “sarebbe da rendere obbligatorio
nella scuola e nelle università” perché da qui
“chi si accinge a fare l’architetto imparerà quali
sono le cose serie da studiare e capire per evitare di farsi complice dello sfacelo”.
De Lucia muove dalla promulgazione della
legge urbanistica del 1942 e dai ritardi degli
organi di Governo nell’approvazione degli strumenti urbanistici, in nome dell’emergenza della
ricostruzione la cui conseguenza fu il dilagare del cemento su tutto il territorio. Racconta
poi degli anni della speculazione edilizia sino
al 1966, quando gli eventi tragici della frana di
Agrigento e dell’alluvione di Firenze accesero
l’attenzione sulla necessità di porre un freno al
disordine urbanistico ed edilizio e spinsero alla
proposta e alla successiva approvazione, nel
1967, della cosiddetta Legge-ponte.
Prosegue dunque con la descrizione degli errori e degli orrori italiani: l’insediamento siderurgico nella piana di Gioia Tauro, l’Alfa sud di
Pomigliano d’Arco, le buone occasioni perdute
o abbandonate nel loro sviluppo, il Peep centro storico di Bologna, il recupero dei Sassi di
Matera, il progetto dei Fori imperiali a Roma. E il
racconto dei rari casi esemplari, il piano di Assisi di Giovanni Astengo, il piano di Firenze di
Edoardo Detti, il piano di Bologna di Giuseppe
Campos Venuti prima e di Pier Luigi Cervellati
poi, quelli di Modena e Brescia di Leonardo
Benevolo.
Il quadro che emerge sembra dar ragione
all’autore nell’affermare che “forse è improprio
parlare di crisi dell’urbanistica (…). È in crisi un
modo di intendere la politica. È in crisi cioè la
capacità dei pubblici poteri di dare risposta al
disagio per la condizione urbana”.
La storia recente italiana, con la vicenda del
Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila,
le tangenti per l’Expo di Milano, il crollo della
scuola di San Giuliano di Puglia e il più recente
collasso del territorio tra frane e alluvioni, ci dimostra ancora una volta quanto sia necessario
riconoscere le ragioni del disastro, quanto sia
importante non dimenticare e quanto un libro
come quello di Vezio De Lucia sia ancora oggi
indispensabile per poter pensare ad un futuro
di protezione e governo dell’intero habitat nazionale, per non incorrere più negli errori del
passato. (s.g.)

Immagini tratte dal film
“Le mani sulla città”
regia di Francesco Rosi
62
recensioni
L’amica geniale
narrare una periferia
Dicono che sia un romanzo, più precisamente
un romanzo di formazione, sull’amicizia tra due
donne, Raffaella (Lila/Lina) ed Elena (Lenù),
narrate in un arco cha va da un’infanzia sdrucita e meravigliosa a un’età adulta inquieta,
disincantata ma ancora capace di riconoscimento, verità, amore, cura.
Dicono che sia un romanzo sull’Italia, sulla storia degli ultimi 60 anni di un paese irrisolto.
Eppure come già con un’altra scrittura non a
caso anche questa con epicentro Napoli, anzi
Caserta, quella di Antonio Pascale con “La Città distratta”, “Ritorno alla città distratta” e “La
manutenzione degli affetti”, i quattro volumi
che Elena Ferrante dedica a “L’amica geniale”
(Edizioni e/o) sembrano voler riflettere anche
su come sia possibile, oggi e qui, scrivere dei
luoghi, sul loro rispecchiare e a un tempo generare le vite di coloro che li abitano e che, in
qualche modo, ne sono anche inconsapevolmente modellati.
Fin dalle prime pagine del primo libro ecco infatti venire avanti il quartiere con le scale buie
che portano gradino dopo gradino, rampa dietro rampa, alla porta dell’appartamento di don
Achille (ed è lì, in quelle scale buie, che s’avvia
l’amicizia misteriosa e tenace di Lila e Lenù),
nella luce violacea del cortile, negli odori di una
serata tiepida di primavera.
Ecco gli attributi del rione, la polvere, la precarietà delle case, i muri scrostati, la linea della
Ferrovia che diviene orizzonte possibile immaginato sognato desiderato per un’altra vita e
che proprio per questo è maledettamente difficile oltrepassare, attraversare, sfidare.
Ecco le viscere del rione, quello scantinato (che
rinvia ad altri segreti celati nelle famiglie, ad altre
oscurità su chi comanda nel quartiere facendo
il bello e cattivo tempo, decretando fortune disgrazie) che affascina così tanto le due bambine, in cui si rifugiano: “la cosa che ci attraeva di
più era l’aria fredda dello scantinato, un soffio
che ci rinfrescava in primavera e d’estate. Poi
ci piacevano le sbarre con le ragnatele, il buio,
e il reticolo fitto che, rossastro di ruggine, si
arricciolava sia dal lato mio che da quello di
Lila, creando due spiragli paralleli attraverso i
quali potevamo far cadere nell’oscurità sassi e
ascoltarne il rumore quando toccavano terra.
Tutto era bello e pauroso, allora”.
Il quartiere, il cui nome non viene mai detto ma
evocato, è l’unico mondo possibile, è un far
west, un’epica quotidiana, è un continuo rimescolamento di ciò che è buono e di ciò che
male, impossibile da dividere e da distinguere,
e tutto questo e per sempre attraverso gli occhi di Lila e Lenù.
È la storia di una edilizia economica e popolare
che già Anna Maria Ortese ne “Il mare non bagna Napoli” aveva narrato; case senza dignità,
letteralmente perdute nella città e a se stesse,
camere sovraffollate, scorticate, lacerate, dove
la legge economica del profitto tracima tutto.
Eppure in quelle case, in quelle piazze mai
adeguatamente lastricate o asfaltate o pavimentate, in quei giardinetti stinfi assetati d’acqua e di buona terra non c’è un’umanità ‘solo’
dolente, non c’è solo miseria o degrado.
La vita ha una forza che nessun Piano regolatore, nessun assessorato all’urbanistica potrà
mai ingabbiare, sembra ricordarci Elena Ferrante. La materia della vita ovvero le relazioni
nelle loro infinite gradazioni, nella loro molteplicità, nella loro grazia comunque e dovunque,
nel loro essere dilaniate, nel loro produrre infime complicità numinose alleanze.
Il quartiere, questa periferia ai margini della città che nella città non si avventura quasi mai,
ne resta a bordi, non riesce a siglare patti, è
soprattutto questo: un infinito gioco del senso.
Tra le quinte di una periferia miserabile (il Rione Ferrovia?), tra una folla di personaggi minori
accompagnati lungo il loro percorso
con attenta assiduità (gli stessi lazzari
felici, forse, di Enzo Striano) colei che
narra svela e contemporaneamente
rimescola le carte: e, scavando nella natura complessa dell’amicizia tra
due bambine poi ragazzine poi donne, allo stesso tempo racconta un
luogo e fa di questo luogo la metafora di una città e di un paese intero.
Il sogno del miracolo economico,
la sconfitta a Torino del movimento
operaio e dell’opzione riformista con
la marcia dei quarantamila, il terrorismo, l’economia malata, la camorra,
la violenza: tutto si riverbera nel quartiere, tutto qui si tiene, si incrocia, si
influenza reciprocamente, persino
l’intellettuale di estrema sinistra eletto
infine parlamentare con la destra.
La storia investe il Rione, Napoli, l’Italia e sembra che, per qualche miracolo, nel Rione sia stata anticipata,
già conosciuta, anche solo di qualche giorno.
La scrittura di Elena Ferrante non è
‘fuori’, esterna od estranea alla materia del narrare. Lo ha detto lei stessa,
nel corso di una intervista (ma vale
la pena ricordare che Elena Ferrante è un nome de plume): “Credo che
“mettere distanza” tra esperienza e
racconto sia un po’ un luogo comune.
Il problema, per chi scrive, è spesso
il contrario: colmare la distanza; sentire fisicamente l’urto della materia da
narrare, avvicinare il passato delle
persone a cui abbiamo voluto bene,
delle vite come le abbiamo osservate, come ci sono state raccontate.
Una storia, per prendere forma, ha
bisogno di superare moltissimi filtri. Spesso cominciamo a scriverla
troppo presto e le pagine vengono
fredde. Solo quando la storia ce la
sentiamo addosso in ogni suo momento o angolo (e a volte ci vogliono
anni), essa si lascia scrivere bene”.
Il rione non è semplicemente il luogo
in cui accadono le vite, la cosiddetta
location dei set cinematografici. La
vita umana e lo spazio qui sono indissolubilmente (ferocemente, ingordamente, tristemente) legati.
E i volti assumono il colore dei luoghi,
la loro tristezza, la loro sorda violenza, come accade al proletariato urbano nella fabbrica di salumi.
Ha scritto a suo tempo Annalena Benini, prima ancora che il quarto volume fosse in libreria: “L’amica geniale”
è una trilogia (ma potrebbe uscire un
quarto libro, e anzi dovrebbe, adesso che Lila, a sessantasei anni, è
scappata di casa e forse ha per la
prima volta nella sua vita lasciato Napoli: dobbiamo sapere che succede,
dobbiamo vederla finalmente vivere),
questi tre romanzi che raccontano
gli anni Cinquanta, poi i Sessanta, i
Settanta da una postazione laterale
e violentissima in cui il mondo arriva sempre, sono il racconto epico di
una grande amicizia, qualcosa di più
che una storia d’amore, molto di più
che una storia di donne.
È la storia del mondo, la lotta contro
le origini, la vertigine della libertà e il
fascino terribile che esercita l’infelicità, attraverso la guerra di due bambine con la faccia sporca che tira-
no le pietre contro i maschi, Elena
senza troppa convinzione, Lila “con
una determinazione assoluta”, poi le
bambine diventano ragazze, donne,
hanno e usano uomini che restano
sullo sfondo e un solo uomo, per entrambe, di fronte a loro non impallidisce, fuggono oppure restano”.
Alla fine, Lina e Lenù diventano un
destino solo, storia di chi va e di chi
resta.
In questo andare e restare è racchiuso, anche, il destino di una periferia urbana condannata in qualche
moda a replicare se stessa all’infinito
se non al prezzo di smontare accuratamente il meccanismo che l’ha
prodotta.
Questo ci dice l’amicizia tra le due
donne.
Che smontare il meccanismo è doloroso, costa intelligenza e – forse –
anche complicità affettive ma alle fine
produce alleanze e cura del mondo.
Inconsapevole felicità.
Nella periferia di Elena Ferrante accorgersene è più immediato, ci sono
meno passaggi, più evidenze. Il Rione è veramente il meccanismo intimo della città, il suo orologio segreto, la lettera rubata.
E cambiare le cose significa molto di
più che accontentarsi di una mano di
asfalto.
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