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2015 PERIFERIA PERIFERIE - Ordine degli Architetti
appunti d’architettura 2015 PERIFERIA PERIFERIE numerounoduemilaquindici sommario architettilecce appunti di architettura Pubblicazione periodica quadrimestrale in abbonamento postale. Registrazione presso il tribunale di Lecce n. 562 del 28 ottobre 1992. N. 1_2015 Direttore responsabile Massimo Crusi Coordinamento editoriale Alessandro Epifani Carla Petrachi Hanno scritto Marco Asciutti, Walter Carrozzo, Massimo Crusi, Fabio Dell’Erba, Stefania Galante, Valentina Galluccio, Raffaele Gorgoni, Carla Petrachi, Franco Purini, Katy Tundo La redazione ringrazia per la collaborazione e la cortese disponibilità Angela Barbanente, Leopoldo Freyrie, Raffaele Gorgoni, Franco Purini Direzione e redazione Ordine degli Architetti PPC della provincia di Lecce Galleria Mazzini 42 73100 Lecce T/F 0832 316128 www.architettilecce.it [email protected] Consiglio dell’Ordine Massimo Crusi Presidente Vicepresidente Antonello Sforza Segretario Fabiana Cicirillo Tesoriere Flavio De Carlo Consiglieri: Nicoletta Cavalera, Rocco De Matteis, Alessandro Epifani, Salvatore Mininanni, Andrea Toscano, Vincenzo D’Alba, Fabio Rimo Gruppo attività culturali Katy Tundo (coordinatrice), Marco Asciutti, Walter Carrozzo, Fabio Dell’Erba, Francesco D’Ercole, Stefania Galante, Valentina Galluccio, Marcello Messa Consigliere delegato Gruppo attività culturali Alessandro Epifani, Vincenzo D’Alba, Andrea Toscano Editore Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Lecce Progetto Grafico Alessandro Epifani Layout Marco Asciutti Contributi fotografici Marco Asciutti, Stefania Galante, Gruppo Città Fertile, Carlo Ragaglini Stampa Torgraf Distribuzione gratuita a tutti gli iscritti dell’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Lecce Ogni contributo esprime il punto di vista dell’autrice/dell’autore, e non vincola in alcun modo l’editore. Quando non diversamente specificato, i contributi sono a cura della redazione © Tutti i diritti riservati 4 guardare le periferie, pensare la città 8 rigenerazione urbana massimo crusi intervista ad angela barbanente materia urbana 16 della intervista a leopoldo freyrie città di tutti 20 lafranco purini riformismo e l’urbanistica 26 ilraffaele gorgoni una città 28 scorrendo marco asciutti 8 16 20 26 comunità dispersa 30 lastefania galante di un quartiere 34 anatomia lecce, gli anni ‘50, santa rosa voilà la qualità 38 et fabio dell’erba della distanza 42 elogio katy tundo bordo e bordo 46 tra walter carrozzo muro per un poeta 48 un intervista a giorgio leaci e chekos’ 34 dell’aperto 50 leperforme una nuova piazza mazzini 54 news condizione del presente 60 lariletture geniale 62 l’amica recensioni 50 60 editoriale 4 guardare le periferie pensare la città massimo crusi presidente ordine architetti ppc Lecce Guardare le periferie significa pensare la città. Per noi architetti è un dato assolutamente evidente e, per certi aspetti, assodato. Lo avevamo sottolineato anche nel numero precedente nell’evidenziare, a proposito della sostenibilità, l’esigenza di prestare attenzione, con più forza, a questioni come la densificazione, la crescita o decrescita urbana, la cura dei luoghi. Al modo in cui, nelle nostre città, alcune parti crescono smisuratamente e altre vengono abbandonate o non adeguatamente manotenute, alla relazione tra forma urbana e sviluppo, alla manutenzione come attenzione e pratica costanti per una concreta qualità di vita e delle relazioni che si danno nei luoghi. La sostenibilità diveniva, dunque, la lente per leggere meglio quei territori di mezzo privi di forma immediatamente riconoscibile, in parte edificati, in parte incolti, in parte agricoli, in parte abitati. Quelli che chiamiamo periferie. Da quella riflessione alla redazione del progetto “Di.Ri.Go_Disegnare Rucire Governare le periferie” che come Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia ci ha visti impegnati, il passo è stato breve. Una riflessione che ci ha pienamente coinvolti con la messa a punto di un programma di lavoro ambizioso ed entusiasmante: chiamare a raccolta con una Call for paper non solo gli architetti, o i pianificatori, o i paesaggisti, ma anche sociologi, donne e uomini di letteratura, di cinema, antropologi, sociologi. Tutte e tutti coloro che si misurano quotidianamente con le periferie, e restituendo il proprio sapere possono concorrere ad arricchire e sviluppare una sorta di valigia degli attrezzi che vorremmo mettere a disposizione dell’intera regione e delle Isti- tuzioni territoriali. Certo, la riflessione di Renzo Piano sul Sole24Ore, il suo impegno per Librino, il coinvolgimento di un gruppo di professionisti under30 ha avuto il merito – grazie anche all’esposizione mediatica del Senatore - di rimettere al centro la questione, riannodando i fili di una riflessione che ha visto in campo concretamente il nostro Consiglio nazionale e che per molto tempo è stata condotta solo ed esclusivamente nel chiuso delle Università, degli studi professionali o degli uffici tecnici, e di conseguenza più marcatamente privata che pubblica. Una questione che nel Progetto RIUSO è stata posta per tempo e declinata, correttamente, sul versante della rigenerazione urbana e della più complessiva qualità urbana. Rispolverare la memoria è importante, per riconsiderare esperienze importanti vissute anche nel nostro territorio in tempi non sospetti. Ricordo ancora con emozione e un pizzico di nostalgia i mesi del Laboratorio di Quartiere ad Otranto quando l’ Amministrazione comunale del tempo ebbe il merito di coinvolgere Renzo Piano e Gianfranco Dioguardi in un’esperienza di pensiero sulla città e il suo futuro rimasta per molto tempo unica e ancora eccezionalmente moderna nello spirito e nel merito. La partecipazione prima della partecipazione, si potrebbe dire, prima dei Pirp, della rigenerazione urbana come modello di intervento amministrativo, prima dei Fondi strutturali. Quando si era ancora in tempo per correggere, o evitare, alcune derive oggi evidentissime: consumo di suolo, ampliamento smisurato dei margini urbani e speculazio- ne, edilizia economica e popolare ad alto impatto ambientale e basso costo, assenza totale di funzioni urbane nelle zone di espansione. C’è stato un tempo in cui la periferia non era ancora periferia. Erano spazi urbani lontani dal centro storico, per arrivarci bisognava camminare un po’ di più ma se dovessimo (forse dovremmo) decidere di percorrere a piedi il Salento per fermarci, con più attenzione, con più precisione dello sguardo e intelligenza della sosta, davanti a palazzine che un tempo nei nostri paesi erano chiamate case popolari, ex Ina, forse ancora adesso rimarremmo stupiti. C’è qualcosa, nelle volumetrie, nello spazio aperto seppure recintato che quasi sempre le circonda, nelle verande con balcone che spesso caratterizzano i primi o secondi piani, nell’armonia – magari anche inconsapevole – della relazione con lo spazio intorno, che si trasforma in vera e propria lezione. Così, mi dico, per parlare delle periferie oggi, qui nel Salento o nelle città formicaio, nelle città metropolitane e anche nelle nuove città, le smart city, forse vale la pena tornare per un attimo a quel paradigma. Chiamiamo periferie, e in queste pagine lo affermano sia pure con declinazioni differenti Leopoldo Freyrie e Franco Purini, soprattutto atti incompiuti. Processi costruttivi dove le amministrazioni locali han- no scelto, o a volte vi sono state costrette dalla scarsità delle risorse, di non dare seguito ai progetti così come erano stati immaginati. Alla fine, anche l’idea di casa, nella relazione con lo spazio pubblico, nella dialettica vuoto-pieno, nella dimensione di luogo ospite degli affetti e dell’intimità, è venuta meno. Il grado zero, quello della manutenzione, oggi sembra essere l’obiettivo più ambizioso. Una delle regole auree dell’economia e della buona amministrazione, la cosiddetta economia di scala, qui trova la sua antitesi: quello che con una regolare, direi addirittura modesta, manutenzione avrebbe incontrato anche una sua qualità, nel tempo è diventato il paesaggio sgrammaticato a cui siamo per forza di cose abituati. L’assenza di manutenzione delle cose ha finito con il divenire assenza di manutenzione delle relazioni tra gli umani. E la politica ha smarrito il compito di governo della complessità. Attraversiamo i vuoti urbani delle periferie senza volto (meravigliati spesso di come le relazioni tra le persone possano a volte incredibilmente trasformare luoghi anonimi, riannodando legami e senso) e allo stesso modo le intercapedini tra paesi e paesi cui adesso cerchiamo di dare soluzione con la pianificazione intercomunale. Proprio lì, come nelle periferie, si annida una sfida enorme che dobbiamo avere il coraggio, anche come architetti, di affrontare. Se è nelle periferie che la città trova il suo volto e la sua verità, quali che essi siano, la stessa cosa accade anche nelle no man’s lands che spesso sono le intercapedini tra paese e paese. Coraggio e attenzione. Questo non significa replicare all’infinito nei luoghi che definiamo periferie la forma città. Sarebbe troppo facile e ancora una volta perderemmo sul piano del confronto con la complessità. Riqualificazione e riuso a scala intercomunale deve poter significare un esercizio concreto e reale sul tema della qualità, anche della qualità del paesaggio. Lì dove il margine urbano è già quasi campagna replicare la città significherebbe forse violare o violentare non tanto l’identità dei luoghi quanto la loro natura. Chi ci dice che in quel caso non sia necessario un pensiero su come attrezzare la campagna piuttosto che su come replicare la città? Rammendare e ricucire pensando alla relazione con uno o più centri urbani è necessario quando è questa, realmente, la posta in gioco. Altrimenti rischia di essere altro. Invece di fissare modelli di intervento buoni per tutte le stagioni e da replicare dovunque, la sfida è cercare nuove opzioni. Produrre le domande giuste, prima che arrivino le risposte sbagliate. Essere capaci di ascoltare i luoghi, anche quando saremmo tentati di trasformarli radicalmente. Non è solo una 6 Lecce Quartiere 167 B questione di consumo di suolo, peraltro fondamentale. È la nostra capacità di essere in sintonia tra luogo e luogo, tra esigenza ed esigenza. Quel ‘tra’ è essenziale. Qui si apre una questione importante, a noi cara. La consapevolezza che il paesaggio è, sempre, oggetto e contemporaneamente soggetto di una incessante trasformazione. Rigore e cura dovrebbero essere i nostri alleati più preziosi. Non è un caso dunque se, come Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia, a proposito della formazione degli addetti ai lavori per una corretta conoscenza e applicazione del PPTR, abbiamo lavorato perché gli incontri fossero aperti non solo ai Dirigenti degli Uffici tecnici o ai Componenti le Commissioni paesaggistiche ma a tutti i colleghi della regione. Siamo e sono convinto, infatti, non solo della necessità e bontà del Piano, ma anche del fatto che la sua corretta attuazione passi da una consapevolezza complessiva e soprattutto da una qualità del lavoro libero professionale e non solo degli Uffici tecnici. E infine se, insieme alla Regione e agli altri Ordini professionale, abbiamo fortemente voluto un Protocollo che sostenesse le Amministrazioni territoriali nelle azioni di rigenerazione urbana e nel coinvolgimento dei privati. Questo infatti è mancato finora: la diffusione di un senso comune della qualità urbana e della riqualificazione capace di radicarsi compiutamente sia nel pubblico che nel privato attivando risorse private in questa direzione. Sfida non da poco, se si considera la percentuale del patrimonio privato nel nostro territorio, anche per la nostra professione, sempre più centrale nelle dinamiche di produzione di nuovo paesaggio. Una sfida che si lega, fortemente, al futuro delle città intelligenti. Con il numero 1 della nostra Rivista proseguiamo la discussione sul paesaggio avviata col Numero 0 focalizzandoci sulle periferie e pensandola destinata a durare anche nei numeri successivi. Ogni contributo tematizza una questione e ci auguriamo che, anche a partire da qui, possa svilupparsi una riflessione ulteriore. D’altra parte, già nelle note del numero precedente, avevo auspicato che questo nostro house organ potesse divenire esso stesso strumento di formazione, declinando i temi, sviscerando le questioni, affermando con forza la necessità di legare formazione e professione. Un progetto editoriale, per noi, ha senso se diviene esso stesso momento del nostro pensare, qui ed ora, i luoghi che siamo chiamati – contemporaneamente – a trasformare e a salvaguardare. Un nuovo paesaggio per una nuova qualità, si potrebbe dire. A partire dalla periferia. rigenerazione urbana 8 l’esperienza pugliese intervista ad angela barbanente vicepresidente regione puglia assessore qualità del territorio a cura di carla petrachi* Dieci anni sono tanti. Sul sito www.orcapuglia. it la prima immagine che compare è quella di una Puglia interessata quasi dovunque da progetti integrati di riqualificazione delle periferie o di rigenerazione urbana. Città e piccoli centri. Trasformando, in alcuni casi radicalmente, il volto delle periferie urbane con interventi su intere porzioni di città. Se il volto della periferia muta, e si trasforma, la città cambia. Questa – in estrema sintesi – la consegna del lavoro svolto. Ed è per questo che Angela Barbanente, urbanista, vicepresidente della Regione Puglia, Assessore nelle due giunte Vendola alla Qualità del territorio e all’Urbanistica, prima ancora di tirare le somme sul lavoro svolto, avverte: “Noi tecnici, urbanisti ma anche amministratori e amministratrici, abbiamo un compito importante. Far comprendere alle persone, al più vasto pubblico, ai cittadini, che l’urbanistica e l’architettura hanno moltissimo a che vedere con la qualità della vita quotidiana. Occuparsene significa occuparsi della propria esistenza e dell’esistenza dei propri simili. Un compito importantissimo. Quello che mi preoccupa maggiormente, dopo dieci anni di lavoro e di esperienza maturata in Assessorato, è che si torni a relegare l’urbanistica in una sfera tecnica autoreferenziale, priva di connessioni, di aperture, di permeabilità, e di influenza nei confronti di chi abita e lavora nei luoghi della città”. Domanda: Tornare indietro sarà comunque difficile. Osservando la mappa dei Comuni pugliesi beneficiari di risorse finalizzate ai Piani integrati di riqualificazione delle periferie o, a valere sui Fesr, ai Programmi di Rigenerazione urbana la sensazione è che il volto delle periferie pugliesi e, in alcuni casi, di buona parte delle città, sia mutato. Risposta: Me lo auguro. Anche se considero importante innanzitutto aver posto per la prima volta in questa regione, e forse anticipando anche le riflessioni di grandi architetti come Renzo Piano, l’attenzione sul tema della riqualificazione delle periferie proponendo un approccio integrato e partecipato. Ricordo ancora quando nel lanciare un bando dovemmo organizzare ben quattro forum per spiegare cosa intendevamo per approccio integrato, progettazione partecipata, riqualificazione sostenibile delle periferie urbane: in Puglia non c’era alcuna esperienza in questo campo. È stato un processo importante, ritengo, sia per i saperi tecnici che ha prodotto in tante periferie, sia sopratutto dal punto di vista culturale, teorico. D: Approccio integrato o partecipazione dal basso sembrano ormai essere entrati in un lessico vasto, non ristretto ai soli ambiti tecnici, caposaldi assodati. Dal suo osservatorio privilegiato, crede che siano riuscite a diventare parola d’ordine, sapere comune, in ogni Amministrazione? R: Mi piace pensare che sia maturata soprattutto una crescita culturale. Giudicare il proprio lavoro è difficile, certo, anche se mi pare che siano in tanti a rilevarne la positività. Che nei Comuni ormai si sappia cos’è la riqualificazione urbana, come si pratica, perché è importante che avvenga in modo partecipato è uno snodo fondamentale. Significa la consapevolezza che parlare di riqualificazione equivale parlare dei luoghi nei quali gli abitanti vivono e che accade solo coinvolgendoli, perché nessuno più di loro conosce i problemi ma anche le opportunità di questi luoghi, i bisogni, le domande, le aspettative di chi li abita. D: Il che in molti casi ha significato il coinvolgimento di pluralità di soggetti caratterizzati da una pluralità di saperi e competenze, e soprattutto dei soggetti dell’abitare chiamandoli in causa in modo molto diretto. Quasi dislocando il concetto stesso di competenza.? R: Sono d’accordo, anche se non vorrei si ingenerassero equivoci. Il ruolo del tecnico è e deve rimanere centrale. Anzi, c’è da lavorare molto per una formazione tecnica mirata alla riqualificazione urbana più in generale e delle periferie in particolare. Bisogna però comprendere che ai fini delle efficacia dell’intervento è essenziale aprirsi. Da un lato al sapere esperienziale, contestuale, fondato sull’esperienza, che è una delle forme insostituibili del sapere, e poi ad altri saperi specialistici. Per esempio il tema della messa in sicurezza del territorio, strategicamente importante nella riqualificazione delle periferie, o quello essenziale della infrastrutturazione verde che a sua volta richiama altre discipline e altri saperi. Forse ogni tanto gli architetti dovrebbero interrogarsi: le nostre città contemporanee non sono sempre belle, e non sempre all’altezza delle città storiche. Questa dovrebbe essere colta come una opportunità, perché possa migliorare la qualità dell’intervento tecnico sulla città. D: Lei si riferisce, a giusta ragione, agli architetti. Non crede però che, contemporaneamente, sia una questione che coinvolge anche l’urbanistica e gli urbanisti? E, più in generale il modo in cui anche, o forse soprattutto, le Amministrazioni territoriali hanno immaginato le espansioni edilizie? Da tempo ad esempio l’Ordine degli Architetti di Lecce sottolinea come la qualità ur- bana e territoriale dipenda dalla qualità della committenza, della progettazione e della realizzazione. E anche dalla modalità delle gare. Il massimo ribasso non è quel che si dice un invito alla qualità… R: Le responsabilità sono distribuite tra molti attori, e gli architetti non possono certo essere considerati i principali responsabili. Mi sono riferita agli architetti perché questa intervista immagino che sarà letta soprattutto da loro e, quindi, per indurli a riflettere sui propri errori e a fare ancora di più e meglio. Non dimentichiamo poi che, come recita il codice deontologico, “l’Architetto ha il dovere di conservare la propria autonomia di giudizio e di difenderla da condizionamenti esterni di qualunque natura”. Questo non significa chiudersi in una muta autoreferenzialità ma sentire il dovere di far comprendere a committenti pubblici e privati, per la verità talvolta inconsapevoli, i possibili effetti negativi di determinate trasformazioni del territorio sulla qualità della vita dei cittadini. Tuttavia, non vi è dubbio che la legislazione italiana in materia di edilizia e lavori pubblici sia davvero assai poco attenta alla qualità dell’architettura: si pensi ai tanti vani tentativi di approvare una legge quadro in materia, alla rarità dei concorsi di progettazione o di idee o, ancora, alla distanza che separa la nostra prassi di progettazione delle grandi opere pubbliche ad esempio da quella francese, nella quale la procedura dell’Avant-Projet Sommaire fornisce gli elementi di conoscenza del paesaggio quali indirizzi per definire il tracciato di una infrastruttura e il suo inserimento nel contesto. D: Dicevamo prima del sito orcapuglia, un Osservatorio della condizione abitativa che racconta il vostro lavoro in questi anni, provando a riflettere su condizione abitativa e qualità dei luoghi, altro punto cogente. In questa mappatura ideale dei programmi integrati di riqualificazione tutti i Comuni hanno lavorato nello stesso modo? La qualità è stata uniforme? R: Assolutamente no, e questo va detto con forza. La stessa graduatoria iniziale si basa su qualità della progettazione già all’origine diverse. Ma anche i Comuni hanno lavorato in modo molto diverso. La stessa partecipazione in alcuni casi è stata colta come una opportunità per migliorare i progetti, in altri casi viceversa come un adempimento, un modo per avere punteggio e liquidata con una assemblea pubblica magari poco partecipata. In alcuni casi la collettività è stata declinata in modo figurativo, estremamente innovativo. Penso ad una serie di programmi che hanno utilizzato materiali riciclati, che hanno reso le periferie più permeabili, che hanno previsto del verde integrato tra verde pubblico e verde privato o addirittura hanno realizzato un impianto di fitodepurazione per manutenere e gestire un’area a verde in una periferia. Contiamo moltissime esperienze innovative e altri casi dove si è 10 San Cesareo (Lecce) Quartiere Lamia trattato soprattutto di un’operazione di maquillage. Per carità, considerato l’abbandono – questo ci terrei a dirlo - nel quale erano confinati tanti quartieri, mai toccati in 30-40 anni, mai oggetto di alcun intervento, anche il solo maquillage ha comunque prodotto dei benefici. Ognuno di noi sa quale fosse la condizione delle periferie. Quartieri dove mancavano le infrastrutture primarie, dove mancavano perfino i marciapiedi, quindi va bene anche il maquillage. Nel progettare e organizzare però la Mostra convegno sulla Riqualificazione e Rigenerazione che abbiamo presentato a Bari e a Lecce abbiamo cercato di tirare fuori il meglio della progettazione e delle esperienze perché potessero essere considerati paradigmi, e diventare anche uno sprone a fare meglio. D: Una sorta di Archivio delle buone pratiche, necessario anche per il futuro. Anche se a volte si ha l’impressione che, in luoghi diversi, alcuni dei progetti siano sostanzialmente simili. Al netto dei bandi formulati dalle Amministrazioni, la loro gestione ha prodotto a suo parere quella necessaria varietà di proposte utile anche a una valutazione di merito ex post e in ogni caso a un buon archivio di riferimenti, oppure si è corso il rischio di progetti sovrapponibili pur in contesti sostanzialmente ed evidentemente differenti? R: Naturalmente quando sono così numerosi gli interventi realizzati in un periodo relativamente breve rispetto ai tempi di costruzione e trasforma- zione delle città, non possono mancare interventi simili in contesti diversi, magari perché i bandi comunali non hanno tenuto conto delle specifiche domande sociali e dei caratteri del luogo, o perché le amministrazioni si sono affidate a progettisti che antepongono la quantità alla qualità, la routine professionale alla sperimentazione, il guadagno alla gratificazione. Al solito, le responsabilità sono ben distribuite e, nella nuova programmazione, stiamo cercando di ovviare a queste distorsioni destinando le risorse alla realizzazione di progetti selezionati tramite concorso. In particolare, di recente abbiamo sottoscritto cinque protocolli di intesa con raggruppamenti o singoli comuni per il perfezionamento, tramite concorsi di progettazione, delle proposte di valorizzazione e riqualificazione integrata dei paesaggi costieri in attuazione dei progetti territoriali previsti dal nuovo Piano paesaggistico regionale. Stiamo anche realizzando il progetto “Qualità Apulia” assieme alla Direzione Architettura e Arte contemporanee del Mibact, che prevede l’accompagnamento dei Comuni nella realizzazione di concorsi di idee o di progettazione. D: Viceversa, ancora in tema di periferie, proprio i Pirp hanno fatto emergere quanto di periferico si annidasse anche nei centri storici. R: Assolutamente sì. La nostra idea di periferia, l’accezione di periferia, non è meramente geografica. È periferico qualsiasi luogo della città che sia stato emarginato dai progetti di sviluppo e di riqualificazione recente, e penso a una riqualificazione promossa autonomamente soprattutto dai privati. Tanti centri storici pugliesi sono stati riqualificati perché scoperti come luoghi eccellenti. Il che oggi permette di pensare alla manutenzione ordinaria come azione automatica, necessaria. Inoltre, voglio ricordare che oltre ai Pirp e alla Rigenerazione urbana con i Fondi Fesr, noi abbiamo finanziato con 10 milioni di euro interventi di recupero di singoli alloggi privati prevedendo premialità per i centri storici e per le aree periferiche in modo tale da stimolare e facilitare anche l’intervento del privato. D’altra parte nei centri storici come nelle periferie non è il patrimonio pubblico a prevalere, anche se in questo caso abbiamo erogato risorse agli Iacp e ai Comuni per consentire il recupero di immobili pubblici anch’essi abbandonati e degradati e abbiamo previsto nei Pirp una premialità per interventi su immobili Iacp. D: Dieci anni sono tanti: nelle periferie oggetto degli interventi è cambiato qualcosa anche in termini di inclusione sociale?. R: Io ritengo di sì. In questi anni sono andata in giro per la Puglia, invitata cortesemente dai sindaci ma anche per sopralluoghi in modo autonomo. Il miglioramento è percepibile. Nelle periferie dove si è lavorato abbiamo visto le persone recuperare anche un senso di appartenenza ai luoghi. E devo dire che i piccoli centri sono stati i più veloci, quelli che hanno lavorato meglio. Spesso noi parliamo delle difficoltà che incontrano i piccoli Comuni, dell’assenza di strutture tecniche adeguate, dei limiti degli uffici. Invece la vicinanza, la prossimità agli abitanti, alle popolazioni, ai luoghi, fa la differenza. E credo che questo meriti una riflessione. D: Ovviamente i processi non hanno avuto dovunque lo stesso esito. La Regione ha svolto un ruolo importantissimo ma probabilmente, anche in virtù dei bandi a regia regionale, sembra che riqualificazione e rigenerazione siano avvenute più per spinta esogena che endogena. In qualche modo è quel che si afferma anche nel Protocollo d’intesa firmato con la Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia e una pluralità di soggetti istituzionali e territoriali, finalizzato alla costruzione di uno strumento di valutazione finanziaria atto a sostenere i Comuni nelle azioni di riqualificazione e rigenerazione. La domanda è semplice: come il lavoro svolto pone le condizioni del futuro? Il patrimonio edilizio è per l’80 per cento privato, e prima o poi l’intervento pubblico tenderà, anche con l’uscita della Puglia dalle Regioni convergenza, a ridursi notevolmente. A suo avviso la Regione ha peccato di autoreferenzialità non stringendo per tempo alleanze anche con le comunità dei professionisti finalizzate ad un’azione di reale ra- dicamento di culture e pratiche? R: Non mi pare che la Regione abbia operato in modo autoreferenziale: tutti i programmi e le norme più importanti, dai Pirp alla legge 21/2008 sulla rigenerazione urbana, sono stati messi a punto con la partecipazione del partenariato socioeconomico e istituzionale. La legge 14/2008 sulla qualità dell’architettura è stata addirittura scritta a quattro mani con gli Ordini degli architetti e degli ingegneri di Puglia. Il punto cruciale credo che sia un altro: promuovere la riqualificazione urbana quale alternativa sostenibile a decenni di politiche urbanistiche incentrate sulla espansione, traducendo la norma e il programma in concreta attuazione, non è così facile. E ancor meno facile è nelle realtà nelle quali norme e programmi orientati alla riqualificazione impattano su strumenti urbanistici generali vecchi, che di fatto ignorano la città esistente e la sua domanda di recupero e rigenerazione. Le alleanze, dunque, vanno di volta in volta costruite o rinnovate per conseguire obiettivi specifici, per superare nodi problematici rivelati dalla traduzione delle norme e dei programmi in concreta realizzazione. Il protocollo di intesa promosso dalla Regione, che ha coinvolto Anci, Ance, Abi, Politecnico e Federazioni degli architetti e degli ingegneri, mira proprio a superare alcuni problemi attuativi evidenziati dall’esperienza di questi anni: rafforzare gli strumenti di valutazione delle convenienze pubbliche e private è indispensabile perché la rigenerazione urbana esca dalla sfera dell’eccezionalità e diventi pratica ordinaria di trasformazione del territorio. D: Dai Pirp al Patto Città-campagna del PPTR possiamo immaginare una linea che si dipana coerentemente: è giusto leggerlo in questo modo? R: Assolutamente sì. Il Patto Cittàcampagna cerca di andare oltre i Pirp. Con i Programma integrati di riqualificazione delle periferie noi abbiamo essenzialmente guardato alla parte esclusivamente urbana delle città, alle periferie geografiche, alla parte del margine che guardava verso l’urbano. Dico essenzialmente perché nei piccoli e anche in alcuni casi medi centri il rapporto tra centro storico e campagna è un rapporto da ricucire e valorizzare ma, anche quando si è intervenuti in questa direzione, lo si è fatto avendo come punto di riferimento la città, l’urbano. Oggi, ed è questo il salto di qualità che abbiamo proposto con il PPTR, è necessario lavorare tenendo insieme la parte rurale e la parte urbana, agendo anche sulla parte rurale perché apporti qualità al Piano. In Puglia non abbiamo, come in Campania o nel Lazio, metropoli dilatate a dismisura. È un’armatura urbana fatta di città medie e di piccoli centri, il che 12 ci consente un rapporto con la campagna che possiamo più facilmente recuperare anche come luogo destinato alla ricreazione, al tempo libero, al benessere, alla natura. Anche per compensare la mancanza di aree verdi attrezzate, e penso soprattutto alle cosiddette zone b, di completamento, quelle costruite e sviluppatesi soprattutto con sostituzioni edilizie dense negli anni ’60, ‘70, ‘80 assolutamente carenti di aree verdi. Recuperare questo rapporto con la campagna significa appunto compensare un deficit di verde urbano che soprattutto le città del mezzogiorno registrano in modo persistente. Sono sufficienti gli indicatori dell’Istat o la ricognizione annuale di Legambiente sulla qualità dell’ambiente urbano per rendersi conto che le città del mezzogiorno sono caratterizzate da carenze molto gravi da questo punto di vista. D: Fermiamoci un attimo sul Pptr, strumento fondamentale dalla genesi complicata. Le osservazioni giunte, anche grazie alla riapertura dei termini, sono state centinaia. C’è chi ha chiesto che l’adozione avvenisse in Consiglio e non esclusivamente in Giunta. A pochi giorni dall’adozione in agosto 2013 alla Regione era pervenuta, a firma di tutti gli Ordini regionali coinvolti nel processo, la richiesta di una moratoria-stralcio sui procedimenti in itinere. La Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia nell’ottobre 2013 aveva indicato non solo il ruolo strategico e fondamentale del Piano, ma anche alcuni limiti nella sua formulazione che lo rendevano oggetto di critiche e attacchi. A oltre un anno dall’adozione di Giunta, qual è il bilancio? R: Mi pare che agli attacchi iniziali, dovuti anche all’oggettiva difficoltà di comprensione delle innovazioni introdotte dal Pptr, sia seguita una progressiva assimilazione e condivisione del Piano. L’adozione del primo piano paesaggistico in Italia adeguato al Codice non è operazione semplice: richiede uno sforzo di interazione e copianificazione allo stesso tempo con la comunità regionale, fatta di amministrazioni locali, tecnici, operatori economici, cittadini, e con un Ministero ancora privo di indirizzi consolidati di applicazione del Codice. Un piano paesaggistico non può essere inteso come un mega-Prg: l’impatto sulle pianificazioni locali deve essere graduale, specie in Puglia, regione già dotata di un piano paesaggistico ai sensi della legge Galasso del 1985, il Putt/P. Questo lo ha compreso anche il Ministero, consentendo le modifiche dell’ottobre 2013 alle norme di salvaguardia e transitorie. Quanto all’approvazione in Consiglio regionale, da un lato questa non è prevista dallo Statuto della Regione e, di conseguenza, dalla legge regionale n. 20 “Norme per la pianificazione paesaggistica” approvata nel 2009. Cambiare la legge? Certo, è sempre possibile se lo condivide la maggioranza del Consiglio regionale. Mi sono permessa, però, di sollevare dubbi circa l’opportunità di una simile modifica della legge: in base al principio che un piano deve essere variato dall’organo che lo approva, l’approvazione del Pptr da parte del Consiglio regionale contrasterebbe con uno degli obiettivi che ci siamo posti con la sostituzione del Pptr al Putt/P, avere un Piano più dinamico e più facilmente adeguabile al passaggio dalla scala regionale a quella comunale. Quanto alle osservazioni, il numero elevato è per me un dato positivo: significa che la Regione ha garantito a tanti enti, associazioni e singoli privati il ricorso a un essenziale strumento di partecipazione democratica alla formazione del Piano. Tengo a precisare che, comunque, nessuna delle osservazioni mette in discussione la filosofia del Piano, l’interpretazione del paesaggio e delle sue dinamiche che lo ha ispirato, né la capacità del Piano di promuovere uno sviluppo del territorio regionale basato sulla tutela, valorizzazione e riqualificazione dei paesaggi di Puglia. Mi auguro, quindi, che il Pptr diventi strumento largamente condiviso dalla comunità regionale, in grado di assicurare, non solo con le norme di tutela ma anche con i progetti territoriali e le linee guida, la conservazione di straordinari valori ambientali e culturali, la riqualificazione dei paesaggi degradati e lo sviluppo sostenibile del territorio regionale. D: Alla luce della sua esperienza, prevale ancora nel Mezzogiorno il pensiero che a tirare l’economia debba es- sere l’edilizia intesa come consumo di suolo e costruzione del nuovo piuttosto che riqualificazione, rigenerazione, riuso? R: Veramente penso che anche per noi questo ormai sia un pensiero datato. Lo hanno capito i costruttori ma lo hanno capito soprattutto i cittadini che, infatti, nelle periferie comprano sempre di meno perché sanno che lì i servizi non arriveranno. È talmente evidente: nelle nostre città c’è tanto dismesso, tanto patrimonio in disuso, tanto da ricucire. È come dice Piano. Le nostre città vanno ricucite, rammendate, noi abbiamo il più delle volte isole insediative non connesse tra loro. Il ritorno di interesse verso i centri storici muove anche da questo, dai cittadini, che dopo essersi trasferiti nelle periferie hanno verificato come non offrissero quello che cercavano o auspicavano. Si torna ad abitare nel centro storico perché lì c’è quella vitalità, quell’effetto-città che la periferia non è riuscita a creare. Il che non significa, voglio sottolinearlo, penalizzare l’edilizia. Significa però che l’edilizia deve innovarsi. La domanda degli anni ’60, del boom edilizio, non c’è più, né permane la crescita di valori immobiliari che ha tenuta in vita l’edilizia negli anni ‘2000. Significa che le cose sono cambiate. D’altra parte io ricordo sempre che negli anni ’80 il Piano strategico olandese aveva come titolo “La città al centro”. D: Ricucire, rammendare, tessere, ritessere: tutte operazioni sartoriali ma soprattutto saperi del femminile. Interessante questa idea che per riprendersi cura del periferico, dello smangiato, dello sbrindellato, si invochino come paradigma saperi tipicamente femminili. R: Certo. Il potere è stato largamente nelle mani maschili, per decenni: è un dato di fatto. Quello che abbiamo prodotto lo si deve largamente all’esercizio di un potere decisionale e operativo esercitato da uomini. Adesso io penso che introdurre un pensiero differente, uno sguardo differente su queste periferie sia importante ed è più facile per una donna semplicemente perché l’ha fatto per secoli. Mettersi nei panni di una mamma cha deve accompagnare un bambino a scuola in una periferia urbana e che ha difficoltà di accessibilità, di percorsi sicuri in quella periferia. Ci mettiamo più facilmente nei panni di chi abita in quei luoghi molto banalmente perché lo abbiamo sperimentato e lo sperimentiamo ancora. È un sapere utile. D: La presa in carico delle periferie come questione ineludibile e centrale nei processi di trasformazione urbana e territoriale è il fil rouge del Progetto Di.Ri.Go., ovvero: “dirigere, ricucire, governare le periferie”, promosso dalla Federazione degli Architetti di Puglia, parte integrante di un Protocollo d’intesa già siglato con l’Amministrazione comunale di Lecce a sostegno della candidatura a Capitale europea della Cultura 2019. Primo momento del progetto una Call for paper rivolta non solo alla comunità degli architetti e degli urbanisti, ma anche sociologi, designers, donne e uomini di cultura, per costruire una valigia degli attrezzi utile a leggere e a rovesciare i paradigmi consueti dell’approccio alle periferie. R: Il progetto mi pare particolarmente in sintonia con l’approccio alle periferie che abbiamo cercato di promuovere sin dai Pirp e poi, con maggiore organicità, con le norme sulla rigenerazione: l’uso dei termini “integrati” e “rigenerazione” indicano processi che devono interessare non solo la dimensione fisica ma anche quella sociale ed economica, non solo le pietre ma soprattutto le persone, inducendole a riappropriarsi della città e a prendersene cura, ossia processi che non implichino solo progetti di riqualificazione urbanistica ed edilizia ma che si basino su strategie integrate di rinascita culturale, sviluppo economico, inclusione sociale. D: Torniamo un attimo ai Piani. Mi corregga se sbaglio ma la sensazione è che, in fondo in fondo, anche ogni Pug generi a sua volta una periferia. Il che ha dato l’avvio ai Pug intercomunali che, di fatto, assumono come elemento centrale proprio la relazione tra i comuni, anzi tra le fasce più esterne e meno curate dei comuni. Alla fine però anche un Pug intercomunale deve tracciare una riga. Come fare ad impedire che quel che è ai bordi venga considerato con scarsa o insufficiente attenzione? R: Anche in questo caso ci sono Pug e Pug. Quelli intercomunali sono 14 San Cesareo (Lecce) Quartiere Lamia ancora in formazione: non abbiamo esperienza di Pug intercomunali già adottati o addirittura approvati. Se lei fa un ragionamento teorico io direi che, al contrario, il Pug intercomunale dovrebbe mettere a valore l’interfaccia tra un comune e l’altro. Un’interfaccia che, soprattutto in alcuni territori come quello salentino, è sostanzialmente un’interfaccia di contiguità. In un Pug intercomunale dovrebbe essere più facile, dunque, creare delle centralità, magari ambientali o culturali, nelle aree periferiche, che sono alle stesso tempo le periferie di un comune e dell’altro. Poi ci sono Pug comunali, e di questi abbiamo esperienza. Rispetto ai tradizionali Prg, soprattutto grazie agli indirizzi del Drag, ritengo di poter dire che noi abbiamo dei Piani che finalmente prestano attenzione al Patrimonio edilizio esistente e alla sua qualità, introducendo parametri che tradizionalmente non venivano considerati. Intanto si parte dalle risorse piuttosto che dal dimensionamento del Piano guardando alle risorse paesaggistiche, ambientali, insediative: il patrimonio edilizio esistente è considerato una risorsa da utilizzare a fondo e da valorizzare. E finalmente si usano parametri diversi rispetto a quelli tradizionali anche in questo territorio. Penso all’indice di permeabilità del suolo, all’indice di piantumazione, così importanti per contrastare gli allagamenti, i problemi di tipo idrogeologico che caratterizzano i nostri territori. Così importanti ai fini della qualità urbana, per contrastare la formazione di isole di calore, mitigare l’inquinamento atmosferico. Le valenze importanti sono tante e i nuovi Pug operano in questo modo sia nella città compatta anche se, oggettivamente, con un po’ più di difficoltà, sia nelle altre zone urbane. D: Nel recente Leggere la città - Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di Franco Riva per i tipi Castelvecchi, a un certo punto Ricouer afferma che l’architettura è per lo spazio quello che la narrativa è per il tempo perché l’architettura lavora sugli stessi parametri cari all’arte del narrare: prefigurazione, configurazione, riconfigurazione. Sottoscrive questa riflessione filosofica? R: Assolutamente, in toto. Oggi abbiamo molto da lavorare sul rifigurare e riconfigurare, e ancora sul prefigurare. Del presente, dell’epoca contemporanea personalmente trovo preoccupante questo vivere immersi nel presente. Per l’architetto la visione è fondamentale. D: Anche perché la città è comunque e sempre un progetto rivolto all’avvenire, come avverte Hannah Arendt. R: Non c’è dubbio. Abbiamo bisogno di visioni, abbiamo bisogno di speranza, di guardare al futuro, e quindi abbiamo bisogno di pianificazione. Questo vivere immersi nel presente, immaginando di poter risolvere i problemi della nostra società attraverso interventi che hanno esclusivamente impatti immediati io credo che sia profondamente illusorio. D: E dunque in questo senso i Pug, e più in generale gli strumenti urbanistici, non sono solo strumenti tecnici ma anche grandi narrazioni con cui si immagina cosa i luoghi possano diventare… R: Ed è importante, quando parliamo di città, che la narrazione sia collettiva. Questo è importante da comprendere. Fare un Pug non è fare un’opera di architettura, è un grande progetto collettivo. Per questo abbiamo bisogno di insistere ancora sull’importanza della partecipazione nella pianificazione. Quella che noi dobbiamo costruire è una visione condivisa, e con i nostri strumenti tecnici dobbiamo essere capaci di individuare le risorse pubbliche e private, non solo finanziariamente, che siano capaci di tradurre quella visione in realtà, in opera concreta. * L’intervista ad Angela Barbanente è del dicembre 2014. Il 16 gennaio 2015, a Roma, il Ministro dei Beni e delle Attività culturali e del turismo Dario Franceschini e il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola hanno sottoscritto il Piano Paesaggistico Territoriale della Regione Puglia, primo Piano sottoscritto in Italia sulla base di una norma del Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004. Con delibera n. 176 del 16 febbraio 2015, pubblicata sul Burp n. 40 del 23 marzo, la Giunta Regionale pugliese ha approvato il PPTR. della materia urbana 16 vite muri tetti piazze strade intervista a leopoldo freyrie presidente CNAPPC Lecce Mercato settimanale Nel “Progetto Riuso” è delineato nero su bianco: ripensare le città a partire dalle periferie. Leopoldo Freyrie, presidente CNAPPC, il concetto l’ha ribadito in numerose occasioni: “Non è più l’epoca dell’architettura magniloquente, del grande gesto architettonico nel chiuso degli empirei professionali ma di progetti partecipati, in una relazione di ascolto dei bisogni e di confronto. La partecipazione chiama direttamente in causa la qualità. Non solo dei monumenti o di uno stadio ma dell’architettura diffusa, casescuole-fabbriche, caratterizzata da standard ambientali e di sicurezza molto più elevati di quelli attuali. Non sono standard definiti dalle norme o, meglio, lo sono, anche se le leggi in Italia servono a poco o quasi a niente. Per questo è necessaria una consapevolezza da parte dei cittadini e una preparazione tecnica e progettuale differente da parte degli architetti”. Così, la rilevanza mediatica assunta dal Manifesto di Renzo Piano che indicava la priorità strategica delle periferie nel pensiero delle città, l’attenzione rivolta al primo rapporto annuale realizzato dal “Gruppo di lavoro G124” guidato dal Senatore a vita e pubblicato sulla rivista “Periferie”, lo spingono a dire: “Finalmente il tema dell’importanza del progetto e del ruolo dell’architettura, del suo essere al servizio della società civile, torna ad essere di attualità, mostrando la sua fondamentale importanza. Iniziative come questa dimostrano la funzione che l’architettura può svolgere nel nostro Paese, recuperando, attraverso progetti di rigenerazione, il rapporto con i bisogni dei cittadini, forse dimenticato dopo anni di architettura magniloquente, ed il confronto con le comunità. D’altra parte è un tema su cui lavoriamo da anni”. Domanda: Presidente Freyrie, si può conside- rare questa attenzione mediatica alla stregua di un grimaldello che permetta maggiore attenzione al tema in sé e a quanto di positivo già accade in questa direzione sui territori? Risposta: Speriamo di sì. Il punto vero è che è cambiato il paradigma. Dobbiamo consumare meno suolo e rimettere mano alle città. Un paradigma già presente nel Progetto Riuso. Rimettere mano alle periferie è una delle declinazioni del Riuso. D: Rimetterci mano, ma come? R: C’è bisogno di spazi pubblici adeguati, sotto tutti i punti di vista. Una delle caratteristiche delle periferie, non solo italiane, è che sono contenitori di umani privi di quelle caratteristiche che fanno città. Non hanno strade pubbliche, illuminazione, parchi giochi per i bambini, giardini, negozi, tutto quello che fa città. La città non è fatta dall’avere edifici che contengono persone ma dalla relazione fra le persone che vivono questi edifici. C’è bisogno di luoghi. Questo è uno degli elementi fondamentali. D: Il che può spingerci ad affermare che in realtà quello che è mancato nella messa a punto di questi spazi di città sono proprio le opere di urbanizzazione, di socializzazione, magari contemplate nelle progettazioni originarie e poi mai compiutamente realizzate? R: Assolutamente sì. D: Come a dire che il vulnus non è tanto nella pianificazione o progettazione, quanto nel modo in cui le amministrazioni hanno proceduto alla realizzazione dei comparti? R: È il primo problema. Lasciamo un attimo da parte l’architettura. Se consideriamo alcuni degli esempi di quartieri popolari ritenuti peggiori, ci rendiamo conto che sono firmati da architetti molto bravi. E che considerati da soli, fuori dal contesto, sono architetture di assoluto valore estetico. D: Cos’è che non ha funzionato, allora? R: Non ha funzionato sostanzialmente l’integrazione sociale e il porre le condizioni per una vita normale. Sugli spazi pubblici non è stato fatto nulla di quello che andava fatto. L’edificazione allo scopo di ospitare le persone non è stata accompagnata; condizione che invece nella periferia storica si è verificata. Gli edifici delle periferie storiche non sono migliori, però sono inseriti in una condizione di urbanità che attualmente, in tutto il mondo, consente di considerare le periferie storiche dei luoghi chic, per cui gli attori di Hollywood vanno ad abitare nel Bronx. Accade anche nelle nostre città. Perché, appunto, sono città. Per cui c’è una certa indipendenza dal valore estetico, diciamo così, anche se approfondendo il ragionamento in realtà non è proprio così. Questo è, evidentemente, il requisito minimo per la condizione delle periferie. In particolare per le periferie italiane, che sono state costruite in fretta e furia: in trenta anni sono stati realizzati milioni e milioni di metri quadri. Certo, oggi c’è un problema anche di qualità dell’edificazione, di decadimento dello stato di sicurezza e di habitat degli edifici. La priorità, però, è rendere quei luoghi urbani. D: Quanto ha influito, a suo parere, su questa inurbanità la totale assenza di manutenzione che negli anni ha contraddistinto gli edifici, di proprietà sostanzialmente pubblica. È stato soprattutto il pubblico, pare, a venir meno alla una cura del proprio patrimonio. R: Assolutamente. C’è, è evidente, una questione di manutenzione. Ma non è che la situazione nei centri sia migliore. La questione è specificamente l’assenza delle cose. Faccio un esempio molto semplice. Nei piani regolatori con le destinazioni d’uso si obbliga, nei centri delle città, ad avere certe quote di artigianato, di piccolo commercio, spesso illusorie: se gli artigiani non ci sono più è abbastanza inutile destinare il 15 per cento degli spazi ad attività e persone inesistenti. 18 Lecce Quartiere 167 A Paradossalmente nelle periferie nulla di ciò è stato previsto. Viceversa, se c’era un luogo dove il potere pubblico poteva, anche forzando un po’ la sua potestà, imporre che ci fossero delle funzioni obbligatorie, l’edicola, il bar, lo sportello bancario, la farmacia, tutto ciò che fa città, quello era proprio nei quartieri periferici. Lì, non c’è nulla. Il colpo di grazia l’ha dato il Ministro Tremonti permettendo ai Comuni di fare cassa con gli oneri di urbanizzazione. Poi, certo, c’è una complessità nel rapporto sociale, non sono un sociologo e mi fermo qui. Ma il problema è fondamentalmente quello, il cosiddetto effetto finestre rotte. D: Lo dimostrano le esperienze più interessanti di riqualificazione. Alle case si arriva. Si parte dalla rifondazione delle relazioni di socialità, dal fondamento dell’essere comunità. R: Proprio così. L’elemento più interessante del lavoro di Piano è l’approccio, non la sostanza dei progetti che, in fondo, sono molto piccoli. Ha fatto quello che poteva, e il gruppo è composto da giovani professionisti che si stanno provando su questo tema. Però l’approccio è assolutamente condivisibile, proprio nel senso da lui affermato: “sono andato a cercare le scintille, quello che già c’era”. La squadra di rugby che non ha il cam- po, il prete che cerca di far socializzare i ragazzi sottraendoli alle mani della malavita. È andato a cercare le vite, le esistenze, le comunità che già ci sono e operano controcorrente rispetto alle condizioni dei contesti e, da architetto, ha dato una mano aggiungendo il valore del progetto. D: Una dinamica che, come lei ha affermato, rimette al centro l’architettura. R: Assolutamente sì. Non perché da sola può risolvere i problemi, perché è uno strumento, un mezzo, per risolverli. D: Forse anche un modo per pensare la bellezza, per sottolinearne l’esigenza, per considerarla un incipit segreto del progetto. R: È un modo per dimostrare materialmente le istanze positive che vengono dalla società. Per evidenziare con la materia, e d’altra parte di questo noi ci occupiamo: di costruire, o di definire o trasformare gli spazi. Il parroco che cerca di avere il campo di rugby così i ragazzi non vanno a delinquere, nel momento in cui ha un luogo in cui questa esigenza si rappresenta, la trasformazione diventa reale. L’altra faccia di quel che fanno i dittatori quando usano l’architettura per dimostrare il loro potere. D: Le smart city, che oggi vanno così tanto di moda, possono divenire un’occasione concreta in questa direzione, un percorso capace di generare occasioni? R: Bisogna intendersi. Le città intelligenti sono quello di cui abbiamo bisogno. In realtà, la declinazione molto limitativa, dal mio punto di vista, che viene data delle smart city risente dell’aver centrato tutto sulla tecnologia. È uno strumento utile all’interno di un quadro un po’ più complesso. Possiamo avere anche le fibre ottiche ma se poi ci si trova in quartieri come il Libretta di Catania è difficile che questo, di per sé, risolva i problemi. In uno spazio pubblico rigenerato, in cui i ragazzi possono essere in connessione ad alta velocità, non doversi spostare per lavorare, per produrre start up è assolutamente positivo. E così poter consentire ad un medico di raggiungere rapidamente una persona anziana, anche solo via internet, e dunque aiutarla in un momento di difficoltà. È un valore aggiunto. Però dobbiamo ripartire dalle cose, e le cose sono fatte di materia, di muri, di tetti, di piazze, di strade, di verde. D: E di partecipazione, lei lo ha ribadito più e più volte. R: Soprattutto di partecipazione. la città di tutti 20 nel segno di minerva franco purini architetto Un complesso parrocchiale in una delle due 167 leccesi progettato rispondendo ai nove “Concorsi a invito per la realizzazione di nuove architetture ecclesiastiche” promossi dalla Conferenza Episcopale tra il 1998 e il 2001 e – adesso – l’idea di un murale lungo 256 e altro 2.60 metri sulla superficie esterna del muro di recinzione, autore Mimmo Paladino. Tra questi due poli, una conversazione capace di saldare una riflessione sulle periferie (qui e adesso) da un osservatorio particolarissimo e privilegiato e sul ruolo della pratica artistica (il murale appunto) come catalizzatore di una nuova identità urbana. “Andare verso le periferie: un muro che unisce”: è stato il tema del pomeriggio svoltosi a Lecce nell’ottobre scorso ospitato nella luminosa sala conferenze del complesso San Giovanni Battista, quartiere Stadio di Lecce, via Novara, primo momento di un programma più articolato e di ampio respiro organizzato col contributo dell’Ordine degli architetti e dell’Accademia di Belle Arti di Lecce e il patrocinio del Comune e dell’Arcidiocesi di Lecce, finalizzato a promuovere e valorizzare il complesso stesso (architettura civile e religiosa dove l’estrema pulizia delle linee e la luce assoluta restituiscono, più di mille parole, una perfetta sintesi dell’idea progettuale) come casa per la comunità del quartiere. Naturalmente qui più che “andare verso”, dal momento che il complesso architettonico è esattamente nel cuore di una delle periferie leccesi, l’obiettivo è più ambizioso. Non a caso la tavola rotonda con cui si è concluso il pomeriggio ha avuto il compito di esplicitarlo grazie ad una pluralità di voci con la presenza insieme a Franco Purini, l’architetto che con Laura Thermes firma il Complesso, di Severo Martini, assessore comunale all’Urbanistica, don Nicola Macculi, Toti Carpentieri (giornalista e critico d’ar- te), Claudio Delli Santi (direttore dell’Accademia Belle Arti di Lecce) cui si sono aggiunti successivamente gli interventi di Paolo Perrone, sindaco di Lecce, e Luigi Maniglio, dirigente del settore Urbanistica sempre del Comune di Lecce. Moderatore dell’incontro Massimo Crusi, presidente dell’Ordine degli Architetti della provincia di Lecce. “Non il vuoto ma il silenzio”, scrivono tra l’altro Franco Purini e Laura Thermes nel ‘narrare’ il progetto citando esplicitamente Rudolf Schwarz e la sua idea di ‘comunità celebrante’. Così dopo la proiezione del video “Il Complesso parrocchiale San Giovanni Battista a Lecce: storia di un progetto fortemente voluto dalla Comunità” realizzato per raccontare la storia e le caratteristiche della struttura, e la prima tornata di interventi in tema, la domanda di Massimo Crusi a Franco Purini: “Le periferie sono quei luoghi fisici lontani dal centro oppure gli spazi non vissuti? Ancor più esplicitamente: un centro storico non vissuto è centro o è periferia? Faccio questa domanda anche alla luce del progetto “Di.Ri.Go _ Disegnare, ricucire, governare le periferie” promosso dalla Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia per chiamare a raccolta sul tema non solo la nostra categoria ma più in generale tutti coloro che si misurano, da punti di vista e differenti discipline, con il tema delle periferie. Un tema che sembra essere divenuta la questione delle questioni. Certo noi architetti abbiamo delle responsabilità se, dopo aver disegnato, oggi siamo nella necessità di ricucire, come afferma Renzo Piano, il tessuto urbano e anche di governarlo. Qual è il suo punto di vista sullo stato dell’arte e come questo tema continua ad interrogare la nostra professione?” Quello che qui pubblichiamo è dunque il testo dell’intervento, rivisto dallo stesso architetto Purini. 22 Riconnettere i tessuti periferici all’interno di una nuova idea della città, consistente nel vederla come una realtà la quale, superate quelle differenze funzionali e morfologiche che sono state e sono alla base di problemi urbani e sociali di difficile soluzione, si ridefinisce come un insediamento unitario, seppure composito e articolato, è un obiettivo quanto mai necessario e urgente. Per questo motivo sono convinto che l’iniziativa della Federazione degli Architetti di Puglia sia di grande interesse. Per comprendere in tutti i suoi aspetti questo tema è forse utile, però, fare alcune considerazioni preliminari. Inventata tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la periferia è nata all’insegna dell’emergenza. La rivoluzione industriale aveva prodotto un’imponente emigrazione di forza lavoro dalle campagne verso la città. Da qui vari tentativi di dare a questa presenza una adeguata rappresentazione urbana, che fin dall’inizio risultò ambigua. Per un verso tale rappresentazione doveva dimostrare l’ingresso della classe operaria, una nuova classe, nella compagine sociale come una sua parte fondamentale; dall’altro questa stessa presenza andava contenuta e in fondo marginalizzata in quanto portatrice di istanze rivendicative che potevano mettere in pericolo il sistema al potere. Questa ambiguità non è stata finora superata. Essa è una delle cause principali della distanza non fisica, ma sociale e culturale, da ciò che dovrebbe essere la periferia, una lontananza che la rende instabile e indeterminata. I limiti storici della periferia sono a mio avviso tre. Il primo è l’isolamento. In effetti i quartieri periferici, tranne poche eccezioni, si configurano come altrettante zolle urbane separate l’una dall’altra, grandi frammenti che non comunicano tra di loro e con la città storica, entità sostanzialmente atopiche non in grado di esprimere caratteri riconoscibili. Inoltre la periferia è autoreferenziale, nel senso che rischia sempre di implodere all’interno di una circolarità di poche funzioni essenziali e di ritualità insediative esclusivamente locali, nonché ripetitive e generiche. Per tale motivo essa non si pone in relazione con l’intera città. Infine i quartieri periferici sono realtà monodimensionali, nel senso che in essi non c’è una stratificazione sociale complessa né esistono attività artigianali e produttive diversificate. Per tali limiti, quando a proposito di periferia si parla di città dormitorio non si è molto lontani dal vero. Non basta per fare della periferia una parte di città autentica, organica e compiuta provvedere a qualche pista ciclabile, realizzare superfici verdi o percorsi per correre. Lo sport è senz’altro importante, così come lo sono tutte le cose che si possono fare nel tempo libero, ma gli esseri umani hanno anche esigenze più importanti e urgenti. Tra queste la qualità architettonica dell’abitare e dello spazio pubblico, oggi quasi del tutto assente. Lo spazio pubblico è costituito da un insieme di strade e di piazze che chi abita sente per un verso come proprie, per l’altro come una risorsa di socializzazione, un luogo di confronto con gli altri. In breve lo spazio pubblico da una parte ci identifica, dall’altro è il risultato della nostra produzione di senso comunitario. In altre parole noi apparteniamo allo spazio pubblico nel momento stesso in cui esso ci appartiene. Tale appartenenza si rende però possibile solo quando lo spazio pubblico è dotato di confini precisi, siano essi visibili o invisibili, reali o virtuali. Se questa misurabilità non esiste nasce in chi abita una forte sensazione di disagio spaziale, di disorientamento, di labilità orientativa. In sintesi non si sa dove si è, e ciò causa malessere. Il carattere di un quartiere, inteso come un elemento morfologicamente determinante, è quindi una conseguenza diretta della presenza di margini, di confini, di perimetri leggibili. Ad esempio il passaggio graduale dallo spazio pubblico a quello semiprivato fino a quello privato della propria casa, è qualcosa di profondamente rassicurante. Nella nostra mente i confini di questi spazi si organizzano in una mappa che ci consente di muoverci con sicurezza, permettendoci al contempo di conoscere in modo più appropriato il nostro abitare. Purtroppo quasi tutti i quartieri periferici sono privi della tessitura spaziale determinata dal sovrapporsi di questi recinti reali e virtuali che conferiscono all’ambiente costruito, quando ci sono, un suo ordine logico e una struttura chiara e immediatamente decifrabile. Presente negli interventi effettuati prima della 167 questa tessitura metrico – topologica si è del tutto perduta nei grandi quartieri nati a seguito di quella legge. In essi la grande dimensione ha esautorato ogni ambito progettuale che non fosse quantitativo, con il risultato che la maggior parte di quanto è stato costruito negli Anni Settanta nell’edilizia popolare è risultato anonimo, superdimensionato, indecifrabile. La città storica era bella anche perché accanto al palazzo del signore c’era la bottega del falegname. La chiesa, simbolo del potere religioso, si contrapponeva alla sede del Comune, luogo dell’autorità civile. Questa vicinanza si faceva così convivenza dialettica, armonia di opposte autonomie. La modernità ha invece preferito dividere per mezzo dello zoning, la città per aree specializzate. Qui la residenza; lì l’industria. In altre parti ancora il commercio, il verde, il centro degli affari, gli spazi per la cultura e il divertimento. L’unità della città si è in questo modo perduta mentre lo spazio pubblico si è frammentato diventando sempre più disperso e occasionale. Il problema è dunque quello di superare la separazione della città in zone specializzate recuperando la sua originale unitarietà, ma anche facendo sì che le contrapposizioni classiche della città moderna, quella tra città e campagna, città e periferia, tra tessuto e monumento non siano più operanti. È questo il nodo che la cultura architettonica e urbana deve sciogliere, al fine di procedere non più a una semplice riqualificazione della città, ma alla sua rigenerazione. Questo termine indica la ricostruzione delle energie interne dell’organismo urbano il quale, se non crescerà ancora perché ha ormai raggiunto la sua massa critica, dovrà però trovare una nuova identità a partire dalla ridefinizione della sua parte, da fondere in un aspetto morfologico più solido e più avanzato. In questo quadro una questione centrale è quella della rinaturalizzazione, ovvero il pieno rientro della natura nel tessuto urbano non in senso ornamentale né simbolico, ma in quanto presenza di processi vitali. C’è anche da chiarire che la rinaturalizzazione non comporta l’assunzione di un punto di vista estetizzante o performativo, ma implica la necessità che tra amministratori e cittadini si stabilisca un nuovo patto. Questa grande operazione, ormai divenuta urgente in ogni città, ha un costo che non è soltanto economico, ma soprattutto sociale coinvolgendo abitudini, mentalità, stili di vita, valori culturali. Si dice spesso che la periferia è brutta. In realtà se lo è lo è perché per un verso i quartieri periferici non sono mai stati finiti, per l’altro perché manca in essi una vera manutenzione. I famosi casi dello Zen di Palermo, del Corviale di Roma e delle Vele di Scampia a Napoli sono da questo punto di vista esemplari. Nel Corviale il piano dei servizi che Mario Fiorentino aveva pensato come lo spazio pubblico del suo edificio, uno spazio dotato di negozi, di luoghi di sosta e di incontro, di servizi pubblici, è stato occupato abusivamente. Una serie di alloggi hanno preso il posto delle attrezzature comuni. Anche se è necessario comprendere le difficoltà di coloro che non avevano un altro modo di procurarsi una casa è anche vero che questa trasformazione, ormai stabilizzata, ha privato gli abitanti del Corviale, compresi gli occupanti, di qualcosa di insostituibile, ovvero un tessuto di relazioni spaziali senza il quale la vita si fa sterile, unidimensionale, monotona. Anche la manutenzione è un aspetto di fondamentale importanza. Lasciare che un quartiere si degradi perché la sua vita non viene accompagnata da una costante cura che ne assicuri l’integrità è un delitto che colpisce tutti, chi lo abita, chi ci lavora, chi semplicemente lo sta attraversando. A ciò va aggiunto che anche chi ci abita deve avere rispetto per la propria casa. In realtà tutti noi possiamo constatare che la città, e specialmente la città periferica, è oggetto di manipolazioni arbitrarie, di superfetazioni di ogni tipo, di aggiunte a caso di canne fumarie, di cancellate, di inferriate, di tende e di pergole di ogni foggia e misura. Per non parlare delle antenne e dei condizionatori, divenuti ornamenti architettonici assurdi e infestanti, e della chiusura di logge e balconi, con in- 24 fissi l’uno diverso dall’altro, che compongono un paradossale catalogo di vetrate incongrue e sgrammaticate. Oltre agli aspetti critici citati, ai quali occorre dare una risposta, ciò che però può veramente cambiare la periferia è quel carattere che oggi, con un termine che a me non piace molto, è chiamato la mixité. Si tratta in sintesi di fare degli abitanti della città periferica un insieme di ceti diversi, la compresenza, tanto per essere chiari, di ricchi, di poveri, del ceto medio. Come nella Firenze del Cinquecento o nella Roma barocca la città deve accogliere negli stessi spazi le differenze sociali senza dare vita a ghetti più o meno dissimulati. Lecce storica è già così. Anche la sua periferia deve essere ripensata in una chiave socialmente complessa, che veda convivere una comunità non divisa secondo il reddito ma messa a confronto negli stessi luoghi in tutte le sue componenti. È questa la condizione perché la città sia di nuovo bella. Per Stendhal la bellezza è “una promessa di felicità”. Quando si entra in un quartiere che diventa più bello tutto ci sembra più possibile. Ci sentiamo pronti a cambiare, a diventare migliori, ad aprirci agli altri, soprattutto a realizzare i nostri desideri. Quanto sto dicendo mi riporta a un libro che ritengo molto importante, La città giusta, di Ugo Ischia1, un urbanista purtroppo scomparso nel pieno della giovinezza. La città giusta è quella di cui sto parlando, una città che offre ai suoi abitanti maggiori possibilità di essere più liberi e più felici. Liberi e felici nella città reale, non in una città parallela, alternativa, e utopica. Oggi va molto di moda la smart city, una copia virtuale di quella reale. Una città intelligente contro l’attuale città chiusa, difficile, ostacolo resistente per chi la vive. Io però non credo molto al mito di una città tecnicamente più efficiente, versati- le, adattabile. Sono convinto che la città contemporanea, della quale la periferia è la parte prevalente, debba essere un luogo di accordo e al contempo di conflitto, un contesto organico di spazi pubblici attraverso i quali costruire una comunità che si riconosce nel tempo in una dialettica creativa tra i singoli e la collettività. Una polis, dunque, avventurosamente evolutiva, molteplice, complessa, intelligente nel senso di Minerva, e non di Mercurio, l’abile dio dei commerci, una figura che è l’emblema mitologico di tutto ciò che è smart. Noi abbiamo il dovere di rendere concreto il sogno di abitare in una città giusta e bella, che sia di nuovo una città per tutti. Fino ai tredici anni ho abitato al Quadraro, un quartiere, o meglio una borgata nella quale la povertà era quasi totale. Pier Paolo Pasolini lo scoprì appena giunto a Roma. Nonostante il Quadraro fosse degradato, isolato, privo di luoghi di incontro tranne una chiesa con il campetto per il calcio e un piccolo cinema, il Folgore, provo un senso si riconoscenza per me stesso perché lo trovavo bello. Noi non possiamo pensare che chi vive in periferie degradate sia automaticamente degradato. Sarebbe un errore imperdonabile. Ovviamente un quartiere che presenta problemi sociali e ambientali rende la vita più difficile ai suoi abitanti ma nello stesso tempo sa suscitare una volontà di reazione, un bisogno superiore di socialità, una grande capacità di cercare e di costruirsi un futuro migliore. Purtroppo è molto diffusa un’opinione contraria che associa il degrado fisico di molti quartieri periferici a un inevitabile degrado sociale costruendo così una mitologia negativa che è difficile contrastare perché gran parte del pensiero sociologico la sostiene. Tra l’altro esiste anche una vera e propria estetica del degrado a causa della quale si rinuncia a migliorare l’esistente, anche se in condizioni inaccettabili, perché ritenuto un valore. Io penso invece che le periferie vadano completate, dotate di servizi, di verde, di spazi per la cultura e l’incontro, curate con assiduità, aperte a ceti diversi da quelli per i quali furono costruiti. Il tutto rispettandole assieme ai loro abitanti. Voglio chiudere quest’intervento con un ringraziamento sincero per l’invito a essere qui oggi. Per me è stata un’esperienza emozionante tornare nell’architettura della Chiesa di San Giovanni Battista, che prima di esistere nello spazio reale è stata nella mia mente. In occasione di un’altra visita, che mi auguro prossima, spero di vedere il Murale di Mimmo Paladino, che costituirà un segno di unione e di speranza. Non a caso Edoardo Persico, un critico che nei primi decenni del Novecento ha contribuito a far nascere in Italia l’architettura moderna, definiva l’architettura come “sostanza di cose sperate”. Anche l’arte è speranza visibile, speranza attuata. Alleandosi con l’arte l’architettura può aiutare la città a ritrovare se stessa in modo più profondo, in tempi più brevi e per ciascuno dei suoi abitanti. Roma 20/02/2015 1 Ugo Ischia, La città giusta – Idee di piano e atteggiamenti etici, a cura di Monica Bianchettin Del Gran, Roma, Donzelli, 2012. Il volume, postumo, viene pensato e scritto tra il 1985 e il 1996 e, come si legge in quarta di copertina, “porta con sé tracce delle assidue conversazioni con Bernardo Secchi e della lettura dei testi di Giulio Preti. Non può essere tuttavia disgiunto da quanto accadde e da quanto vissuto dall’autore negli anni serranta” (ndr) Lecce Chiesa di San Giovanni Battista Franco Purini e Laura Thermes ph. marco asciutti il riformismo e l’urbanistica 26 raffaele gorgoni giornalista, rai tre Bologna Centro storico C’era una volta una città, dove un frate domenicano aprì un locale con un menu prendere o lasciare e dove avventori che sarebbero divenuti famosi si riunivano per una bicchierata e per cantare. Il frate si chiamava Michele Casali, il locale Osteria delle Dame, gli avventori, Francesco Guccini, Lucio Dalla e, di passaggio, Paolo Conte. Messico e nuvole è stata registrata dal vivo nell’Osteria delle Dame. A quei tavoli nacquero Opera Buffa, La Locomotiva e molte canzoni raccolte in Via Paolo Fabbri 43. Non sappiamo se anche Pier Luigi Cervellati, Roberto Scannavini, Carlo Monti e la non piccola band che stava lavorando al Piano di Intervento Pubblico sul Centro Storico di Bologna, di tanto in tanto, dismessi i tecnigrafi, si rifocillassero all’Osteria delle Dame. Questo comunque per dire che anche Bologna ebbe un suo magic moment. Cervellati era Assessore all’Edilizia Pubblica di una giunta guidata da un sindaco con l’aria del principe rinascimentale: lo storico Renato Zangheri. Il periodo va dalla fine degli anni sessanta alla fine degli anni settanta. Un tempo difficilissimo che a Bologna lascia tracce terribili se si indica come termine ad quem la strage della Stazione dell’agosto 1980. Sul Piano di Intervento Pubblico nel Centro Storico di Bologna la bibliografia specifica è sterminata. Meno ricca la riflessione politica che, a ben vedere, si potrebbe rivelare persino utile a comprendere vicende assai recenti. A Bologna tra i sessanta e i settanta la spinta propulsiva dell’URSS è tutt’altro che esaurita e il Compromesso Storico è formalmente indiscutibile. Nella sostanza però l’Alternativa di Sinistra dilaga sin dai tempi della Liberazione e l’Unione Sovietica è sta- ta confinata nella fantasie domenicali di Peppone In altre, banali parole, in attesa del compimento della via italiana al socialismo, di ipotetiche unità tra le forze popolari comuniste, socialiste e cattoliche, il Pci bolognese governa e il timone è un riformismo schietto e pragmatico. L’urbanistica è il volto pubblico di questo riformismo, i centri storici sono il biglietto da visita sul quale è tracciata una visione del mondo fatta di asili nido-modello, trasporti efficienti e soprattutto un robusto reticolo di manifatturiero, agroindustria, intervento pubblico, privato e cooperativo. Pur essendo la spina dorsale del Pci in termini d’iscritti e di risorse economiche, i dirigenti emiliani dovranno attendere la non felice parabola di Bersani per raggiungere i vertici del partito. Chissà come mai. Oggi varrebbe la pena chiedersi se nei consessi di Botteghe Oscure si discusse del Piano di Intervento Pubblico nel Centro Storico di Bologna; se un Comitato Centrale ne diede mai una valutazione politica. In altre parole quel riformismo che, nella pratica, sembrava contraddire tutto o quasi tutto degli esercizi palingenetici della via italiana, fu mai oggetto di confronto? E perché se riformismo prevalse nel dibattito, questo fu quello migliorista, partenopeo, tra Napolitano e Chiaromonte che, con l’eccezione della parentesi di Maurizio Valenzi, mai esercitò nella pratica alcun riformismo, fino agli esiti tragici del bassolinismo? Si potrebbe azzardare che proprio l’esperienza urbanistica bolognese in particolare ed emiliano romagnola in generale sono all’origine del sostanziale disconoscimento politico di quella cultura riformista. Il Piano di Bologna metteva in discussione troppe cose e la sola idea che la mano pubblica potesse prevalere e con ampio consenso sulla mano invisibile del mercato, metteva in allarme un Pci che, all’incontro con le forze cattoliche, doveva sacrificare proprio la pubblicizzazione dei diritti dello sviluppo urbano. Era un terreno sul quale la Dc non ammetteva mediazione alcuna. Lo sviluppo della città e del territorio, per la Dc, doveva restare un fatto assolutamente privato e la stessa Dc non aveva esitato a crocifiggere Fiorentino Sullo, uno dei suoi esponenti storici, per avere azzardato una timida riforma urbanistica. A Bologna un picco di riformismo urbanistico era diventato sostanzialmente un atto rivoluzionario, eversivo agli occhi di quell’intreccio paludoso di rendita fondiaria urbana e profitto edilizio che governava sostanzialmente la città e il territorio. In troppi ebbero paura dell’esperienza bolognese. Anche a sinistra. Il Piano di Bologna, per quanto studiato e, per qualche verso, celebrato nelle accademie, doveva restare un episodio circoscritto. Tra la Via Emilia e il West. scorrendo una città 28 le tessiture, il network marco asciutti architetto Lecce Quartiere 167 B In un documento televisivo del 1973, Pasolini e... la forma della città, il poeta-regista, parlando della città di Orte, attraverso una serie di inquadrature mostrava come il rapporto tra la città storica “nella sua perfezione stilistica” e la nuova edilizia residenziale avesse segnato irrimediabilmente quel paesaggio. Allargando l’immagine dalla città di Orte verso le nuove costruzioni circostanti, rivolgendosi a Ninetto Davoli, evidenziava come la forma della città, il suo profilo architettonico fosse deturpato “da qualcosa di estraneo, che è quella casa che si vede là a sinistra”. Tale affermazione, seppure nella semplicità del discorso, rappresenta uno dei primi atti d’accusa nei confronti della degenerazione ambientale e urbanistica del paese. Da allora le periferie sono diventate il luogo della contraddizione, in cui è ben visibile lo strappo tra città e campagna e di conseguenza la perdita di equilibrio tra queste due polarità. Tale cambiamento ha portato alla nascita di una nuova condizione urbana dell’abitare e ancor di più ad un nuovo immaginario urbano basato sulle regole della ripetitività dei modi in cui lo spazio cambia e si forma (gated communities, grandi quartieri isolati, urbanizzazione diffusa) e che spesso coincide con una dimensione sociale, un modo di pensare e vivere la città. In tal senso le periferie sono il paradigma della città europea contemporanea. Una città nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale per rispondere ad una esigenza abitativa e dallo svuotamento dei centri storici inadatti a offrire condizioni di vita adeguate in quel particolare momento storico segnato dalla necessità di ripartire. Le periferie sono state il campo di sperimentazione privilegiato per la generazione degli architetti del dopoguerra distanti dal dualismo storico tra città e campagna e impegnati sul tema della loro connessione, allo stesso tempo evidenziando i limiti di interventi che, seppur ambiziosi, non hanno resistito all’incessante consumo di suolo massificato in un paesaggio sempre più effimero. I centri storici evidenziavano nel loro disegno urbano di strade e piazze funzioni specifiche fortemente correlate anche alle attività economiche. Guardando alle periferie non si riesce a cogliere una identità propriamente detta. La stessa ripetitività con cui sono state pianificate e che ne accomuna la forma a livello globale è ben distante dai modi e dalle strategie di riconquista dello spazio pubblico, per lungo tempo assente e scarsamente considerato tanto da apparire negato. Luogo del confronto-scontro tra stili di vita differenti, le periferie divengono così veri e propri laboratori urbani dove le pratiche di sussistenza si trasformano in nuovi modi di intendere l’economia, la socialità, lo spazio: la nascita sempre più frequente di orti urbani, librerie di quartiere, pratiche di autorganizzazione, autogestione degli spazi e riutilizzo dei vuoti urbani, il graffitismo come forma d’arte, hanno rotto la tendenza a considerarle luoghi impermeabili. Trasformandoli in luoghi porosi verso la città. Queste esperienze, per lungo tempo relegate e confinate nella residualità degli interventi, hanno viceversa modificato il nostro modo di intendere la città nella sua totalità, facendo emergere la necessità di riconquista degli spazi verdi e imponendo la rilevanza dello spazio pubblico come parte integrante del processo creativo. Come negli anni sessanta e settanta ha avuto inizio la stagione del recupero dei centri storici, adesso considerati piccoli gioielli del territorio italiano, così oggi il nostro sguardo torna a considerare le periferie come la “nostra” città, quella che lasceremo in eredità alle generazioni future. Ben lungi dal volerli ancora relegare alla funzione di quartieri dormitorio, attraverso la progettazione di infrastrutture di collegamento questi territori vengono riorganizzati e riconnessi con percorsi ciclabili e pedonali, l’inserimento di nuove funzioni, la creazione di spazi verdi e attrezzati. Una nuova sperimentazione, attraverso la creazione di nuovi attrattori urbani, cerca di restituire coerenza ad una città frammentata. Eppure la creazione di uno spazio pubblico o di una infrastruttura non sempre è sufficiente a restituire, o creare ex novo, identità ai luoghi. Se l’etimologia della parola rammendare consiste nella riparazione del danno, in ambito urbanistico si arricchisce di un significato molto più dinamico. Intervenire nelle periferie significa, deve significare, instaurare un dialogo tra la città monumentale e storica e quella a margine, riconoscere come luoghi reali, carichi di simboli e messaggi, quegli spazi per lungo tempo considerati non-luoghi. E significa anche disponibilità a modificare canoni e procedure, con l’uso informale e improvvisato dello spazio che diviene risorsa e terreno di sperimentazione. La riscoperta di questi luoghi è possibile solo considerando la città nella sua totalità, come un unico progetto urbanistico dove è saldo il legame tra gli spazi dell’abitare, del lavoro, della cultura, e dove la ricerca dell’identità consiste nell’acquisire una nuova coscienza urbana attraverso la lettura del rapporto tra le diverse parti. La stessa provvisorietà che caratterizza il presente delle periferie, dovuta ai repentini mutamenti socio-economici che molto più evidentemente riplasmano vite e spazi, può essere intesa come una lente attraverso cui cogliere l’evoluzione o involuzione della città contemporanea e al tempo stesso le modalità per comprendere le sue future trasformazioni. Ciò che ora consideriamo un vuoto urbano può essere il fulcro del cambiamento, ed è a questi luoghi che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, alla ricerca di quella relazione tra la città istituzionale e la realtà performativa che emerge dalla periferia. È in questo iato che si gioca il futuro stesso della città. la comunità dispersa 30 inurbamenti e altre storie stefania galante architetto Lecce zona P.I.P. ph. stefania galante Dal secondo dopoguerra ad oggi il consumo di suolo in Italia è cresciuto e continua a crescere intorno ai 70 ettari al giorno, circa 8 metri quadri al secondo, ininterrottamente notte e giorno. Il 30% del totale di suolo consumato viene destinato ad aree coperte da edifici, il 47% a infrastrutture di trasporto, il 14% a superfici asfaltate, compattate o scavate, parcheggi, piazzali, cantieri, discariche o aree estrattive. Dal 1990 al 2006 il consumo di suolo agricolo è passato dal 7,9% al 9%, quello del suolo delle fasce costiere entro i 10 Km dal 4% degli anni ‘50 al 10,5 % del 2012. Tra le cause del consumo di suolo vi è, senza dubbio, la crescita delle aree urbane, con l’ampliamento della zona delle periferie e la creazione di nuovi quartieri o aree residenziali. A questa si deve aggiungere l’espansione, senza un’adeguata pianificazione, delle frange urbane e periurbane, caratterizzata da insediamenti a bassa densità e tipologie d’uso del suolo diversificate. Per definire quest’ultimo fenomeno oggi, spesso genericamente, viene utilizzato il termine anglosassone di urban sprawl, che originariamente indicava il processo di dispersione urbana, esploso negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale, dovuto al boom demografico, alle politiche sull’abitazione che favorirono la crescita dei sobborghi, e ai movimenti di popolazione bianca che scelsero il sobborgo “bianco” come reazione ai trasferimenti della popolazione Afro-Americana verso il centro delle città. Per semplificazione linguistica, il termine sprawl è stato successivamente utilizzato anche per indicare quel complesso fenomeno di insediamenti periurbani ed extraurbani: «diffusione», «dispersione», «peri-urbanizzazione», eparpillement, che si è avuto anche in Europa dagli anni 70 e che presentava caratteristiche tipo- logiche e morfologiche specifiche, legate al territorio in cui si andava manifestando e alle relative condizioni sociali, culturali, economiche, storiche, nonché ai fattori di evoluzione dei modelli e degli stili di vita. Dalla campagna urbanizzata agli insediamenti continui, ma allo stesso tempo dispersi, strutturati lungo direttrici di infrastrutture viarie o in maniera puntiforme, le aree residenziali sono andate alternandosi a quelle industriali e ai complessi direzionali o turistico ricreativi, e lo sprawl urban ha assunto la veste estetica del frammento e della giustapposizione, della abitazione personalizzata in funzione del proprio status sociale, quella iperreale degli shopping mall e delle altre architetture destinate al loisir. Nella città diffusa le architetture sono isole autonome che non dialogano con il contesto, non ci sono marciapiedi, e lo spazio pseudopubblico degli shopping mall, ha sostituito quello pubblico delle piazze, spesso irraggiungibile a piedi. La dispersione è in parte un fatto casuale, generato da errori, da auto organizzazione e spontaneismo, ma anche un fatto voluto, dovuto a dinamiche politiche intenzionali, a scelte individuali e collettive. A seconda dei contesti territoriali sono state individuate delle macro categorie di cause che in misura maggiore o minore hanno determinato il fenomeno: l’esplosione del mercato delle costruzioni, l’insediamento dei centri commerciali fuori dai centri abitati, l’aumento del numero delle automobili, il costo nettamente più basso delle aree esterne alla città, che ha favorito la costruzione di abitazioni più grandi, l’esigenza di un nuovo modello abitativo, quello della casa unifamiliare di proprietà con giardino, che ha consentito la fuga dalla città congestionata e di ritrovare il rapporto con la natura, la competizione tra i comuni, che si è tradotta proprio in crescita di urbanizzazione dispersa e in una pianificazione debole. Il tema della diffusione urbana ha assunto, nel tempo, in Europa, rilevanza tale da diventare argomento di studio da parte della Comunità Europea che già nel 1990 ha pubblicato un primo documento, il Libro verde sull’ambiente urbano, con cui, per la prima volta, ha cercato di definire una politica di azioni urbane condivise, nell’ottica della sostenibilità. Da questo momento in poi, nella strategia politica dell’UE, il binomio città/ sostenibilità si è configurato come un punto fermo delle successive azioni di governance, che sono scaturite dai rapporti dell’EC Expert Group on the Urban Environment, istituito dopo la pubblicazione del Libro verde. Il documento dal titolo Verso una strategia tematica sull’ambiente urbano (Commission of the European Communities, 2004) è stato, forse, il primo passo per l’attuazione di una strategia di cooperazione e contiene le linee direttive, rivolte agli Stati membri e alle autorità locali, per consentire loro di migliorare la gestione dell’ambiente nelle città europee. Parallelamente all’attività della Commissione delle Comunità Europee, dal 1994, si svolge quella dell’Agenzia Europea dell’Ambiente che ha il mandato di orientare la Comunità ed i paesi membri nelle decisioni sull’ambiente, integrate con le politi- che economiche e indirizzate verso la sostenibilità. Nel 2006 AEA pubblica la relazione “Urban sprawl in Europe — the ignored challenge” (La sovracrescita urbana in Europa — la sfida ignorata), che ha sottolineato come, nonostante gli indirizzi di politica urbana dell’UE, l’espansione urbana incontrollata costituisse ancora un problema in Europa, e ha messo in risalto l’urgenza di porre un limite al fenomeno adottando iniziative e politiche specifiche. In Italia, l’interesse ai processi di diffusione urbana, si è sviluppato sin dagli anni ‘80 con ricerche concentrate su aree geografiche localizzate perlopiù nel centro nord, che presentavano specificità territoriali e sociali e che, secondo quanto è emerso, sono state determinanti nella diffusione del fenomeno (la “città diffusa veneta”, la “megalopoli padana”, l’area milanese, l’area bolognese). La città a bassa densità dell’area veneta è indubbiamente un caso emblematico. Sviluppatasi negli ultimi 30 anni in conseguenza della rapida crescita economica, la città diffusa veneta si caratterizza per una mixitè funzionale, relazionale e formale, in cui le attività produttive si alternano all’edilizia residenziale a bassa densità, e che ha sostituito lo storico paesaggio agrario di pianura. Le funzioni proprie della città si sono strutturate secondo un’articolazione e gerar- chizzazione orizzontale che ha conferito carattere di urbanità ai contesti territoriali. La città diffusa è diventata la città dell’automobile, perché la dispersione delle funzioni ha comportato la necessità di spostamento per le attività quotidiane, per lavoro, per studio, per piacere, per raggiungere servizi di carattere territoriale e collettivo anch’essi dispersi, provocando un alto livello di congestione dell’area. La ricerca di una qualità del vivere incentrata sul rapporto con la naturalità, che il modello urbano non dava e che ha spinto la popolazione a trasferirsi, si è scontrata quindi con la dipendenza dall’automobile, con l’assenza di servizi pubblici nelle vicinanze e con la mancanza di uno spazio pubblico condiviso. Il processo di urbanizzazione del territorio veneto è un fenomeno che continua ancora oggi sia con interventi di micro-residenzialità sia con aree produttive e commerciali, ma la mancata soddisfazione delle aspettative di un miglioramento dello stile di vita ha portato la popolazione ad essere più attenta e a contestare le trasformazioni paesaggistiche quando creano disagio o risultano impattanti. L’Università di Venezia (IUAV) e Legambiente Veneto hanno raccolto le proteste della popolazione e hanno avviato un “Atlante del malessere territoriale”, che consiste in un osserva- 32 torio che raccoglie i conflitti generati da trasformazioni territoriali al fine di informare, suggerire una riflessione critica e stimolare una collaborazione tra i diversi soggetti coinvolti. Nonostante la carenza di studi specifici sul fenomeno della diffusione periurbana nel sud Italia e nello specifico in Puglia, non manca però nella regione un’attenzione al fenomeno che anche qui si è manifestato da diverso tempo. Anzi sono proprio le istituzioni preposte al governo del territorio che hanno rilevato il problema e stanno puntando ad un azione di controllo dello spazio attraverso strumenti di accompagnamento nei processi di trasformazione. La Regione Puglia, infatti, nell’ambito del Piano paesaggistico territoriale regionale, per il Progetto Integrato di Paesaggio “Patto Città-Campagna”, ha redatto le Linee guida per la riqualificazione delle periferie e delle aree agricole periurbane, una sorta di manuale che contiene raccomandazioni per orientare la redazione di strumenti di pianificazione, di programmazione, per coordinare settori e istituzioni diverse all’interno di un progetto comune, quello di restituire qualità sia alla città che alla campagna. Attraverso l’individuazione di sette strumenti progettuali, La campagna del ristretto, I parchi agricoli multifunzionali, Il parco CO2, La campagna urbanizzata, La campagna abitata, Il parco naturale costiero, Il parco agroambientale costiero, il Patto città campagna mira a contrastare il consumo di suolo agricolo, valorizzare il patrimonio rurale storico culturale, migliorare la qualità urbana, salvaguardare lo spazio agricolo come invariante ambientale e pasaggistica nelle possibili trasformazioni. La necessità di una soluzione e di politiche mirate al controllo della diffusione urbana trova ragione nel fatto che le conseguenze alla crescita indiscriminata delle aree urbanizzate a bassa densità consistono, così come individuato dall’Unione Europea, in costi collettivi, ambientali e sociali, quantificabili: inquinamento atmosferico, traffico, incidenti, rumore e emissioni dannose per il clima. Le ricerche non sono più, infatti, solamente incentrate sull’analisi delle manifestazioni morfologiche dello sprawl ma, sull’onda delle teorie sulla sostenibilità ambientale, riguardano, ora, anche l’applicazione di metodi di valutazione monetaria del consumo di suolo e degli effetti sociali e ambientali dell’inquinamento. È, dunque, la città a bassa densità, un problema contemporaneo che va analizzato e affrontato e la cui difficile soluzione richiede la determinazione di un nuovo modello di sviluppo a crescita controllata, capace di tenere conto della complessità del problema, delle implicazioni ambientali e del rapporto tra sistema urbano e paesaggio. the Commission to the Council and Parliament, Brussels 27 june 1990 - F. Indovina, La città diffusa, Daest-IUAV, Venezia, 1990 - E. Turri, Il paesaggio come teatro, Marsilio, Venezia 1998 - R. Ingersoll, Sprawltown. Cercando la città in periferia, Roma, Meltemi, 2004 - Commissione delle Comunità Europee, Verso una strategia tematica sull’ambiente urbano, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, COM(2004)60 - L. Fregolent, Sostenibilità ambientale e città a bassa densità, XXVI Conferenza Italiana di Scienze Regionali, Napoli, 17-19 October, 2005 - B. Secchi, La città del ventesimo secolo, Laterza, Roma, 2005 European Environment Agency, Urban sprawl in Europe, The ignored challenge, EEA Report n. 10/2006, - G. Mazzeo, Dall’area metropolitana allo sprawl urbano: la disarticolazione del territorio, in “ TeMA Journal of Land Use, Mobility and Environment”, vol 2, n. 4, 2009, pp. 7-20 - L. Fregolent, I caratteri della città esplosa, in “lo Squaderno”, n. 24, 2012, pp. 9-11 - L. Fregolent, La città a bassa densità: problemi e gestione, in “TeMA Journal of Land Use, Mobility and Environment”, vol. 5, n. 1, 2012, pp. 7-19 - I. Sartoretti, Lo Sprawl urbano, in “Micron, ecologia, scienza, conscenza”, n. 22, agosto-ottobre 2012, pp. 18-23 - M. Mininni, Periurbanità. Per una politica di sviluppo rivolta ai luoghi, in “Planum the Journal of Urbanism”, n. 27, vol. 2/2013, - ISPRA Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Il consumo di suolo in Italia, Edizione 2014, Roma, 2014 - Regione Puglia, Piano Paesaggistico Territoriale Re- - Commission of the European Community, Green pa- gionale, Linee guida per il patto città campagna: riqua- per on the urban environment, Communications from lificazione delle periferie e delle aree agricole periurbane Lecce zona P.I.P. ph. stefania galante anatomia di un quartiere 34 lecce, gli anni 50, santa rosa Lecce Quartiere Santa Rosa targa INA-Casa È una storia italiana, da nord a sud della penisola, ancora esemplare e modernissima nel suo porre l’architettura al centro. Una storia che a Lecce significa, a due passi dal centro storico, attraversare la Circonvallazione ed entrare in uno dei quartieri più verdi della città, oggi meta di una nuova borghesia professionale e di un’idea dell’abitare “a misura”. Tra Bruno Zevi: “Ogni famiglia che abiterà i nuovi centri dell’Ina-Casa scoprirà, sia pur lentamente, che l’architetto le ha dato qualcosa in più della mera funzionalità, qualcosa di impercettibile che una mente acritica non accoglie immediatamente ma che si sente nel viverci: qualcosa che trasforma quattro mura in quattro mura pensate, e pensate affettuosamente, e che in definitiva determina il passaggio dall’edilizia all’architettura”.1 Amintore Fanfani: “Il Piano per la costruzione di case per lavoratori è nato per la preoccupazione in me vivissima fin dai primi mesi dopo l’assunzione del Ministero di recare un contributo al riassorbimento dei troppi disoccupati italiani. Reputai utile rivolgere lo sguardo alle costruzioni edilizie visto che esse sono le più capaci a fungere da volano nel sistema economico”. 2 E Filiberto Guala, presidente Comitato d’attuazione Ina-Casa: “La concezione del Piano è partita dalla visione del disagio di tanti milioni di disoccupati italiani, non solo nel fisico per la mancanza del pane quotidiano ma anche nello spirito perché privati del lavoro come componente della propria personalità”. Così la versione italiana del Piano Marshall (che il Ministro Fanfani interpretò come una rivoluzione sociale e urbanistico-costruttiva senza precedenti) divenne quella che l’architetto e urbanista Giuseppe Samonà definì allora una “grandiosa macchina per l’architettura”, portando in pochi mesi all’apertura di oltre 650 cantieri in tutta Italia e coinvolgendo il fior fiore degli architetti italiani. A “pieno ritmo” questa grandiosa macchina produsse settimanalmente 2mila 800 vani riuscendo a dare una casa a circa 560 famiglie a settimana. E fino al 1962 i 20mila cantieri diffusi in Italia, nelle grandi città e nei piccoli centri, offriranno un posto di lavoro ogni anno a 40mila lavoratori edili.3 “Al centro di quell’esperienza, come di altre coeve in Europa”, ha scritto Carlo Olmo, “ci sono alcuni principi: la progettazione integrale di esterno ed interno, la centralità della distribuzione – che nasce dalle infinite discussioni sulla casa minima – l’importanza dell’integrazione tra casa e servizi per poter parlare di un abitare e non solo… di un posto per dormire, la centralità dello spazio pubblico, dei luoghi di incontro per realizzare davvero un’idea di cittadinanza e non solo di residenza. Idee che si ritrovano, in maniera certo diseguale, nei progetti che l’ufficio, diretto sino al 1952 da Adalberto Libera, doveva insieme indirizzare con normative tipo e poi approvare. Idee che spiegano come, al momento delle scelte dei responsabili del Piano, siano stati interpellati e cerchino di fare parte del gruppo che ne indirizzava gli esiti personaggi forse inattesi come ad esempio Giò Ponti a Milano, Gabetti e Isola e Mollino a Torino, Quaroni a Matera e a Roma. Quei quartieri oggi si distinguono nella città senza qualità perché il progetto politico e quello professionale avevano al centro un’idea di cittadinanza e di solidarietà. Il piano viene finanziato attraverso una piccola trattenuta sugli stipendi dei lavoratori e dei datori di lavoro, oltre che attraverso investimenti dello Stato. Una partecipazione universale a favore di chi meno aveva, che spiega molto del confluire in quel piano delle diverse radici solidariste che attraversano l’Italia del dopoguerra. Così la geografia del piano comprende oltre le grandi città, Modena, Ferrara, Mestre e realtà come Colleferro. Il Sud e le isole vedono, sull’intero quindicennio, investimenti che sfiorano il sessanta per cento di quelli del Nord”. 4 È il 23 ottobre del 1960. Su una macchina della Prefettura di Brindisi, accompagnato dalla leadership democristiana territorial nazionale, certo di una accoglienza più che festosa, Amintore Fanfani arriva a Lecce per ‘inaugurare’ il quartiere Santa Rosa5 . Le foto dell’epoca, rigorosamente in bianco nero e grigio, restituiscono il clima “lieto”, come un filmato dell’Istituto Luce descrisse l’inaugurazione di Fuorigrotta a Napoli nel “bianco luminoso dei nuovi edifici”. “Ricostruire le case ma anche gli uomini” e, ancora, “buona volontà di tutti per allargare l’orizzonte del lavoro”: sono alcune delle dichiarazioni riportate dai giornali dell’epoca ma che, c’è da giurarlo, parola più parola meno, vennero ripetute quasi dovunque. A ragione: in 14 anni oltre 350mila famiglie ebbero, finalmente, una casa. Come racconta un’indagine dell’epoca promossa dall’Ina tra gli assegnatari, infatti, il 40% di quei nuclei familiari prima di trasferirsi nei nuovi alloggi abitava in cantine, grotte, baracche, sottoscala. Il 17% in coabitazione con altre famiglie. Moltissimi erano gli immigrati dalle campagne, dal Sud, e molti profughi dall’Istria e dalla Dalmazia. Non fu solo una macchina caritatevole o assistenziale. Quello che oggi potremmo definire un brain storming nazionale vide all’opera intere generazioni di architetti che interpretarono il Piano come un modo per realizzare una grande ricostruzione e, al contempo, un immenso laboratorio sulla forma quartiere e sull’abitare urbano. Non a caso oggi si potrebbe identificare l’intelligence di quella stagione nell’Ufficio Architettura all’ultimo piano dell’Ina-Casa in via Bissolati a Roma; non a caso nel primo e nel secondo settennio furono pubblicati, complessivamente, quattro piccoli ‘manuali’ per suggerire, raccomandare, orientare, indicare modelli, guidare alla progettazione. Non a caso Giorgio La Pira, nell’inaugurare nel ’55 la nuova città dell’Isolotto, a Firenze, prese a prestito l’esergo del discorso da Leon Battista Alberti: “La città è una grande casa per una grande famiglia”, descrivendo la città come una “unità organica che presenta ai suoi membri presenti e futuri tutti gli elementi essenziali per il sereno sviluppo della loro vita”. E ancora: “Ogni città racchiude in sé una vocazione e un mistero. Amatela dunque, come si ama la casa comune destinata a noi e ai nostri figli”. Quello che La Pira affermava per Firenze poteva di fatto essere tradotto anche per Lecce. Non tanto per il retorico, e abusato, luogo comune di Firenze delle Puglie quanto perché insieme all’Isolotto tra le best practice del Piano figura proprio il quartiere di Santa Rosa, sia nella versione primo nucleo, risalente al I° Settennio del Piano Casa, sia con il secondo nu- cleo, realizzato dal ’56 al ’63, e con le opere finanziate dal II Settennio. “Il primo nucleo”, dice Simonetta Guido, architetto, laurea nella Facoltà di Architettura a Firenze con la tesi Ipotesi di restauro urbano attraverso il recupero del colore e del decoro dei fronti prospettici nel Quartiere InaCasa “Santa Rosa” a Lecce (febbraio 2013), “fu ideato come una sorta di piccola città nella città, destinata ad edilizia residenziale pubblica a beneficio dei meno abbienti. Successivamente, sul lato nord/ovest del primo intervento, vengono ad insediarsi tra il ’56 e il ’63 le opere finanziate dal II° Settennio”. Un’area di 17 ettari per un totale di 1.150 alloggi e di 5mila 750 vani, con una densità di 226 abitanti per ettaro, lungo un’ariosa passeggiata porticata e attorno a piazze e unità di vicinato: così appare, ancora oggi, il ‘miracolo’ Santa Rosa, che alterna edifici abitativi alti con case unifamiliari e una rete di edifici a servizio: centro sociale, chiesa, mercato, scuole, giardini pubblici e privati. Tra gruppo A e gruppo B furono coinvolti sedici progettisti attorno ad architetti formatisi alla scuola romana come Rossi-De Paoli, i fratelli Mainardi (coordinatori del progetto urbanistico e del progetto degli edifici del gruppo A con gli ingegneri Ferranti e Minchilli e l’architetto Nati), l’architetto B. Barletti (tra i fondatori dell’Associazione per l’Architettura Organica) coordinatore del Gruppo B (con gli architetti Antonaci, Rispoli, Tempesta, l’ingegner Fabbri, il geometra Aralla), e altri 36 Lecce Quartiere Santa Rosa progettisti come gli architetti Ciarla Berarducci, Colazingheri, Dall’Olio, Mirri, Puccione, Russo. “Nel secondo settennio l’area destinata al complesso Santa Rosa”, racconta ancora Simonetta Guido, “ebbe tale estensione da formare un quartiere autosufficiente. Lo abitarono i 4mila residenti del secondo settennio e i millecinquecento del primo. I servizi naturalmente si riferivano anche ai gruppi edilizi precedenti. Qui possiamo capire, ad esempio, come funzionavano concretamente le indicazioni dei fascicoli Ina-Casa quando, riservando una particolare attenzione alla progettazione dell’ambiente, consigliavano come fosse necessario considerare i bisogni dell’uomo che non ama le sistemazioni a scacchiera ma gli ambienti raccolti e allo stesso tempo mossi”. È quella cura, della progettazione e dei dettagli, che oggi impedisce di considerare Santa Rosa una periferia urbana così come siamo stati abituati a pensarle dalle 167 in poi, piuttosto un quartiere residenziale anche nelle scelte architettoniche (prevalentemente alloggi composti da 3 o 4 vani e, più in generale, “un pensiero urbanistico e una pratica costruttiva dove la composizione architettonica assume grande valore rispetto alla produzione edilizia del secondo dopoguerra”), ed estetiche, il vero oggetto del lavoro della Guido. “L’ordine strutturale”, scrive, “fu evidenziato utilizzando architettonicamente le peculiari caratteristiche naturali, lasciando in vista il cemento e le sue strutture ed impiegando dei tamponamenti ‘a pannello’ di pietra di tufo ‘carparo’ la cui tinta dorata apportava una nota di colore con due evidenti benefici: conservazione dell’aspetto secondo le intenzioni dei progettisti ed eliminazione delle spese di manutenzione per quanto si riferisce alle tinteggiature; fattore importante per edifici di carattere popolare ed altamente economico”. È importante sottolineare e Sandra Zappatore, direttore generale Iacp ora coordinatore generale Arca Sud Salento, lo fa nel suo intervento nel bel volume Città Nuova – Lecce negli anni cinquanta e sessanta, non solo l’attenzione che all’epoca fu rivolta a prevenire eventuali disagi con l’istituzione di un vero e proprio Ufficio di assistenza ma anche la composizione sociale ‘trasversale’ che fin da subito caratterizzò il Quartiere e che impedì di fatto sia una funzione esclusivamente dormitorio sia la riduzione a ‘ghetto’ urbano o più modernamente banlieue, caratterizzante invece le successive 167 più indirizzate alla massimizzazione delle volumetrie e alla realizzazione di manufatti di mediocre qualità. Un paradigma ancora attuale che andrebbe assunto nella debita considerazione, lo definisce Zappatore. E che, en passant, non evita di ricordare speculazioni successive nella realizzazione di edifici che di edilizia economica e popolare’ avevano ben poco. D’altra parte, come rileva Simonetta Guido, “Santa Rosa è sicuramente tra i quartieri cittadini con una maggiore quantità e qualità di verde grazie ai viali alberati, ad ampi spazi di verde attrezzato. Oltre a quello pubblico è evidente l’importanza del verde privato, giardini e aiuole condominiali, derivante sempre dai Suggerimenti dell’Ina Casa. Insieme al verde, inoltre, fu considerato anche l’elemento acqua con la realizzazione di una fontana monumentale, oggi in abbandono, parte terminale dello spartitraffico dell’asse centrale”. Infine, e parallelamente alle altre puntualissime indicazioni costruttive, quelle caratteristiche “tesserine di ceramica”, vero e proprio marchio identitario dei quartieri Ina-Casa, targhe policrome (a firmare alcune di queste furono artisti come Burri, Duilio Cambellotti, Cascella, Pietro De Laurentis, Piero Dorazio), ispirate al tema del progetto o della casa come luogo felice. Non solo una questione formale. L’applicazione delle targhe sugli immobili, per le quali furono stabilite le misure, i prezzi massimi e la posizione, venne considerata oltretutto una delle condizioni per il rilascio del certificato di collaudo. “Oggi”, conclude Simonetta Guido, “non si tratta di guardare a quella storia solo con nostalgia e rimpianto, piuttosto di comprenderla e reinterpretarla anche nell’urgenza di pianificare al meglio strategie per la tutela e conservazione. Per questo, anche, ha senso considerare nella giusta luce le indicazioni progettuali e le modalità costruttive che vennero impiegate. L’intero iter della vita del quartiere, comprese le più recenti modificazioni apportate dai residenti, fa intuire come proprio gli abitanti debbano essere ritenuti figure-chiave nel progetto di conservazione e riqualificazione degli edifici, da considerare assolutamente esempio di architettura moderna, dal momento che proprio nell’evolversi e dal modificarsi delle loro esigenze sono nate le maggiori alterazioni morfologiche e materiche degli edifici. È necessario mettere a punto tecniche di conservazione rispettose dell’esistente e risolutive rispetto ai problemi e alle carenze tecnicostrutturali evidenziate nel corso degli anni. Non credo che il quartiere vada soggetto a un ripristino ma deve consentire l’opportunità di garantire da parte dei residenti quegli adeguamenti opportuni, scongiurando trasformazioni di tipo materico/costruttivo. Tutto ciò è possibile non solo con regolamenti e norme vincolistiche ma soprattutto attraverso la consapevolezza di vivere in architetture che sono ormai parte del patrimonio del ‘Moderno’. Consapevolezza che già esiste perché gli abitanti del quartiere considerano Santa Rosa un luogo privilegiato e sono portatori di una forte identità comunitaria. Si tratta pertanto di concepire un iter metodologico che guidi gli interventi delle facciate nel rispetto dei caratteri morfologici e materici dei fabbricati, da considerare “unità minime” di progetto per evitare interventi spot sulle singole proprietà. Non bisogna inventare niente, piuttosto reinverare un modello nel caso del ripristino e del restauro riferendosi a quello già standardizzato dell’edificazione. Magari predisponendo una griglia di suggerimenti e normative per poter affrontare nuovi interventi sulle superfici dei fronti prospettici. Ad esempio evitare la sostituzione degli intonaci simili a quelli originari con quelli plastici, o ancora la scelta di nuovi intonaci prendendo spunto da quanto inizialmente concepito dagli architetti progettisti. Una nuova normativa capace di conservare e valorizzare nel tempo le peculiarità cromatiche, sintesi di rilevanza architettonica, storica e ambientale del quartiere Ina Casa “Santa Rosa” (c.p.) 1 D. Dé Cocci, Il Piano Fanfani-Case, Roma, Edizioni 5 Lune, 1962 2 Nella seduta del Consiglio dei Ministri del 6 luglio 1948 Amintore Fanfani, Ministro del Lavoro e ideatore del Piano Ina-Casa, presentò il Disegno di Legge per “incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori”. Il 12 luglio la proposta viene illustrata alla Camera che la approva il 4 agosto. Successivamente, viene approvata dal Senato con alcune modifiche e dunque nuovamente dalla Camera il 24 febbraio del ’49. Il 28 febbraio il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi firma la Legge n. 43 Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori. Il 1° aprile si avvia de ’49 si avvia il primo settennio di attività del Piano Ina-Casa 3 Paola di Biagi, in Il piano Ina-Casa: 1949-1963 in Treccani.it 4 La Stampa di Torino, edizione del 20 febbraio 2013 5 Città Nuova – Lecce negli anni cinquanta e sessanta, a cura di M. Mainardi, Edizioni del Grifo, Lecce 2014 et voilà la qualità 38 idee per la progettazione condivisa fabio dell’erba architetto «L’architettura antica italiana (dopo il 1400) ricordava l’ospitalità, tetti sporgenti, sedili sulle vie, grandi atri. L’architettura odierna – tutta cancelli, punte, nessun spazio lasciato al pubblico – dimostra dappertutto ostilità»: così scriveva un secolo fa Carlo Dossi in Note azzurre. Vuoto, marginalità, disagio. Ma anche risorse umane, sociali, ambientali, che vanno riconosciute e valorizzate. È su questo mix di contraddizioni e potenzialità che trovano terreno fertile le buone pratiche per una progettazione condivisa all’incrocio di una innegabile evidenza: le periferie rappresentano al tempo stesso l’immagine e la sostanza stessa della città contemporanea, che cresce proprio con una produzione incessante ed esponenziale di periferie. Con due differenti torsioni: esistono periferie che rimangono tali sul piano urbanistico e sociale anche nonostante la vicinanza geografica con il centro cittadino, nella città spesso alcune zone sono integrate solo dal punto di vista urbanistico ma socialmente ai margini o ancora oltre. Ambiente urbano e comportamento sociale sono in forte relazione tra loro e dunque inclusione e partecipazione sono elementi fondamentali nei processi di progettazione in contesti complessi. Per garantire la creazione di luoghi dotati di un’identità condivisa e riconoscibile, della riscoperta di un senso di appartenenza per chi li frequenta, di una reale aderenza alle necessità dei contesti in cui si realizzano. Le periferie che partecipano, che accettano la sfida, diventano laboratori di creatività che possono raggiungere traguardi estendibili ad ampie parti della città: ben lungi dal mortificarlo inclusione e partecipazione valorizzano l’input professionale del progettista moltiplicando le opzioni di creatività. Come si progetta in maniera partecipata? È prioritario il coinvolgimento della popolazio- ne interessata con adeguate metodologie in un ventaglio di metodi che vanno dall’outreach (ricerca verso l’esterno) all’ascolto attivo (coinvolgimento degli abitanti attraverso questionari e/o incontri aperti di quartiere), alle camminate di quartiere dove la popolazione partecipa con il racconto della quotidianità, al project planning (metaprogetti inclusivi sviluppati insieme ad associazioni, parrocchie, tecnici, semplici cittadini). Allargare i punti di vista I dati raccolti nel corso del coinvolgimento attivo e della ricerca preliminare sono la base per metodi più strutturati di progettazione. Come l’Open Space Technology, assemblea aperta (in alcuni casi con oltre 2.000 presenze) preziosa per conoscere lo stato dell’arte grazie ad una unica domanda generale (per esempio “Il Quartiere ….. quali prospettive di crescita?”) cui i partecipanti, suddivisi in gruppi sufficientemente spontanei, rispondono producendo al termine un istant report su specifici aspetti. Per una analisi più puntuale e specifica si può ricorrere allo Scenario workshop dove, in modo mirato e con una partecipazione più ristretta organizzata in gruppi omogenei (amministratori pubblici, associazioni, tecnici ed operatori economici, stakeholders) si fa analisi delle problematiche emerse grazie alla ricerca sul campo. Metodologia interessante per la possibilità offerta di lavorare inizialmente con gruppi omogenei e poi, ricreandoli trasversalmente, eterogenei. Il progetto prende forma: co-progettare L’uso di new media e community network per co-progettare creativamente, i tavoli di confronto creativo e i workshop di approfondimento progettuale sono fasi di incontro e di confronto tra progettisti, amministratori e popolazione residente sulla forma e sui contenuti del progetto. Co-progettare significa però sapere esattamente cosa si cerca e qual è la posta in gioco come tema di progetto. Ovvero, come rispondere alle esigenze degli abitanti? La convergenza di interessi e l’integrazione di risorse, il miglioramento della capacità degli attori di misurarsi con i problemi della progettazione (limiti e opportunità d’azione), decostruzione e ricostruzione dei problemi, miglioramento delle performance delle iniziative di riqualificazione già in atto (learning by doing) costituiscono altrettanti momenti caratterizzanti il farsi del percorso. L’approccio è interdisciplinare (il progetto non sostituisce le varie competenze specifiche ma cerca di farle collaborare meglio, tra loro e con l’esterno) e un ruolo chiave è attribuito alla comunicazione e all’informazione, fondamento di qualsiasi forma di partecipazione attiva dei cittadini. È centrale la rivalutazione del ruolo degli stessi residenti che in quest’ottica non sono solo destinatari ma soggetti attivi di un percorso dove la loro quotidiana esperienza è valorizzata come competenza specifica. L’integrazione e il coordinamento tra le varie azioni condotte in più ambiti da soggetti pubblici, privati e privatosociali, la partecipazione, il coinvolgimento della popolazione e lo sviluppo locale sostenibile sono le linee guida del Progetto. Questa modalità si sviluppa attraverso i cosiddetti “tavoli sociali” cui partecipano le realtà locali e l’Amministrazione, organizzati e gestiti dai cosiddetti “soggetti terzi” che nei Piani di Recupero Urbano hanno il compito di coordinare e attuare i progetti di accompagnamento sociale. Un esempio virtuoso di questo me- todo è dato dal progetto “SantaRosa-in-posa”, vincitore del secondo premio del concorso Lecce Città Pubblica “per l’attenzione alla ricerca di spazi da sottrarre alla edificazione per costruire accordi di condivisione e di scambi di tempo e informativi. Per l’individuazione degli spazi sui tetti come spazi esperibili e ri-progettabili: idea non nuova ma interpretata al contesto locale periferico. Per il coinvolgimento non retorico dei cittadini”. Dopo la premiazione, il 14 e15 gennaio 2012, i progettisti sono ritornati nei luoghi dove la progettazione è nata. Per raccontarsi agli abitanti, per crescere, per diventare della Pubblica Amministrazione. “Il nostro progetto”, scrivono le architette Gabriella Morelli e Valentina Galluccio e l’ingegnere Mario Sarno, “si propone come un sistema aperto e vuol essere uno strumento per imma- 40 Lecce Quartiere Santa Rosa edificio del mercato ph. città fertile ginare il futuro del quartiere partendo da un presente molto promettente, sulla base di un passato profondamente attento al carattere sociale della pianificazione urbana. Abbiamo elaborato mappe di indagine ed estrapolato proposte, finalizzate alla produzione di nuove idee condivise, su come si potrebbe vivere, e possibilmente vivere bene, consumando meno risorse e rigenerando la qualità dell’ambiente. Al fine di collaborare allo sviluppo di un immaginario sociale capace di coniugare creativamente idee globali e specificità locali, abbiamo innescato la discussione nel quartiere e un buon terreno di confronto tra i diversi attori coinvolti, facilitando la generazione di idee circa la direzione da prendere e le scelte da fare. Un confronto indispensabile, perché riteniamo che non si possa prescindere dalla conoscenza dei bisogni e delle necessità di chi abita e consuma la città. Questo è solo il punto di partenza. La nostra idea potrebbe costituire l’avvio di un’iniziativa più ampia, da programmarsi e continuarsi nel tempo, con il coinvolgimento di un sempre maggior numero di soggetti, privati e pubblici”. Il progetto ripensa gli spazi esistenti e genera nuovi luoghi, con un arricchimento delle funzioni originarie. È dunque uno strumento per immaginare il futuro del quartiere, a bassa intensità di risorse economiche e ad alto potenziale rigenerativo perché il motore immateriale sono le risorse sociali e culturali già presenti, anche se solo in nuce. Il cuore è dentro i risultati degli incon- tri con l’emersione di proposte sui modi di vivere possibili e sui sistemi di prodotti e di servizi. La nuova vita del quartiere ruota intorno a parole chiave emerse nel corso degli incontri e che costituiscono le “nuove pose” di Santa Rosa: l’area del Mercato - Rivisitata, rivitalizzata, con l’inserimento di aree esterne per le attività e nuove trasparenze; l’InfoPoint Santa Rosa - Nuovo contenitore, tra il mercato e il vecchio campetto di cemento. Una voce del quartiere, nel cuore del quartiere, con ambienti che accolgono attività ripristinate come la “borsa del tempo” e ne introducono di nuove: book-crossing, bike-sharing, condivisione di luoghi per laboratori di cucina e di giardinaggio, un punto di informazione sui nuovi spazi di coworking; il Municipio di quartiere - piccolo e gestito dagli stessi residenti, spazio di appuntamenti periodici con il consulente ambientale e con il vigile di quartiere; la Bocciofila “Luca Belfiore” - Riorganizzata e ammodernata, sulla base delle esigenze attuali; l’Arena Verde - Spazio di iniziative culturali per il quartiere e per la città; gli orti - Ovvero: consumo a chilometro zero. Spazi funzionali e simbolici, fruibili anche da chi non si è mai confrontato con la coltivazione della terra, affidati a residenti ed avventori, per alternare la coltivazione a laboratori di giardinaggio e di cucina in un’area abbandonata e predisposta a verde sportivo dal piano urbano; Santa Rosa isola verde - Tetti verdi per migliorare il benessere abitativo. Alberi e piante, per evitare gli allagamenti e per la micro fauna; il quartiere produce energia - Impianti fotovoltaici e pannelli solari, sui tetti dei fabbricati più alti; nuova mobilità - Con la pedonalizzazione dell’area mercatale, un ecobus ad alimentazione elettrica tra il mercato, la zona a verde degli orti e l’area sportiva attrezzata del CONI, un nuovo Piano traffico di quartiere a misura dei residenti; Santa Rosa wireless - Un’infrastruttura tecnologica di comunicazione wireless, secondo gli standard wimax e wi-fi, per l’accesso a servizi e contenuti digitali. Il progetto, dunque, si fonda sulla centralità della sostenibilità e della partecipazione come principi della progettazione, sposa l’idea che sia strategico riconoscere merito e valore a ciò che esiste e che la conoscenza del quartiere sia possibile solo vivendo in prima persona i differenti luoghi che lo abitano. È, in sintesi, la strategia del cosiddetto WE-lab, laboratorio di condivisione e arricchimento comunitario di progetti urbani preliminari ideato da Città Fertile (gruppo tecnico orizzontale di professionisti e di cittadini attivi per le strategie urbane partecipate), dove we sta contemporaneamente per “noi” ma anche per week-end, i fine settimana di incontro e confronto, e lab significa lavorare insieme e produrre senso. Non si tratta di essere “necessariamente” in molti ma dii funzionare come un luogo della politica urbana dove l’esperienza dei singoli è infinitamente più preziosa di un percorso tecnico ed intellettuale già depositato. Una comunità di progetto ma anche uno spazio dove il linguaggio tecnico riconquista la sua scala naturale, senza perdita dello sguardo complessivo e dei principi identitari della proposta, con regole semplici e immediate. Infine, i “tecnici” e gli abitanti scrivono il progetto insieme. Un po’ più sapienti tutti, un po’ più umani tutti. elogio della distanza 42 scegliere la periferia katy tundo architetto Roma Quartiere Garbatella ph. arch. carlo ragaglini Il senso di smarrimento del multiforme spazio periferico, il suo incontrollato ed imbarazzante allargamento verso la campagna, le difficoltà intrinseche nel riuscire a definire queste realtà tanto astratte quanto assolute hanno generato, nel corso degli anni, l’equazione, divenuta poi luogo comune di cittadini, progettisti, amministratori e costruttori, “periferia=negazione”. Negazione dello spazio abitativo che perde non solo il suo significato ma anche il rapporto con le forme urbane esistenti; negazione delle regole stesse dell’abitare che, tralasciando la loro chiarezza, si confondono in nuovi rapporti forma - funzione; negazione di qualità ed identità storica, di uno sviluppo futuro razionale; negazione di comunicazione e sostenibilità. La periferia è in fondo, per definizione stessa, una zona limite, è ciò che sta al di là di un confine (un fiume, una ferrovia) che, naturale o artificiale, è e rimane sempre tale. Al di là di questo confine è ammassato, così come capita, un po’ alla rinfusa, ciò che la città così detta eccellente ha scartato. Il centro rimane riferimento unico: lì si svolgono tutte le attività, lì c’è il cuore della vita sociale, lì si racchiudono le attività politiche e pulsano incessanti le attività commerciali ed economiche di ogni genere. Le periferie rimangono tagliate fuori dall’organizzazione funzionale dello spazio urbano, sono dotate di spazi pubblici irrisolti, sovradimensionate dal punto di vista della densità abitativa, sintesi di una monotona ripetizione di moduli residenziali per lo più carenti di spazi aperti. Tuttavia il rapporto architettura-periferia non è stato sempre negativo. Esempi storici, parliamo degli anni ’20 –’30, come i quartieri romani di S. Saba e della Garbatella testimoniano tentativi di approccio differenti voluti da amministratori e progettisti che consideravano la periferia come un’opportunità. La Garbatella, quartiere destinato ad ospitare gli operai dell’Ostiense, si rifà al concetto delle Città Giardino inglesi e tedesche: palazzine piccole con l’orto vengono affiancate a condomini di quattro/cinque piani dove negli anni ’20 del secolo scorso architetti illustri come Giovannoni, Piacentini, De Renzi propongono lo scenografico barocchetto romano concentrandosi sulle così dette “case rapide” ma curando, in modo particolare, i cortili, i lavatoi, le scale esterne e i giardini. Non esistono spazi chiusi, vi è un ampia libertà compositiva asimmetrica e mai ripetitiva, a tal punto da sembrare persino casuale ma, indubbiamente, estremamente moderna. La qualità estetica e la presenza copiosa di spazi comuni hanno favorito, nel quartiere, un’intensa vita comunitaria (pulsante ancora al giorno d’oggi), occasioni di incontro nei giardini e negli spazi pubblici, determinando così il formarsi di una forte identità territoriale. Analoga ricerca architettonica ritroviamo nel quartiere S. Saba, che prende il nome dall’omonima chiesa, dove vennero realizzati, più o meno negli stessi anni, lotti di edilizia popolare costituiti da villini bifamiliari con giardino e palazzine di quattro piani, con appartamenti luminosi e ampi cortili rivestiti di cortina scelta sapientemente dello stesso colore di quella delle antiche mura della chiesa. Tipologie abitative, curate e funzionali, riproposte anche per altri interventi che lo IACP attuò in quegli anni all’interno della Capitale. Un’ampia piazza centrale, piazza Bernini, è il vero cuore di questo quartiere: alberi, fontane, panchine, il mercato, attività commerciali, il campo della chiesa; tutto questo serve a rendere autonomo il quartiere, a far sì che i suoi abitanti si riconoscano in esso, rafforzando nel corso degli anni un senso di comunità ed appartenenza. Una zona periferica di una grande città assolutamente compiuta, lontana dal traffico, filtrata dal parco archeologico e, nello stesso tempo, collegata al cuore di Roma. Il movimento moderno cerca attraverso la progettazione della periferia di dare forma alla propria idea di città fatta di quartieri dove residenza ed attrezzature si integrano perfettamente e dove lo spazio abitativo, alternandosi con quello esterno, dà vita a comunità di cittadini consapevoli di far parte del medesimo luogo. Questo tipo di approccio progettuale è stato via via dimenticato: i quartieri periferici perdono il loro carattere ur- bano, non vengono strutturati come parte della città; gli edifici diventano oltremodo sovradimensionati e il loro rapporto con lo spazio pubblico, molto spesso ricavato tra una costruzione e un’ altra, è inesistente. La vita degli abitanti si svolge tra molti limiti e carenze, priva di stimoli ed opportunità. Studio di tipi edilizi da legare al contesto storico e progettazione attenta di spazi comuni e verdi da utilizzare come filtro tra vecchio e nuovo, tra centro e periferia: queste le semplici regole degli interventi sopracitati. Semplici regole, appunto, che servirebbero a ripartire: ripartire dalla periferia per far ripartire l’architettura, l’edilizia, la città. È questo il dibattito, tanto attuale da essere proposto, fra l’altro, come momento di riflessione nel tema di Maturità 2014 partendo dall’invito di Renzo Piano ai giovani architetti di scegliere come campo di esercizio le periferie. D’altra parte è nelle periferie che si 44 Roma Quartiere San Saba ph. arch. carlo ragaglini vive, oggi, la vera quotidianità. Qui si costruiscono i rapporti sociali, il senso di appartenenza, di comunità. Ormai saturi, i centri si consacrano alla staticità e all’immutabilità. Le odierne periferie vanno dunque ripensate e ridisegnate verso una nuova identità urbana, una nuova centralità, in relazione con le peculiarità acquisite nel tempo e che ne fanno territori in costante sviluppo. Vanno ripensati gli spazi aperti, quelli comuni e anche quelli interni dei tipi abitativi esistenti ormai inadatti alle esigenze di chi oggi sceglie di vivere in periferia, per ragioni altre da quelle meramente economiche. Il patrimonio residenziale risulta ormai strutturalmente vecchio, fisicamente degradato ed inadatto dal punto di vista funzionale a nuclei familiari che richiedono una maggiore qualità abitativa. I vecchi alloggi vanno ripensati internamente: suddivisioni ed accorpamenti, anche verticali, ma anche integrazione di balconi, terrazze, cortili. Un miglioramento della qualità della vita nella periferia si ripercuoterebbe poi sull’intera città, facendola risultare più compatta ed omogenea. Riqualificare allora, ma in maniera sostenibile: l’abitante non solo spettatore ma parte integrante di una ricerca di soluzioni adeguate alla complessità dei luoghi le cui risorse fisiche e sociali andranno valorizzate e contrapposte alla città storica. Rimodellare gli edifici dal punto di vista fisico, funzionale ed energetico. Un incremento del benessere abitativo non solo per fasce di utenza deboli che la tradizione vuole residenti nelle zone marginali delle città ma per il nuovo abitante della periferia che la sceglie percependone le potenzialità di aggregazione e relazione sociale, la dimensione umana, la possibilità di insediarvi nuove attività commerciali a carattere artigianale o piccolo imprenditoriale, praticamente impossibili nel centro urbano ormai troppo costoso. Per chi è convinto che questi luoghi possano produrre gli stimoli sociali e culturali di cui il nostro paese ha bisogno per ripartire, per creare occupazione, e considerano la periferia paradigma della nuova stratificazione sociale italiana, multietnica, multiculturale, che reclama servizi adeguati ad un cambiamento avvenuto lentamente, in maniera graduale, ignorato da Istituzioni che risultano oggi obsolete. Esempi di interventi sulla periferia ci giungono, già consolidati, dal resto dell’Europa: spazi con gerarchie proprie (pubblico, semipubblico e privato); creazione di nuove zone verdi, alternative all’esistente; accorpamento degli spazi aperti privati comuni ormai in disuso; spinta per una maggiore caratterizzazione dei luoghi. Le città, le sue zone marginali, tornano ad essere laboratorio di progettazione e ricerca. Si torna a disegnare lo spazio in funzione degli equilibri territoriali e sociali; il progettista, l’architetto, è consapevole di avere un nuovo compito: disegnare, certo, ma anche collaborare con gli abitanti, comprendere il loro rapporto con i luoghi in cui vivono, progettare preservando le risorse ambientali e ripensando gli edifici dal punto di vista fisico ed energetico. Un quadro attrattivo anche per investimenti economici: il privato si affianca al pubblico, investendo risorse per attirare nei quartieri il nuovo: nuovi abitanti, nuove funzioni, nuovi protagonisti che chiedono, e già rappresentano, il cambiamento. - Calvino I., Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972 - Frampton K., Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1982 - Gideon S. ,Spazio tempo architettura, Hoepli, Milano 1984 - Benevolo L , Le origini dell’Urbanistica moderna, Laterza, Bari 1998 - Bucci F., Periferie e nuove urbanità, Electa, Milano 2003 - Stenti S. Riprogettare la Periferia, Edizioni Clean, Napoli 2003 - Belli A. ( a cura di) ,Oltre la città: Pensare la periferia, Cronopio, Napoli 2006 - Scateni S., Periferie, Laterza ,Bari 2006 - Piano R., Il rammendo delle periferie, da “Domenicale de “IlSole24ore”, 26/1/2014 tra bordo e bordo 46 le sfide della pianificazione walter carrozzo architetto Strada Provinciale Melendugno - Vernole La periferia, e soprattutto la tematica della sua pianificazione ed integrazione nel contesto urbanistico cittadino, rimandano di continuo a riflessioni e discussioni verso la ricerca di una soluzione definitiva alla questione. In questo contesto la strumentazione urbanistica fornita recentemente da PUG, PIRP e Piani Territoriali di Coordinamento sembra poter infondere in modo concreto un forte impulso per raggiungere l’obiettivo. Tra i primi promotori a livello istituzionale nel Salento troviamo proprio la Provincia di Lecce, attraverso il suo P.T.C.P., che ha assunto il ruolo efficace di chi indica ai Comuni la strada della pianificazione intercomunale. Con il Piano Territoriale di coordinamento Provinciale si sono iniziate così a determinare le parti strutturali che individuano i contesti territoriali e i relativi patrimoni, identificandoli con gli ambiti naturali e culturali (ambiente e paesaggio, beni culturali, insediamenti, infrastrutture) e che racchiudono in sé, quasi sempre, aree più ampie dei singoli territori municipali. In tal senso si è mossa anche la Regione Puglia che, dopo aver aggiornato la normativa di riferimento con la Legge Urbanistica Regionale n° 20/2001 (e successive modifiche e integrazioni), il Documento Regionale di Assetto Generale (DRAG) che entra più nel merito della formazione del Piano Urbanistico Generale (PUG), sta sostenendo e agevolando la pianificazione intercomunale e che così indica:”Obiettivo dell’Assessorato è anche stimolare i Comuni alla redazione di PUG intercomunali o almeno di quadri conoscitivi e di assetto strutturale condivisi, specie per i sistemi interessati da processi di metropolizzazione e per i piccoli centri, individuando a tal fine appositi incentivi, come peraltro previsto dall’art. 10 della LR 20/2001”.. Le nuove leggi regionali in materia di governo del territorio, e le nuove forme di pianificazione già citate, favoriscono e incoraggiano l’intercomunalità per perseguire alcuni fondamentali obiettivi: ridurre i conflitti tra comuni contermini, agevolare lo sviluppo locale condiviso e partecipato, ridurre i costi relativi alle attività attinenti al governo del territorio. Allo stato attuale in Provincia di Lecce si contano 16 Unioni di Comuni, la cui finalizzazione primaria è quella della gestione di vari servizi ma nessuna, tra queste, include specificatamente a livello statutario la gestione associata della Pianificazione Territoriale. Le realtà locali che nel Salento hanno voluto intraprendere questa strada sono state l’Unione dei Comuni delle Terre di Acaya e di Roca con i Comuni di Melendugno e Vernole, ed i Comuni di Otranto e Giurdignano che hanno deciso di formulare il proprio PUG Intercomunale, attual- mente in fase di elaborazione. L’omogeneità delle caratteristiche degli ambiti comunali, unitamente alla gestione del territorio in modo congiunto, sono stati i principi su cui le municipalità si sono mosse per dotarsi della strumentazione urbanistica intercomunale. Fasce costiere, beni ambientali, risorse archeologiche e immobili di pregio architettonico sono quelle caratteristiche che tipicizzano gli habitat, rafforzando e motivando così la necessità di gestire in maniera condivisa tali valori. Di questa modalità progettuale e connessione territoriale le periferie divengono parti costituive, un approccio che permette l’emergere di soluzioni per uno studio comune di questi spazi urbani verso la loro riqualificazione, il loro inserimento nel con- testo di sviluppo del territorio, perché le stesse periferie risultino non più estremità ma centralità nella vita stessa che caratterizza i comuni. Comuni che, da sistemi univoci, hanno preferito evolversi in pluralità territoriali. Occorrerà, quindi, come per l’Unione dei Comuni delle Terre di Acaya e di Roca e dei Comuni di Otranto e Giurdignano, attraverso i PUG Intercomunali creare uno sviluppo urbanistico ed economico dei territori che valorizzi le peculiarità di ciascuno dei contesti comunali, potenziandone le caratteristiche e lavorando al fine di renderli sempre più complementari tra loro, attuando un percorso concomitante di arricchimento reciproco che eviti altresì di creare competizione tra comuni contermini sia nell’ambito urbanistico che paesaggistico. un muro per un poeta 48 vittorio bodini in via taranto Lecce, via Taranto, quartiere Borgo Pace. Un palazzo di sette piani in ristrutturazione. Un monaco rissoso vola tra gli alberi. A Giorgio Leaci, che in quel palazzo di sette piani ci vive da tempo, e a due artigiane che nello stesso stabile hanno unaugurato un laboratorio di candele naturali, viene un’idea - complici i lavori di ristrutturazione della facciata - di quelle che, a prima vista, sembrano difficilmente realizzabili: un murale sul prospetto laterale. Leaci, a dire il vero, alle questioni poetiche e alle imprese difficili è affezionato da tempo. Per esempio, il progetto Librolio, in occasione della consegna del Premio Moravia 1999. Ovvero “una pagina, un insieme di pagine su cui fermare le voci di un lento racconto”, bottiglia particolarissima di olio extravergine d’oliva riprodotta in 99 copie numerate (chi scrive conserva ancora, fortunatamente, la n.50). Un progetto legato a “I Quaderni del Fondo Moravia”, ad un’amicizia più che decennale con Toni Maraini, con poeti e scrittori del Mediterraneo di qua e di là del mare. Alla passione per la scrittura e la poesia a queste latitudini, non solo i più famosi Bodini o Bene o Corti, anche Comi e poi Pagano, Toma, Verri e Salento Poesia. E alla capacità “fluviale” di raccontare questa terra nelle sue pieghe più sconosciute e segrete. borgo pace murales by chekos art ph. marco asciutti Duecentoquaranta metri quadri di superficie a disposizione, il coinvolgimento di tutti i condomini che “hanno accolto il progetto fin dall’inizio”, la collaborazione con la 167B/Street Crew e quella con Chekos’Art. Racconta adesso Giorgio Leaci: “Certo, l’idea è nata per caso ma a pensarci bene non tanto per caso. La riflessione sulla natura dell’architettura, sulla qualità urbana, sulla periferia, temi a me cari da sempre, è ben presente in questo progetto di murales urbano e d’altra parte in me è ancora viva l’esperienza del Laboratorio di Quartiere a Otranto con Renzo Piano e Gianfranco Dioguardi. Forse dovremmo essere capaci di una riflessione più accurata su quanto è avvenuto negli anni in questa terra, perché molte cose sono accadute e di molte si è quasi smarrita la memoria anche se hanno rappresentato esperienze fondamentali. Chekos’ aveva già lavorato nel quartiere Santa Rosa provandosi con il volto di Carmelo Bene che, insieme a Bodini, considera punti di riferimento fortissimi del suo lavoro e della sua scelta di vita. Per come lo pensavo inizialmente, quel muro era soprattutto una pagina, e dunque uno spazio su cui soprattutto scrivere, più che dipingere. Avevo immaginato un verso di Wislawa Szymborska. Poi l’incontro con Chekos’ ha portato un altro punto di vista e un’altra possibilità. Così come lavorare sull’immagine dal vero. Mi chiedi delle reazioni. Non so, posso solo dirti di aver avvertito un grande silenzio intorno a me…”. Silenzio e cura, come sottolinea Chekos’. Street artista senza concessioni, abituato piuttosto a ‘scegliere’ i muri su cui lasciare colori e segno, alla parola ‘cura’ dedica un’attenzione particolare poiché, dice, “la periferia è il fulcro, ed è una questione che non riguarda solo la città ma anche la nostra relazione intima con le cose. In ognuno di noi c’è una periferia che rimane tale se non siamo capaci di pensare le cose in altro modo. È vero nel mio lavoro prediligo soprattutto questi luoghi di bordo, hanno una forza che definisco energetica. Una forza che nelle città faccio fatica a sentire. Credo che nella periferia ci sia l’essenziale. E quell’energia è fondamentale anche per la città. Bisogna averne cura. Anche con i colori, anche con un segno”. le forme dell’aperto 50 per una nuova piazza mazzini Trecentomila idee Davide Negro e Sonia Luparelli 1° classificato Primo classificato il progetto firmato da Davide Negro e Sonia Luparelli. Secondo quello firmato Antonio Longo, Loris Causo, Marco Causo e Marco Mazzotta. Terzo la proposta di Luciano Baldi, Giuliana Baldi e Francesco Danielli. Tre vincitori e, grazie alla rilevante partecipazione, una notevole messe di suggerimenti, suggestioni, punti di vista e nuove angolature. È l’esito del Concorso di idee per una rivisitazione di Piazza Mazzini, titolo non casuale “TrecentomilaIdee”, promosso nel maggio 2014 da Aps Green Power e Sofran in collaborazione con l’Ordine degli Architetti di Lecce nell’ambito della 5° Edizione di Externa, Fiera nazionale dell’Arredo degli Spazi esterni, svoltasi dal 30 aprile al 4 maggio e ospitata da Lecce-Fiere, Piazza Palio. La premiazione, a conclusione della Fiera, è stata anche occasione per un confronto tra Fabio Novembre, architetto salentino di fama internazionale, presidente della Giuria, Massimo Crusi, Presidente Ordine Architetti PPA di Lecce, Paolo Perrone, Sindaco di Lecce. “È tempo che Piazza Mazzini cambi radicalmente”, ha esortato Fabio Novembre che per l’occasione dialogava con il giornalista Rosario Tornesello. “Possiamo essere legati affettivamente a questo luogo, possiamo averne ricordi legati alla nostra infanzia ma dobbiamo essere capaci di una valutazione estetica e riconoscere francamente che quella Piazza non è bella”. “Mettiamo a disposizione dell’Amministrazione Comunale queste riletture di Piazza Mazzini e dello spazio urbano”, ha evidenziato Massimo Crusi, Presidente Ordine Architetti PPA di Lecce, “registrando con grande soddisfazione il consistente numero di adesioni che il Concorso, privo peraltro di finalità immediata, ha registrato. Ancora una volta questa formula conferma la sua vitalità e la sua straordinaria ricchezza. Promuovere e stimolare il confronto nella forma del Concorso di idee o del workshop di progettazione sulle trasformazioni urbane credo sia uno dei modi migliori per garantire qualità alla stessa trasformazione urbana”. “Siamo consapevoli del bisogno di ridisegnare Piazza Mazzini”, ha affermato Paolo Perrone, “e ringrazio l’Ordine degli Architetti che promuove occasioni così feconde. Sono iniziative importanti per chi amministra perché consentono nuovi punti di vista su settori strategici e delicati come la crescita e la trasformazione della città, la qualità urbana, la cultura”. “Ripensare e riprogettare Piazza Mazzini non era facile”, ha osservato Flavio De Carlo, architetto, responsabile scientifico del Concorso d’idee, “e al di là delle singole qualità dei progetti pervenuti è interessante cogliere le letture e gli interrogativi che questi stessi progetti mettono a disposizione suggerendo nuove chiavi interpretative e nuovi modi di guardare a questo luogo. L’iniziativa ha avuto il merito, non scontato, di riaprire la discussione tra gli addetti ai lavori e nella città su la funzione e la qualità estetica di questa porzione urbana, mettendo in discussione l’una e l’altra”. D’altra parte già nell’intro di presentazione del Concorso (la Giuria, presieduta da Fabio Novembre, era composta dagli architetti Claudia Branca per il Comune di Lecce, Fulvio Tornese per l’ Ordine degli Architetti PPC di Lecce, Flavio De Carlo - segretario senza diritto di voto -, dall’ingegnere Gabriele Tecci per l’Amministrazione Provinciale di Lecce e da Marcello De Giorgi per la Camera di Commercio), la suggestione era evidente: “Siamo partiti da una domanda: quali forme ha l’aperto?”. E ancora: “Siamo partiti dunque da qui, da questa Piazza dei Trecentomila, per la più classica delle sfide: la riqualificazione, la rigene- razione. E nella città che adesso è intenta a pensarsi Capitale Europea della Cultura chiamiamo a raccolta chi ha voglia di provarsi con il progetto di nuove forme, e nuove vite, per questa Piazza. Non solo in termini architettonici, ma spingendosi fin dentro le pieghe della sua vita, immaginando “il suo spirito, la sua energia”. È un invito a pensare, meglio ripensare, una piccola densa quanto mai significativa porzione di spazio urbano, nelle sue relazioni e nella sua vita”. L’adesione al Concorso ha dimostrato, tra l’altro, quanto siano considerate necessarie occasioni del genere, e come siano fondamentali per immettere nella riflessione sulla qualità urbana e sulla trasformazione della città inediti punti di vista. Grazie anche alla formula della votazione on line, infatti, è divenuto una sorta di laboratorio progettuale allargato e condiviso, “offrendo letture dei luoghi preziose per i cittadini e soprattutto per gli amministratori, oltre che per noi professionisti, sottolineato con forza il ruolo e il contributo fondamentali dell’architettura nella trasformazione e nella rilettura dello spazio urbano. Questo risultato positivo insieme agli esiti registrati da altre esperienze, promosse e realizzate dal nostro Ordine negli ultimi tempi, ci spingono a rafforzare il percorso in questa direzione” (Massimo Crusi). “Concentrando l’attenzione su Piazza Mazzini”, conclude Flavio De Car- 52 Trecentomila idee Luciano Baldi, Giuliana Baldi e Francesco Danielli 3° classificato lo, “abbiamo proposto un esercizio progettuale delicato e difficile per i livelli di significato urbano che proprio Piazza Mazzini racchiude in sé. Come fare i conti con la storia urbana e sociale della città a partire dal ‘disegno’ dello spazio urbano. I progetti pervenuti ed esposti in mostra non hanno fornito risposte chiuse ai quesiti posti dal bando, lasciando spazio a nuovi interrogativi. Trecentomilaidee ha fornito un’oc- casione per proporre prospettive e stimoli a modificare il punto di vista sui fenomeni di trasformazione urbana, suggerendo tra le righe della loro sfuggevolezza chiavi interpretative per la soluzione di problemi che, non necessariamente, devono essere ricondotti a categorie codificate. Non dimentichiamo, tra l’altro, che il Concorso voleva essere anche un contributo a reinventare Eutopia nel percorso di Lecce 2019 Capitale della cultura. Le Utopie si nutrono di spirito creativo, generando il cambiamento e tracciandone il percorso in direzioni talvolta inaspettate. Anche per questo abbiamo immaginato, insieme ai promotori, che il modo migliore di condividere con l’intera città lo spirito del Concorso d’Idee potesse essere quello della votazione on line, chiamando i cittadini a misurarsi con i progetti e la natura in divenire della Piazza”. Trecentomila idee Antonio Longo, Loris Causo, Marco Causo, Marco Mazzotta 2° classificato 54 news DisegnareRicucireGovernare Per una nuova valigia degli attrezzi Una mappatura delle buone pratiche. Un Archivio delle idee e dei progetti. Una valigia degli attrezzi. Una esercitazione multidisciplinare. È tutto questo (e molto altro ancora) il progetto “Di.Ri.Go”, disegnare_ricucire_governare le periferie, elaborato dalla Commissione Cultura della Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia e che già si avvale di un Protocollo d’Intesa con il Comune di Lecce. “Spesso guardiamo le cose con occhio rivolto troppo indietro”. È con una citazione di Mario Cucinella (da un’intervista sul valore delle periferie nel dibattito contemporaneo), che si entra nel vivo del progetto il cui obiettivo è “promuovere e suscitare una riflessione accurata e approfondita sul tema delle periferie urbane immaginando nuovi scenari in ottica smart city per costituire, grazie ai materiali prodotti, una valigia degli attrezzi, una mappa delle possibilità e delle esperienze che verrà messa a disposizione del territorio pugliese. A partire da un oggetto specifico, si disegna dunque un metodo più complessivo che informerà le attività della Commissione culturale della Federazione pugliese nel Programma quadriennale: costituire occasione di discussione e disseminazione di buone pratiche ed esperienze per l’intera Puglia”. E ancora: “Nonostante attualmente non abbiano una specifica identità, siano diffuse ma spesso non definite, le periferie sono i “potenziali luoghi” in cui si gioca il futuro delle città metropolitane. Perché accada, il problema periferia non si può risolvere operando con le tradizionali politiche di interventi settoriali ma con interventi che coinvolgano il processo generale di modernizzazione e riorganizzazione fisica e funzionale della città e che, contemporaneamente, abbiano carattere integrato e trasversale, siano ispirati al modello urbano smart city. Negli ultimi anni il concetto di smart city è entrato a far parte in misura crescente della riflessione dedicata alla costruzione dello spazio urbano, inglobando importanti sfide come l’attenzione allo sviluppo sostenibile e il miglioramento della qualità della vita. Le Periferie hanno le potenzialità per divenire un importante laboratorio progettuale per interventi smart. (…) Si deve ripartire, dunque, da un lato, da piccoli interventi di messa in sicurezza, di demolizione e di progettazione di nuovi spazi pubblici; dal restituire qualità al disegno urbano così come ai fronti degli edifici, dal ridare energia alle piccole e medie imprese così come all’economia locale e alla creatività dei cittadini; dall’altro, dallo studio delle possibili relazioni e interconnessioni che queste aree possono avere con il resto della città: strade, tangenziali, metro e qualsiasi altro tipo di mobilità urbana che favorisca lo scambio e l’interazione. Lo scopo è creare luoghi nuovi, luoghi dove lavorare, studiare, ideare, far partire start up e co-working, sperimentare nuovi servizi smart. Luoghi interattivi. Luoghi a cui dare nuove funzioni per fruitori diversificati. Luoghi da occupare con entusiasmo. Luoghi da condividere e da comprendere. Luoghi di cui recuperare valore storico, economico ed umano. Le figure professionali coinvolte in questo processo di ricostruzione del valore delle periferie sono molteplici e devono tutte collaborare nella fase di condivisione dell’idea, dell’analisi dei bisogni e nella sintesi progettuale. Così concettualmente pensata, la periferia potrà e dovrà essere disegnata - ricucita governata, coinvolgendo i cittadini alla “vita dentro”. Call for paper (rivolta alla comunità nazionale e internazionale degli architetti e a tutti coloro che si sono misurati con il tema della periferia), workshop, seminari, convegni, mostre, concorsi di idee e concorsi di architettura: queste le attività in cantiere. “Con Di.Ri.Go intendiamo sottolineare l’urgenza di una pratica di lavoro, teorica e insieme concreta, sullo stato dell’arte delle nostre periferie”, afferma Massimo Crusi, Presidente Federazione degli Ordini degli Architetti PPC di Puglia. “L’obiettivo è sollecitare interventi che analizzino le condizioni attuali (il disegno architettonico ed economi- co esistente), quelle eventuali di progetto (il disegno architettonico sociale ed economico immaginato), le esperienze di ricucitura urbana, architettonica, sociale ed economica e i metodi per il governo di quanto immaginato o già realizzato per individuare buone pratiche o idee nuove per la strutturazione di un metodo. Anche grazie al Protocollo d’intesa già siglato con l’Amministrazione comunale, Lecce avrà la funzione di apripista, progetto pilota dove l’azione verrà sperimentata per essere poi riproposta nelle altre città pugliesi”. Riqualificare, rigenerare Con un Protocollo il giro di boa Sostenere la riqualificazione e la rigenerazione urbana attraverso la realizzazione di uno strumento per la valutazione economico-finanziaria degli investimenti pubblico-privati negli interventi di riqualificazione urbana. È l’obiettivo del Protocollo d’Intesa siglato a Bari il 6 novembre scorso tra Regione Puglia, Anci Puglia, Ance Puglia, Abi Puglia, Federazione Regionale degli Ordini degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della Puglia, Consulta Regionale Ordini degli Ingegneri di Puglia, Politecnico di Bari. Un Protocollo che, pur sottolineando la rilevanza strategica della riqualificazione e rigenerazione urbana nelle dinamiche di trasformazione territoriale e il grande impulso impresso dalla Regione in questa direzione, al contempo rileva una scarsa dinamicità da parte degli enti territoriali e più in generale degli attori sociali potenzialmente interessati. Con il fondato timore che la rigenerazione e la riqualificazione possano incagliarsi nelle secche causa il venir meno di risorse straordinarie destinate e più in 56 generale una non compiuta ‘rivoluzione’ culturale capace di coinvolgere appieno anche i privati e più in generale Istituzioni e mondo delle professioni. L’obiettivo è evidente: “l’iniziativa – normativa e finanziaria – ha lo scopo di incidere sull’azione ordinaria delle amministrazioni locali, promuovendo la riqualificazione urbana quale alternativa sostenibile all’espansione urbana e consentendo ad essa di attuarsi con programmi di adeguato rilievo, che comportino la partecipazione di investimenti privati”. E ancora: “La riqualificazione urbana e territoriale è attività complessa che richiede sia un progressivo cambio di mentalità nei comportamenti imprenditoriali e amministrativi, sia un uso mirato di finanziamenti pubblici, sia la definizione di strumenti tecnico-amministrativi che favoriscano la formazione di validi programmi di intervento e la loro approvazione in tempi non solo rapidi a soprattutto certi”. Perché la rigenerazione possa divenire a pieno titolo un paradigma dell’azione amministrativa il Protocollo favorisce dunque un’azione di sistema, coinvolgendo tutti i soggetti attori della riqualificazione nella definizione dello strumento necessario alla valutazione economico-finanziaria degli investimenti pubblico-privati. “Come Federazione”, è stato affermato nel corso della presentazione, “mettiamo a disposizione i materiali di studio già prodotti sul tema ma soprattutto una linea di lettura dello stato dell’arte e delle azioni necessarie elaborata in questi anni. Se è vero che le città sono lo spazio privilegiato della qualità territoriale, della produzione di relazioni sociali, dello sviluppo economico, è altrettanto vero che la trasformazione non può avvenire solo per input istituzionale, in questo caso la Regione, ma deve essere un processo costante capace di coinvolgere tutti i segmenti sociali. Solo così anche la manutenzione potrà divenire azione costante, monitorata e monitorabile nel tempo e, in prospettiva, un elemento di gestione virtuosa delle risorse sia pubbliche sia private”. Dagli uffici tecnici agli architetti Tutti a scuola di PPTR Il Piano Paesaggistico Territoriale della Puglia alla luce della sua attuazione: è il filo rosso che ha caratterizzato il percorso di accompagnamento (per i Responsabili dei Procedimenti di rilascio delle Autorizzazioni Paesaggistiche e i componenti delle Commissioni Locali del Paesaggio) e di formazione (per i professionisti) promosso dalla Regione Puglia congiuntamente con la Direzione regionale dei Beni culturali e Paesaggistici della Puglia, Innova Puglia, Inarch, e che ha visto nella Federazione regionale degli ordini degli Architetti PPC di Puglia l’alleato territoriale strategico. Per dirla in altre parole, e come ha più volte ribadito la Federazione degli Ordini degli Architetti pugliesi, l’attuazione del PPTR non è esclusiva materia degli Uffici Tecnici e delle Commissioni paesaggistiche ma, perché il Piano possa essere concretamente strumento di salvaguardia e tutela del territorio oltre che di incubazione del futuro territoriale della Puglia, deve divenire ‘pane quotidiano’ di tutti i professionisti coinvolti nella sua attuazione, in primo luogo gli architetti. Su proposta della stessa Federazione, condivisa dagli altri ordini professionali regionali (Agronomi, Geologi e Ingegneri) e in collaborazione con gli stessi, i professionisti iscritti agli ordini professionali hanno potuto seguire la gran parte delle attività formative in diretta streaming nelle sedi decentrate della Regione Puglia, nelle sedi dei sei Ordini pugliesi e, per il Basso Salento, nell’Auditorium di Casarano. D’altra parte erano stati proprio i Laboratori di Ascolto sull’attuazione del PPTR promossi nel settembre scorso dall’Ordine di Lecce a Galatina, Nardò, Maglie, Gallipoli, Tricase, Lecce e dagli altri Ordini nei territori di riferimento, a far emergere la necessità di approfondimenti tematizzati e mirati. Soprattutto, di un coinvolgimento pieno degli architetti nell’attuazione perché la relazione con gli Uffici Tecnici e le Commissioni Paesaggistiche evitasse l’ingenerarsi di conflitti e di contenziosi permettendo al Piano di esplicare compiutamente la sua funzione di tutela e salvaguardia del paesaggio. Strutturato in 15 incontri, con gli ultimi quattro dedicati ai diversi ambiti territoriali pugliesi, il percorso di approfondimento ha avuto come obiettivo quello di agevolare la transizione dal Piano Paesaggistico - PUTT al nuovo PPTR per “migliorare l’efficacia e l’efficienza nell’esercizio delle funzioni paesaggistiche delegate da parte degli enti locali e contribuire alla formazione dei professionisti del settore pubblico e privato per offrire alle istituzioni e all’insieme del corpo sociale e civile professionisti competenti nella progettazione paesisticamente orientata”, evidenziando la natura complessa del PPTR, allo stesso tempo atto normativo ed evento culturale “in quanto le trasformazioni che esso è in grado di indurre non si possono misurare solo con la sua cogenza tecnico-normativa, ma anche con la capacità di trasformazione delle culture degli attori che quotidianamente producono il territorio e il paesaggio”. Il PPTR, sottoscritto a Roma il 16 gennaio scorso dal Presidente Vendola e dal Ministro Franceschini, è il primo piano sottoscritto in Italia sulla base degli adempimenti previsti dal Codice dei Beni culturali e del Paesaggio del 2004. Sicurezza degli edifici 120 architetti per la Protezione civile Adesso il passo successivo potrà essere un Sistema della Protezione civile degli architetti. Forte dei 120 architetti, in prevalenza giovani, specificamente competenti in attività di monitoraggio e verifica della sicurezza degli edifici nella gestione dell’emergenza sismica, a disposizione della Protezione civile nazionale regionale, formatisi nel Primo corso per la formazione degli architetti ai fini della Protezione civile in Puglia. Tenuto da esperti della materia, durato complessivamente 3 mesi, il Corso promosso e organizzato dalla Federazione degli Ordini Architetti di Puglia con la collaborazione e il coinvolgimento di tutte le sedi territoriali, ha rappresentato in Puglia una vera e propria novità e un approdo lungamente e tenacemente perseguito. “Ci sono voluti anni”, sottolinea Gaetano Centra, Presidente Ordine Architetti Foggia, Coordinatore regionale Protezione civile della Federazione, “ma alla fine grazie al protocollo di intesa tra il CNAPPC e la Protezione civile si è disciplinata l’attività formativa sul tema della gestione tecnica dell’emergenza e dell’agibilità post-sismica, permettendo agli Ordini professionali riuniti in Federazioni e Consulte di intraprendere l’organizzazione di percorsi formativi qualificati. Oltre al suo “concreto” significato di ciclo formativo qualificato, che ha innescato tra l’altro un proficuo ed efficace rapporto di collaborazione tra il sistema ordinistico degli architetti e gli organismi nazionali e regionali di Protezione Civile, è da evidenziare il forte segnale - in questa iniziativa - di una esplicita volontà di sensibilizzazione alla consapevolezza del delicato equilibrio del territorio su cui viviamo. 58 Beni storico-artistici La competenza è degli architetti Federazione Regionale Ordini Architetti PCC di Puglia Corso di formazione verifica sicurezza degli edifici Aquila, 2013 Formazione intesa come approccio alla pianificazione e preparazione alle emergenze nonché come prevenzione per arginare e limitare nuove situazioni di pericolo. Mi auguro che questo sia solo il primo atto di un percorso virtuoso con il quale si susseguiranno ulteriori iniziative finalizzate anche ad una proposta di una normativa che “incentivi” la demolizione di edifici di scarsa qualità costruttiva con la ricostruzione di nuovi edifici sicuri, realizzati con le ultimissime tecnologie antisismiche sperimentate e collaudate nel territorio dell’Aquila, con il riconoscimento di ragionevoli incrementi di cubatura. Naturalmente per questo è necessario un grande lavoro di sensibilizzazione e una grande opera di coinvolgimento dei privati, sia proprietari delle abitazioni che delle imprese. La posta in gioco è la sicurezza del territorio e la tutela della vita umana”. La Sentenza del Consiglio di Stato è netta: per i beni architettonici di rilevanza storico-artistica progetti e direzione dei lavori sono di esclusiva competenza degli architetti. Lo afferma il Consiglio di Stato, mettendo così fine ad una discussione che si trascinava nel tempo, lo ribadisce il Ministero dei Beni culturali – Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee con una circolare inviata nel marzo 2014 alle Direzioni generali per i Beni paesaggistici, lo sottolinea nuovamente il Soprintendente per i Beni architettonici e paesaggistici di LecceBrindisi-Taranto, architetto Canestrini, con una comunicazione del gennaio scorso inviata stavolta a tutte le stazioni appaltanti pubbliche nel territorio di competenza, alle Curie, agli Ordini professionali “rammentando il rispetto della normativa vigente in materia di competenze professionali per la progettazione ed esecuzione di interventi sui beni culturali”. La comunicazione della Soprintendenza, relativa all’istanza di autorizzazione di progetto, rafforza dunque quanto già comunicato nei mesi scorsi dalla Federazione degli Ordini degli Architetti di Puglia a tutti gli enti territoriali della Puglia e alle Soprintendenze, con il duplice obiettivo di informare su quanto disposto dai giudici e soprattutto evitare l’insorgere di spiacevoli contenziosi circa incarichi, bandi pubblici, appalti, evidenziando il ruolo dell’architettura nei progetti di restauro dei beni storici. “Con la Sentenza”, si legge nella lettera inviata dalla Federazione, “il Consiglio di Stato si esprime in modo definitivo sulla legittimità dell’esclusione della categoria professionale degli ingegneri dal conferimento di incarichi afferenti la direzione dei lavori da eseguirsi su im- mobili di interesse storico-artistico, considerati in via esclusiva di competenza degli architetti. Più precisamente, i giudici affermano che l’attività di direzione dei lavori su immobili di interesse storico artistico non può essere ricondotta ad attività di mero rilievo tecnico, non potendo essere esercitabile dai professionisti ingegneri, ma essendo riservata alla sola professione di architetto. Ne consegue, sempre secondo la Sentenza, e in coerente applicazione dell’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925, che devono ritenersi precluse agli ingegneri la partecipazione alla gara per l’affidamento del servizio di direzione dei lavori e di coordinamento della sicurezza sugli immobili di interesse storico-artistico”. “Tutti i nostri interlocutori”, auspica la lettera “sapranno e vorranno rispettare quanto contenuto nella Sentenza che ribadisce un principio importante di natura soprattutto culturale, strettamente connesso alle nostra specifica preparazione coerente con la tutela del patrimonio monumentale del Paese. La sentenza infatti non impedisce la possibilità che altri professionisti tecnici partecipino ai restauri, in una necessaria e auspicabile sinergia di saperi e competenze. Indica solo che, per legge, la responsabilità e il coordinamento dei lavori devono essere degli architetti e che, peraltro, sarebbe sbagliato tirare per i capelli le Direttive comunitarie piegandole verso una equiparazione delle due professioni. Equiparazione che viceversa, a tutela di tutti, il Consiglio di Stato recisamente esclude”. Lecce recupero delle Mura Urbiche 60 riletture la condizione del presente Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, di Vezio De Lucia, urbanista, pubblicato nel 1989 e riedito nel 1992 e nel 2006, ripercorre le vicende delle città italiane nella seconda metà del XX secolo. Vicende che hanno portato l’Italia, all’alba degli anni Novanta, in una condizione di degrado, inquinamento, abusivismo e distruzione dell’ambiente naturale e del patrimonio culturale paragonabile a quella di un paese del Terzo mondo. Il libro, unanimamente considerato un classico della letteratura territorialista italiana, “rimane” come lucidamente diceva Pietro Bevilacqua nell’introduzione alla terza edizione, “(…) un testo drammaticamente aperto sul nostro presente. Ci mostra il come siamo arrivati fin qui e al tempo stesso ci comunica la sua incompiutezza di testimonianza di fronte a una realtà che appare come proseguire nei fatti, con immutata gravità” e che, come scriveva Antonio Cederna nella prefazione della riedizione del 1992, “sarebbe da rendere obbligatorio nella scuola e nelle università” perché da qui “chi si accinge a fare l’architetto imparerà quali sono le cose serie da studiare e capire per evitare di farsi complice dello sfacelo”. De Lucia muove dalla promulgazione della legge urbanistica del 1942 e dai ritardi degli organi di Governo nell’approvazione degli strumenti urbanistici, in nome dell’emergenza della ricostruzione la cui conseguenza fu il dilagare del cemento su tutto il territorio. Racconta poi degli anni della speculazione edilizia sino al 1966, quando gli eventi tragici della frana di Agrigento e dell’alluvione di Firenze accesero l’attenzione sulla necessità di porre un freno al disordine urbanistico ed edilizio e spinsero alla proposta e alla successiva approvazione, nel 1967, della cosiddetta Legge-ponte. Prosegue dunque con la descrizione degli errori e degli orrori italiani: l’insediamento siderurgico nella piana di Gioia Tauro, l’Alfa sud di Pomigliano d’Arco, le buone occasioni perdute o abbandonate nel loro sviluppo, il Peep centro storico di Bologna, il recupero dei Sassi di Matera, il progetto dei Fori imperiali a Roma. E il racconto dei rari casi esemplari, il piano di Assisi di Giovanni Astengo, il piano di Firenze di Edoardo Detti, il piano di Bologna di Giuseppe Campos Venuti prima e di Pier Luigi Cervellati poi, quelli di Modena e Brescia di Leonardo Benevolo. Il quadro che emerge sembra dar ragione all’autore nell’affermare che “forse è improprio parlare di crisi dell’urbanistica (…). È in crisi un modo di intendere la politica. È in crisi cioè la capacità dei pubblici poteri di dare risposta al disagio per la condizione urbana”. La storia recente italiana, con la vicenda del Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, le tangenti per l’Expo di Milano, il crollo della scuola di San Giuliano di Puglia e il più recente collasso del territorio tra frane e alluvioni, ci dimostra ancora una volta quanto sia necessario riconoscere le ragioni del disastro, quanto sia importante non dimenticare e quanto un libro come quello di Vezio De Lucia sia ancora oggi indispensabile per poter pensare ad un futuro di protezione e governo dell’intero habitat nazionale, per non incorrere più negli errori del passato. (s.g.) Immagini tratte dal film “Le mani sulla città” regia di Francesco Rosi 62 recensioni L’amica geniale narrare una periferia Dicono che sia un romanzo, più precisamente un romanzo di formazione, sull’amicizia tra due donne, Raffaella (Lila/Lina) ed Elena (Lenù), narrate in un arco cha va da un’infanzia sdrucita e meravigliosa a un’età adulta inquieta, disincantata ma ancora capace di riconoscimento, verità, amore, cura. Dicono che sia un romanzo sull’Italia, sulla storia degli ultimi 60 anni di un paese irrisolto. Eppure come già con un’altra scrittura non a caso anche questa con epicentro Napoli, anzi Caserta, quella di Antonio Pascale con “La Città distratta”, “Ritorno alla città distratta” e “La manutenzione degli affetti”, i quattro volumi che Elena Ferrante dedica a “L’amica geniale” (Edizioni e/o) sembrano voler riflettere anche su come sia possibile, oggi e qui, scrivere dei luoghi, sul loro rispecchiare e a un tempo generare le vite di coloro che li abitano e che, in qualche modo, ne sono anche inconsapevolmente modellati. Fin dalle prime pagine del primo libro ecco infatti venire avanti il quartiere con le scale buie che portano gradino dopo gradino, rampa dietro rampa, alla porta dell’appartamento di don Achille (ed è lì, in quelle scale buie, che s’avvia l’amicizia misteriosa e tenace di Lila e Lenù), nella luce violacea del cortile, negli odori di una serata tiepida di primavera. Ecco gli attributi del rione, la polvere, la precarietà delle case, i muri scrostati, la linea della Ferrovia che diviene orizzonte possibile immaginato sognato desiderato per un’altra vita e che proprio per questo è maledettamente difficile oltrepassare, attraversare, sfidare. Ecco le viscere del rione, quello scantinato (che rinvia ad altri segreti celati nelle famiglie, ad altre oscurità su chi comanda nel quartiere facendo il bello e cattivo tempo, decretando fortune disgrazie) che affascina così tanto le due bambine, in cui si rifugiano: “la cosa che ci attraeva di più era l’aria fredda dello scantinato, un soffio che ci rinfrescava in primavera e d’estate. Poi ci piacevano le sbarre con le ragnatele, il buio, e il reticolo fitto che, rossastro di ruggine, si arricciolava sia dal lato mio che da quello di Lila, creando due spiragli paralleli attraverso i quali potevamo far cadere nell’oscurità sassi e ascoltarne il rumore quando toccavano terra. Tutto era bello e pauroso, allora”. Il quartiere, il cui nome non viene mai detto ma evocato, è l’unico mondo possibile, è un far west, un’epica quotidiana, è un continuo rimescolamento di ciò che è buono e di ciò che male, impossibile da dividere e da distinguere, e tutto questo e per sempre attraverso gli occhi di Lila e Lenù. È la storia di una edilizia economica e popolare che già Anna Maria Ortese ne “Il mare non bagna Napoli” aveva narrato; case senza dignità, letteralmente perdute nella città e a se stesse, camere sovraffollate, scorticate, lacerate, dove la legge economica del profitto tracima tutto. Eppure in quelle case, in quelle piazze mai adeguatamente lastricate o asfaltate o pavimentate, in quei giardinetti stinfi assetati d’acqua e di buona terra non c’è un’umanità ‘solo’ dolente, non c’è solo miseria o degrado. La vita ha una forza che nessun Piano regolatore, nessun assessorato all’urbanistica potrà mai ingabbiare, sembra ricordarci Elena Ferrante. La materia della vita ovvero le relazioni nelle loro infinite gradazioni, nella loro molteplicità, nella loro grazia comunque e dovunque, nel loro essere dilaniate, nel loro produrre infime complicità numinose alleanze. Il quartiere, questa periferia ai margini della città che nella città non si avventura quasi mai, ne resta a bordi, non riesce a siglare patti, è soprattutto questo: un infinito gioco del senso. Tra le quinte di una periferia miserabile (il Rione Ferrovia?), tra una folla di personaggi minori accompagnati lungo il loro percorso con attenta assiduità (gli stessi lazzari felici, forse, di Enzo Striano) colei che narra svela e contemporaneamente rimescola le carte: e, scavando nella natura complessa dell’amicizia tra due bambine poi ragazzine poi donne, allo stesso tempo racconta un luogo e fa di questo luogo la metafora di una città e di un paese intero. Il sogno del miracolo economico, la sconfitta a Torino del movimento operaio e dell’opzione riformista con la marcia dei quarantamila, il terrorismo, l’economia malata, la camorra, la violenza: tutto si riverbera nel quartiere, tutto qui si tiene, si incrocia, si influenza reciprocamente, persino l’intellettuale di estrema sinistra eletto infine parlamentare con la destra. La storia investe il Rione, Napoli, l’Italia e sembra che, per qualche miracolo, nel Rione sia stata anticipata, già conosciuta, anche solo di qualche giorno. La scrittura di Elena Ferrante non è ‘fuori’, esterna od estranea alla materia del narrare. Lo ha detto lei stessa, nel corso di una intervista (ma vale la pena ricordare che Elena Ferrante è un nome de plume): “Credo che “mettere distanza” tra esperienza e racconto sia un po’ un luogo comune. Il problema, per chi scrive, è spesso il contrario: colmare la distanza; sentire fisicamente l’urto della materia da narrare, avvicinare il passato delle persone a cui abbiamo voluto bene, delle vite come le abbiamo osservate, come ci sono state raccontate. Una storia, per prendere forma, ha bisogno di superare moltissimi filtri. Spesso cominciamo a scriverla troppo presto e le pagine vengono fredde. Solo quando la storia ce la sentiamo addosso in ogni suo momento o angolo (e a volte ci vogliono anni), essa si lascia scrivere bene”. Il rione non è semplicemente il luogo in cui accadono le vite, la cosiddetta location dei set cinematografici. La vita umana e lo spazio qui sono indissolubilmente (ferocemente, ingordamente, tristemente) legati. E i volti assumono il colore dei luoghi, la loro tristezza, la loro sorda violenza, come accade al proletariato urbano nella fabbrica di salumi. Ha scritto a suo tempo Annalena Benini, prima ancora che il quarto volume fosse in libreria: “L’amica geniale” è una trilogia (ma potrebbe uscire un quarto libro, e anzi dovrebbe, adesso che Lila, a sessantasei anni, è scappata di casa e forse ha per la prima volta nella sua vita lasciato Napoli: dobbiamo sapere che succede, dobbiamo vederla finalmente vivere), questi tre romanzi che raccontano gli anni Cinquanta, poi i Sessanta, i Settanta da una postazione laterale e violentissima in cui il mondo arriva sempre, sono il racconto epico di una grande amicizia, qualcosa di più che una storia d’amore, molto di più che una storia di donne. È la storia del mondo, la lotta contro le origini, la vertigine della libertà e il fascino terribile che esercita l’infelicità, attraverso la guerra di due bambine con la faccia sporca che tira- no le pietre contro i maschi, Elena senza troppa convinzione, Lila “con una determinazione assoluta”, poi le bambine diventano ragazze, donne, hanno e usano uomini che restano sullo sfondo e un solo uomo, per entrambe, di fronte a loro non impallidisce, fuggono oppure restano”. Alla fine, Lina e Lenù diventano un destino solo, storia di chi va e di chi resta. In questo andare e restare è racchiuso, anche, il destino di una periferia urbana condannata in qualche moda a replicare se stessa all’infinito se non al prezzo di smontare accuratamente il meccanismo che l’ha prodotta. Questo ci dice l’amicizia tra le due donne. Che smontare il meccanismo è doloroso, costa intelligenza e – forse – anche complicità affettive ma alle fine produce alleanze e cura del mondo. Inconsapevole felicità. Nella periferia di Elena Ferrante accorgersene è più immediato, ci sono meno passaggi, più evidenze. Il Rione è veramente il meccanismo intimo della città, il suo orologio segreto, la lettera rubata. E cambiare le cose significa molto di più che accontentarsi di una mano di asfalto. www.marullocostruzioni.it 0832 875438 Via Francia 7 (Zona Industriale) 73021 Calimera (Le) www.gravili.com 0833 564081 Zona Industriale, Galatone (Le) S.S. 101 km 19,10 www.guidopavimenti.it Tel. 0832 873545 - Fax 0832 876161 [email protected] Strada Provinciale Calimera, Castrì di Lecce 73020 (Le) www.panaria.it Tel. +39 0535 95111 - Fax +39 0535 90503 Via Panaria Bassa, 22/a 41034, Finale Emilia (Modena) - Italy