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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana
Anno V - N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Annibale il liberatore
La proposta
di koiné Padana
del Guazzo
L’estinzione
dei Padani
Urbanistica
protostorica
padana
Quale cultura
per l’ecologismo
Il modello bretone
per la rinascita
culturale della Padania
24
La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara
Direttore Responsabile:
Alberto E. Cantù
Direttore Editoriale:
Gilberto Oneto
Redazione:
Alfredo Croci
Corrado Galimberti
Flavio Grisolia
Elena Percivaldi
Andrea Rognoni
Gianni Sartori
Carlo Stagnaro
Alessandro Storti
Grafica:
Laura Guardinceri
Collaboratori
Giuseppe Aloè, Camillo Arquati, Fabrizio Bartaletti, Alina Benassi Mestriner,
Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Diego Binelli,
Roberto Biza, Giorgio Bogoni, Giovanni
Bonometti, Romano Bracalini, Nando
Branca, Ugo Busso, Giulia Caminada
Lattuada, Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti,
Massimo Centini, Gualtiero Ciola, Carlo
Corti, Michele Corti, Mario Costa Cardol, Giulio Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Alexandre Del Valle, Corrado Della
Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco
Dotti, Leonardo Facco, Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini, Alberto Fossati, Sergio Franceschi, Carlo Frison,
Giorgio Fumagalli, Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Giacomo Giovannini, Michela
Grosso, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Alberto
Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo Maggi, Andrea
Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Ettore Micol, Renzo Miotti,
Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna,
Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Alessia
Parma, Giò Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela Piolini, Francesco Predieri,
Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Laura
Rangoni, Igino Rebeschini-Fikinnar,
Giuliano Ros, Sergio Salvi, Lamberto
Sarto, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura Scotti, Marco Signori, Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Candida Terracciano, Mauro Tosco, Nando
Uggeri, Fredo Valla, Giorgio Veronesi,
Antonio Verna, Alessio Vezzani, Eduardo Zarelli.
Spedizione in abbonamento postale:
Art. 2, comma 34, legge 549/95
Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041
Arona NO
Registrazione: Tribunale di Verbania:
n. 277
Periodico Bimestrale
Anno V - N. 24 - Luglio-Agosto 1999
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla
“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.
In ricordo dell’Highlander di Padania
Per essere rispettati bisogna essere rispettabili - Brenno
Annibale il liberatore - Marco Signori
Una riflessione sul modello di koiné padana
proposta dal Guazzo - Andrea Rognoni
L’estinzione dei Padani - Gilberto Oneto
Urbanistica protostorica padana - Confronto
tra Vicenza paleoveneta e Milano celtica - Carlo Frison
Quale cultura per l’ecologismo - Eduardo Zarelli
La rinascita di una cultura attraverso l’esempio bretone:
modello per la Savoia e per la Padania? - Pascal Garnier
Biblioteca Padana
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In ricordo dell’Highlander
di Padania
Q
uesta estate se ne è andato Giorgio Veronesi. Tutti lo ricorderanno come uno dei più
abili avvocati ambientalisti, come un uomo coltissimo e raffinato, come un agguerrito
difensore dell’architettura e del paesaggio (soprattutto del suo Lario), come il competente e
inflessibile amministratore di Vercelli e
della Provincia comasca, e soprattutto
come uno dei soci
fondatori de La Libera Compagnia Padana. Giorgio è stato
uno dei cinque “svitati” che una sera del
marzo 1995 hanno
firmato l’atto costitutivo della nostra
Associazione di cui è
sempre stato uno degli animatori più sagaci.
Noi però preferiamo ricordarlo come
un amico simpatico,
come un irruento indipendentista, come
un arguto conversatore, come l’indomabile combattente di
cento battaglie ambientaliste e padaniste.
Sulla difesa del
territorio e della cultura dell’architettura popolare non ammetteva
deroghe, non accettava compromessi: sosteneva
le sue convinzioni con linearità calvinista e con
una caparbietà di ferro, resa gradevole dalla sua
intelligenza, dalla sua brillante cultura e dalla
sua cordialità.
Quanto era affabile e gioioso nei modi, tanto
era inflessibile nella difesa di principi sacrosanti
che ha sempre perseguito con onestà e con coeAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
renza fino a rinunciare a importanti cariche
amministrative, pur di non accettare oscuri sotterfugi o gli ambigui compromessi cadregari di
sedicenti padanisti.
Noi rimpiangeremo il suo entusiasmo, le sue
citazioni divertenti e divertite, la maniera elegante e spiritosa con
cui riusciva a ridicolizzare tromboni, gasati e supponenti.
Noi rimpiangeremo
soprattutto la sua vitalità, la scanzonata
baldanza con cui ha
affrontato guai fisici
che avrebbero abbattuto un bisonte: ha
superato interventi
chirurgici delicatissimi con l’irruenza
spavalda di un ventenne. Ogni volta ricompariva più gagliardo e pieno di vita
fino a guadagnarsi
fra gli amici l’affettuoso appellativo di
Highlander padano,
il guerriero destinato
all’immortalità.
È caduto in piedi, all’improvviso, come
fanno i combattenti
veri, ormai sicuro di
essersi guadagnata
l’immortalità del nostro ricordo e del nostro affetto. Ma non solo
quella: siamo certi che, il giorno in cui - secondo una delle più antiche convinzioni radicate
nell’immaginario delle nostre genti - l’armata
composta dai combattenti di oggi e da quelli caduti in duemila anni di battaglie libererà per
sempre questa Terra, ci sarà la sua bella risata
ad accompagnare la vittoria delle nostre bandiere e la rotta dei nemici di sempre.
Quaderni Padani - 1
Per essere rispettati
bisogna essere rispettabili
N
elle ultime elezioni europee i movimenti
autonomisti hanno nel loro complesso subito una severa sconfitta. Identica (e più
accentuata) sorte ha patito il maggiore partito
padanista. Fra le motivazioni del disastro alcune sono generali e riguardano tutti gli autonomisti (il frazionismo eccessivo, l’alto tasso di
rissosità, un eccesso di localismo deteriore, eccetera), e altre sono specifiche delle
singole realtà. Molte sono
esterne e altre sono interne. Sul numero 17 dei
Quaderni Padani era
stata fatta una lunga riflessione su
questo argomento, che
non è purtroppo servita a granché,
visti i risultati. Quasi
tutto quello
che vi si diceva si è dimostrato giusto ma nulla è
stato fatto per
cercare qualche
tempestivo rimedio.
Le ragioni esterne
sono rimaste tutte, rese
più forti dall’efficienza degli avversari e dal loro formidabile apparato propagandistico, utilizzato con grande spregiudicatezza e abilità: il
successo di Emma Bonino e di Forza Italia ne
sono la conferma.
Sono purtroppo rimaste anche tutte le ragioni interne, addirittura aggravate dal tempo e incattivite dalla sconfitta.
La prima di queste ragioni è la sempre più
scadente qualità del personale dirigente leghi2 - Quaderni Padani
sta. Si è drammaticamente avverata la conseguenza della notissima e semiseria Legge di
Murphy (“Se qualcosa può andar male, lo farà”)
ma sembra che questo sia successo soprattutto
a causa di un suo più serioso corollario, il cosiddetto Principio di Peter: “In una gerarchia
ogni membro tende a raggiungere il proprio livello di incompetenza”. Quest’ultimo sembra
necessitare di una nuova variante
(che si adatta a larga parte delle realtà associative e organizzative): “Ciascheduno tende a circondarsi di gente di
qualità inferiore
alla propria”.
In pochi mesi
sul movimento padanista
si sono concentrati tutti i possibili
difetti ed errori
(in
realtà, spesso, risultato e
frutto di vizi e
deformazioni
vecchi di anni).
Il mondo padanista ha prodotto elaborazioni culturali,
spesso anche piuttosto
raffinate, in moltissimi settori tematici ma quasi tutto
questo patrimonio giace ignorato e
trascurato, ed è spesso saccheggiato da altre
forze politiche: l’immagine pubblica del movimento è sempre più piena di incompetenza e
approssimazione, e gli avversari sono abilissimi
nello sfruttare e nell’esagerare tali caratteri.
Sono stati in larga parte abbandonati i temi
classici (e vincenti) dell’autonomismo: lo sfruttamento economico, l’oppressione culturale e
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
politica, la cancellazione delle identità e le aspirazioni alle libertà e all’indipendenza. Ad essi si
sono gradualmente sostituite tematiche più generali, prese di posizione che implicano scelte
morali individuali (e senza nessun legame con
le istanze autonomiste), elucubrazioni fra il filosofico e l’esoterico, disquisizioni metapolitiche e ideologiche: tutti elementi di confusione,
distrazione e divisione.
Nel disegno sulle prassi per il raggiungimento dell’indipendenza e sui cammini istituzionali
si è raggiunta la massima nebulosità, in un groviglio di proposte e controproposte costituzionali e referendarie, in disegni divergenti di autonomie regionali, comunali o provinciali, nella
chiusura del dibattito sull’architettura istituzionale padanista.
Si sono disperse grandi e irriproducibili energie in iniziative confuse e distraenti (referendum abortiti, governi e parlamenti sublimati
nel nulla, moltiplicazione di associazioni) o in
avventure editoriali e televisive capaci di succhiare enormi quantità di denaro senza produrre nulla in termini di immagine, di diffusione di
idee o di aggregazione di consenso.
Si è continuato a relegare la cultura identitaria in un ruolo marginale e secondario, privilegiando istanze pseudoculturali deteriori o banali soprattutto nella gestione delle amministrazioni locali che non sono un volano di padanità
ma il prodotto dell’autorigenerazione di vecchie
prassi di gestione del potere.
Si è limitato lo spirito federalista e autonomista alla sfera dei più lontani obiettivi invece di
farlo diventare il motore propulsore e qualificante di tutta l’attività del movimento padanista: la gestione quotidiana della politica è troppo spesso centralista e autoritaria, non lascia
spazio alle differenze culturali e avvilisce di fatto la grande variegazione identitaria padana,
quasi considerata un intralcio invece che una
forza e una ricchezza.
Infine, la conduzione nebulosa e altalenante
del treno padanista ha di fatto favorito divisioni,
tradimenti, cadreghismo e propensione per il
compromesso. Troppo sovente il comportamen-
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
to del personale politico e amministrativo ha
ingenerato confusione sui temi e sugli obiettivi,
mutando radicalmente le condizioni iniziali in
obiettivi diversi (Gustave Thibon lo avrebbe
chiamato “irenismo”) trasferendo - ad esempio
- le tensioni ideali per le libertà indipendentiste
verso un generico federalismo o regionalismo, o
riducendo il tutto a una modesta propensione
per il “buon governo”, la “governabilità” o “il
cambiamento dall’interno”.
Oggi viene difficile cercare di proporre rimedi che non suonino come patetici e inutili tacconi. La sola soluzione sembra essere una molto radicale ricostruzione di tutta la macchina
padanista che abbia una chiara visione degli
obiettivi (la libertà e l’indipendenza della Padania e la costruzione di una entità istituzionale
federata fatta dell’unione delle Piccole Patrie
storiche) e dei mezzi per raggiungerli: rigenerazione di un movimento politico democratico,
aperto al dibattito, costituito da diverse componenti ideologiche, fortemente impregnato di
cultura identitaria, che rinunci alla gestione
spiccia del potere amministrativo (e quindi a
ogni compromissione cadreghistica) e che si
faccia rappresentare da gente presentabile, colta e civile.
Appoggi esterni possono anche essere concessi ad altre forze politiche ma solo in cambio di
precisi impegni programmatici finalizzati al
raggiungimento degli obiettivi padanisti o di
precisi impegni tematici (come il bilinguismo,
la toponomastica, la lotta all’immigrazione o la
proporzionale etnica) che diano il senso concreto del cambiamento e costituiscano visibili tappe di un preciso cammino di libertà.
Tutto deve essere infine avvolto in coerenti
rappresentazioni simboliche (oggi spesso scadute all’avvilente rango di improvvisata paccottiglia) che di questo cammino siano la sicura
componente segnaletica, la rassicurante e immutabile bandiera.
La nostra gente ha bisogno di solidi riferimenti culturali e di certezze nel suo cammino
verso la libertà.
Brenno
Quaderni Padani - 3
Annibale il liberatore
di Marco Signori
E’
l’autunno dell’anno 218
a.C.. Superate le Alpi,
un esercito cartaginese
forte di 26.000 uomini e 37
elefanti discende da Susa la
Valle della Dora ed entra in
Padania. Non viene come invasore, ma come liberatore
dall’odiato dominio di Roma. Le
comunità celtiche e liguri in attesa si sollevano come un sol uomo.
Sono trascorsi appena
sette anni dalla sciagurata giornata di
Talamone, nella
quale le forze
congiunte dei
Boi, dei Gesati,
degli Insubri e
dei Taurisci erano state distrutte
in battaglia da due
eserciti
romani:
scocca finalmente l’ora
della riscossa e della liberazione.
Dalla Fenicia a Cartagine
Annibale, figlio di Amilcare.
Più correttamente “Hann-i-ba ‘al”, che in lingua punica significa letteralmente “grazia di
Baàl”.
Baàl, divinità agreste dei Cartaginesi, la più
nota della religione fenicio-punica. Secondo la
propaganda filmografica romanista, un dio malvagio e sanguinario al quale venivano tributati
olocausti di giovinette. Più veridicamente, una
delle tante divinità risorgenti (mito e rito del
dio che muore alla mietitura e rinasce l’anno
seguente quando spuntano i germogli delle
nuove culture) delle religioni agricole siriache.
“Baàl” significa “signore” proprio come l’ebrai4 - Quaderni Padani
co “Adonai” (1), e viene attestato già nella
città fenicia di Ugarit (“Ras-ash-Shamrah”, all’estremità settentrionale della
costa siriana)(2) nel XIV secolo a.C..
Per quanto riguarda i sacrifici umani
poi, anticamente praticati un po’ dovunque, è da rammentare come essi
fossero largamente diffusi in tutto il
quadrante siriaco, financo nella forma
della vivicombustione del primogenito
eseguita da un personaggio prominente
come supporto a una preghiera da
esaudire, ancora nell’ultimo millennio a.C.. Ne
fa paradigma l’episodio biblico di Abramo e del figlio Isacco, ma sono storicamente attestati
Il
cosiddetto
“Busto di Annibale”, una delle poche
testimonianze pervenute di lui, già conservato al
Museo Nazionale di Napoli e
scomparso durante la seconda
guerra mondiale.
(1) Il terzo comandamento non consente agli Ebrei di pronunciare il nome del loro dio, rivelatosi come YHWH, cioè
Yahweh (Esodo 3, 14-15), perché “troppo grande”. La tradizione ebraica vuole quindi che il suo nome non venga mai
invocato, preferendosi le forme HaShem (il nome) oppure
Adonai (il Signore).
(2) A Ugarit, agli inizi del XIV secolo a.C., i Fenici operarono
il primo tentativo conosciuto di scrittura alfabetica, derivandolo da ideogrammi e fonemi sumero-accadici. Questo esperimento venne cancellato durante le invasioni dei “popoli
del mare” (1250-950 circa a.C.), che schiantarono anche la
civiltà micenea e disalfabetizzarono lo stesso bacino Egeo,
per essere poi reiterato attorno all’XI secolo a.C., generando
tutte le forme odierne di scrittura alfabetica, che quindi discendono da quella fenicia.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
i casi del re moabita (3) Mesha che sacrificò un
figlio al dio Kemosh durante l’assedio dell’850
a.C. circa e i re Achaz (circa 735 a.C.) e Manasseh (dal 687/6 al 642 a.C.) di Giuda, che sacrificarono i propri figli a Yahweh sul rogo.
Una civiltà antica, quella dei Fenici. Di estrazione linguistica cananea (4), quindi semitica (5)
e di antica tradizione commerciale. Secondo la
storiografia greca (6) essi, provenienti dai paesi
litoranei del Golfo Persico, si sarebbero stanziati sulla costa orientale del Mediterraneo orientale attorno al 2700 a.C. Ciò è dubbio, mentre è
certo che vi si erano già stabiliti agli inizi del II
millennio a.C.. L’attività marittima, che storicamente ne costituisce un profilo caratteristico,
non viene attestata tuttavia antecedentemente
al I millennio a.C.. Tra il 969 e il 936 a.C. Hiram
di Tiro fa fortuna commerciando diffusamente
nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, per conto di
Shelomo re d’Israele (7).
Il commercio nel Mediterraneo, dopo il crollo
cretese-miceneo, passa quindi in mano ai Fenici. Essi sviluppano la tecnica di navigazione
perfezionando la vela e il timone, fondano colonie fin oltre le Colonne d’Ercole, esportano
merci e materiali pregiati (vetrerie, tessuti tinti
con la porpora, oggetti in metallo prodotti in
serie, legno di cedro libanese per le costruzioni
di lusso).
I confini storici della Fenicia appoggiavano al
Casio a nord, al Carmelo a sud e al Libano a est.
Il paese era costituito da città-stato autonome, a
regime monarchico-oligarchico: Arado, Berito,
Biblo, Sidone e Tiro.
Sidone e Tiro erano i centri principali. Essi si
succedettero nel predominio: dal XII al X secolo
a.C. Sidone esercitò la propria egemonia, mentre Tiro, fondata proprio da coloni di Sidone,
raggiunse una posizione di primo piano verso il
X secolo a.C. per toccare l’apogeo tra il X e il VII
secolo a.C..
Secondo la leggenda greca fu proprio la principessa di Tiro, Didone o Elissa, a fuggire dalla
Fenicia nel IX secolo a.C. e a fondare Cartagine
sulla costa africana. Il mito di Didone, anacronisticamente rievocato anche da Virgilio nell’Eneide, fu molto popolare nell’antichità e la sua storia leggendaria appare come una versione del
mito di Astarte (8). La nuova città (“Kart hadasht” in fenicio significa appunto “la città nuova”) fu effettivamente fondata nel IX secolo a.C.
da coloni di Tiro. L’anno ufficiale che si tramanda è l’814 a.C., verosimilmente la fondazione va
arretrata di qualche decennio.
La fondazione di Cartagine va inquadrata nell’ambito della più vasta espansione delle colonie
commerciali fenicie nel Mediterraneo (Gadir =
Cadice, Almeria, Malaga, Utica, le due Leptis, Biserta, eccetera). L’importanza di Cartagine, fino
ad allora piuttosto scarsa, si accrebbe di colpo
nel VII-VI secolo a.C., contestualmente al declino subito da Tiro per effetto del predominio assiro (la Fenicia era tributaria degli Assiri già dal
VIII secolo a.C.).
Attorno al 650 a.C. Cartagine, dotata di una
propria flotta e di un proprio esercito, occupa e
protegge le colonie fenicie occidentali orfane
della madrepatria. Ma non coltiva (né coltiverà)
vocazioni espansionistiche di stampo imperiale.
Si sviluppa piuttosto come potenza marittima e
mercantile. L’attitudine al commercio è impressa nel suo codice genetico. Quel tanto di scaltrezza, di avidità, di contrattualismo, che è insito nei caratteri siriaci, predispone all’intrapresa. Il mare, poi, è nella natura stessa dei Cartaginesi. Essi infatti lo assumono a centro e riferimento di ogni azione. La loro presenza si sviluppa lungo una sottile striscia costiera che corre
(3) I Moabiti erano un popolo semitico stanziato a sudest della Palestina e a oriente del Mar Morto. Spesso in guerra con
gli Israeliti, lottarono accanitamente per la propria indipendenza fin quando, dopo la cattività babilonese, il loro territorio venne occupato dagli arabi Nabatei.
(4) I Greci definirono Φοινιχες, da cui “Fenici”, le popolazioni semitiche stanziate sulle coste siriane (attualmente: Libano e Siria) che normalmente chiamavano sé stesse Kinahu,
Khna, e simili, da cui “Cananei”.
(5) Le origine semitiche dei Fenici e quindi dei Cartaginesi
furono bersaglio di spropositati attacchi sia propagandistici
sia storiografici e ideologici da parte di alcuni. Quando i fascisti italiani introdussero le cosiddette “Leggi razziali” nel
1938, i documentari del Minculpop rinnovellarono l’ostilità
di Roma contro Cartagine accomunando disinvoltamente e
piuttosto scioccamente Fenici ed Ebrei. Alfred Rosenberg,
l’ideologo nazionalsocialista lituano ucciso dagli Alleati dopo
il processo di Norimberga, che tra l’altro definì i Liguri “l’aborigena razza negroide” (Il mito del XX Secolo, Edizioni
del Basilisco, Genova 1981, pag. 58), euristicamente sospinto dal proprio furore antisemita esaltava la vittoria di Roma:
“... Roma dovette sempre più spesso adoperare il suo gladio
per la propria affermazione (...). La distruzione di Cartagine
fu un fatto estremamente importante, dal punto di vista della storia delle razze: tramite ciò, anche alla più tarda cultura
dell’Europa centrale e occidentale, furono risparmiate le
esalazioni di questo pestifero focolaio fenicio” (ibidem, pag.
55).
(6) Cfr. Erodoto, “Storie” I 1, II 44, VII 89.
(7) Il re Salomone (970-930 a.C.)
(8) Divinità femminile fenicia, che a Cartagine verrà celebrata col nome di Tanit.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Quaderni Padani - 5
lungo il Nordafrica, abbraccia i litorali iberici fino all’Ebro (9) e tocca le isole grandi e piccole: le
Baleari (10), la Sardegna, la Corsica, la Sicilia
orientale, Malta. Una logica mercantile, non militare. Che produce stazioni commerciali e di
pesca, approdi per gli scambi, qualche colonia
agricola, qualche impianto minerario. Teste di
ponte prive di retroterra, costituite senza concepire massicce conquiste degli altrui territori (11).
Cartagine non inclina al militarismo, non espone nei templi i trofei di truculente vittorie (12),
rifugge dalle avventure bellicose, eppure continua a crescere. Traffica, usa l’astuzia e l’ingegno
piuttosto che la forza. In questo i Cartaginesi rivelano un carattere ben diverso da quello di popoli ai quali l’accomunano la lingua e la cultura
semitica: non conoscono la violenta intolleranza
degli Ebrei, né la cupa ferocia degli Assiri (13).
Alcuni tracciano addirittura un paragone tra
Cartagine e Venezia (14). A Cartagine non esiste
un esercito di leva. Alle necessità militari, pur
sempre insopprimibili in un’epoca di contrasti
duri, sopperisce un’armata di professionisti (15),
reclutati tra i popoli stranieri: Iberici, Baleari,
Libici, Numidi (16). I comandanti a terra e in mare sono cartaginesi (17) e giovani aristocratici
partecipano alle spedizioni militari. Ma non esiste una milizia nazionale. Una sola volta nella
sua storia, prima di incrociare i suoi destini con
Roma, Cartagine aveva concepito una massiccia
operazione militare di conquista. Nel 480 a.C.,
durante l’assedio di Imera (18) venne mobilitata
una poderosa forza d’invasione (si parla di trecentomila uomini) imbarcata su migliaia di na-
(9) Il più antico insediamento fenicio rinvenuto in quest’area era situato in Aldovesta (attualmente, località Benifallet), sul fiume Ebro e consisteva in una fattoria risalente alla fine del VII secolo a.C. (Museu Historico de Catalunya,
Barcelona).
(10) Inizialmente a Ebussus o Eivissa (l’odierna Ibiza), nel
660 a.C..
(11) Un modello di sviluppo espansivo affatto diverso da quello romano, all’ideologia del quale ben si attaglierebbe la didascalica chiosa rousseauviana dei ricchi: “...non appena conobbero il piacere di dominare, disprezzarono tutti gli altri
e, servendosi degli schiavi che avevano già per sottometterne
dei nuovi, non pensarono che a soggiogare e ad asservire i
loro vicini, simili a quei lupi affamati che, avendo una volta
gustato la carne umana, sdegnano qualunque altro alimento
e vogliono soltanto divorare uomini”.
(12) Del pantheon cartaginese non si conosce alcuna divinità
guerresca.
(13) Gli Assiri furono il prodotto di molteplici sovrapposizioni
e incroci linguistici e culturali, con prevalenti influenze dell’elemento semitico rispetto a quello indoeuropeo.
(14) “Molti storici hanno paragonato Cartagine, sotto questo
aspetto di governo aristocratico e senatorio, a Venezia di mille e più anni dopo. Ma vi era in Cartagine qualcosa di più primitivo e semplice che Venezia non aveva, e inoltre minor
mollezza, meno inclinazione ai piaceri dello spirito e alle raffinatezze del gusto, che non appartenevano né ai sentimenti
né all’educazione di questi mercanti avventurosi e scaltri.
Anche nell’evitare fino ai limiti del possibile i rischi della
guerra, che Venezia al contrario affrontò sempre con orgoglio” (Gianni Granzotto, Annibale, Mondadori, Milano, 1983,
pag. 13).
(15) Molta parte degli eserciti in epoca storica (forse la maggioranza) fu costituita da professionisti. Lo stesso vocabolo “soldato”, come noto, deriva da “soldo”, cioè dal latino “solidus”
(moneta aurea di età imperiale, attestata da Apuleio e nei Digesta Iustiniani, utilizzata per il pagamento delle truppe). Il
mestiere di soldato retribuito salvo sporadiche eccezioni non
fu mai considerato di per sé sconveniente, almeno fino all’affermazione delle armate cosiddette “nazionali” della Francia
rivoluzionaria e di Napoleone. E’ anche per effetto di quella
rottura culturale, se il termine “mercenario” viene oggi spes-
so usato in senso spregiativo. Resta il fatto che nei conflitti
combattuti da professionisti l’odio e le efferatezze furono rari,
mentre in quelli di massa i fondamenti nazionalistici, religiosi
e ideologici, opportunamente attizzati dalla propaganda, molto più spesso apportarono atrocità e massacri.
(16) È attestato che Cartagine, già dal quarto secolo a.C., utilizzò sistematicamente truppe celtiche. In particolare, esse
furono determinanti nelle campagne di insediamento in
Sardegna, in Corsica, a Malta, nelle Baleari e in Sicilia. L’apporto celtico nella prima e nella seconda guerra contro Roma rientrava quindi in una tradizione consolidata. D’altra
parte la fama di guerrieri valorosi in capo ai Celti ne aveva
diffuso il reclutamento come soldati di mestiere da parte di
molti, tra i quali i Greci, gli Etruschi e addirittura gli Elleno-Egizi con Tolomeo II nel 275 a.C.. La massiccia partecipazione dei Celti alle campagne di Padania e d’Italia del
218-203 a.C., pur basata in tale contesto, ebbe tuttavia carattere di autentica guerra di liberazione condotta in una
logica di alleanza politica, essendo direttamente in gioco i
destini stessi delle comunità padane. Ma anche dopo la ritirata di Annibale dall’Italia i Celti restarono al suo fianco.
Non si spiegherebbe altrimenti la loro presenza alla battaglia di Zama nel 202 a.C. (vedi anche nota 70). Né la successiva partecipazione di quarantamila combattenti padani alla
disperata impresa di Amilcare, condottiero cartaginese venuto come sottordine di Asdrubale e rimasto sul Po dopo la
morte di questi, che ancora nell’anno 200 a.C. , dopo avere
espugnato Piacenza, venne attaccato da Furio Purpureone
mentre assediava Cremona e cadde in battaglia con tutti i
suoi (vedi anche nota 36).
(17) I comandanti militari a Cartagine venivano tradizionalmente eletti dall’assemblea dei cittadini.
(18) Città greca fondata nel 648 a.C. sulla costa nord della Sicilia, nei pressi di Cefalù, da coloni di Zancle e di Siracusa.
Governata da tiranni e sottoposta all’influenza siracusana,
partecipò alla guerra che culminò nella disfatta subita dai
Cartaginesi nel 480 a.C., per opera di Gelone (tiranno di Gela e signore di Siracusa). Il conflitto fu causato della concorrenza portata da Cartagine ai commerci siracusani e greci
nel Mediterraneo centrale. Nel 409 comunque i Cartaginesi
si presero la rivincita e distrussero Imera, uccidendone gli
abitanti a migliaia.
6 - Quaderni Padani
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
“Annibale giovinetto giura odio ai Romani”.
Arazzo sabaudo tessuto da Francesco Demiguot da un bozzetto di C. F. Beaumont. Torino,
Palazzo Reale
vi. La flotta fu spazzata via e i resti dell’enorme
esercito, scampati ai flutti, vennero annientati a
terra. Fu la prima e l’ultima avventura militare
su vasta scala. Stordita dal disastro, Cartagine si
ritirò di fatto nel suo guscio e nulla più intraprese. Continuò a sprazzi, con alterne vicende,
la guerra contro i Greci di Sicilia, e poi contro
Pirro, che conquistò fuggevolmente l’isola nel
277. Finché, nell’anno 264, divampò la prima
guerra punica.
Il giovane Annibale
Le vicende della prima guerra punica si concludono nel 241 a.C., con la disfatta della flotta
cartaginese alla battaglia delle isole Egadi e la
conseguente richiesta della pace.
Annibale Barca (19), padre di Annibale, fu l’unico capo militare che ne uscì imbattuto, dopo
avere contrastato e ripetutamente sconfitto i
Romani in Sicilia. Rientrato in patria riuscì a venire a capo con freddezza e rapidità della rivolta
dei mercenari esplosa dopo che la guerra era
stata perduta. L’oligarchia mercantile che governava Cartagine (20) inclinava ormai alla rassegnazione, accentuando la naturale avversione
della città alla guerra. Amilcare aveva già battuto i Romani, sapeva che non erano invulnerabili,
anelava alla rivincita. Il sentimento lo spingeva
alla vendetta, quando i mercanti per mero calcolo avevano scelto la pace e il quieto vivere. Le
passioni politiche divampavano, con Amilcare
stava la maggioranza del popolo, contro di lui
gli ottimati. Il conflitto si caricò di ostilità, poi
questa si mutò in odio e la città giunse alle soglie della guerra civile. Amilcare fu messo sotto
(19) In punico “Himelqarth”, cioè “fratello, amico di Melqarth” (il dio omologo del greco Eracle, protettore della città
fenicia di Tiro). “Melqar” significa letteralmente “dio della
città”. Il secondo nome Barca non è un “cognome”, cioè un
“nome aggiunto” come terzo membro del nome, alla maniera romana. E’ piuttosto, in origine, un vero e proprio soprannome, anche se poi diverrà familiare ed ereditario e
verrà portato da Annibale stesso e dai suoi fratelli (che saranno detti anche i “barcidi”).
L’analogia con il “cognomen” dei Romani si limita al tipo di
origine del soprannome, che riflette anch’esso caratteristiche personali del portatore. Infatti “baraq”, in fenicio, significa “fulmine, lampo di guerra”, e presumibilmente si riferisce alle doti militari di Amilcare. Il cognome “Barkah” è
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
tuttora diffuso in Africa settentrionale.
(20) A Cartagine il potere civile fin dal VI-V secolo a.C. veniva
esercitato dai “sufeti” o “suffeti”, in punico “shophet”, magistrati di origine fenicia che detenevano competenze esecutive in politica interna ed estera, e originariamente anche
competenze giudiziarie. Come i consoli romani, i sufeti venivano eletti in numero di due, governavano per un anno e
probabilmente erano rieleggibili. Esisteva poi un consiglio
degli anziani (o “senato”) che variò nel numero da cento a
circa trecento componenti (e che a sua volta esprimeva un
consiglio permanente più ristretto) con poteri verosimilmente analoghi a quelli del senato di Roma. Il senato era
normalmente sotto il controllo degli aristocratici, che non
erano nobili di sangue ma piuttosto mercanti eminenti.
Quaderni Padani - 7
accusa come sovversivo, la sua libertà e la sua
stessa vita pervennero a grave rischio. A tre anni
soltanto dal suo ritorno, egli dovette lasciare
Cartagine appena prima che la situazione precipitasse. Vi lasciò la famiglia, ma il figlio Annibale, di nove anni appena, chiese di poterlo seguire. Prima di accogliere la sua richiesta, Asdrubale condusse il figlio al cospetto dell’altare di
Baàl, a giurare odio eterno ai Romani. La scena è
celeberrima, tramandata da tutti i biografi fino
nei minuti particolari. “Odierò i Romani, come
essi mi odieranno”. Con queste poche, semplici
parole, Annibale ragazzo s’impegnava per la vita
e sanciva quella che sarebbe stata, fino all’ultimo
respiro, l’intima ragione della sua stessa esistenza. Amilcare salpò da Utica con un pugno di uomini fidati e trasse seco il figlio, diretto a Gades
(l’odierna Cadice), una stazione commerciale
cartaginese oltre le Colonne d’Ercole. Era l’anno
238 a.C.. Amilcare vi arruolò un esercito, intraprese lo sfruttamento delle miniere d’argento e
di rame, iniziò a supportare la patria lontana
delle risorse necessarie al pagamento dei debiti
di guerra con Roma. Incontrò così una rinnovata popolarità: Cartagine lo riconobbe, non senza
qualche travaglio, come proprio supremo rappresentante nelle terre iberiche e come capo di
tutte le truppe ivi stanziate. Amilcare poté quindi agire in tutta libertà e mosse verso est. Le regioni che diverranno l’Andalusia, la Murcia, il
Paese Valenzano, parte dell’Estremadura e della
Mancia (Castilla meridionale) caddero presto
sotto il suo controllo per effetto di un’azione accorta che sapeva mescolare le alleanze politiche
alle rapide puntate militari. Fondò una nuova
colonia, chiamata dai Romani Lucentum (l’odierna Alicante) e vi trasferì le sue basi. Nel 229
a.C. Amilcare morì annegato in un fiume mentre
era impegnato a domare la rivolta degli Orissi
quando Annibale era appena diciottenne. Suo
cognato Asdrubale detto “Il bello” assume la guida del territorio. Era un uomo già maturo, prudente ed esperto. Sotto il suo comando il dominio dei Barca si ampliò e consolidò, fino ad assumere quasi le sembianze di un vero stato.
Nuove regioni vennero a farne parte, si svilupparono le attività agricole e minerarie, nel 221 a.C.
si edificò una nuova capitale, poco più a sud di
Alicante, che assunse il nome prestigioso di
“Nuova Cartagine” (attualmente, Cartagena). Un
importante numero di comunità iberiche riconobbe Asdrubale come principe di una sorta di
federazione regionale. Annibale soffriva un po’
quel tempo di relativa pace, che gli imponeva
La Padania nel 218 a.C. Il teatro bellico padano della guerra annibalica: insediamenti delle comunità celtiche, regioni già romanizzate, centri e luoghi significativi (tratta da Annibale di
Gianni Granzotto, Mondadori, Milano, 1980)
8
- Quaderni Padani
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
A
B
C
D
Armi da colpo e da getto. Alcune armi utilizzate dagli opposti eserciti durante la seconda guerra
punica.
A - Il pilum, giavellotto comunemente usato dai legionari romani, nelle due versioni: il tipo leggero, a punta cava, poteva essere lanciato fino a trenta metri di distanza; il tipo pesante era lungo fino a tre metri e si gettava un attimo prima di ingaggiare il nemico alla spada.
B - Il gladium, tipica spada corta romana (60 cm. circa di lunghezza), derivata forse da un’arma
ispanica, acuminata e a doppio taglio. Potrebbe essere stata perfezionata proprio dopo la conquista
di Nuova Cartagine, nel 209 a.C., dagli abili artigiani della città specializzati nelle forniture militari. Sembra che Scipione, per non distruggere la città, imponesse loro la consegna di centomila spade di ottima qualità, che sarebbero state fabbricate in una nuova e definitiva fattura.
C - La spada corta preferita dai soldati iberici di Annibale, da taluni denominata gladium hispanicum: una specie di lungo coltellaccio, a un solo taglio, molto affilata, efficacissima per essere conficcata con rapidi affondi ravvicinati nel corpo a corpo. Usata come sciabola poteva fendere uno
scudo o tranciare un arto in un colpo solo.
D - La tradizionale spada lunga celtica, anticipatrice della spatha germanica, concepita per ampi
movimenti di mulinelli e fendenti (tratta da Great Battlefields of the World di John Macdonald,
Marshall Edition Ltd, London, 1985)
una pausa forzata. Era ansioso di proseguire l’opera del padre e adempiere così al suo giuramento. Mise a profitto quegli anni dedicandosi
alla riorganizzazione e al rafforzamento dell’esercito costituito da Amilcare. Arruolò e addestrò nuove forze e nel contempo prese a coltivare relazioni con i popoli transpirenaici, in vista
dell’impresa che evidentemente già aveva iniziato a concepire. Per il tramite dei Celti stanziati
in quella che sarà poi l’Occitania, i suoi rapporti
diplomatici si estesero fino alle comunità celtiche di Padania, agli Insubri e ai Boi. Nello stesso
anno 221 a.C. Asdrubale morì assassinato da un
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
montanaro iberico. Annibale, all’età di ventisei
anni, venne acclamato capo da quello che ormai
era il suo esercito. Non senza contrasti, Cartagine ne ratificò la nomina. La via della rivincita
era aperta.
Preparativi di guerra
Ogni azione di Annibale, da quel momento in
poi, apparve scientemente votata a un unico fine: la guerra a Roma. E già forse l’intero piano
strategico era ben formato nella sua mente. Annibale aveva in chiaro due concetti. Il primo: il
dominio ormai acquisito di Roma sul mare, che
Quaderni Padani - 9
rendeva impensabile un attacco per quella via. Il
secondo: l’influenza dei fattori etnici nella possibile costituzione di un grande schieramento antiromano con la sollevazione dei popoli oppressi
da Roma, primi fra tutti i Celti padani. Il giovane
capo si cimentò in alcune spedizioni locali di
consolidamento, poi - non appena le condizioni
politiche a Cartagine gli sembrarono mature determinò il “casus belli”: l’incidente di Sagunto. Nel 226 a.C., quando già si profilava l’offensiva celtica in Etruria, Roma per coprirsi le spalle
aveva imposto al cedevole Asdrubale un trattato
di spartizione delle zone d’influenza nelle terre
iberiche. I Cartaginesi con quel trattato avevano
accettato come linea di demarcazione il fiume
Ebro. E Sagunto, un centro costiero di secondaria importanza, legato alla greca Marsiglia e per
il tramite di questa indirettamente a Roma, sorgeva alla foce del fiume Palencia, cento chilometri a sud dell’Ebro, quindi in piena zona d’influenza cartaginese. Poco prima della morte di
Asdrubale, il partito filoromano era stato estromesso dal governo di Sagunto grazie anche alle
trame diplomatiche di Annibale. I Romani erano
entrati nella città per restaurarne il potere e ne
erano seguite rappresaglie e vendette. Venuto a
mancare Asdrubale, i Romani inviarono un’ambasciata dal suo giovane successore per sottolineare che Sagunto era da considerarsi ormai inclusa nella loro sfera d’influenza e per chiedere
formali garanzie in merito. Annibale, nella veste
di capo riconosciuto delle comunità iberiche,
stigmatizzò invece l’intervento romano in Sagunto come un’inaccettabile intromissione e
praticamente mise la delegazione alla porta. Era
sul finire l’anno 220 a.C.. Mentre i Romani discutevano il da farsi, Annibale mosse con l’esercito e nel marzo del 219 a.C. mise la città sotto
assedio. Senza che Roma muovesse un dito in
suo soccorso, Sagunto dopo una resistenza eroica cadde in ottobre e i difensori vennero massacrati. Il senato cartaginese, da parte sua, assunse
una posizione ambigua, non approvando ma
nemmeno sconfessando l’azione. Roma, che aveva concesso ai Saguntini la propria “fides”, richiese direttamente a Cartagine la consegna di
Annibale e la restituzione della città. Era ormai
il mese di marzo dell’anno 218 a.C.. Mentre Annibale occupava e fortificava il territorio tra Sagunto e il fiume Ebro, il Senato cartaginese respingeva l’umiliante diktat e Roma dichiarava la
guerra.
Annibale attendeva quel momento da anni. Si
predispose a mettere in pratica il disegno strate10 - Quaderni Padani
gico che già era pronto nei minuti particolari:
una marcia di millecinquecento chilometri attraverso terre straniere per attaccare i Romani
alle spalle. Un’impresa grandiosa e temeraria: le
sole forze di prima schiera a mano del nemico
ammontavano a oltre centomila uomini, le riserve mobilitabili a sette volte tanto. Dalla parte
di Annibale erano la sorpresa e il possibile sostegno delle comunità liguri e celtiche. Sul finire di maggio dell’anno 218 a.C., un esercito
composto da novantamila fanti e da dodicimila
cavalieri mosse da Nuova Cartagine verso la fama imperitura. Gli uomini erano per due terzi
africani di Libia e di Numidia, per un terzo Iberi
e Celti, questi ultimi provenienti dalle comunità
stanziate tra i Pirenei e le Alpi e imparentate
con quelle padane. Portavano con loro trentasette elefanti africani, più piccoli e veloci di quelli
che Pirro aveva impiegato sessant’anni prima.
Erano tutti soldati di mestiere (21), entusiasti e
motivati dal carisma del loro capo, dalla grandezza dell’impresa, dall’odio portato a Roma. Altre forze restavano nei territori iberici, al comando di Asdrubale, fratello minore di Annibale
(22). Annibale lasciava la giovane moglie Himilce,
sposata solo due anni prima, e il piccolo figlio:
non li avrebbe rivisti mai più.
La marcia fu lunga, costellata di imprevisti e
di combattimenti. Certamente meritevole di una
cronaca più dettagliata, che non è qui in argomento. Il poderoso esercito si disseminò lungo
la via lasciando presidi e subendo il logorio delle
battaglie come quello delle fatiche e delle malattie. Già ai Pirenei era ridotto a cinquantamila
fanti e novemila cavalieri.
I Romani da parte loro concentrarono in Sicilia centosessanta navi da guerra per scortare le
due legioni del console Sempronio in uno sbarco
in Africa. L’altro console Publio Scipione aveva
ricevuto l’ordine di recarsi invece in Spagna con
le sue due legioni per trattenervi le forze dei Barca. Ma quel piano invero un po’ presuntuoso
naufragò subito. Nella primavera del 218 a.C.,
mentre Annibale si metteva in movimento, i Celti padani avvertiti di quanto si preparava ripresero le armi contro Roma. Diedero inizio al movimento i Boi, che accerchiarono e attaccarono il
pretore Lucio Manlio in Mutina (oggi Modena).
Si unirono gli Insubri, che congiuntamente ai
(21) Vedi nota 15.
(22) Omonimo e più noto dell’Asdrubale suo cognato, di cui
sopra.
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liberi. Con tutto l’esercito, elefanti compresi, Annibale valicò
il Moncenisio (23) per entrare
nella leggenda.
La guerra in Padania
Era ormai autunno (secondo
alcune fonti il 24 settembre, secondo altre i primi giorni di
novembre) quando l’esercito
punico raggiunse la pianura.
Ne rimanevano ventimila fanti
e seimila cavalieri, più l’intatta
compagine dei 37 elefanti (tutti
tranne uno, il leggendario Surus, moriranno prima della fine
“Annibale varca le Alpi con gli elefanti”, bottega di Jacopo Ri- dell’anno, stroncati dalle fatipanda, primi del ’500 (Roma, Palazzo dei Conservatori)
che dell’incredibile impresa).
Da Segusio (l’antica Susa) AnBoi iniziarono a colpire con incessanti incursioni nibale menò le truppe lungo la Valle della Dora
le colonie romane di Piacenza e Cremona, da po- Riparia, verso il cuore della Padania. Si trovava
co fondate come avamposti sulla linea del Po. nel territorio dei Taurisci (o Taurini), una comuPrima l’una, poi l’altra delle legioni di Scipione nità ligure-celtica stanziata nelle vallate occidendovettero essere distaccate a fronteggiare gli at- tali dell’attuale Piemonte, componente della lega
tacchi. Questi fatti del tutto imprevisti dai Roma- celtica che appena sette anni prima aveva attacni comportarono l’annullamento della spedizio- cato Roma per esserne tragicamente disfatta nel
ne in Spagna e la conseguente sospensione delle massacro di Telamon (Talamone). E infatti i Tauoperazioni per lo sbarco in Africa che a quel pun- risci erano certamente nemici di Roma, senz’amto sarebbe stato eccessivamente rischioso. È que- biguità né ripensamenti. Fosse per una estemposto un aspetto poco esplorato, e tuttavia strategi- ranea tensione sorta tra Taurisci e Insubri (che
camente cruciale per l’intera campagna: se le erano tra i più fidati alleati di Annibale), fosse
forze romane non fossero state tempestivamente per una certa prepotenza dei Cartaginesi - finaldistolte dai programmati obiettivi, tutta l’azione mente pervenuti in terre opime - nell’attingere
di Annibale avrebbe potuto essere sventata in ai granai e nell’insidiare le donne, fatto è che si
partenza. Scipione, con forze raccogliticce, tentò verificò subito un grave incidente militare, invedi sbarrargli la strada sul Rodano in settembre. ro poco beneaugurante per l’ardua intrapresa apMa Annibale eluse l’insidia, sconcertò il nemico pena principiata. I Taurisci, sentendosi forse più
con un improvviso cambiamento della direzione invasi che liberati, rifiutarono ad Annibale le
di marcia e risalì lungo il fiume per imboccare la prove di amicizia richieste. Per tutta risposta, il
via delle Alpi più a nord. Erano con lui guide fi- condottiero punico diede l’assalto al loro princidate inviategli dai Celti padani e i sentieri erano pale centro (24) (che in seguito i Romani avrebbe-
(23) Sull’esatto percorso seguito da Annibale i classici e gli
storici moderni sono divisi. Polibio e Mommsen indicano la
Val d’Isère, il corso dell’Arc e il valico del Moncenisio (2084
m.). Tito Livio e Gibbon ipotizzano una via più a sud, in
ipotesi la Val Durance e il Monginevro (1854 m.). Più remota l’ipotesi, affacciata da alcuni, del passaggio al Piccolo
San Bernardo (m. 2188). Attualmente, salvo imprevisti, il
Moncenisio è transitabile da maggio a novembre, il Monginevro tutto l’anno e il Piccolo San Bernardo da luglio a novembre.
(24) “Capitale” viene correntemente definita “la città principale di uno stato, dal punto di vista politico e amministrativo” (G. Devoto-G.C. Oli, Il dizionario della lingua italiana,
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Le Monnier Firenze, 1990 , pag. 305). Tale concetto è relativamente moderno, in ogni caso inapplicabile alle comunità,
come quelle celtiche, non costituite in stato. Affermare che
Mediolanum era la capitale degli Insubri o peggio, che Felsina era la capitale dei Boi, non è appropriato. In questa sede si è preferito quindi evitare siffatte attribuzioni. Centri
come Mediolanum per gli Insubri e Brixia per i Cenomani
potrebbero essere piuttosto definiti come insediamenti protourbani di riferimento. A sud del Po le comunità celtiche
erano maggiormente frammentate (Plinio afferma che secondo Catone il Vecchio i Boi erano costituiti da centododici
tribù) e quindi i principali insediamenti svolgevano un ruolo
ancora meno determinante.
Quaderni Padani - 11
ro denominato Augusta Taurinorum), che cadde
dopo tre giorni. Fece seguito un massacro. Comprensibile sul piano militare e su quello diplomatico (l’esempio portò alla immediata sottomissione delle comunità ancora incerte della zona),
questo atto deliberato di terrore fu purtuttavia
ripugnante e - va pur detto - vela ancora oggi
con un’ombra di crudele cinismo l’esordio cartaginese in Padania.
Tutto il territorio cisalpino era già in fiamme:
i Boi da Bologna a Piacenza, i Lingoni tra Rimini e Bologna, gli Insubri tra Bergamo e Alessandria e i Liguri dal Magra fin oltre il Tanaro erano
in rivolta. L’atteso momento della rivincita era
giunto, era tempo di gettare le sorti della libertà
(25). Dopo avere ritemprato gli uomini, Annibale
si mise in marcia lungo la valle del Po. Nei pressi di Mortara si congiunsero a lui gruppi di Insubri in armi. Offrirono rifornimenti e soldati. Annibale ne accolse diecimila circa nel suo esercito, quanti ne poteva integrare in quel momento
senza nuocere all’omogeneità militare della
compagine. Dalla colonia romana di Piacenza
nel frattempo già erano partite due legioni al
comando di Publio Cornelio Scipione, per fronteggiarlo: circa ventimila fanti e duemila cavalieri, compresi i cosiddetti ausiliari italici, tra i
quali diverse reclute inesperte. Avrebbero dovuto attendere le altre due legioni di Tiberio Sempronio Longo, che stavano risalendo dalla Sicilia
a marce forzate. Ma Scipione pensava che il nemico fosse stanco e logorato dalla lunga marcia.
Ai primi di dicembre, tra la Sesia e il Ticino,
presso Lomello, ebbe luogo così il primo scontro. Fu solo una mischia di cavalleria: le opposte
forze in perlustrazione si incontrarono e si
scontrarono. I cavalieri numidi di Annibale, più
numerosi e dotati di una più agile tattica di manovra, ebbero il sopravvento sulla cavalleria legionaria, formata prevalentemente da Celti arruolati a forza dai Romani. Scipione stesso,
giunto in soccorso, restò ferito e venne salvato a
stento dal figlio giovinetto (il futuro “Africano”).
I Romani si ritirarono, ripassarono il Ticino e si
rifugiarono nella base di Piacenza. Annibale non
inseguì, passò a sua volta il fiume qualche giorno dopo e marciò sulla colonia. Nel frattempo,
altre forze padane gli erano giunte di rinforzo.
Alcuni reparti celtici inquadrati nell’esercito nemico, circa duemila fanti e duecento cavalieri, lo
abbandonarono armi in pugno per ricongiungersi ai compatrioti (ciò che induce alquanti
dubbi circa le cause reali dell’esito dello scontro
al Ticino). Annibale preferì comunque congedare alcuni di questi reparti, puntando scientificamente sull’effetto propagandistico di un tale gesto. Comunque, ai suoi ordini in quel momento
erano circa 14.000 combattenti celtici, dei quali
5.000 a cavallo.
L’altro console Sempronio raggiunse intanto
Scipione. L’esercito romano si trovava accampato sulle dolci alture di Ancarano, una quindicina
di chilometri sotto Piacenza, proprio in faccia
alla Trebbia poco prima che essa confluisca nel
Po. Annibale si installò sulla riva opposta del fiume nei pressi di Sarturano, a una decina di chilometri dal nemico. Grosso modo le forze si
equivalevano: Annibale coi rinforzi padani disponeva di circa quarantamila uomini, quanti ne
contavano le quattro legioni romane coi loro ausiliari. Ma i Romani avevano poca cavalleria, forse meno di cinquemila soldati, mentre Annibale
ne aveva diecimila. Per qualche tempo le opposte armate si fronteggiarono e nel frattempo Annibale prese Casteggio, sede di un importante
magazzino romano di provviste alimentari. I Romani risposero disfacendo in una scaramuccia
alcuni foraggiatori nemici intenti a razziare la
campagna piacentina e tale modestissimo successo li rese temerari e impazienti Era il giorno
18 dicembre dell’anno 218 (secondo alcune fonti
l’8 dello stesso mese). Dopo una notte di pioggia, l’alba plumbea e ventosa illuminò il giorno
della battaglia. Le acque della Trebbia, solitamente chiare e poco profonde, erano più gonfie
e fredde. Annibale, per provocare i Romani allo
scontro, distaccò alcune centinaia di cavalieri
Numidi per un’incursione contro il campo av-
(25) La pervicace propaganda coloniale, a cominciare dai testi
scolastici, insuffla da sempre l’ambigua menzogna dei “Galli” alleati di Annibale contrapposti agli “Italiani” fedeli a Roma. Ciò che istilla nei giovanissimi cervelli immagini di nebulosi invasori, probabilmente francesi primitivi, aggressivi
e feroci.
Il termine “Celti”, che potrebbe suscitare qualche interrogativo in più, è sistematicamente oscurato. Ovviamente si tace
sugli originari insediamenti celtici e liguri in Padania e sul-
l’aggressione che subirono da parte degli stranieri romani.
Come si tace sulle stesse libertà degli Etruschi, degli Italici,
dei Sardi e dei Siculi, soffocate da Roma.
Ben diversa la situazione nell’attuale Repubblica Francese,
ove i libri di scuola descrivono con ampiezza la lunga lotta
antiromana dei Celti in Gallia, e documentano persino l’impresa del brenno padano che espugnò Roma nel 390 a.C.
(26) Negli eserciti biconsolari in campagna di guerra, il comando spettava a entrambi i consoli a giorni alterni.
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Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
versario. Sempronio, di turno al comando (26),
mandò fuori la cavalleria e non appena il nemico iniziò a ritirarsi fece uscire anche la fanteria
leggera per bersagliarlo con le frecce. I Numidi
si ritiravano combattendo. Altri reparti romani
fuoriuscirono dal campo, lo scontro si ampliò,
gli inseguitori furono risucchiati verso il fiume.
Quando i Numidi ne ripassarono il corso a guado i Romani tennero dietro ma solo per riemergere dall’acqua gelida intirizziti e in disordine.
Ecco allora che gli inseguiti si volsero e puntarono sul nemico, con la loro caratteristica tecnica di combattimento lo attaccarono sparpagliandosi in un galoppo velocissimo e inafferrabile.
Avendo mezzo esercito già impegnato oltre il
fiume, Sempronio decise che non era possibile
tornare indietro ed uscì dal campo con le restanti forze per ingaggiare battaglia. I Romani
erano a stomaco vuoto e infreddoliti dal guado.
Annibale a quel momento mosse loro incontro
col grosso delle forze. I suoi uomini avevano
mangiato, si erano riscaldati ai fuochi, erano
asciutti e si erano cosparsi d’olio per difendersi
dal freddo. Ma non dovevano nemmeno mettere
piede in acqua: era stato il nemico ad attraversare, ad avere adesso il fiume alle spalle. A sinistra erano i Libici, al centro i Celti, a destra gli
Iberi. Su entrambe le ali, la forza di cavalleria.
La lotta si accese nel breve tratto pianeggiante
sulla sponda sinistra della Trebbia e fu lunga, tenace, sanguinosa. Mentre la cavalleria di Annibale affrontava con successo quella nemica ai
due fianchi dello schieramento, i Romani avanzarono al centro in massa compatta scontrandosi con la linea degli Insubri. Annibale sostenne il
proprio centro mandando in rinforzo i frombolieri delle Baleari, poi lanciando alla carica gli
elefanti. Doveva guadagnare tempo, affinché la
sua cavalleria potesse completare il compito affidatole. Suo fratello più giovane Magone piombò
improvvisamente alle spalle dei Romani con un
corpo scelto di mille fanti e mille cavalieri, tenuto di riserva tra i canneti e gli arbusti nelle isolette tra i rami del fiume. A tempo: con la loro
pressione incessante al centro le legioni erano
pervenute a infiggere un pericoloso cuneo nello
schieramento. Ma a quel punto - era pomeriggio
ormai e a dicembre viene buio presto - la cavalleria che aveva disperso le ali nemiche piombò
sulle legioni completando l’accerchiamento. Fu,
in questo, una manovra anticipatrice di Canne.
Simile, e scontato, l’esito. I Romani assaliti da
ogni parte abbandonarono l’attacco e si misero a
combattere per la vita. Con una disperata sortiAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
ta, diecimila valorosi riuscirono a rompere il
cerchio e a salvarsi. Mentre calava la sera e con
essa, fitta, la nebbia padana, tutto il resto dell’esercito romano venne distrutto: massacrato sul
posto o annegato nella Trebbia tentando il guado nel buio. I Cartaginesi e gli alleati, avvolti dal
gelo e dalla nebbia, non inseguirono il nemico.
Le loro perdite erano state consistenti, soprattutto tra i Celti che avevano sostenuto il peso
maggiore dell’attacco, e aggravate dal rigore del
freddo calato subito dopo la battaglia. Quelle romane, in compenso, erano state gravissime, stimandosi tra i quindicimila e i ventimila uomini.
Oltre ai diecimila che si erano aperti un varco
combattendo, erano scampati cinque-seimila
uomini rimasti al campo con Scipione durante
la battaglia e qualche altro migliaio di dispersi
rientrò successivamente a Piacenza, ove i resti
dell’esercito sconfitto si rinchiusero fino a primavera.
La vittoria della Trebbia propagò la sollevazione antiromana come un incendio nell’intera Padania. Nuove forze affluirono a rimpiazzare i caduti, i Boi si unirono all’esercito alleato. Forse
Nella cartina, l’itinerario percorso da Annibale
dal valico delle Alpi alla battaglia di Zama
Quaderni Padani - 13
era davvero arrivato il momento della riscossa e
della vendetta. Troppo fresche erano ancora le
ferite di Talamone, di Casteggio, di Milano, per
non bruciare terribilmente. Tutte ferite alla libertà delle comunità celtiche, ferite di pochi anni prima soltanto.
Antecedenti di guerra tra Padani e Romani
La ripresa del movimento espansionistico di
Roma verso nord aveva allarmato le comunità
celtiche d’oltre Appennino. Nel 225 a.C. i Boi si
unirono agli Insubri e da questo asse scaturì
una grande alleanza padana antiromana. Solo i
Cenomani e i Veneti non vi parteciparono e restarono alleati a Roma. Cinquantamila guerrieri
a piedi e ventimila a cavallo e sui carri da guerra
scesero allora verso il nemico anticipandone le
mosse, mentre una parte delle forze rimase a
presidio del territorio padano, nel caso di attacchi da parte degli alleati dei Romani. L’armata
celtica, rinforzata da aliquote liguri ed etrusche,
dilagò in Etruria e si spinse fino a Chiusi, minacciando direttamente Roma. I Romani mobilitarono l’esercito più grande che avessero mai
portato in campagna: sei legioni direttamente
operative più due in riserva (27). Lo scontro decisivo avvenne presso Telamon (l’odierna Talamone): l’esercito celtico in marcia venne affrontato
da due armate romano-italiche comandate da L.
Emilio Papo e da C. Attilio Regolo. Attaccati da
due lati, i Celti dovettero dividere le proprie forze e affrontarono separatamente la battaglia:
Taurisci e Boi contro Regolo, Gesati (28) e Insubri contro Papo. Lo scontro fu violentissimo,
persero la vita lo stesso Regolo e i due coman-
danti Celti (29). I Romani prevalsero, sul campo
restarono quarantamila caduti padani e diecimila furono i prigionieri (30). La sconfitta fu decisiva, le forze lasciate sul campo non vennero più
ricostituite. L’iniziativa passò in mano ai Romani, che condussero la campagna verso nord. Nel
224 i Boi furono costretti alla resa. Nel 223 il
console Caio Flaminio attraversò il Po, forse con
l’aiuto degli Anamari (31), e penetrò in territorio
insubre ma non riuscì ad avanzare. Diresse allora per nordest, congiunse le proprie forze con
quelle degli alleati Cenomani e attaccò da oriente: le sue forze si spinsero oltre l’Oglio e oltre
l’Adda, devastando le campagne e massacrando
le popolazioni disperse, provocando così l’intempestiva reazione degli Insubri che a ranghi
incompleti lo affrontarono in battaglia e non
senza difficoltà ne furono respinti, probabilmente presso il fiume Oglio. Sazi di bottino i Romani rientrarono alle loro basi mantenendo presidi
presso gli alleati Cenomani, ma l’anno successivo scatenarono una nuova campagna. Gli Insubri proposero la pace, ma l’offerta venne rifiutata dagli invasori che per tutta risposta attaccarono il centro di Acherroe (oggi Pizzighettone, tra
Lodi e Cremona). Gli Insubri reagirono con la
forza della disperazione e lanciarono un attacco
a Clastidium (l’attuale Casteggio, nell’Oltrepò
pavese, non lontano da Voghera), scontrandosi
con le forze del console Marco Claudio Marcello.
Qui si decise la guerra: il capo insubre Vindomaro (o Virdumaro) venne ucciso da Marcello e la
battaglia vinta dai Romani. Le forze sconfitte si
ritirarono su Milano, che sull’impeto del successo venne assalita dall’altro console Gneo Corne-
(27) Ogni singola legione, che con la riforma del II secolo
a.C. attribuita a Mario avrebbe raggiunto un organico di oltre 6.000 combattenti, nel III secolo a. C. disponeva di una
forza-base di circa tremila uomini a piedi accompagnati da
un’”ala” di trecento cavalieri. Nei momenti di emergenza,
tuttavia, questa forza poteva essere notevolmente incrementata fino a raggiungere l’organico di 5-6.000 combattenti. Ciò verosimilmente accadde già durante la campagna
contro i Celti del 225-222 a.C. e poi ancora nella situazione
di massima emergenza determinata dalla spedizione di Annibale in Padania e in Italia. Inoltre, ciascuna legione poteva raggiungere il doppio circa della propria forza essendo
affiancata dai cosiddetti “auxilia” (contingenti forniti dai
collegati) per una pari entità.
(28) I Gesati erano una comunità celtica stanziata tra la valle
del Rodano e le Alpi. Il loro nome derivava dalla principale
arma offensiva in dotazione, il “gaesum”, una specie di spiedo in ferro, da cui la denominazione latina “Gaesatae”. Essi
avevano inviato rinforzi ai Celti padani impegnati contro
Roma e combatterono al loro fianco fino alla caduta di Milano (222 a.C.), che aiutarono a difendere fino all’ultimo.
(29) Conosciamo attualmente non i veri nomi dei due comandanti celtici ma soltanto le versioni romanizzata di
Aneroestus e Concolitanus. Il primo quando vide la battaglia perduta si ritirò su un rilievo collinoso e lì si diede la
morte con tutto il seguito. Il secondo venne catturato a
forza dal nemico e tradotto prigioniero a Roma ove in seguito fu assassinato.
(30) Rileggendo la cronaca di Polibio sembra di potere attribuire la sconfitta dei Celti alle caratteristiche dell’armamento, in particolare delle spade e degli scudi. La spada
celtica era concepita per colpire di taglio, non per affondare. Per giunta, era un’arma piuttosto pesante e spesso in
combattimento si deformava. Quando veniva usata dal basso verso l’alto, per esempio da uomini appiedati contro la
cavalleria, perdeva molta della sua efficacia. Nel momento
in cui la cavalleria romana investì violentemente sul fianco
lo schieramento nemico, i Celti appiedati non poterono
contenerla e caddero tutti sul posto. I cavalieri, pur travolti
anch’essi, riuscirono invece a fuggire.
( 31) Antica popolazione di origine celtica probabilmente
stanziata nell’area attorno a Piacenza.
14 - Quaderni Padani
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
lio Scipione. Dopo una disperata lotta i sopraggiunti rinforzi di Claudio Marcello decisero la
pugna e la città fu presa. Con la successiva caduta di Como la pianura venne ridotta sotto
egemonia romana. Le condizioni della pace furono secondo alcuni relativamente miti, i Romani si insediarono però in un campo militare
contiguo a Milano (32) e l’occupazione divenne
permanente. In ogni caso l’opposizione e le rivolte non mancarono. Tutta la regione restò inquieta, il fuoco covava sotto la cenere. Nel 219
(o forse nel 218) i Romani fondarono la colonia
di Placentia (Piacenza) e nello stesso 218 quella
di Cremona (33): entrambe non erano che avamposti militari in territorio ostile. I Celti padani
attesero il momento della rivincita e la discesa
di Annibale si presentò come l’occasione più
propizia.
Annibale porta la guerra in Italia
Una battaglia in dicembre era in quei tempi
già un fatto straordinario. Dopo la Trebbia, i
contrapposti eserciti si acquartierarono per l’inverno. Annibale fece base nella zona attorno a
Modena e Bologna, coperto dagli alleati Boi. Il
console Sempronio ad Ariminum (34), ove affluirono i complementi romani e vennero riorganizzate le forze sconfitte, mentre Scipione rimaneva ancora a Piacenza in attesa di partire come
proconsole per la Spagna. La propaganda romana tentò di accreditare una versione addomesticata della battaglia alla Trebbia, che divenne una
sorta di “vittoria mancata” a causa delle avverse
condizioni meteorologiche. Intanto in Spagna
Gneo Scipione guadagnava posizioni a spese del
cartaginese Annone con il quale Asdrubale non
riusciva a coordinare le forze. E una flotta punica avvicinatasi alle coste sicule venne respinta
dai Romani alleati del vecchio tiranno Gerone II
di Siracusa (35). A Roma il morale reggeva, ma
ormai si cominciava a capire che Annibale costi-
tuiva un pericolo reale e grave, e non tanto per
le severe lezioni che egli aveva impartito sul
campo, quanto piuttosto per gli effetti e i risultati politici della sua azione. I Celti liberi erano
tutti con lui, la frontiera militare della cosiddetta “Gallia Cisalpina” era perduta, solo i capisaldi
di Piacenza e Cremona vi erano ancora mantenuti (36). Non solo: anche le comunità etrusche
erano in fermento, mentre i Fenici di Sardegna
(37) attendevano la flotta cartaginese ed erano
pronti all’insurrezione. A primavera dell’anno
217 i Romani si ritrovarono attestati sotto l’Appennino, ricacciati nella “loro” Italia che pure,
nelle regioni meridionali, iniziava a sobbollire. A
marzo di quell’anno furono eletti i nuovi consoli
Gneo Servilio Gemino e Caio Flaminio Nepote.
Il primo andò a presidiare il confine a Rimini, il
secondo ad Arezzo. Per significativa coincidenza, Flaminio era quello stesso, già console nel
223, che aveva capeggiato la spedizione contro
gli Insubri (vedi sopra). Il Senato, che per ragioni di politica interna avversava Flaminio, e ne
veniva cordialmente ricambiato, portò a undici
le legioni ma, di queste, sette ne destinò in Spagna, in Sardegna, in Sicilia e a presidio di Roma
stessa. Quattro ne restarono a disposizione dei
consoli e come di tradizione erano due per
ognuno. Gli organici non furono rinforzati se
non modestamente, un po’ di più la cavalleria
che drammaticamente aveva fatto difetto alla
Trebbia. Per Annibale, intanto, si era fatto tempo
di scegliere. In quella primavera dell’anno 217
cadde probabilmente il primo dei due momenti
veramente decisivi della campagna: se si fosse
mantenuto in Padania, ne sarebbe forse scaturita una situazione più solida e permanente. I Celti, che al rinnovarsi della primavera avevano
mandato a lui almeno sessantamila uomini a
piedi e quattromila cavalieri, sarebbero forse
stati sospinti a costituirsi in nazione, una nazione amica di Cartagine e avversaria implacabi-
(32) Per la localizzazione del “castrum” romano a ridosso dello stanziamento celtico vedi, di Gilberto Oneto, “Milano,
centro della terra di mezzo”, su Quaderni Padani n. 9, gennaio-febbraio 1997, pagg. 19-20.
(33) Cremona fu definita da Tacito “propugnacolo contro i
galli stanziati oltre il Po così come contro ogni altra minaccia proveniente attraverso le Alpi” (Storie, III, 34). Le due
colonie, costituite nell’imminenza dell’invasione annibalica,
furono popolate dai Romani con seimila coloni ciascuna, inviativi con preavviso di soli trenta giorni.
(34) L’odierna Rimini. Fondata dai Senoni, divenne colonia
romana nel 268 a.C. per acquisire fondamentale importanza
strategica con la costruzione della Via Aemilia (187 a.C.) che
vi incrociava la Via Flaminia (iniziata nel 220 a.C.).
(35) Hieron II “il Giovane”, proclamato tiranno di Siracusa
nel 265 a.C., provocò la prima guerra punica alleandosi con
Cartagine contro i Mamertini e i Romani dei quali, dopo l’assedio della sua città nel 264, divenne fedele servitore.
(36) Le due colonie fortificate saranno rifornite per via fluviale
e resisteranno agli attacchi e alla fame. Cremona rimase inespugnata, mentre Piacenza finalmente cadde nell’anno 200
a.C., probabilmente a causa della defezione dei Cenomani,
quando già la guerra era stata decisa a Zama due anni prima.
(37) La Sardegna era stata occupata dai Romani nel 238 a.C.,
approfittando della rivolta dei mercenari scoppiata a Cartagine.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Quaderni Padani - 15
Accampamento cartaginese in un’antica illustrazione
le di Roma, un coltello permanentemente puntato al cuore del nemico. D’altra parte, con l’eccezione dei Cenomani e dei Veneti, tutte le comunità e le città padane si erano già inequivocabilmente schierate. L’alternativa a questo scenario era quella di portare la guerra nel profondo
del territorio nemico, mettendo a frutto la sorpresa e la mobilità che ad Annibale garantivano
il vantaggio tattico, portando la rivolta - già fomentata nel silenzio dai suoi inviati e messaggi in Etruria, in Senonia, nell’italico sud. Piegando
forse all’inquietudine della sua indole africana
invece che ponderare una vera e propria riflessione, Annibale scelse di muoversi. Era un uomo
intuitivo, una mente improntata al fiuto e all’esperienza pratica prima che alla meditazione razionale, la sosta lo innervosiva. Decise di avanzare. Valicò gli Appennini all’inizio di maggio,
forse al passo della Collina. Sotto la pioggia eccezionalmente copiosa di quella primavera, l’esercito mosse per selve e per paludi soffrendo
grandemente il logorio della marcia. I Celti, insofferenti per la stretta disciplina imposta da
quel trasferimento periglioso, furono prossimi
ad abbandonare l’impresa, ma comunque resta16 - Quaderni Padani
rono. L’esercito pervenne infine a Fiesole. Da lì
puntò decisamente a sud. Per un’infezione reumatica, dovuta alle fatiche e all’ambiente malsano, Annibale aveva perduto la vista dell’occhio
sinistro, ma egli proseguì imperterrito. Giù per
l’Etruria, per la media Val d’Arno e la Val di
Chiana, verso Roma. Passò Arezzo senza curarsi
di Flaminio, che gli si mise alle costole ma senza azzardare lo scontro prima dell’arrivo di Servilio, che aveva preso le mosse da Rimini e a tappe forzate puntava verso Foligno per effettuare il
congiungimento. Annibale era più forte di ciascuno dei due eserciti nemici divisi, più debole
nel caso si fossero riuniti. Per scongiurare tale
eventualità, scompaginò le carte e giunto sotto
Cortona improvvisamente puntò a est, verso Perugia. Punto di passaggio obbligato, il Lago Trasimeno. Paventando la netta superiorità della
cavalleria nemica, il console Flaminio che ormai
era a ridosso di Annibale non arrischiò pattuglie
in avanscoperta e conseguentemente restò all’oscuro delle sue mosse: un errore che si sarebbe
rivelato fatale. L’esercito alleato accelerò improvvisamente il passo e arrivò al lago a pomeriggio inoltrato. Il sole era ancora alto e vi fu
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
tutto il tempo per riconoscere i luoghi e disporre le forze. Flaminio, che oltretutto era carente
di informazioni sui dintorni, a sera fece campo
qualche chilometro più indietro. Il giorno successivo era il 23 giugno (38). Già di prima mattina la giornata si annunciò torrida e afosa. La
bassa nebbia lacustre gravava sulla riva settentrionale, quando i venticinquemila Romani disposti in colonna di marcia (39) la imboccarono
senza sapere cosa li attendeva. Dopo avere scavalcato un dosso tra gli ulivi essi si ritrovarono
in una conca racchiusa tra le alture e il lago,
lunga circa cinque chilometri e profonda al
massimo tre o quattro. Era il campo di battaglia
prescelto da Annibale. All’estremità orientale del
catino, nel punto in cui le colline di Montigeto
declinano richiudendosi sulla riva, erano appostate le fanterie pesanti libiche e iberiche. Le
fanterie leggere e i frombolieri stavano in agguato lungo l’intera linea dei crinali. I Celti con
tutta la cavalleria erano appostati intorno al dosso che fa da imboccatura, per chiudere la trappola alle spalle del nemico. Non vi erano più elefanti, che comunque sarebbe stato problematico
impiegare su quel terreno chiuso. I Romani
avanzavano nella coltre di nebbia. Quando la testa della colonna si approssimò alle balze di
Montigeto, Annibale ordinò l’attacco generale.
Inferiori di numero e costretti in una posizione
sfavorevole, aggrediti di sorpresa e in formazione di marcia, impossibilitati a manovrare, i Romani non ebbero scampo. Si difesero per tre
ore, stretti dal nemico che premeva da tre lati e
chiusi sul quarto lato dalle acque del lago. Non
vi era più ordine nelle fila, né schieramento alcuno. Il console cadde sul campo, per mano del
lanciere insubre Ducarius (40).
Dopo sei anni il debito dei Celti con Caio Flaminio Nepote era saldato. Tutto attorno, il mas-
sacro. L’estrema resistenza si consumò molto a
est, oltre il campo di Annibale. Là venne sterminato l’ultimo gruppo, che si era aperto la fuga
rompendo la linea tenuta dai Libici. I caduti romani furono quindicimila e forse più, diversi gli
annegati in una impossibile fuga. Tutti gli altri
tranne pochissimi furono fatti prigionieri. L’esercito romano era stato letteralmente polverizzato
nel breve volgere di un mattino. L’altro console
Servilio stava marciando da Foligno e a sera la
sua cavalleria in avanscoperta, quattromila uomini comandati dal propretore Caio Centenio,
giunse in vista del campo di battaglia. Inseguita
e raggiunta il giorno dopo dalla cavalleria numidica di Maarbale, questa forza venne annientata
sotto Perugia, nella valle del fiume Topino, affluente del Tevere. La via di Roma era aperta.
Ma Annibale non attaccò la città che pure era
a meno di una settimana di marcia. Non era
preparato per un lungo assedio e poi la città era
cintata da undici chilometri di mura: con le sue
forze non sarebbe arrivato nemmeno a circondarle. Seguì invece la strategia già abbracciata
all’indomani della Trebbia. Dopo la Padania e
l’Etruria, sarebbe andato a liberare l’Italia. Coerentemente, liberò senza riscatto i prigionieri
italici. Loro tramite. promise l’indipendenza e il
ripristino dei confini a ogni comunità che avesse abbandonato i Romani. Poi puntò a sud. La
storia dei rapporti di Annibale con gli Italici è
interessante e complessa, meriterebbe un degno approfondimento. In questa sede basterà
annotare che in risposta alle profferte avanzate
le reazioni furono contraddittorie e che l’Italia
rimase sostanzialmente al fianco di Roma. I
Celti, che non avevano fatto mancare il proprio
apporto agli Italici durante la cosiddetta terza
guerra sannitica (41) e poi ancora agli Etruschi
nella lotta per Arezzo ( 42), restarono pratica-
(38) Secondo alcune fonti il giorno della battaglia è il 20 giugno, è comunque certo che essa avvenne nell’immediata
prossimità del solstizio.
(39) Flaminio non aveva nemmeno provveduto a formare lo
schieramento per manipoli affiancati, prescritto dal regolamento quando si era in prossimità del nemico.
(40) È la versione romanizzata del nome, quello vero in lingua celtica ci è attualmente sconosciuto.
(41) Iniziatasi nel 299 a.C. la terza guerra sannitica, nell’anno 296 a.C. si formò in funzione antiromana una coalizione
di “quattuor gentes”, cioè di quattro popoli: Sanniti, Etruschi, Celti e Umbri.
L’apporto più consistente all’alleanza venne contribuito dai
Celti Senoni: anche se la guida politica fu esercitata dai
Sanniti col loro capo Gellio Egnazio, l’esercito coalizzato si
radunò in Umbria settentrionale, non lontano dalle basi cel-
tiche sull’Adriatico. La battaglia di Sentino (oggi Sassoferrato, nelle Marche), combattuta nel 295 a.C., vide la sconfitta delle forze riunite dei Celti e dei Sanniti e il conseguente
declino politico e militare dell’alleanza. A Sentino i Celti
usarono certamente i loro carri da guerra, che nella prima
fase dello scontro attaccarono e respinsero la cavalleria nemica. Riorganizzatisi, i Romani presero poi il sopravvento.
La terza guerra sannitica si trascinò comunque fino al 290
a.C..
(42) Arretium, una delle dodici città originarie della confederazione etrusca, divenuta alleata di Roma attorno all’anno
295 a.C., dopo la battaglia di Sentino, fu investita da forze
etrusche indipendentiste appoggiate dai Celti Senoni nel
285 a.C.. Durante l’assedio un esercito romano sopraggiunto in soccorso della piazzaforte venne disastrosamente
sconfitto dalle forze alleate.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Quaderni Padani - 17
Battaglia della Trebbia, 18 dicembre 218 a.C. (8 dicembre secondo alcune fonti). Schieramenti
e movimenti degli opposti eserciti (tratta da Annibale di Gianni Granzotto, Mondadori, Milano,
1980)
mente soli coi Liguri a sostenere Annibale. Se
ne sarebbero rammentati in seguito, ai tempi
della cosiddetta guerra sociale (43), quando a loro
volta avrebbero abbandonato gli Italici al loro
destino. Anche la storia militare della campagna
di Annibale in Italia è molto interessante, e poco
studiata. Ma non è qui argomento in causa.
Dopo diverse vicende, comunque, l’esercito di
Annibale svernò in Apulia. A Roma l’esercito posto al diretto comando dei consoli venne raddoppiato: da quattro a otto legioni. Inoltre gli
organici delle formazioni furono sensibilmente
rafforzati. Metà di quest’armata già fronteggiava
Annibale sulle rive del fiume Fortore, all’estremo nord dell’Apulia. Quando l’altra metà vi si
unì, al comando erano già i nuovi consoli, eletti
nel marzo del 216 a.C.: Lucio Paolo Emilio e
Caio Terenzio Varrone. Avevano alla mano novantamila uomini. Sopravanzavano di più del
doppio le forze di Annibale, che erano di quarantamila. Ma come al solito la cavalleria romana
era scarsa, seimila uomini contro i diecimila del
Cartaginese.
Intanto in Spagna le cose si erano messe piuttosto male per i Barca: i fratelli Publio e Gneo
Scipione avevano ripreso le terre oltre l’Ebro
sconfiggendo e catturando Annone, il cugino
18 - Quaderni Padani
che Annibale aveva lasciato a presidio con un’aliquota delle sue truppe.
Una flotta punica era stata distrutta alle foci
del fiume (battaglia delle Bocche dell’Ebro, 217
a.C.). Peggio, Sagunto era ricaduta in mano romana e rivolte delle tribù iberiche fomentate
dai Romani minacciavano la posizione stessa di
Asdrubale a Nuova Cartagine. Dunque, lo scontro che si preparava in Italia sarebbe stato vieppiù decisivo. Annibale scese di cento chilometri
più a sud, nel cuore dell’Apulia che garantiva
rifornimenti copiosi. Si attestò nei pressi della
località di Canne, al fiume Aufidus (Ofanto),
sulla linea che oggi separa le province italiane
di Foggia e Bari. A fine luglio arrivarono i Romani e si schierarono, coi loro novantamila uomini, sulla riva sinistra del fiume. Annibale teneva campo sulla riva opposta, fronteggiandoli.
Aveva scelto quel terreno per lo scontro ormai
imminente.
(43) Nell’anno 91 a.C. i “socii” italici di Roma di lingua osca,
esclusi quindi i soli Umbri e Apuli, si rivoltarono e costituirono una “confederazione italica” che, salvo il protrarsi di
sporadiche resistenze, venne sconfitta dai Romani nell’88
a.C.. Alla guerra non presero parte i popoli non italici colonizzati da Roma, come gli Etruschi e i Celti.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Battaglia del Lago Trasimeno, 23 giugno 217 a.C. (20 giugno o 27 aprile secondo alcune fonti).
La marcia dei Romani verso la morte (tratta da Annibale di Gianni Granzotto, Mondadori, Milano, 1980)
Canne
Il 31 luglio Varrone ed Emilio passarono a
guado il modesto corso d’acqua e si accamparono sulla sponda destra, impazienti di schiacciare
il nemico sotto il peso della loro enorme superiorità numerica. Il giorno successivo gli opposti
eserciti di disposero alla battaglia. I Romani davano la destra all’Aufidus e le spalle al mare: all’ala destra la cavalleria leggera formata da giovani aristocratici romani, le legioni ammassate
fittamente al centro, la cavalleria pesante italica
all’ala sinistra. Novantamila uomini in un chilometro e mezzo, forse due. Annibale schierò la
cavalleria pesante formata dagli Iberi e soprattutto dai Celti sulla sinistra, appoggiata al fiume, gli uomini a piedi al centro, la cavalleria
leggera numidica sulla destra. Canne restava alle sue spalle.
Il 2 agosto dell’anno 216 a.C. è una data di solennità nazionale nel calendario padano. Su quel
terreno ebbe luogo la battaglia forse più celebre
dell’antichità. In una giornata calda, flagellata
dal vento che spirava dal monte verso il mare,
che si trova a sei chilometri appena, le due armate si affrontarono. Annibale, dall’alto della
collinetta di Canne, misurò subito lo schieramento nemico. Troppo addossata al fiume la caAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
valleria leggera, senza spazio per manovrare.
Schiacciata in quello stretto spazio dalle fanterie
a loro volta tutte ammassate, più fittamente del
solito, sulle abituali tre linee. Era evidente che i
Romani intendevano ripetere la manovra tentata
alla Trebbia: attacco al centro con obiettivo di
sfondamento. Una manovra tradizionale, fondata sulla concezione già svolta con successo da
Alessandro il Grande ad Arbela nel 331 a.C., apportatrice di travolgente successo in caso di riuscita. Ma la cavalleria era mal distribuita, e poi
la legione non era la falange, necessitava di
maggiori spazi per il movimento. Annibale dispose la sua fanteria ad arco, nella parte che
sporgeva in avanti erano alcune unità iberiche e
tutti i Celti. Più prossima al nemico, era la parte
dello schieramento che doveva sostenere l’urto
principale. Fu questa una scelta precisa, mirata
ad attrarre i Romani al centro, assecondando e
anzi massimizzando l’evidente loro disposizione
tattica. Su entrambi i fianchi della fanteria si posizionarono il grosso degli Iberi e tutti i reparti
libici. Questi ultimi erano quelli armati più pesantemente, equipaggiati col materiale preso ai
Romani dopo le precedenti vittorie.
I Romani avanzarono al centro come previsto
e dopo le rituali scaramucce dei volteggiatori
Quaderni Padani - 19
Battaglia di Canne, 2 agosto 216 a.C. L’imperituro capolavoro tattico di Annibale (tratta da Annibale di Gianni Granzotto, Mondadori, Milano, 1980)
vennero subito alle mani col centro avanzato
della fronte nemica. Così ebbe inizio la battaglia.
Polibio ne svolge la memorabile cronaca nel terzo libro delle sue Storie (CXIV-CXVII). I Celti
tennero bravamente le posizioni sia pure a prezzo di perdite molto forti. Ma la riuscita del piano
di battaglia appoggiava proprio sul loro riconosciuto valore. Con la dovuta energia fecero contrasto all’attacco che veniva loro addosso come
un rullo compressore. Poi, lentamente sospinti
dalla pressione soverchiante del numero, iniziarono a rinculare tenendo sempre il nemico in
faccia. La fronte di battaglia indietreggiò, ma
non si ruppe. Se avesse ceduto, sarebbe stata la
fine. Annibale stesso impartiva gli ordini operativi in quel settore cruciale, animando la resistenza dei suoi con calma e sicurezza a pochi
passi dal mulinare delle spade, nel mezzo dei
Celti come uno qualunque di loro.
Nel frattempo le opposte cavallerie si scontravano sulle due ali. Dalla parte del fiume la cavalleria leggera romana, sacrificata in un collo di
bottiglia e senza possibilità di manovra, venne
coinvolta in una mischia corpo a corpo dai cavalieri celtici e iberici e distrutta sul campo. Intanto la cavalleria numidica attaccò dalla parte della pianura la meno agile cavalleria italica e la
tenne immobilizzata con la tipica sequenza delle
20 - Quaderni Padani
sue evoluzioni rapide e avvolgenti. Alle spalle
del nemico sopraggiunse in aiuto la cavalleria
celtica e iberica, già vittoriosa sull’altra ala. Gli
Italici, presi in un carosello vertiginoso, furono
sopraffatti. Molti restarono sul campo, una parte
- compreso lo sciagurato console Terenzio Varrone - fuggì a briglia sciolta in direzione di Venosa, coi Numidi lanciati all’inseguimento.
Al centro della battaglia, intanto, il sottile
schieramento di Annibale era progressivamente
arretrato sotto la pressione dei Romani. Non si
era mai rotto: da convesso era divenuto concavo,
come un elastico che si tende all’indietro. Centocinquanta metri all’indietro, forse duecento.
Secondo il piano di Annibale. I legionari delle
prime file, meccanicamente sospinti dai colleghi
che in ordine serrato li seguivano, si battevano
in spazi sempre più ristretti. Il cuneo massiccio
e risolutore dei Romani, in questo modo, s’infilava sempre più in profondità in un imbuto, i
bordi del quale erano presidiati dai reparti libici,
che non si erano mai mossi dalle posizioni iniziali. Incastrati ormai nella trappola, senza più
possibilità di allargarsi, i Romani non poterono
evitare che i Libici convergessero contro i loro
fianchi, indifesi dopo la duplice disfatta della cavalleria, stringendoli in una ferrea morsa. La
formazione di battaglia della legione era tale,
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
che il combattimento sul fianco non poteva essere sostenuto in formazione serrata, ma per
manipoli o addirittura individualmente. La compattezza assicurata dalla durissima disciplina romana in quel genere di scontro non serviva a
nulla. E d’altra parte per il subitaneo accrescimento degli effettivi Roma aveva dovuto avvalersi di complementi non perfettamente addestrati,
di reclute relativamente inesperte. Nel frangente, solo le prime righe potevano fare uso delle
armi contro il nemico: così anche la conservata
preponderanza numerica dei Romani non era
concretizzabile. Il suggello alle sorti della giornata venne apposto dalla cavalleria pesante di
Annibale, che dopo avere sbaragliato quella nemica fu libera di chiudere la trappola alle spalle
delle legioni. Quando i cavalieri celtici e iberici
ebbero completato l’accerchiamento, non ci fu
più battaglia sul campo ma solo strage. Privi dei
comandanti già tutti caduti, i Romani si batterono con valore ma senza alcun ordine e nel giro
di alcune ore vennero annientati. Insieme al
console Paolo Emilio caddero tutti i capi militari, i proconsoli, due questori, ventinove tribuni
militari, ottanta senatori, il fiore della giovane
aristocrazia romana. Le perdite furono talmente
enormi che i classici ne restarono pressoché increduli. Plutarco e Appiano le stimarono a cinquantamila morti, Quintiliano a sessantamila,
Polibio a settantamila. Forse quest’ultima stima
è approssimata per eccesso, ma certamente non
troppo lontana dal vero: i Romani infatti non ebbero alcuna possibilità di fuga e i vincitori, come scrive Livio, “diedero via libera ai vinti solo
quando si furono stancati di uccidere”. Livio
stesso parla di quarantanovemila morti e ventottomila prigionieri. Polibio stima invece i prigio-
nieri nel numero di diecimila e gli scampati in
quello totale di tremila. Molto diverso il conto
delle perdite di Annibale: ancora Polibio le enumera in meno di seimila uomini (quattromila
tra i Celti, millecinquecento tra Iberi e Libici,
duecento appena nella cavalleria). E’ evidente
che il prezzo di sangue più importante fu pagato
anche quella volta, come alla Trebbia, dai Celti.
E come alla Trebbia fu il prezzo della vittoria. La
manovra a tenaglia di Annibale fece epoca e sarà
citata molti secoli dopo in tutti i manuali militari (44): l’esercito più imponente mai messo in
campo dai Romani annientato in poche ore nella più grande catastrofe militare della loro storia. Ma ciò che era strategicamente più importante, a quel punto Roma era proprio al tappeto.
(44) Alcuni polemologi, in particolare quelli di scuola germanica del secolo scorso, credettero di ravvisare nello schema di
battaglia di Canne una vera e propria rivoluzione nell’arte
guerresca. Più recentemente altri ne dubitano, posto che Annibale stesso non riutilizzò tale schema e che la giornata fu
condizionata da fattori compositi, molto specifici e probabilmente irripetibili. E’ un fatto che Canne sia citata sui manuali classici delle accademie militari d’ogni luogo e tempo, e
che molti condottieri di fama, svariate volte, si siano riferiti
a Canne per intraprendere ovvero per contrastare, mutatis
mutandis, il medesimo svolgimento tattico. Ma forse Canne
fu davvero frutto di un’intuizione folgorante, più che di un’elaborata riflessione. Invero Annibale fu stratega innovativo e
tattico ingegnoso, ma la sua apparente spregiudicatezza un
po’ paradossalmente si compendiava nel considerare - come
già aveva fatto Alessandro il Grande - la guerra come una
scienza codificabile e perciò tramandabile. L’uso dello spionaggio e dei servizi informativi, la grande mobilità, la natura-
le avversione per le soste e le operazioni d’assedio, il ricorso
agli stratagemmi e alla sorpresa, la riduzione al minimo dei
servizi logistici e delle linee di rifornimento, la capacità di superare ostacoli naturali ritenuti invincibili: questi furono i
principali apporti di Annibale alla tecnica militare della sua
epoca, in qualche caso anticipando innovazioni che molti secoli dopo sarebbero state considerate “rivoluzionarie”.
(45) Il 21 luglio 1861, presso Manassas, i Confederati clamorosamente vinsero la prima vera battaglia della guerra d’indipendenza che li opponeva all’Unione (cosiddetta “guerra di
secessione”). Anche in quel caso le forze dei vincitori erano
ampiamente insufficienti per potere trasformare una vittoria
sonante in decisiva, e anche in quel caso alcuni polemisti
sostennero che un’occasione d’oro non era stata colta. In
realtà l’esito dello scontro di Manassas, in sé modesto, fu
amplificato date l’albagia e la sicumera con le quali gli Unionisti, come i Romani a Canne, affrontarono la battaglia
uscendone disastrosamente sconfitti.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Il lento declino verso la sconfitta
Secondo diversi commentatori, dopo Canne
Annibale non colse l’occasione più propizia per
trasformare il “knock down” inflitto a Roma in
un definitivo “knock out”. Quella sarebbe stata
la svolta decisiva della campagna, la recondita
premessa della successiva sconfitta. Duemilasettantasette anni dopo, analoghe critiche sarebbero state mosse alle armate confederate che dopo
la sonante vittoria sul fiume Bull Run (45) non
investirono subito Washington. In un caso come
nell’altro, tuttavia, la critica era ampiamente
controvertibile. Maarbale, comandante della cavalleria, chiese ad Annibale di potere galoppare
direttamente su Roma. “Tra cinque giorni ti preparerò la cena in Campidoglio”, gli avrebbe proposto. Ma Annibale non accolse quell’ingenua
proposta. Roma era solidamente cintata per una
circonferenza di undici chilometri. Le mura erano alte fino a nove metri e spesse fino a quattro.
Quaderni Padani - 21
“La carica degli Elefanti”. La battaglia di Canne secondo il celebre incisore Pinelli (sec. XIX).
La partecipazione degli elefanti alla battaglia è un anacronismo artistico: a quell’epoca i trentasette elefanti dell’esercito di Annibale erano già tutti morti (tratta da Miles di Silvio Bertoldi,
Vol. 1°, Fabbri Editori, Milano, 1985)
La guarnigione era composta da due legioni.
Prendere la città d’assalto non era possibile. E
d’altra parte Annibale non disponeva di idonee
macchine ossidionali, né di una rete stabile di
rifornimenti, né di sufficienti forze, per mettervi
l’assedio. Verosimilmente, dunque, sul piano
strategico il dopo-Canne non costituì un vero
punto tornante.
La terribile sconfitta patita dai Romani a Canne, in ogni caso, diede subito i suoi frutti. Città
e comunità italiche dell’Apulia, dell’Irpinia, del
Sannio, del Bruzio, della Lucania passarono l’una dopo l’altra con Annibale. Capua, la seconda
città italica dopo Roma, prospera e raffinata, legata ai Romani da un’alleanza obbligata e da
una “civitas sine suffragio” (46), gli aprì le porte
come autonoma alleata. Sembrava destinata a
mettersi a capo degli Italici in via di ribellione: a
sud di una linea che approssimativamente correva dal Gran Sasso al corso del Garigliano, le
alleanze con Roma erano state in gran parte
cancellate.
La guerra continuò, diversi scontri si susseguirono. Nessuno però fu decisivo. Dice Polibio
di questo lungo periodo di logoramento: “Le vi22 - Quaderni Padani
cissitudini della fortuna vennero a dare a ciascuno dei due nemici, volta a volta, ora dei successi
e ora dei rovesci”. In tutta questa fase relativamente oscura della campagna, che durò molti
anni, i Celti restarono al fianco di Annibale (e
avrebbero aiutato anche suo fratello Asdrubale)
in tutte le battaglie (47).
Nel novembre dell’anno 216 (48) la legione del
console Lucio Postumio Albino (49) venne distrutta dai Celti Boi nella Silva Litana, una fitta
foresta paludosa sita tra Bologna e Ferrara,
presso il fiume Reno e l’attuale città di Cento.
Lo stesso console restò ucciso e i Druidi di Fel(46) Diritto alla cittadinanza romana ma senza godimento dei
privilegi politici ed elettorali.
(47) Essi seguiranno addirittura Annibale in Africa al suo
rientro via mare nella primavera del 203 a.C., tra i quindicimila superstiti dell’esercito alleato.
(48) Secondo alcune fonti questo episodio è invece da collocare nei primi mesi dell’anno 215.
(49) Nel suo consolato dell’anno 234 aveva sconfitto i Liguri,
in quello del 229-228 aveva sconfitto gli Illiri della regina
Teuta. Dopo la morte di Lucio Paolo Emilio a Canne era stato nominato “suffectus”, cioè suo sostituto come console fino al termine del mandato annuale.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
sina (50) libarono col suo cranio laminato d’oro.
Le ostilità ripresero nella primavera del 215.
Annibale non riuscì a prendere il porto di Napoli, gli alleati Capuani furono battuti davanti a
Cuma.
La stessa Capua, così simile a Cartagine nello
spirito mercantile, colta ed elegante, non offrì il
decisivo sostegno sperato. Il suo clima rilassato
e la relativa determinazione alla lotta finirono
anzi per invischiare lo stesso esercito cartaginese - che vi trascorse l’inverno 216-215 - in quelli che sarebbero appunto stati chiamati gli “ozi
di Capua”.
Anche il tentativo di portare soccorso ai ribelli
filocartaginesi di Nola venne frustrato dal pretore Marco Claudio Marcello.
Annibale spostò la sua base ad Arpi, in Daunia
(51) e da lì mosse per espugnare Locri e Crotone.
Nell’estate del 215 l’ammiraglio Bomilcare gli
recò da Cartagine un piccolo rinforzo di quattromila uomini con quaranta elefanti, ma intanto una flotta punica diretta in Sardegna per
sbarcarvi un importante corpo di truppe venne
annientata dalle navi romane con la perdita di
tutta la spedizione.
La flotta romana incrociava a ridosso delle coste italiane e siciliane, sorvegliando i movimenti
navali del nemico. Come forze mobili in Italia
operavano quindici legioni: due a Roma, sei in
Campania e una nel Piceno, più altre sei di nuovissima formazione (52). Annibale si muoveva liberamente nel sud, ma veniva tenuto a debita
distanza sia da Roma sia da obiettivi strategici
decisivi. Ciò consentì ai Romani di rinsaldare il
quadro delle loro pericolanti alleanze nella penisola.
Ancora nel 215 Annibale stipulò personalmente un’alleanza col giovane sovrano Filippo V di
Macedonia. Ciò scatenò la prima guerra macedonica tra Filippo e Roma, ma non produsse alcun effetto reale rispetto alla situazione sul
campo (53). Annibale tentò per quattro volte di
raggiungere da Capua il litorale campano, che
distava appena venticinque chilometri. ma ogni
volta fallì l’obiettivo.
Tra l’anno 214 e il 213 la guerra si trascinò
nella pania del logoramento. I Romani controllavano le strade e si appoggiavano su una rete di
centri fortificati che resistevano pur nell’ambito
dei territori occupati da Annibale. La superiorità
numerica, fortissima nello spiegamento generale di scacchiere, consentiva loro di imporre al
nemico la micidiale strategia del temporeggiamento, che consumava le scarse forze di AnniAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
bale sottraendogli la possibilità di misurarsi in
uno scontro decisivo. Annibale, da parte sua,
non si arrischiava nemmeno a stringere d’assedio le piazzeforti alleate dei Romani: non aveva
l’equipaggiamento, né a tale scopo poteva distaccare contingenti troppo numerosi.
Ad Annibale veniva meno il vantaggio della
mobilità. Roma metteva in campo forze sempre
più numerose e poco alla volta iniziava a riprendersi il territorio perduto. Un corpo di quattro
legioni era schierato davanti a Capua, un altro di
eguale consistenza fronteggiava Annibale in
Apulia.
Verso la fine dell’anno 216 era morto Gerone
di Siracusa e dopo un periodo di torbidi civili la
città (una vera metropoli dell’epoca, di importanza paragonabile a quella di Cartagine e di
Roma) si era alleata con Annibale. Da Siracusa
l’influenza cartaginese si era diffusa come in
una vampata per tutta la Sicilia ridestandone le
mai sopite inclinazioni antiromane, fino a minacciare i muniti presidi che i Romani avevano
stabilito sull’isola. Nel 213 due eserciti e una
flotta, al comando di Marco Claudio Marcello,
posero uno stretto assedio alla città. Bomilcare
vi sbarcò aiuti, mentre Archimede collaborava
alla difesa coi suoi straordinari congegni. Una
forza cartaginese di soccorso, approdata presso
Agrigento, diresse a est ma venne affrontata e
sconfitta da Marcello in battaglia campale. Siracusa cadde infine, nella primavera del 212.
Poco prima che ciò accadesse, i Tarantini erano insorti contro il presidio romano, che si era
rinchiuso nella rocca, e avevano aperto le porte
ad Annibale. Le città greche del golfo, da Metaponto a Turi, avevano seguito in blocco. Taranto
era la terza città dell’Italia romana e costituiva
con Siracusa una coppia di porti essenziale per
Annibale. Tuttavia non fu possibile venire a capo
della resistenza dei cinquemila Romani rinserra-
(50) L’antico insediamento etrusco di Felsina fu conquistato
dai Celti Boi attorno all’anno 350 a.C. e ne divenne il principale centro. I Romani lo espugnarono, insediandovi la propria colonia di Bononia (oggi: Bologna), solo nel 189.
(51) Dal greco ∆αυνιοι, nome col quale i greci designavano
gli abitanti della regione compresa tra i fiumi Ofanto e Fortore (attualmente: Puglia settentrionale). Assieme ai Messapi
e ai Peucezi erano parte degli Iapigi, che i Romani chiamarono Apuli.
(52) Altre forze erano impegnate nella penisola iberica, in Padania, in Sicilia e in Sardegna.
(53) Un’offensiva di Filippo contro la base romana di Apollonia, situata alla foce del fiume Vojussa (attualmente Albania), proprio di fronte a Brindisi, fallì miseramente.
Quaderni Padani - 23
ti nella cittadella che dominava l’accesso al porto, quindi Annibale
fece transitare le navi per l’istmo tra la costa e la rada, sopra enormi rulli di legno
appositamente costruiti.
Poi una nuova vittoria,
significativa ma certamente non decisiva,
venne colta da Annibale
in Lucania contro le
forze di Centenio Penula: il primo vero successo sul campo, dopo
quello di Canne.
Ma intanto, in quell’anno 212, i Romani avevano
stretto le maglie dell’assedio attorno a Capua, su cui
premevano ormai con circa
cinquantamila uomini. Annibale
mandava rifornimenti dall’Apulia. Il
suo luogotenente Annone, al comando
di una spedizione di vettovaglie, venne attaccato
di sorpresa dai Romani e nonostante una valorosa difesa tutto il convoglio andò perduto. Annibale mosse allora personalmente alla testa delle
truppe verso la Campania. A Benevento era ad
attenderlo Tiberio Sempronio Gracco, già console l’anno prima, per intercettarne la marcia.
Era maggio. In un attacco di sorpresa, condotto
dalla cavalleria, il comandante romano restò ucciso e le sue forze vennero messe in rotta. Pochi
giorni dopo, Annibale entrò per la seconda volta
in Capua, accolto come liberatore. E infatti i Romani furono costretti ad allentare la pressione
sulla città, che potè riprendere a respirare.
Annibale tornò in Apulia a svernare nei primi
mesi dell’anno 211 e i Romani ripresero l’assedio a Capua, questa volta munendo le proprie
posizioni di opere poderose di circonvallazione e
di controvallazione (54). Annibale ritornò in soccorso alla fine di marzo. Tentò inutilmente un
attacco di cavalleria appoggiato dagli elefanti. I
Romani perfettamente trincerati non si smossero. Su quel terreno non era possibile manovrare
per una battaglia campale. Con un lampo di fantasia, Annibale si risolse allora a giocare la carta
insidiosa e rischiosa dell’intimidazione strategica. Solo condottieri di eccezionale tempra, nel
corso della storia, sarebbero stati capaci di attingere efficacemente a quel difficilissimo repertorio: Napoleone Buonaparte, Robert Edward Lee,
Erwin Rommel. L’intimidazione strategica è ti24 - Quaderni Padani
“Annibale”, incisione ottocentesca
picamente la risorsa ultima
del grande generale che, in
sensibilissima inferiorità di
forze, distoglie l’attenzione del nemico dallo scacchiere principale minacciando un’azione ardita
e ficcante diretta al
cuore del nemico stesso. Dunque Annibale
formò un’agile colonna
di uomini scelti, poche
migliaia soltanto di fanti
a cavalieri, e risalì attraverso le montagne puntando su Roma. Saccheggiando e sterminando, quell’armata si portò fin sotto le
mura della città, nella quale il
panico già serpeggiava. Annibale
mise campo a tre o quattro miglia di distanza, fece scorrerie nei dintorni, in segno di
sfida - si favoleggia - lanciò personalmente un
giavellotto oltre la cinta. Vi fu qualche scaramuccia con le pattuglie inviate fuori dalle mura.
Ma i Romani conservarono il sangue freddo.
L’assedio a Capua non fu tolto, solo un pugno di
uomini ne vennero distaccati per sorvegliare l’evolversi della situazione. E d’altra parte Roma
restava imprendibile. Così Annibale dopo cinque
giorni appena levò le tende e si ritirò verso sud.
Il neoconsole Publio Sulpicio Galba uscì dalla
città con alcuni reparti e attaccò la cavalleria
numidica che proteggeva il ripiegamento del
grosso, infliggendole perdite. Fattosi baldanzoso, il console proseguì l’inseguimento fino all’altezza del fiume Liri. Allora Annibale ne attaccò
il campo in piena notte, disfacendo le sue forze.
Poi proseguì la ritirata verso l’Apulia: Capua era
condannata, e infatti si arrese alla metà di aprile. Era, quella, la prima vera sconfitta di Annibale in otto anni di guerra. I Romani si abbandonarono a sanguinose vendette, le terre di Capua
furono assegnate al pubblico demanio, molti cittadini vennero ridotti in schiavitù. Capua, privata dello statuto municipale e ridotta al rango di
piccolo mercato agricolo, non si sarebbe ripresa
mai più.
(54) In scala minore, ciò che Caio Giulio Cesare avrebbe fatto
cingendo d’assedio Alesia nell’anno 52 a.C..
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Pressoché contemporaneamente alla caduta di
Capua, tuttavia, un evento insperato venne a risollevare lo spirito e le sorti della parte cartaginese. I fratelli Publio e Gneo Scipione, in due distinte battaglie avvenute a meno di un mese l’una
dall’altra, erano stati battuti e uccisi in Iberia da
Asdrubale. Le forze al loro comando erano state
distrutte. I Romani, che dopo la riconquista di
Sagunto avevano iniziato a penetrare in profondità nel territorio controllato dai Cartaginesi, costringendo questi ultimi a dirottare laggiù buona
parte dei rinforzi destinati ad Annibale, erano stati costretti a ripiegare a nord dell’Ebro.
Un grave colpo, per Roma. Ma dopo la presa di
Capua aveva abbondanza di forze e subito
mandò Caio Claudio Nerone con buoni rinforzi
a Tarragona per tagliare la strada ad Asdrubale.
Annibale, da parte sua, dopo il disastro di Capua aveva visto il proprio credito diminuire
presso quegli Italici che gli si erano alleati. Si
mise a colpire qua e là, in uno spazio sempre più
ristretto dopo la perdita della Campania e della
Sicilia. Espugnò Reggio, ma nel frattempo altri
centri tornavano ai Romani.
Nell’estate dell’anno 209, dopo un lungo assedio, cadde anche Taranto per il tradimento del
comandante la guarnigione. La città venne saccheggiata, i trentamila abitanti furono venduti
come schiavi. Annibale non arrivò a tempo per
impedire quel tragico epilogo. E nella primavera
dello stesso anno un altro grave rovescio aveva
colpito i Cartaginesi in Iberia. Publio Cornelio
Scipione, figlio dell’omonimo ucciso nel 211,
l’anno seguente era stato designato a soli venticinque anni come nuovo comandante di quel
fronte. Con due legioni di rinforzo, era passato
all’offensiva. Uscito da Tarragona, l’esercito romano forte di trentamila uomini passò l’Ebro e
mentre Asdrubale lo attendeva sui monti
piombò su Nuova Cartagine con l’appoggio della
flotta e la conquistò d’impeto, prendendo diecimila prigionieri. Ma non era finita: nella primavera successiva 208 a.C. il giovane Scipione
sfuggì alla morsa di tre armate nemiche che lo
braccavano e grazie a una manovra magistrale,
nel perfetto stile di Annibale, pur combattendo
con terreno sfavorevole inflisse ad Asdrubale la
bruciante sconfitta di Becula, sul Guadalquivir,
che costò ai Cartaginesi 8.000 caduti, circa
10.000 prigionieri e soprattutto il controllo dell’importante comprensorio minerario attivato
da Amilcare.
I Cartaginesi sembravano davvero alle corde.
Ma la sorte aveva ancora in serbo delle sorprese.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Nuovamente nella primavera del 208, Annibale
si misurò coi Romani sulle alture nei pressi di
Banzi, circa 35 chilometri a sudest di Venosa. In
uno scontro di avanguardie i due consoli romani
in carica, Marco Claudio Marcello e Tito Quinzio
Crispino, persero la vita. Il loro esercito viene
sbaragliato. Una fulgida vittoria, che tolse di
mezzo uno degli uomini-simbolo del nemico,
quel Claudio Marcello già occupatore di Milano
che in seguito, durante la guerra contro Annibale, non aveva perso l’occasione di accumulare
profitti personali in Sicilia (55).
Alle soglie dell’autunno successivo Asdrubale,
apparentemente ridotto sulla difensiva e respinto dalla costa sulle montagne, riuscì a filtrare attraverso lo schermo approntato dai Romani e,
portatosi all’estremo nord fin sull’Atlantico, valicò i Pirenei passando in Aquitania. Qui svernò
con le sue truppe per poi discendere in Occitania nella successiva primavera del 207 e riprendere grosso modo il cammino già percorso da
Annibale quasi undici anni prima dal Rodano alle Alpi. Asdrubale le valicò ad aprile, con pochi
danni, e a maggio era sul Po con trentamila uomini e una trentina di elefanti. Erano due anni
che Annibale, secondo le intese, lo attendeva.
Nella Padania celtica, escludendo le terre dei Cenomani (56), i Romani tenevano ormai soltanto
le colonie-fortezze di Cremona e Piacenza.
Asdrubale tentò inutilmente di assediare quest’ultima e ci perse un mese. Ma nel frattempo
nuovi combattenti padani accorsero tra le sue
schiere, e tra questi un agguerrito contingente
di ottomila Liguri. Rinforzato così l’esercito, alle
soglie dell’estate Asdrubale mosse verso sud per
unire le proprie forze a quelle del fratello.
L’ultima occasione: il Metauro
In quell’anno 207 Roma aveva alle armi qualcosa come ventitré legioni, per complessivi duecentomila uomini circa. Otto erano dislocate in
Iberia e nelle isole. Tre se ne stavano di riserva a
Roma e a Capua. In campo contro i due fratelli
(55) A vergogna di Milano, tuttora una via cittadina risulta intitolata a questo tristo individuo al quale più appropriatamente dovrebbe essere intitolata un’epigrafe di esecrazione.
(56) I Cenomani, una comunità celtica appartenente alla confederazione degli Aulerci, originariamente stanziata tra la
Loira e la Senna nella regione di Maine, verso il 400 a.C. trasmigrò in Padania venendosi a stabilire tra l’Adige e l’Adda,
in un’area approssimativamente definita dalle attuali città di
Brescia, Verona, Cremona. Alleati di Roma dal 225 a.C., furono gli unici Celti padani a non insorgere al fianco di Annibale durante la seconda guerra punica.
Quaderni Padani - 25
Barca ne erano schierate dodici, al comando dei
due consoli neoeletti Caio Claudio Nerone e
Marco Livio Salinatore. Nerone con sei legioni
era attestato a Venosa, in faccia ad Annibale. Salinatore con le altre sei tra Rimini e Arezzo, cioè
sulla nuova linea di confine oltre la quale i Romani, cacciati dalla Padania, erano stati ributtati. I messaggi inviati ad Annibale dal fratello per
Statuina proveniente dagli scavi di Pompei che
raffigura un elefante da guerra (uno dei simboli
dell’impresa annibalica in Italia) e un soldato
annunciare il suo arrivo furono intercettati dai
Romani. Asdrubale intraprese quindi la marcia
all’insaputa di Annibale. Se i due eserciti fossero
riusciti a riunirsi, la guerra avrebbe potuto subire una svolta decisiva. I Romani erano ben decisi
a impedirlo. Non appena Asdrubale piegò verso
la costa adriatica mossero le proprie pedine. Le
due legioni dislocate a Rimini agli ordini del
pretore Porcio Licinio ripiegarono lentamente
davanti al nemico per rallentarne la marcia,
mentre il grosso dell’armata di Livio Salinatore lasciato un presidio di forze ad Arezzo a sorve26 - Quaderni Padani
gliare l’Etruria inquieta - a tappe forzate puntò
su Senigallia. Le opposte forze pervennero a
fronteggiarsi sul fiume Metauro, a mezza strada
circa tra Fano e Fossombrone, a una quindicina
di chilometri dalla costa. Salinatore aveva raggiunto Licinio e dunque aveva alla mano circa
trentamila uomini. Asdrubale, da parte sua, era
arrivato fin lì con una forza leggermente superiore, recando seco una decina di elefanti superstiti. I due schieramenti ristettero l’uno in faccia
all’altro, cercando Asdrubale di comprendere le
reali intenzioni del nemico. Nel frattempo l’altro
console Nerone si muoveva verso nord con un
corpo scelto di ottomila uomini, lasciando il
grosso dei suoi a trattenere Annibale in Daunia.
Le fila di questo reparto si ingrossarono notevolmente per via. Con un’incredibile marcia di soli
dieci giorni, compiuta al ritmo di diciotto ore al
giorno e in aperta violazione delle prescritte
procedure (57), Nerone raggiunse il collega assicurando a Roma la superiorità numerica sul
campo. E’ stimato che a questo punto i Romani
disponessero di circa quarantacinquemila uomini, gli alleati di trentacinquemila. Si era alla fine
di giugno. I Romani erano attestati sulla riva destra del Metauro, dunque a sud del corso del fiume, dalla parte di Fano, volgendo le spalle alla
costa e tenendo sotto controllo sia la strada costiera adriatica sia la via Flaminia nell’importante tratto che da Fano adduceva verso l’interno
(58). Asdrubale aveva messo campo sulla riva sinistra, a nord del fiume, dalla parte di Fossombrone, con le spalle coperte dalle alture e il corso d’acqua tra sé e il nemico: una posizione forte, che com’era nelle sue abitudini aveva scelto
con cura, funzionale al suo disegno di lasciare ai
Romani la prima mossa per poterli prendere in
contropiede. Ma quando essi, non potendo indugiare con il pensiero rivolto ad Annibale lontano, si schierarono in ordine di battaglia, Asdrubale si accorse che cospicui rinforzi si erano aggregati all’esercito nemico e riconobbe la propria sopravvenuta inferiorità numerica. Si trin(57) Era assolutamente vietato ai consoli in carica di abbandonare le province assegnate e soprattutto di portarsi in
quelle attribuite al collega, senza la speciale autorizzazione
del Senato.
(58) La via Flaminia metteva in collegamento Roma con Rimini attraversando le terre della Sabinia e dell’Umbria. Raggiungeva la costa a Fano e da lì piegava verso nord lungo il
mare dirigendo verso Rimini. Fano era quindi un’importante snodo strategico per un esercito che volesse marciare verso sud, da lì potendo scegliere se procedere per via di costa o
inoltrarsi invece nell’interno.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
cerò allora nel proprio campo che era ben
munito e che i Romani non osarono attaccare
d’impeto. Non appena scese l’oscurità, Asdrubale guidò i suoi lungo il fiume verso l’interno,
cercando un guado per aggirare lo sbarramento
nemico e proseguire verso l’Umbria. Non sapeva che i suoi messaggi ad Annibale erano stati
intercettati, pensava che il fratello stesse dirigendosi all’appuntamento, fissato nei pressi di
Narni. Sperava di sgusciare silenziosamente
sotto il naso dei Romani, invece smarrì la via e
vagò inutilmente per tutta la notte, stancando
gli uomini e logorandone il morale. I Celti, poco inclini alla disciplina rigida e innervositi da
quell’inconcludente andirivieni, si staccarono
riportandosi in cima all’altura ove erano stati
accampati il giorno prima. Al sorgere del sole i
Romani passarono il fiume in forze, con la cavalleria in testa, portandosi a ridosso del nemico. Asdrubale ritenne impossibile proseguire il
ripiegamento sotto l’assillo del nemico e immediatamente si risolse a combattere. Entrambi
gli eserciti si trovavano a nord del fiume, al
quale gli alleati davano la destra e i Romani la
sinistra. Il luogo era ricompreso, approssimativamente, tra due modesti affluenti del Metauro,
il Maggiore e lo Scarlino, poco a sud della località di Tavernelle, a cavallo della via Flaminia.
Asdrubale lasciò che i Celti restassero a presidio del colle, probabilmente il Monte degli
Sterpeti, che copriva la sinistra del suo schieramento. Da lì il terreno digradava al fiume in
pendio per una distanza di millecinquecento
metri circa. Asdrubale occupò quel pendio per
costringere i Romani ad attaccare dal basso e
dispose la propria linea di combattimento con i
Liguri al bordo dell’altura a tenere il centro,
mentre la destra che appoggiava al fiume era
costituita dagli Iberi e dalle truppe d’Africa. I
Romani mossero in avanti, con Nerone alla destra in faccia ai Celti, Licinio al centro contrapposto ai Liguri e Livio Salinatore alla sinistra,
un po’ più avanzato. Egli infatti venne subito a
contatto con la destra di Asdrubale, che validamente resistette. Poi fu Licinio ad attaccare al
centro, ma anche i Liguri non cedettero terreno. In quanto a Nerone, tentò di risalire l’altura
tenuta dai Celti ma questi ripetutamente lo respinsero con micidiali lanci di giavellotti e macigni. Le sorti della battaglia, nonostante la netta superiorità numerica dei Romani, erano in
equilibrio. Asdrubale tentò allora il colpo a sorpresa: si mise alla testa della cavalleria e condusse un attacco lungo il fiume, tentando di agAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
“Annibale guarda la testa di Asdrubale”, Giovan Battista Tiepolo, 1725-1730 (Vienna,
Kunsthistorisches Museum)
girare il nemico sulla sinistra. Ma la sua mossa
non fu abbastanza rapida, i Romani riuscirono a
bloccarla. A quel punto l’iniziativa passò di mano: mentre la battaglia infuriava su tutto il
fronte, Nerone che a differenza dei colleghi non
era impegnato a contatto fisico col nemico essendo tenuto a distanza dai getti dei Celti, lasciò in posizione una forza di copertura e sfilò
col grosso dei suoi alle spalle dello schieramento amico, portandosi dalla parte del fiume e assalendo di fianco la destra alleata nel momento
in cui essa più duramente era impegnata a fronteggiare l’attacco di Salinatore. Una mossa di
Quaderni Padani - 27
scuola annibalica, che decise la battaglia. La destra di Asdrubale fu sospinta in disordine addosso al centro ed entrambi i settori, sopraffatti dal
numero, vennero annientati. I soldati alleati
combatterono con valore fino all’ultimo e caddero quasi tutti sul posto. Asdrubale si avvide
della catastrofe e senza esitare andò a cercare la
morte spronando con la spada in pugno nel folto delle schiere nemiche. I Celti soccombettero
per ultimi: quando già tutti gli altri erano stati
massacrati, le soverchianti forze nemiche accerchiarono la loro posizione e li sterminarono.
La battaglia del Metauro costituì una vera
svolta, forse il secondo momento veramente decisivo della campagna dopo quello della discesa
dalla Padania in Italia di dieci anni prima. Se
Asdrubale l’avesse vinta, o se soltanto fosse riuscito a passare e a raggiungere il fratello, le sorti di tutta la guerra avrebbero potuto essere rovesciate. Quando, alcuni giorni dopo, la testa di
Asdrubale venne gettata da un cavaliere romano
nel campo di Annibale, come macabro araldo di
un inopinato disastro (59), egli pianse per il dolore e per la rabbia.
La guerra si sarebbe trascinata per cinque anni ancora, in Italia, in Iberia e in Africa. Cinque
anni di lotta disperata che si sarebbe conclusa,
sulla piana di Zama (60), nell’ottobre dell’anno
202. Ma in quell’estate del 207, con ogni probabilità, le sue sorti furono definitivamente segnate. La Padania celtica aveva vissuto la propria Alesia (61) ante litteram.
Alcune considerazioni conclusive
Come sempre accade, sono i vincitori a scrivere la storia. E d’altra parte pochi, tra i personaggi storici di primo piano, furono vittime nella
misura di Annibale della damnatio memoriae
che solitamente è decretata in danno dei vinti.
Non esiste quindi, della guerra annibalica, alcuna versione di parte cartaginese (62). Molti autori
si occuparono del conflitto tra Cartagine e Roma,
quattro soli però sono quelli noti che scrissero in
dettaglio della vita di Annibale: Polibio, Tito Livio, Cornelio Nepote e Lucio Anneo Floro.
Polibio (201 circa - 118 circa a.C.) era greco e
fu tradotto come ostaggio a Roma, ove divenne
amico di Scipione Emiliano e di Fabio Massimo
e ammiratore dei Romani. Fu testimone oculare
della distruzione di Cartagine (146 a.C.) e nelle
sue Storie magnificò i destini di Roma conquistatrice.
Tito Livio (59 a.C. circa - 17 d.C.) era padovano e visse in epoca augustea. Scrisse una monumentale storia di Roma in 142 libri (Ab Urbe
condita libri) dedicata al primo popolo dell’universo e che gli storici considerano d’intenti
“moralistici e patriottici”. Nonostante l’evidente
inclinazione agiografica, forse dipinse di Annibale, come persona, il ritratto meno smaccatamente partigiano.
Di Cornelio Nepote (tra il 98 e l’86 a.C. - tra il
42 e il 32 oppure nel 25 a.C.), mantovano di
Ostiglia, sono pervenuti solo frammenti della
principale opera De viris illustribus, tra i quali il
libro III che contiene un capitolo piuttosto sintetico sulla vita di Annibale.
In quanto a Floro, un latino di origine africana vissuto nel I o nel II secolo d.C., se ne sa abbastanza poco. Fu amico dell’imperatore Adriano e scrisse la Epitome o Compendio di storia
romana dalle origini fino al tempo di Augusto.
Da queste fonti, oltre che da alcune ricostruzioni moderne principalmente effettuate da storici militari, è attualmente possibile ricavare le
nostre conoscenze della guerra condotta da Annibale in Padania e in Italia. I limiti di obiettività degli storici latini o latinizzati sono eviden-
(59) Il “barbaro” Annibale, spietato odiatore dei Romani, aveva
sempre onorato in morte i suoi nemici: Caio Flaminio caduto
al Trasimeno, Paolo Emilio morto a Canne, Sempronio Gracco ucciso a Benevento. Di Claudio Marcello, perito nello
scontro di Banzi, inviò addirittura a Roma le ceneri racchiuse
in un’urna d’argento. Agli stessi Celti, ai quali spesso si rimprovera di essersi fregiati delle teste dei nemici uccisi e di
avere praticato sacrifici umani, si riconosce di non avere coltivato siffatte pratiche per efferatezza, bensì per mere finalità
rituali e religiose (non a caso i Celti furono una delle pochissime nazioni dell’antichità a ignorare la pratica della tortura
sui nemici). La fredda brutalità dei “civili” Romani, asseriti
iniziatori e maestri in materia di diritto, attesta di converso
la selvaggia natura del loro espansionismo aggressivo.
(60) Secondo alcuni storici, nella località di Naraggara.
(61) Fu ad Alesia, nell’anno 52 a.C., che con la sconfitta del capo Vercingetorix ebbe fine la tenace resistenza antiromana
dei Celti transalpini. La circostanza è particolarmente nota in
quanto esaltata da Caio Giulio Cesare, vincitore della battaglia, nel “De bello gallico”. L’antico sito di Alesia trovasi in località Alise-Sainte-Reine, nella Cote d’Or, circa dodici chilometri a nordest di Sémur, nell’attuale regione della Borgogna.
(62) Alla partenza della sua spedizione, Annibale condusse seco due memorialisti di lingua greca, lo spartano Sosilo e il
siculo Sileno, che certamente annotarono i fatti dei quali furono testimoni accompagnando l’esercito, ma di tali opere
non resta nulla (probabilmente scomparvero nel giro di pochi decenni), anche se Polibio e il suo contemporaneo Celio
Antipatro forse poterono consultarle.
28 - Quaderni Padani
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
ti (63). In quanto alla parte avuta dai Celti nella
seconda guerra punica e nelle coeve vicende, le
notizie sono ancora più frammentarie e tendenziose, tant’è che ogni ricostruzione pur se modesta non può non basarsi sul duplice procedimento del filtro e della giustapposizione di testimonianze coeve. D’altro luogo, la drammatica
carenza di attendibile documentazione scritta
costituisce un limite purtroppo ormai noto nella
esplorazione analitica della storia delle comunità celtiche.
L’aspetto politico dell’azione intrapresa dai
Celti di Padania nella guerra di Annibale è evidente, non necessita di commenti: tale azione
costituì l’ultimo tentativo su vasta scala di preservare la propria indipendenza e quindi anche pur se non del tutto consapevolmente - la propria identità etnica. Certamente comunque fu
una lotta per la libertà.
Se Annibale, dopo i primi successi, non avesse
deciso di portare la guerra in Italia, forse il conflitto avrebbe avuto esito diverso. Forse le terre
padane avrebbero preservato la propria indipendenza, o forse no. Comunque, la loro storia e i
loro destini avrebbero preso un’altra piega.
Non si può dire che tra Cartaginesi e Celti,
pur nei comuni destini della guerra, sia mai esistita una “intesa etnica”. I due popoli, come si è
visto, erano tra loro assai diversi nelle radici,
nelle indoli, nelle mentalità, nei comportamenti
sociali. È anzi possibile che per alcuni aspetti
particolari, come le fonti classiche lasciano fuggevolmente intendere, Annibale diffidasse un
poco degli alleati. Purtuttavia il quadro relazionale che si compone a una meditata lettura delle
vicende è connotato da rispetto e considerazione
reciproci. Né i rapporti tra i Celti e il condottiero punico avrebbero potuto durare tanto a lungo
nel tempo e resistere alle avversità della fortuna,
se così non fosse stato. Può essere che la convergenza degli intenti fosse inizialmente dovuta a
considerazioni di opportunità immediata (per i
Celti la libertà da Roma poteva ben valere l’alleanza con qualunque nemico del nemico), ma
che poi essa definitivamente si temprasse via
via che la durezza del conflitto metteva alla prova e rinsaldava i propositi antiromani e la combattività di entrambi gli alleati.
In quanto al ruolo più strettamente militare
assolto dai Celti nel corso della guerra, alcuni
aspetti meritano un cenno di approfondimento.
Del pari ai cugini Germani, i Celti non costituivano un popolo guerriero. Essi erano soprattutto dei contadini, le migrazioni e le guerre
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
erano causate dalla necessità di terre da coltivo
e da pascolo. Il loro comportamento in battaglia,
oltre che dall’indubbio coraggio individuale, era
determinato da diversi fattori. La predisposizione fisica, innanzitutto. Non pare azzardato
estendere in via generale ai Celti quelle stesse
caratteristiche che Tacito attribuisce ai Germani: “... grandi corporature adatte soprattutto al
primo assalto. Non altrettanto resistenti ai lavori assidui, né in grado di sopportare la sete e il
caldo, assuefatti al freddo e alla fame per via del
clima e del territorio” (64). Dipoi la struttura sociale. È noto come i Celti fossero del tutto insofferenti ai rigori della disciplina, non fu un caso
se essi mai costituirono uno stato in senso proprio né un esercito permanente. Percepivano i
legami di comunità (famiglia, consanguineità,
villaggio, tribù), ma non già una qualche forma
di “nazione celtica”. Anche in questa carenza
d’identità etnica erano simili ai Germani. Combattevano quindi essenzialmente organizzati in
bande tribali e il coordinamento faceva spesso
difetto. Tra i Celti occidentali, quindi anche tra i
Padani, in periodo di pace normalmente non
esistevano forze militari di sorta. Era l’assemblea che dichiarava lo stato di guerra e mobilitava secondo necessità i guerrieri della tribù.
A differenza dei Germani primordiali, presso i
quali era la fanteria a costituire il nerbo dell’esercito (65), i Celti erano cavalieri di eccezionale abilità e non a caso i guerrieri a cavallo erano considerati presso le comunità continentali e soprattutto presso quelle occidentali un gruppo sociale
eminente, d’importanza di poco inferiore - se non
addirittura pari - a quello dei Druidi. Da Pausania
(66) viene ripreso il vocabolo celtico trimarcisia
(usato nel II secolo a.C.) che indicava un tipico
gruppo di tre uomini a cavallo, costituito da un
combattente nobile e da due “assistenti”.
(63) Gli autori maggiormente consultabili sono Tito Livio e
Polibio. Il primo appare nettamente di parte. E’ lo stesso intento di esaltare Roma (non va dimenticato che scrisse in
epoca imperiale) che spinge Livio a non sminuire la grandezza di Annibale e a dipingerlo sostanzialmente come un
degno avversario. Polibio fu quasi contemporaneo di Annibale (alla sua morte aveva diciotto anni) e, pur essendo praticamente romano d’adozione, nell’impianto storiografico
generale appare un po’ meno condizionato di Livio dal pregiudizio di parte.
(64) Tacito, Germania, IV.
(65) Tacito, Germania, VI.
(66) Geografo e scrittore greco di origine libica, vissuto nel II
secolo a.C., autore dell’Hellados Periegesis, una completa
panoramica della Grecia in età classica.
Quaderni Padani - 29
Le armi offensive maggiormente utilizzate in
battaglia dai combattenti Celti nel periodo della
guerra annibalica erano la spada di ferro a doppio taglio, munita di fodero cinturato e lunga anche più di ottanta centimetri, ideale quindi per il
combattimento di cavalleria, e la picca o lancia
che poteva essere in metallo fuso, della quale si
conoscono tre o quattro sottotipi e che tutta
completa poteva superare i due metri di lun-
ro e da una spina di rinforzo, solitamente aveva
uno spessore di poco più di un centimetro al
centro e di pochi millimetri ai bordi. Solo in un
secondo tempo l’umbone protettivo venne manufatto in metallo, e furono aggiunti un rinforzo
centrale e una fascia di rinforzo parafendenti ai
bordi, anch’essi in metallo. Ma lo scudo celtico
restò fragile e spesso in battaglia veniva dismesso
per non essere d’impaccio ai combattenti, se non
addirittura utilizzato esso stesso
come arma da colpo. Tutto ciò a
riconferma di un pensiero militare certamente volto all’offensiva e non alla difensiva, di una decisa inclinazione all’assalto risolutivo piuttosto che a manovre
di copertura o a complesse tattiche temporeggiatrici, di una naturale ritrosia a quelle forme
coartanti di disciplina che costituivano invece il vero segreto degli eserciti di Roma (67). L’impeto
militare dei Celti raggiunse l’acme nell’uso dei carri da guerra
( 68), che venivano lanciati en
masse contro lo schieramento
avverso eruttando una tempesta
di dardi e proiettili di ogni tipo,
Rovine sulla collina di Byrsa, l’antico sito della città di Car- mentre i corni di guerra suonatagine
vano la carica e dai combattenti
si levavano grida terrificanti allo
ghezza. In alcuni casi essa era munita di tallone scopo di atterrire ancor più il nemico. Quando
per un migliore ancoraggio nel terreno quando era opportuno, il guerriero portato da ogni carro
doveva esservi conficcata in funzione difensiva, poteva poi smontare e proseguire il combattial fine di ostacolare l’avanzata del nemico. I lan- mento a piedi, mentre il conducente lo attendeva
cieri tra l’altro costituivano una componente col veicolo fuori dalla mischia per recuperarlo in
fondamentale dell’armata. Lo scudo ebbe larga seguito. Lo stesso Giulio Cesare testimoniò il vadiffusione in epoca relativamente tarda (dalla lore in guerra dei Celti, che fu persino superiore
metà del III secolo a.C. circa) e offriva una prote- a quello dei Germani fin quando la contaminazione piuttosto debole: in legno, nella tipica for- zione romana non apportò le mollezze tipiche di
ma allungata (anche oltre un metro) e con gli uno stile di vita più agiato conducendo i Celti a
angoli arrotondati, retto da un’asse di legno du- una rapida decadenza. Ma nel III secolo a.C. i
(67) Il “modus pugnandi” degli armati celtici differiva da quello dei romani proprio in questo: per gli uni la virtù di guerra
risiedeva nel coraggio personale e nel valore del singolo combattente, per gli altri nella disciplina collettiva inculcata da
un addestramento omologante. Tale disciplina rendeva possibile l’esecuzione di manovre abbastanza complesse nella mischia, senza che venisse meno la coesione della formazione di
combattimento. Il valore individuale passava in secondo piano. Quello tipico dei Celti alla lunga si rivelò insufficiente per
battere una siffatta, brutale macchina.
(68) Il carro da guerra a due ruote entra in uso già verso la fine del V secolo a.C. e viene certamente adottato dai Celti oc-
30 - Quaderni Padani
cidentali. Durante la cosiddetta guerra gallica, è utilizzato
contro le legioni di Giulio Cesare. Tuttavia è in Britannia
che esso viene impiegato con maggiore frequenza e per più
lungo tempo, fino in epoca relativamente tarda. Non esistono attestazioni specifiche dell’uso di tali carri da parte dei
Celti durante le battaglie ascrivibili alla guerra annibalica,
mentre essi dovrebbero essere stati impiegati in altri scontri
pressoché coevi in Padania e in Italia, per esempio nella
campagna del 225 a.C. culminata nella disfatta di Talamone
e nella sanguinosa campagna di riconquista romana della
Padania successiva alla ritirata di Annibale in Africa (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXXII, 30, 4-12).
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Celti erano considerati combattenti temibili. celtiche, cioè le caratteristiche attitudinali proQuando Annibale, ancora sottordine al padre prie di esse truppe. I Celti non erano rigidamenAsdrubale, aveva messo mano alla riforma del- te inquadrati né particolarmente disciplinati;
l’arruolamento in Spagna, i reparti mercenari non potevano soffrire le severe costrizioni militaerano stati costituiti con distinti compiti, sulla ri, non potevano contare su un sistematico addebase delle più spiccate attitudini militari delle di- stramento. Erano fisicamente forti, impetuosi
verse etnie: i Baleari - esperti frombolieri - per il nell’assalto, coraggiosi nel corpo a corpo, ottimi
combattimento a distanza, i Numidi per le loro cavalieri. Nella guarnigione, nella difesa, nel
agili tattiche di cavalleria,
mantenimento di una posigli Iberici per la resistenza
zione statica non erano alnel combattimento di fantetrettanto idonei. La loro orria (69) e i Celti per i gruppi
ganizzazione e il loro ard’assalto. Per la funzione,
mamento, la loro stessa
cioè, che più si attagliava alcultura guerresca, li rendele loro virtù di guerra.
vano combattenti diversi
Truppe celtiche furono
tanto dai Romani quanto
con Annibale, in misura didai Cartaginesi stessi. A
versa, in tutto il lungo ciclo
Canne Annibale li schierò
della lotta antiromana: dalnel punto più esposto, ove
l’assedio di Sagunto (219
maggiori si attendeva le
a.C.) fino alla battaglia di
perdite. Ma era anche il setZama (202 a.C.) ( 70 ). Per
tore più delicato di tutta la
quanto è noto, queste trupmanovra, tanto è vero che
pe vennero sistematicamenne assunse personalmente
te adibite alle funzioni più
il comando. E sotto la sua
rischiose, impiegate nelle
guida i Celti sostennero il
posizioni più esposte. Qualpeso dell’attacco principale
cuno ha creduto di vedere,
delle legioni senza scompain questo, il segno di una
Statuetta di cavaliere cartaginese
ginarsi, rincularono tenenscelta cinica che Annibale
do lo schieramento e detteavrebbe effettuato per risparmiare i propri vete- ro prova di una capacità di resistenza difensiva
rani iberici e libici (71). Certamente Annibale fu addirittura inusitata rispetto alle loro tradizionatattico accortissimo e sufficientemente cinico da li tecniche di combattimento. Senza tale coragsacrificare deliberatamente aliquote delle sue giosa tenacia la battaglia avrebbe avuto un esito
truppe in funzione dell’ambita vittoria. D’altra diverso. Bastò per vincere la giornata, non la
parte la posta in gioco era immensa, né gli usi guerra. E l’epilogo fu tragico per l’uno e per gli
militari dell’epoca tenevano in qualche conto l’a- altri.
spetto umano delle perdite in guerra. Ciò nondiAnnibale morì suicida nel 183 a.C. per non cameno, questa interpretazione alla luce dei fatti dere nelle mani dei suoi eterni nemici.
appare limitata e parziale. Non considera cioè un
Tredici anni prima, con la seconda caduta di
altro fattore importante, che potrebbe avere in- Milano, il sogno di libertà dei Celti padani era
dotto Annibale a un siffatto impiego delle truppe stato definitivamente cancellato .
(69) Presso gli Iberi, verso la fine del III secolo a.C., la fanteria costituiva il nerbo della truppa, mentre piccoli cavalli venivano solitamente usati per l’esplorazione o tutt’al più per
l’inseguimento. L’armamento di alcune popolazioni della costa si distingueva da quello tipico iberico per l’evidente l’influenza celtica, essendo costituito da grandi scudi, grandi
spade, elmi di ferro o di bronzo (Museu Historico de Catalunya, Barcelona).
(70) Sul campo di Zama, nell’ultima disperata battaglia, a fianco dei Cartaginesi e dei loro alleati africani combatterono, tra
gli altri, Iberi, Liguri e Celti. Tra questi ultimi, provenienti
dalle terre a nord e a sud delle Alpi, erano unità di Insubri.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
(71) Nel suo libro Annibale (Casini, Bologna, 1968), Gilbert
Charles-Picard scrive: “I barbari sono la forza ausiliaria, reclutata quando sta per affrontare un nemico numeroso, licenziata quando si deve affrontare una marcia troppo lunga,
spietatamente sacrificata alle esigenze tattiche: nelle grandi
battaglie Annibale fa sempre massacrare scientemente i soldati indigeni, specialmente i Galli. L’originalità della manovra, come quella di Canne, è fondata in realtà sul disprezzo
per l’elemento barbarico, che viene utilizzato come esca per
attirare il nemico in trappola, e lasciato massacrare per stancare i legionari, prima di gettare nella mischia la “vecchia
guardia”.
Quaderni Padani - 31
Una riflessione
sul modello di koiné padana
proposta dal Guazzo
di Andrea Rognoni
U
n modello cui guardare con interesse da
parte di tutti quelli che credono possibile il
formarsi, o meglio, il riformarsi, di una
koinè linguistica padana, in grado di far parlare
un’idioma comune alla maggior parte degli abitanti della nostra terra, è contenuto nel testo
cinquecentesco “Civil conversazione” del Guazzo.
Stefano Guazzo nacque e crebbe a Casale
Monferrato, in tempi di marchesato, ma ebbe
modo di viaggiare e soggiornare presso molte
corti padane, da Mantova a Pavia.
L’opera ed il pensiero del Guazzo vanno inquadrati nel vasto e complesso dibattito attorno alla
“questione della lingua”, che dominava la scena
culturale padana ed italiana nel Rinascimento. I
maggiori scrittori e trattatisti che si erano cimentati nella discussione rispondevano al nome
di Pietro Bembo e Giangiorgio Trissino, veneti,
Girolamo Muzio, lombardo e benedetto Varchi,
toscano. Quest’ultimo difendeva a spada tratta il
modello fiorentino ancor più di come aveva fatto
il Bembo, Trissino proponeva un italiano delle
corti e il Muzio sottolineava il ruolo del superstrato germanico nella formazione della lingua
parlata nell’Italia settentrionale e in Toscana.
Una certa divergenza di opinione era presente
anche tra quelli che sottolineavano il ruolo paradigmatico della lingua scritta e letteraria e coloro che tendevano a valorizzare anche il linguaggio popolare e parlato, patrimonio di più
vasti ranghi rispetto alle scelte lessicali e sintattiche di Dante ed Ariosto (nella stessa Toscana
c’era chi difendeva il modello senese come
esempio di lingua popolare rispetto al fiorentino
colto, che grazie alla fortuna poetica aveva assunto ormai un assetto molto diverso rispetto al
vero e proprio vernacolo di Firenze, rifiutato tra
32 - Quaderni Padani
l’altro anche dai predicatori ecclesiastici arrivati
in Toscana dalla Padania).
Il dialogo “Civil Conversazione “(1574) del
Guazzo fornisce un contributo importanissimo
alla chiarificazione della necessità di prendere in
considerazione sia la lingua scritta che la lingua
parlata. La prima, secondo Guazzo, poteva benissimo essere quella toscana di ispirazione letteraria; ma la seconda avrebbe dovuto tener
conto della lingua effettivamente parlata nelle
corti e nella città di una determinata area italiana, ad esempio del territorio padano: esiste infatti secondo il linguista piemontese un tipo di
conversazione quotidiana che non potrà mai venire sostituita da un modello arrivato da ambienti esterni a quello padano ed imposto in maniera artificiosa da chi considera più bella la lingua letteraria rispetto a quella del popolo. Quest’ultimo assioma parte da un’intuizione mirabile e realistica, destinata a rimanere valida ancora oggi di fronte al prepotere del codice massmediale: la conversazione “civile”, cioè della
comunità di appartenenza e dell’insieme di comunità che riconoscono un unico denominatore
comune sulla base di una reale affinità linguistica, deve continuare a venire esercitata (e quindi
insegnata), con spirito alternativo alla comunicazione scritta (peraltro utilissima come codice
franco rispetto a tutte le nazioni diverse dalla
nostra “naturale”), altrimenti non sarà più possibile il dialogo tra persone della stessa etnia,
private della loro naturalezza e vittime pertanto
di una cattiva intesa.
Secondo il Guazzo pochissimi sarebbero stati
in grado di parlare “schietto”, cioè secondo il vero modello toscano, creando così una elite innaturale,lontana dagli usi, dai costumi e dal pensiero del popolo e della comunità. Ecco allora la
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
necessità di parlare con una lingua “mista”,
composta cioè da elementi lessicali, morfologici
e sintattici tratti dai dialetti consimili e capaci di
permettere la comunicazione a livello sovraregionale, anche attraverso un moderato adattamento fonetico, che non superasse cioè la soglia
della naturalezza fisiologica ed espressiva.
“Soglia di naturalezza fonetica”. Ecco un concetto fondamentale che deve indurci a riflettere
sull’assurdità dell’operazione condotta dopo la
costituzione del regno italiano nel tentativo di
far parlare con lo stesso insieme di suoni popolazioni che sono state costrette a superare chiaramente la soglia della naturalezza.
Imporre una fonetica comune a padani e ausonici rappresenta una sorta di “atto contro natura” perché infrange vistosamente le leggi di questa soglia. “Scrivere come si dee, parlar come si
suole”. La massima guazzana condanna l’uso
parlato dello stesso toscano e si rifà ad una specie di diritto comunitario dei popoli padani, ad
una tradizione che nessun progetto politico può
annullare, anche se il vantaggio derivante dalla
convivenza tra regioni affini consiglia di creare
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
una Koiné pragmatica. Ma -ecco il punto- quali
devono essere le regole di questa koiné?
Guazzo ha le idee chiare, almeno in campo
lessicale, idee che potrebbero valere ancora oggi, assieme ad altre soluzioni di sintassi e morfologia, per la costruzione della lingua padana. Ci
sono molti vocaboli che, nella loro inconfondibile bellezza, sono pressoché uguali in tutti i cosiddetti dialetti della Padania. Ad esempio “tempesta”, al posto del lessema toscano “bufera”, è
presente dal Monviso a Trieste e possiede un determinato campo semantico che caratterizza secondo la padanità un certo tipo di avversità meteorologica, che altrove presenta altri connotati.
Converseremo allora usando sempre “tempesta”,
o, per significare lo zio “barba”. Da eliminare invece i termini micro territoriali (usati cioè soltanto in Brianza, nel Vicentino, nel Monferrino
o nel piacentino), perché impossibili da intendere da parte di tutte le altre provincie padane. Un
auspicio per il Duemila: approfondiamo il progetto del Guazzo e fondiamo finalmente un padano orale che faccia tornare la nostra conversazione da “barbara” a “civile”.
Quaderni Padani - 33
L’estinzione dei Padani
di Gilberto Oneto
M
entre tutti noi siamo occupati da altri problemi (veri o inventati), il nostro mondo
stà rapidamente cambiando e quasi non ce
ne accorgiamo. Tutti i mezzi di informazione e
di gestione del potere sono impegnati in un colossale e criminale progetto di distrazione della
nostra gente da un drammatico processo di mutazione e di degradazione che stà subendo il nostro mondo, quello creato da millenni di lavoro
e di intelligenza da parte di generazioni e generazioni. Le mutazioni investono ogni sua componente: il suo aspetto fisico, i suoi caratteri
morali e culturali e la sua composizione umana.
In particolare, stanno rapidamente cambiando i
caratteri etnici della gente che abita la nostra
terra e questa mutazione incide fortemente su
tutte le altre e quindi sullo stravolgimento generale.
Non cessano gli arrivi sempre più massicci di
clandestini extracomunitari sulle coste e alle
frontiere della cosiddetta Repubblica italiana.
Gli sbarchi di frotte di diseredati, accompagnati
da stuoli di bambini, non fanno neanche più notizia, né ci si occupa più delle evasioni di massa
dai centri di accoglienza e delle ondate di foresti
che percorrono la penisola verso nord. È quasi
diventata “cosa normale”, ci si è tristemente abituati all’aumento vertiginoso della criminalità
grande e piccola, e di tutti i problemi sociali di
inciviltà, di intolleranza e di igiene che tutti costoro portano con sé. Le autorità italiane di oc-
cupazione ci dicono che è un fenomeno epocale,
che tutto è sotto controllo, che la società multirazziale è parte inevitabile del nostro futuro, che
costoro sono una ricchezza e che vengono a rivitalizzare una società in calo demografico.
Ma dove stà scritto che il calo demografico sia
una iattura? Il fascismo sembra avere lasciato
nel DNA di questo povero paese l’idea del “numero uguale potenza”, i cui effetti sono stati
guerre, emigrazione e miseria per generazioni
di cittadini italiani. Oggi, che le nostre genti padane hanno deciso di autoridursi di numero anche per rimediare a condizioni di sovraffollamento che rendono invivibili molte aree urbane
di pianura, i vuoti che questa decisione lascia
vengono rapidamente riempiti da foresti che
non si pongono di certo troppi problemi circa la
qualità della vita o l’avvenire dei loro figli, figuriamoci dei nostri. Così, a fronte del più basso
tasso di natalità mondiale della Padania, si colloca il tasso da terzo e quarto mondo degli immigrati più o meno clandestini che permette loro
di occupare ogni spazio. Ma non è finita lì: in
virtù della loro prepotenza e della bassa età media delle loro comunità, essi stanno scalzando la
nostra gente da casa sua e si troveranno presto
nella condizione di tornare a fare aumentare
vertiginosamente il numero complessivo degli
abitanti dello stivale. Questa crescita diventerà
sempre più veloce mano a mano che i foresti saranno più numerosi.
2 = Il dato comprende anche i SudTirolesi
34 - Quaderni Padani
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
2 = Il dato comprende anche i SudTirolesi
Ci si dice che si tratta di un fenomeno che riguarda il mondo intero: i cosiddetti “paesi sviluppati” (Nord America, Europa, Giappone, Australia e Nuova Zelanda) hanno oggi (1998) una
popolazione di circa 1.180.000.000 di abitanti
contro i 4 miliardi e 750.000.000 dei cosiddetti
“paesi in via di sviluppo” (un cinico eufemismo
per indicare tutti quei paesi che non si svilupperanno mai anche a causa del loro incontrollato
incremento demografico). Si stima che nel 2050
i primi avranno un miliardo e 160 milioni di
abitanti (con una diminuzione appena percepibile) e i secondi arriveranno a 8 miliardi e 200
milioni (con un aumento del 73%). In realtà
però questi dati non tengono presente il fenomeno dell’immigrazione e la concreta possibilità
che una fetta dell’incremento dei secondi venga
rovesciata sui primi.
Il tutto deriva dall’enorme divario dei tassi di
natalità fra i due mondi. La Tabella 1 riporta i
dati relativi a taluni paesi indicativi della situazione generale. Se ne deduce che l’Italia (nel suo
complesso) è il paese meno prolifico del mondo.
Confrontando questi dati con quelli pubblicati
sul numero 22-23 dei Quaderni Padani (Tabella
sul Saldo naturale della popolazione della “Rubrica silenziosa”, pag.111) risulta evidente che
la Padania (decremento percentuale dell’1,8 fra
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
1981 e 1990, contro un incremento dell’Italia
etnica del 2,4 nello stesso periodo) è di gran
lunga il paese col più basso tasso di natalità del
mondo intero. E’ chiaro che, nell’attuale condizione di apertura indiscriminata delle sue frontiere, la nostra Terra venga invasa da stranieri
prolifici e aggressivi oltre che da Italiani (ma
questa non è una novità) che hanno tassi di natalità ancora simili a quelli di molti paesi del
Terzo Mondo.
Abbiamo provato a ipotizzare gli scenari futuri
della condizione demografica di questo paese.
Oggi gli abitanti della penisola (fra residenti regolari e clandestini) sono circa 58-59 milioni. Il
45,7% circa è costituito da Padani, Tirolesi, Sardi e Toscani; il 50,9% da Italiani etnici e il 3,4%
da immigrati di vario genere, ma in prevalenza
musulmani.
Confrontando gli attuali tassi di natalità dei
tre gruppi, sommando il numero di ingressi
clandestini e regolari, e gli effetti delle demenziali norme sul ricongiungimento famigliare, si
arriva ai risultati descritti dai Grafici n.1 e 2. Nel
2035 i Padani (e le altre minoranze) saranno lo
stesso numero degli extracomunitari, nel 2045
circa gli Italiani etnici cesseranno di essere
maggioranza assoluta, nel 2060 gli extracomunitari saranno il gruppo etnico di maggioranza
Quaderni Padani - 35
1= Il dato comprende anche Toscani, Sardi e SudTirolesi
relativa e nel 2075 saranno la maggioranza assoluta degli abitanti. Nel 2100 essi saranno il
67,8% del totale e i poveri Padani, Tirolesi, Sardi
e Toscani saranno ridotti a un misero 7,6% e
cioè saranno virtualmente estinti. In termini
numerici assoluti, ci potrebbero essere 73 milioni di abitanti nel 2050 (di cui solo circa 15 milioni padani) e 118 milioni nel 2100, di cui solo
9 padani, sempre che i nuovi padroni non avranno nel frattempo provveduto diversamente, secondo usanze molto diffuse nei loro paesi di origine. (Il Grafico n.1 riporta la proiezione in termini percentuali e il Grafico n.2 quella in termini assoluti)
I Grafici n.3 e 4 illustrano la situazione ancora più drammatica in cui potrebbe trovarsi la
Padania presa separatamente. Dei 25 milioni di
abitanti attuali, circa un milione (il 4%) sono
extracomunitari. Il resto è composto in larga
maggioranza da Padani e da Italiani etnici (circa
l’8%) che saranno d’ora in poi, in questo nostro
ragionamento, considerati uniti per l’alto grado
di integrazione fra i due gruppi, soprattutto nel
caso del raggiungimento dell’indipendenza che
scongiurerebbe di fatto ulteriori migrazioni. Nel
2030 gli abitanti potrebbero essere circa 24 milioni, un terzo dei quali stranieri. Nel 2045 i foresti potrebbero già essere la maggioranza dei
probabili 26 milioni di abitanti; nel 2060 il 63%,
nel 2080 il 74% e nel 2100 l’85% dei probabili
53 milioni di abitanti del tempo. (Il Grafico n.3
riporta la proiezione in termini percentuali e il
Grafico n.4 quella in termini assoluti)
I dati sono costruiti sugli attuali tassi di incremento dei popoli padani, degli Italiani e sulla
media di incremento dei popoli del Terzo Mondo. In particolare, giova ricordare che, accanto a
una immigrazione di genti relativamente poco
prolifiche (Cinesi, Filippini) o mediamente prolifiche (Sudamericani, Curdi), gli “ospiti” di
questo paese provengano in buona parte da pae36 - Quaderni Padani
si con propensione all’alta o altissima prolificità,
come Africani, Nordafricani e - soprattutto - Albanesi. Questi ultimi hanno a casa loro un tasso
di incremento annuo del 2,7%, che è il più alto
d’Europa, con il 52% della popolazione inferiore
ai 19 anni (Limes, n.3, 1998), e tutto lascia pensare che non abbiano intenzione di modificare le
loro abitudini. Nella elaborazione dei dati si è
anche tenuto conto degli effetti di moltiplicazione nel tempo degli attuali incrementi, dei dati
tendenziali di immigrazione regolare e clandestina, degli effetti dei “ricongiungimenti famigliari” previsti dalla Legge Turco-Napolitano, ma
anche della possibile diminuzione dei tassi di
crescita di Italiani etnici e di tutti gli immigrati
una volta stabilizzati e adattati alle nuove condizioni di vita meno “terzomondiste”.
Tutti questi dati non tengono evidentemente
in conto il possibile meticciamento che non farebbe che accelerare la diminuzione e la virtuale
estinzione dei Padani.
Si tratta di proiezioni drammatiche che ci
mettono di fronte a un futuro senza speranza
per la nostra civiltà. Quello che non sono riusciti a fare i Saraceni (e i Musulmani, in generale)
in più di 14 secoli di aggressioni militari, riuscirà grazie alla loro esuberanza genetica, al tradimento dei nostri governanti e all’ottusa viltà
di parte della nostra gente.
Tutti questi scenari spaventosi potrebbero
però diventare solo il ricordo di un incubo se si
cambiasse radicalmente l’attuale colpevole atteggiamento nei confronti dell’immigrazione
selvaggia, limitandola a un fenomeno controllato e temporaneo.
In particolare, il destino dei popoli padani potrebbe cambiare nel caso del raggiungimento
dell’indipendenza della nostra Terra e di una responsabile regolamentazione della presenza degli stranieri. A questa eventuale mutazione di
tendenza potrebbe fortemente contribuire anAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
che quell’”effetto libertà” che si è già visto in
molte altre occasioni della storia. In particolare,
dalle nostre parti, questo è accaduto in Sud Tirolo dove la popolazione tedesca stava rapidamente diminuendo davanti all’aggressività foresta e di fronte alle drammatiche prospettive per
l’avvenire della comunità, schiacciata politicamente e culturalmente: non a caso, fino a tutti
gli anni Sessanta, si parlava di “marcia verso la
morte” dei SudTirolesi. Con il raggiungimento
dell’autonomia provinciale e con i suoi corollari
positivi sulle prospettive della comunità tedesca
(difesa dei valori culturali, blocco dell’immigrazione, proporzionale etnica, eccetera), questa ha
ripreso a crescere con vigore e non deve più affrontare seri pericoli di estinzione. Tutto lascia
supporre che anche la libertà dei popoli padani
potrebbe avere lo stesso benefico effetto sui loro
livelli riproduttivi portandoli almeno alle condizioni degli altri paesi europei che hanno un tasso di crescita che consente il mantenimento degli attuali livelli demografici o un loro lieve incremento o decremento.
Certo, una Padania indipendente dovrebbe affrontare con grande decisione il problema dell’immigrazione pregressa e futura.
Gli immigrati extracomunitari oggi presenti
dovrebbero tutti lasciare il Paese secondo un efficiente schema di Evacuazione Programmata
che preveda l’uscita di tutti i foresti nel giro di
qualche anno: la durata del soggiorno concesso
per organizzare la partenza dovrebbe essere
commisurata alla lunghezza della permanenza
passata, alla sua regolarità e al comportamento
dei soggetti. Un periodo più lungo dovrebbe essere concesso a quelli che hanno ottenuto residenza o cittadinanza: in ogni caso si dovrebbero
revocare tutte le nuove cittadinanze concesse
negli ultimi 40 o 50 anni.
Al termine dell’Evacuazione, i cittadini di paesi
extracomunitari potranno entrare e soggiornare
in Padania solo a precise condizioni. Gli ingressi
dovrebbero essere consentiti per motivi di turismo, studio, cure mediche e lavoro. Ai turisti andrebbe concesso un visto di durata limitata e non
estensibile. Agli studenti potrebbe essere concesso un visto di soggiorno limitato alla durata degli
studi a condizione che abbiano una regolare
iscrizione a un istituto di istruzione, abbiano
una casa e dimostrino di avere adeguati mezzi di
sostentamento. Simile è la situazione per chi voglia usufruire di cure mediche specialistiche in
Padania: l’ingresso del paziente sarebbe limitato
nel tempo, subordinato all’accettazione di una
struttura ospedaliera e dietro verifica della disponibilità di mezzi economici adeguati. I lavoratori
stranieri potrebbero entrare solo a condizione
che abbiano un posto di lavoro, che abbiano una
abitazione, che non esistano disoccupati involontari in Padania o che si possa dimostrare che
nessun padano è in grado o in condizione di voler effettuare il lavoro per cui lo straniero è chiamato. La presenza di un lavoratore foresto avverrebbe cioè in base a una sorta di contratto di
“vendita di forza lavoro” che deve essere definito
nel tempo (e non rinnovabile) e che non preveda
nessuna forma di ricongiungimento famigliare.
Per tutto il periodo della sua permanenza, il lavoratore straniero disporrà di forme obbligatorie
di assistenza medica e alla fine del contratto dovrà inderogabilmente lasciare il paese. Tutti gli
stranieri dovranno dimostrare di disporre al loro
ingresso di un biglietto di ritorno e di adeguati
mezzi di sostentamento, e dovranno garantire
l’intenzione di lasciare il paese al termine del periodo autorizzato e la loro buona condotta mediante un deposito cauzionale.
Oltre a questa casistica, si può prevedere l’in-
1= Il dato comprende anche Toscani, Sardi e SudTirolesi
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Quaderni Padani - 37
Paese
Media di figli
per donna
Percentuale
di minorenni
che partoriscono
ogni anno
Mortalità infantile
per ogni 1.000 nati
Italia
1,2
1
6
Russia
1,2
5
17
Giappone
1,4
Meno di 1
4
Gran Bretagna
1,7
3
6
Australia
1,8
2
5
Cina
1,8
1
31
Stati Uniti
2,0
5
7
Brasile
2,5
9
43
Iran
3,0
6
35
Colombia
3,0
9
28
Messico
3,1
7
28
Bangladesh
3,3
15
82
India
3,4
7
72
Egitto
3,6
6
63
Botswana
4,3
8
60
Kenya
4,5
9
62
Nicaragua
4,6
16
46
Papua Nuova Guinea
4,8
8
77
Arabia Saudita
6,4
12
29
Nigeria
6,5
15
84
Mali
6,7
19
123
Media Paesi Sviluppati
1,6
3
8
Media dei paesi
del Terzo Mondo
3,3
6
64
Fonte: United Nations Population Division, 1998
gresso di stranieri per eccezionali motivazioni
(ad esempio di ordine scientifico o artistico), per
anziani che intendano trascorrere da noi la loro
pensione (dietro la corresponsione di una sorta
di “affitto” o a fronte del lascito di beni) o per
asilo politico. Quest’ultimo dovrà avere forti limitazioni temporali e potrà riguardare solo chi
abbia personalmente subito delle condanne per
ragioni politiche, e non potrà essere concesso a
chi si è macchiato di qualche delitto o azione
violenta.
38 - Quaderni Padani
Tutti gli stranieri che entreranno clandestinamente o che non rispetteranno i termini del
rimpatrio dovranno scontare (se non hanno
commesso altri reati più gravi) un periodo di lavoro coatto al termine del quale sarà loro consegnato un biglietto di ritorno. La recidività farà
aumentare la lunghezza di tali periodi. Questi
avverranno in speciali campi di lavoro dedicati
ad attività che non sono svolte da Padani a causa
della loro bassa rimuneratività a fronte del disagio connesso: smaltimento di rifiuti, miniere, alAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
ti forni, gestione e pulizia di boschi e di alvei
fluviali, costruzione e manutenzione di opere
infrastrutturali, eccetera.
Si sente spesso ripetere che l’immigrazione
extracomunitaria costituirebbe una ricchezza
perché consentirebbe di fare svolgere lavori che
altrimenti nessuno farebbe e perché contribuirebbe alla gestione del sistema pensionistico. Si
tratta di evidenti balossate, anche nell’attuale allucinante sistema sociale, stipato di cassintegrati e disoccupati veri e finti (in ogni caso con le
presenze percentuali più alte della Comunità
europea) e di pensionati che non hanno mai lavorato.
Anche in una Padania indipendente (e molto
presumibilmente prospera) continuerà a sussistere il problema del rapporto fra posti di lavoro
e mano d’opera che è organico a tutte le strutture liberali. Si tratterà infatti molto presumibilmente (e auspicabilmente) di una società nella
quale il mercato del lavoro sarà molto libero:
non ci saranno parassiti imboscati a milioni nel
pubblico impiego, non ci saranno assurdi meccanismi di protezione di lavoratori neghittosi,
non ci sarà un sistema pensionistico burocratizzato e statalista. Questo farà si che i cittadini lavoreranno fino all’età che vorranno (sulla base
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
dei programmi assicurativi che avranno individualmente stipulato), che ci sarà grande mobilità, che i salari saranno frutto di libere trattative di mercato (con la sola garanzia di soglie minime), che l’esecuzione e la distribuzione dei lavori subiranno un inevitabile riassetto di razionalizzazione e che non ci saranno più impieghi
parassitari, politicizzati, assistenziali o inutili.
In una situazione del genere la presenza di lavoratori stranieri diventerà una rara (e costosa) eccezione.
Certo tutto questo non interromperà la pressione sulle nostre frontiere. Questa andrà affrontata con adeguate politiche di investimenti e
di aiuti ai paesi del Terzo Mondo (subordinata a
severe politiche di contenimento demografico) e
con una attenta difesa dei confini che costituirà
un inevitabile impegno della Comunità padana,
costituendo addirittura uno dei principali motivi
di aggregazione e di unità dei suoi popoli.
In quel caso la Padania continuerebbe a essere popolata da Padani fino alla fine dei secoli,
sarebbe libera e prospera, e continuerebbe a essere quella fucina di cultura e di civiltà che così
determinante è stata per la storia d’Europa. Un
bel vantaggio per noi, ma anche per il mondo
intero.
Quaderni Padani - 39
Urbanistica protostorica padana
Confronto tra Vicenza paleoveneta
e Milano celtica
di Carlo Frison
I romani antichi solitamente rispettarono buona parte della forma urbanistica delle città conquistate. Studiando il nucleo originario di Vicenza e Milano si individuano alcuni orientamento astronomici attribuibili all’urbanistica
degli antichi popoli padani.
L
o storico greco Polibio (Storie, II, 17, 5) riferisce che le “tribù molto antiche chiamate
veneti sono poco differenti dai celti nelle
usanze e nella foggia degli abiti, ma parlano
un’altra lingua”. Il termine “usanze” è del tutto
generico e da tempo mi chiedevo se fosse possibile specificare qualche uso sociale simile dei
Veneti e dei Celti. Le fonti antiche ci offrono pochi particolari sui Veneti. Credo che a livello socio-politico tra i Veneti fosse buona norma la segretezza. Ne è prova il silenzio delle fonti - di Tito Livio per primo - sui nomi dei capi veneti,
mentre per le tribù celtiche viene pressoché regolarmente citato il nome del re. La segretezza
riguardo alle autorità è caratteristica delle società matriarcali. Per fare un esempio, Minosse
era il titolo dato dai Cretesi ai loro re, popolo a
forte connotazione matriarcale, ma nessun nome di re cretese è stato tramandato. Mi pareva
deducibile che il carattere molto più matriarcale
della società paleoveneta rispetto a quella celtica
implicasse poche somiglianze tra i due popoli.
Ma troppo poco conosciamo della protostoria.
Altre cose potevano accomunarli. Per esempio
l’urbanistica.
In una decina d’anni di studio sull’urbanistica
delle città di Padova, Vicenza e Treviso, ho individuato alcuni orientamenti astronomici, alcune
pianificazioni e forme perimetrali attribuibili alla protostoria. Non avevo mai preso in considerazione città al di fuori della mia regione, finché
un articolo apparso su la Padania del 31 maggio
1998, titolato “L’ellisse di Milano” e firmato da
Giorgio Fumagalli, ha attratto la mia attenzione
40 - Quaderni Padani
verso una città celtica. Dalle mappe sette-ottocentesche si rileva un circuito quasi completo di
strade disposte vagamente a forma ellittica che
deriverebbe da un’area sacra celtica. Oggi corrisponde alle vie Morone, Romagnosi, Andegari,
Boito, Clerici, S. Protaso e il passaggio est-ovest
della Galleria. Immediatamente ho collegato
questa ipotesi con quanto avevo scoperto nelle
città venete e ho intrapreso lo studio della topografia di Milano. Le maggiori analogie che ho riscontrato sono con Vicenza. Comincio dunque
descrivendo Vicenza, poi vedremo il confronto
con Milano.
Il materiale paleoveneto raccolto a Vicenza
proviene da luoghi più o meno allineati lungo il
corso Palladio, antico asse viario che ci ha restituito anche tre tratti di basolato di età romana.
L’orientamento del corso Palladio è circa 241°
(gli angoli degli orientamenti sono qui tutti misurati da nord in senso orario). Questo orientamento è prossimo a quello del tramonto della
luna nel lunistizio minore, tenendo conto dell’altezza delle propaggini dei monti Lessini dietro ai quali tramonta la luna. L’altra ampia via, il
corso Fogazzaro, non è ortogonale al corso Palladio, al contrario di altre strade vicine. La
difformità troverebbe spiegazione nell’orientamento di una strada antica che non coincide
esattamante col corso Fogazzaro perché un tratto di basolato antico è stato trovato tra il lato
ovest del corso e la chiesa di S. Lorenzo. Quindi
l’orientamento della strada antica potrebbe essere stato di 137°, un po’ diverso da quello dell’attuale corso Fogazzaro, corrispondente al sorgere della luna al momento del lunistizio maggiore sopra le modeste alture dei vicinissimi monti
Berici.
I lunistizi osservati all’orizzonte sono due posizioni, una verso nord e una verso sud, assunte
dalla luna nel corso di un mese, paragonabili ai
due solstizi nel corso di un anno. Il complesso
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Tracce perimetrali e orientamenti astronomici di Vicenza paleoveneta. Il corso Palladio ha l’orientamento in un lunistizio minore e il corso Fogazzaro quello in un lunistizio maggiore
moto della luna porta alla oscillazione di ciascun lunistizio tra due orientamenti estremi
chiamati lunistizio maggiore e minore.
Consideriamo ora la forma pressoché circolare
delle prime mura medioevali che ripercorrono
forse del tutto quelle di età romana. Presumibilmente la forma circolare è di origine protostorica, perché i Romani preferivano il perimetro
quadrato. Molti siti pre-protostorici hanno forma arrotondata secondo uno o due assi di simmetria: a ovale, a cerchio schiacciato o a ellisse.
Nel caso di Vicenza sono ricostruibili tre tracciati curvilinei che assieme formano una struttura
pressoché circolare. Il primo sembra configurarsi come cerchio schiacciato, parzialmente ricostruito raccordando tra loro le curvature di contrà Porti, contrà Motton Pusterla, contrà Canove, piazza Matteotti e contrà Cabianca. A oriente
il cerchio schiacciato sarebbe stato affiancato da
un fossato non più esistente ma citato nei docuAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
menti medioevali. Il secondo sito protostorico
ha anch’esso la forma di cerchio schiacciato e
occupa la parte occidentale della città. Il suo
percorso segue la metà occidentale della contrà
S. Biagio, prosegue per la contrà Motton S. Lorenzo, attraversa piazza Castello e continua per
un tratto di contrà Mura Pallamaio. Il limite
meridionale della città è un arco di circonferenza che attraversa il ponte Furo e che raccorda
due brevi tratti rettilinei in modo simmetrico rispetto a un asse nord-sud.
Come per Vicenza, anche per Milano celtica
possiamo riconoscere un perimetro arrotondato
e gli orientamenti astronomici di alcune strade
antiche. Nella trattazione dell’archeologia di Milano di Aristide Calderini, contenuta nel primo
volume dell’opera Storia di Milano edito una
cinquantina di anni fa, l’autore (a pag. 482 del
volume in bibliografia), prima di affrontare l’età
romana, esprime un dubbio: “l’orientazione e la
Quaderni Padani - 41
planimetria primitiva della città dovrebbero indurci nell’ipotesi di una primitiva fondazione
palafitticola o terramaricola”. Più avanti (a pag.
487, nota 2) dice che per la forma originaria della città “si è pensato anche a una causa religiosa cioè a esigenze richieste da rito di fondazione
sull’esempio di altri popoli preistorici, come i
terramaricoli e gli etruschi, sicché l’orientamento del cardo e decumano dovesse essere imposto dalla declinazione del sole nel momento
della fondazione”. Ma l’astronomo Francesco
Zagar dell’Osservatorio di Brera, interpellato in
proposito, rispose che “l’orientazione del corso
di Porta Romana non coincide con alcuna possibile posizione del sole all’orizzonte” e che è
“difficile che altri fenomeni astronomici appariscenti abbiano potuto determinare il detto
orientamento”.
Inspiegabilmente questo indirizzo di ricerca
non è stato più preso in considerazione. Il fatto
è che dal 1964, quando sono stati scoperti a Stonehenge gli orientamenti sui lunistizi, nell’archeoastronomia protostorica la luna ha acquisito quasi maggior interesse del sole. Rivolgiamo,
quindi, l’attenzione non all’orientamento del
corso di Porta Romana, ma a quello della sua
prosecuzione urbana, il decumano, che in realtà
è leggermente diverso. L’asse viario del decumano è riconoscibile nelle vie S. Maria alla Porta,
S. Maria Fulcorina e Bollo. Ermanno Arslan (a
pag. 191, nota 19 del saggio in bibliografia)
esprime l’opinione che “non è possibile proporre soluzioni indiscutibili al problema” del mancato allineamento del decumano col reticolo urbano tardo-repubblicano. Il problema è che il
decumano ha l’orientamento di 134° e non i
125° necessari per l’ortogonalità col cardo, ossia
con l’asse passante per le vie S. Margherita,
Cantù e Nerino (per il cardo urbano non considero la via Manzoni all’esterno della città celtica). La spiegazione consiste nella coincidenza
dei 134° col lunistizio maggiore osservato all’orizzonte. Ciò va a favore dell’ipotesi, che il Calderini aveva escluso, dell’origine protostorica
dell’urbanistica di Milano. L’orientamento del
cardo, invece, è al di fuori dell’arco delle posizioni del sole o della luna all’orizzonte, però una
retta ortogonale al cardo - come dirò più avanti,
l’asse maggiore dell’ellisse è ortogonale al cardo
- essendo di 125° punta verso il sorgere del sole
al solstizio.
Osservando le piante della città, un’altra strada ha attratto la mia attenzione. Il rettifilo delle
vie Meravigli e Porrone, che inizia dall’antica
42 - Quaderni Padani
porta Vercellina e compare chiaramente fin dalle
piante del Seicento, è manifestamente opera di
una pianificazione perché su di esso si affacciano numerosi e grandi isolati. Il suo orientamento di 263° è quello di una delle posizioni all’orizzonte della luna piena quando il sole è all’equinozio. Anche questo è uno degli orientamenti
presi in considerazione per la prima volta a Stonehenge.
Ricavati tre orientamenti astronomici caratteristici dei siti protostorici, passiamo alla ricostruzione del perimetro più antico della città. Il
Calderini ha proposto una ricostruzione del
tracciato delle prime mura romane risalenti al I
secolo dC. A questa ricostruzione Mario Mirabella Roberti ha introdotto delle modifiche, ampliandola a sud-est. Credo che quella del Calderini presenti la situazione più antica, corrispondente probabilmente al perimetro preesistente
alla erezione delle mura romane.
La parte delle mura che il Calderini individua
percorre piazza Mentana, via Morigi, via Brisa,
via S. Giovanni sul Muro, via Lauro, via Filodrammatici, via Marino e poi su una direttrice
tra le vie Agnello e S. Radegonda arriva al lato
orientale di Piazza Fontana. Gli argomenti addotti dal Calderini sono un rudere di muraglione trovato in via Filodrammatici, il toponimo
che si riferisce “al Muro”, innalzamenti del suolo giustificabili dall’esistenza di un vallum, l’andamento delle strade attuali e la disposizioni di
alcuni muri di case antiche. Per la parte restante
delle mura il Calderini avanza un’ipotizza con
minori riscontri. Egli pensa a un raccordo tra
Piazza Fontana e Piazza Missori che lasci fuori
dalle mura la basilica paleocristiana di S. Giovanni in Conca, poi prosegue fino all’antica porta Ticinese (al Carrobbio) e quindi arriva a Piazza Mentana. Penso che questa parte del percorso
racchiuda un’area maggiore di quella originaria
del perimetro di età insubre. Infatti, il palatium
romano, richiamato nella denominazione di S.
Giorgio al Palazzo, sarebbe stato costruito su
terreno libero fuori dalla città celtica. Riportato
sulla mappa del catasto austriaco del 1855, il
percorso di nord-ovest da via Lauro a S. Giorgio
risulta ben approssimato a una circonferenza.
Quindi, anche a sud-est io proseguirei sulla stessa circonferenza passando per via Bagnera e sulle chiese antiche di S. Giorgio (romanica), S.
Alessandro (seicentesca costruita sul luogo di
un’altra romanica), S. Giovanni in Conca (altomedioevale), S. Giovanni Laterano (romanica,
demolita) e più oltre attraversando S. Maria
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Maggiore (romanica, era sul luogo del Duomo).
La localizzazione delle chiese antiche sulla circonferenza significherebbe che permaneva una
soluzione di continuità tra il perimetro circolare
celtico e l’espansione urbanistica di età romana,
dovuta forse a un basso argine la cui circonferenza interna sarebbe rilevabile dalle stradine
(scomparse) a nord di S. Giovanni in Conca e S.
Giovanni Laterano, e dalla distanza tra i due
tratti paralleli della via Morigi. Quest’argine
spiegherebbe la leggenda della siepe di biancospino che circondava Milano o l’ipotesi di terrapieno e palizzata costruita, abbattuta e rifatta in
occasione di assalti nemici fino all’età romana
(cfr. Calderini, pag. 482, op. cit.).
Veniamo ora alla “ellisse di Milano”. La rico-
struzione delle mura proposta dal Calderini taglia circa a metà l’ipotetica ellisse. Infatti in via
Filodrammatici è stato trovato il rudere di un
muraglione nella stessa direzione della strada. A
prima vista sembrerebbe che venga smentita l’ipotesi dell’ellisse celtica, ma l’analogia con la
forma pressoché circolare di Vicenza con il cerchio e l’ellisse di Milano mi induce a cercare una
spiegazione. L’area di tutta l’ellisse era certamente di insediamento antico. Lo testimonia
l’altimetria del terreno identica da via Morone
fino al foro situato in S. Sepolcro, come si ricava
da una carta dalle curve di livello pubblicata nel
1913 e riportata dal Calderini. Questa è la zona a
maggiore altimetria, indubbiamente a causa del
maggior accumulo di detriti nel luogo di più an-
Tracce perimetrali e orientamenti astronomici di Milano celtica. L’asse maggiore dell’ellisse ha
l’orientamento del solstizio invernale, il decumano quello di un lunistizio maggiore e il rettifilo
delle vie Meravigli e Porrone della luna piena all’equinozio. Il perimetro circolare sembra fosse
formato da un argine di cui la circonferenza ha lasciato qualche traccia.
1: S. Giorgio al Palazzo. 2: S. Alessandro. 3: S. Giovanni in Conca. 4: S. Giovanni Laterano
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Quaderni Padani - 43
tico insediamento. A sud-est dell’ellisse invece,
cioè da via Agnello verso le piazze Fontana e
Beccaria, il terreno si abbassa e si sono trovati
depositi di anfore con funzione di vespaio e palificazioni. L’Arslan (a pag. 192, op. cit.) deduce
dal maggior livello altimetrico l’esistenza di un
sobborgo a est delle mura, cioè un’area che
comprende l’ellisse.
Osservando le piante sette-ottocentesche della
città, l’ellisse non è ben delineabile. Si nota però
la differenza della struttura viaria tra l’area dell’ellisse e il resto della città, evidenziata dagli angoli netti che alcune strade formano sulla presumibile linea dell’ellisse. La ricostruzione che mi
è sembrata migliore considera l’asse minore dell’ellisse coincidente col cardo, e l’asse maggiore
passante per gli sbocchi sull’ellisse delle vie Lauro e Agnello. La lunghezza dell’asse maggiore è
determinata dalle intersezioni con la via Boito e
con la breve via che collega via Marino a via
Agnello. La lunghezza dell’asse minore dall’intersezione con la via S. Protaso e con lo sbocco
di via Morone. L’asse maggiore risulta di 400 metri circa e quello minore di 360 metri circa.
È da chiedersi perché l’area dell’ellisse non sia
stata completamente inclusa nel circuito delle
mura romane. Evidentemente il passaggio delle
mura per via Filodrammatici la ha danneggiata.
La spiegazione potrebbe essere molto semplice.
Le città antiche si sono solitamente formate per
aggregazione di villaggi diventati con l’evoluzione urbanistica i quartieri della città. Per esempio, le iscrizioni milanesi ci ricordano il nome di
tre vici della città: vicus Bardomagus, vicus Corogennatium (nomi celtici), e vicus Venerius
che prenderebbe nome da un tempio dedicato a
Venere (o meglio, a una dea celtica assimilata a
Venere). Gli abitanti dei villaggi rinsaldavano la
loro unione in un tempio comune eretto in
un’area sacra fortificata. Questa situazione è testimoniata per i veneti dal nome pilpotis, “signore della cittadella”, dato al capo delle comunità cittadine. Nella cittadella di Padova, racchiusa da un anello d’acqua quasi circolare, probabilmente sorgeva il tempio principale dedicato
a una dea assimilata a Giunone. Una situazione
simile dovrebbe trovarsi anche a Milano, dato
che Polibio (II, 32, 6) narra che gli Insubri ritirarono dal tempio della loro dea principale (assimilata a Minerva) le insegne d’oro, dette” inamovibili”, prima di affrontare i Romani nello
scontro decisivo. Il tempio della dea celtica a Milano plausibilmente si trovava, come quello di
Padova, in un’area sacra delimitata e divisa dal44 - Quaderni Padani
l’abitato. Mi pare che l’ellisse potesse svolgere
questa funzione. In proposito vorrei fare un paragone tra le insegne d’oro conservate dagli Insubri nel tempio di Minerva e i trofei conservati
dai padovani nel tempio di Giunone. Tito Livio
(X, 2) riferisce con rammarico della scomparsa
dei trofei padovani tacendo però sui colpevoli
della sottrazione. È probabile che siano stati i
Romani a requisirli negli anni della formalizzazione giuridica dell’assoggettamento dei Veneti.
Chiediamoci allora se anche agli Insubri i Romani non abbiano voluto infliggere una punizione umiliante che li colpisse nei loro sentimenti sacri. In questo senso si può ipotizzare la
distruzione dei templi della cittadella col passaggio delle mura attraverso l’ellisse.
Non molti anni dopo la costruzione delle mura, nel loro tratto lungo la via Lauro venne addossata in età claudia un’aula destinata forse al
culto imperiale. L’Arslan (a pag. 195, nota, op.
cit.) commenta che “non deve sfuggire l’importanza della dislocazione di una simile impianto
a Nord-Est della città”, ma non aggiunge altro
per specificare a quali connessioni intenda riferirsi. Io vorrei supporre che dopo la distruzione
della cittadella sacra i vincitori abbiano voluto
sostituirvi nelle vicinanze un culto romano per
completare l’abbattimento morale del temibile
avversario. Gli antichi facevano le guerre in nome e col favore degli dèi. Per scoraggiare la rivalsa dei guerrieri insubri era necessario distruggere i templi in cui giuravano prima di scendere in
campo.
Bibliografia
❐ Arslan, Ermanno. “Urbanistica di Milano romana. Dall’insediamento insubre alla capitale
dell’impero”. Aufstieg und Niedergang der roemischen Welt. II, 12, 1. 1982.
❐ Calderini, Aristide. “Tracce di archeologia
preromana nell’ambito della città”. in AA. VV.
Storia di Milano. vol. I. Milano 1953.
❐ Calderini, Aristide.” La fondazione della città
e la sua topografia originaria”. ibidem.
❐ Frison, Carlo. “Vicenza antica: indagine sulle
trasformazioni urbanistiche”. Il Piovego. n. 47.
Padova 1993.
❐ Frison, Carlo. Dal pilpotis al doge. Padova: Libraria padovana editrice. 1997.
❐ Gambi, Lucio; Gozzoli, Maia Cristina. Le città
nella storia d’Italia. Milano, Roma-Bari: Laterza, 3° ed, 1997.
❐ Mirabella Roberti, Mario. “Milano”. Enciclopedia dell’arte antica e orientale. Roma 1963.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Quale cultura
per l’ecologismo
di Eduardo Zarelli
Il paradigma comunitarista e antiutilitarista
Non è difficile, a nostro avviso, identificare
con chiarezza ciò che non funziona nelle odierne società occidentali, nonché nelle culture che
le informano e rappresentano.
La frammentazione sociale, la crisi della partecipazione alla vita pubblica, l’anomia generalizzata, l’isterilimento dei rapporti e dei legami
sociali, il mito della self-realisation come corollario di ben più resistenti mitologie individualistiche: queste, sul piano sociale, le cause
più evidenti del decadimento della qualità del
nostro vivere quotidiano.
Sul piano più specificatamente teorico, i paradigmi di riferimento largamente diffusi e generalizzati nel più ampio spettro delle scienze
umane applicano ormai sistematicamente una
lettura largamente riduzionista dell’uomo, del
suo agire e del contesto sociale in cui vive. In
particolare le due formulazioni egemoniche (individualismo metodologico e teorie utilitariste)
hanno prodotto una lettura dei fenomeni sociali che, per quanto lontana dal definire la natura
umana nella sua multiforme complessità, é filtrata come nuovo universale culturale nelle
profonde sfere dei rapporti e delle relazioni, divenendo a tutti gli effetti senso comune.
Da alcuni anni, al di qua e al di là dell’oceano,
queste problematiche vengono sistematicamente affrontate da vere e proprie correnti di pensiero, che sono state capaci di produrre un corpus teorico che va imponendosi sempre più come nuova teoria critica della società. Ci riferiamo soprattutto allo statunitense “Communitarian Network” di Amitai Etzioni, Alasdair MacIntyre e Charles Taylor ( nonché alle diverse
realtà sociali e culturali ad esso collegate) e al
francese “Mouvement Anti-Utilitarist dans les
Sciences Sociales” di Alain Caillé e Serge Latouche.
Nella prospettiva del MAUSS è necessario deAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
finire un nuovo paradigma per le scienze sociali, ormai completamente “contagiate” dalla dottrina utilitaristica originariamente propria della
sola economia. Tale paradigma si sostanzia nella Teoria del Dono che affonda le sue radici nello studio della sfera di socialità primaria che si
sottrae al dominio del mercato.
L’analisi comunitarista muove da una critica
serrata alla dottrina individualista dei diritti,
contestando l’assenza di una prospettiva che li
leghi indissolubilmente ai doveri e alle responsabilità di cittadinanza.
Il punto di partenza é che tutti ci troviamo a
vivere in un contesto di tipo comunitario, un
insieme denso di relazioni sociali e di rapporti
di mutua assistenza. La condizione primaria di
sopravvivenza di una comunità é che i suoi
membri dedichino parte del loro interesse,
energia e risorse a progetti comuni. L’attenzione esclusiva per gli interessi personali erode la
rete di legami sociali da cui tutti dipendiamo,
minando i fondamenti stessi della convivenza.
Per queste ragioni i diritti individuali non possono essere preservati a lungo al di fuori di una
prospettiva comunitaria.
Il degrado ambientale
La difesa dell’ambiente è un concetto che, oltre a rappresentare il fondamento dell’attività
dei movimenti verdi, è oramai diffuso nella demagogia programmatica della maggior parte
dei partiti politici occidentali e delle burocrazie
amministrative che ne conseguono nei più diversi livelli di responsabilità territoriale.
I “costi dello sviluppo” sono presi in considerazione dai governi locali, nazionali e sovranazionali e dalla stessa organizzazione economica
industriale, che tentano di sfruttare il pianeta
in forme compatibili al mercato e alle risorse
presenti.
Un grosso ruolo, in tutto questo, lo svolge
Quaderni Padani - 45
un’opinione pubblica preoccupata di perdere il
“candore” di un consumismo “delicato” che
concili la qualità delle merci con la quantità
della massa degli aventi diritto; un bel rompicapo, tanto più se allarghiamo l’ottuso sguardo
d’Occidente ai restanti 3/4 dell’umanità.
L’ecologia - la scienza delle relazioni tra gli
organismi viventi e il loro ambiente naturale ha generato molti figli e, soprattutto, un fraintendimento ed una eterogenesi dei fini. Il suo
utilizzo strumentale ne ha snaturato il significato di critica complessiva al modello di sviluppo industriale.
Ambientalismo: un’ecologia funzionale
Il tentativo di conciliare la produttività industriale con la gestione dell’ambiente è l’ambientalismo. Esso si colloca in una prospettiva antropocentrica, grazie ad una visione scientificomaterialista della natura, per cui il deterioramento dell’ambiente compromette gli interessi
umani di sopravvivenza. L’atteggiamento culturale, che ne consegue è largamente maggioritario, limitandosi a concepire la natura come un
capitale da preservare da parte di un uomo “responsabile” e “preveggente”.
Su questa base, le politiche liberiste tentano
di inserire il principio “chi inquina paga” nelle
giurisdizioni più avanzate, inconsapevoli di generare un ancor più perverso “mercato dell’inquinamento”, che mette d’accordo inquinatori
ed inquinati fissando il prezzo per il danno causato. Le aziende vengono semplicemente indotte ad aggiungere il costo inquinamento tra i costi di produzione.
Più articolata la proposta riformista per un
ecosviluppo o modello di sviluppo sostenibile.
La filosofia che sorregge questa proposta si basa
sulla presa di coscienza che i costi della protezione della natura sono sempre inferiori ai danni che ne risulterebbero qualora non venissero
adottati. In questo senso, si proietta lo sfruttamento dell’ambiente in una prospettiva temporale futura, per cui risulta necessario non compromettere la capacità delle prossime generazioni di far fronte alle proprie necessità.
In pratica si vuole semplicemente posticipare
una scadenza ineluttabile. Nel frattempo, nonostante conferenze internazionali e grandi petizioni di principio, si è ovviamente incapaci di
modificare il compromissorio modello di sviluppo dominante, che, anzi, si arricchisce di un
vero e proprio “mercato dell’ambiente” o ecobusiness, che mantiene l’ambientalismo all’in46 - Quaderni Padani
terno di un sistema di produzione e consumo,
causa prima dei danni a cui tenta di porre rimedio.
L’ecologia radicale
L’unica posizione ecologista minoritaria, che
non accetta compromissioni con il modello di
sviluppo dominante e la tecnocrazia che ne è
severa esecutrice è l’ecologia del profondo. Il
termine “ecologia profonda” fu coniato da Arne
Naess, nel tentativo di descrivere un approccio
alla natura spirituale esemplificato negli scritti
dei precursori americani Aldo Leopold e Rachel
Carson. Naess cercava un approccio sostanziale
alla natura tramite una apertura e una sensibilità fondante per noi stessi e la vita umana che
ci circonda.
L’ecologia profonda oltrepassa l’approccio
scientifico fattuale per raggiungere la consapevolezza del sè e della saggezza della terra. La
critica all’antropocentrismo è fondamentale,
l’uomo - olisticamente - viene inteso come parte di un tutto “cosmico”. L’implicazione di questo principio è l’ecocentrismo per cui la natura
va protetta di per sè, per un suo valore intrinseco, indipendentemente da qualsivoglia utilità
umana. Se arrechiamo danni alla natura, danneggiamo noi stessi.
Con questa impostazione sono identificabili senza forzature e nella varietà delle proposte svariati pensatori europei e americani come Bill
Devall, George Session, Edward Goldsmith,
Gary Snyder, Kirkpatrick Sale, Peter Berg, Ernst Schumacher, James Lovelock, Giannozzo
Pucci. Il tipo di approccio ecologico alla realtà,
che se ne ricava, è radicale: bisogna interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali
e il posto dell’uomo nella natura, uscire dall’industrialismo, dall’utilitarismo individualista,
dal paradigma tecno-scientifico dominante. In
pratica occorre agire sulle cause invece che sugli effetti.
Non c’è bisogno di nulla di nuovo, ma di riscoprire qualcosa di molto antico, arcaico: la
comprensione della Saggezza della Terra, la
consapevolezza del rapporto di simbiosi e armonia tra tutti i viventi. Andare all’origine delle
cose significa, conseguenzialmente, decostruire
la macchina tecnomorfa creata dalla scienza
moderna, superando l’approccio parziale e riduzionista e immedesimandosi con il senso perduto dell’armonia tra uomo e natura, la visione
metafisica della realtà divulgata dagli scienziati
Fritjof Capra e Gregory Bateson.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Una visione sacrale
me una improbabile parità di diritti giuridico
La maggior parte delle forme di religiosità formali.
animistiche e politeistiche tradizionali ha un
In realtà, la natura vale per quello che è, non
carattere cosmico. L’universo viene da esse inte- esiste una natura buona o cattiva, che risente di
so come un insieme vivente correlato, del quale una proiezione umanistica e, quindi antropol’uomo è parte per il solo fatto di esistere. La centrica. Conseguentemente, l’uomo, pur non
natura è animata, il territorio si compone di essendo l’unico essere “biocosciente”, è sicuraluoghi sacri, il tempo è connaturato ai cicli co- mente l’unico ad avere coscienza di questa cosmici celebrati con i riti e i sacrifici, che uni- scienza ed è per questo che sulla base dei suoi
scono in un’eterna spirale il dare e il ricevere presupposti naturali biologici, genetici, istindella vita e della morte, in una solidarietà tuali, rimane spiritualmente indeterminato e liprofonda tra l’uomo e l’esistente.
bero di scegliere.
La natura è emanazione spirituale a differenIl tentativo di una riconversione ecologica deza dei monoteismi che subentreranno universa- ve consistere nel tentativo di ricreare nell’uomo
listicamente nella storia della umanità. Questi la profonda consapevolezza di essere parte della
ultimi, infatti, intendono la natura come creato, natura, lasciandogli la libera volontà di decidere
prodotto del libero volere di un Dio. L’universo di farne parte armonicamente, sacralmente.
viene desacralizzato e svuotato delle sue forze
magiche o spirituali, aprendo la strada - in una Il concetto di limite
visione unilineare dello sviluppo storico - allo
Una cultura ecologista conseguente deve
scientismo, che priverà di Dio una materia già identificarsi con una opposizione all’ideologia
morta e renderà l’uomo razionale un riferimen- economica dominante e ai suoi presupposti tecto assoluto e disincantato. Il messaggio dell’e- nologici e scientifici, ovvero alla concezione secologia profonda reagisce ad un antropocentri- condo cui la società degli individui - intesi cosmo che fa dell’uomo un valore supremo, rial- me produttori e consumatori razionali - si fonlacciandosi a una concezione del mondo tipica da sul meccanismo autoregolativo del mercato.
della religiosità delle società arcaiche e tradizioIn controtendenza, è possibile ritrovare un
nali; queste, da sempre giudicate superficial- rapporto armonico tra cultura e natura in ammente “società chiuse”, si rivelano, al contrario, biti di reciprocità comunitaria, che, in chiave
aperte alla totalità del cosmo e quindi malleabi- locale, subentri alla contrattualità mercantile e
li, nell’organizzazione del corpo sociale, in una riducano la scala delle necessità fino a ricreare
varietà di sfumature e di significati profondi una situazione di interdipendenze tra regioni
che permeavano il senso del vivere quotidiano.
naturali. Vanno riconosciuti i diritti universali
Disse il capo indiano Duvamish al presidente degli abitanti, legati al proprio territorio da un
Pierce nel 1855: “Noi siamo una parte di questa legame profondo, simpatetico, che si avvalga di
terra ed essa è parte di noi. Non è stato l’uomo tecnologie appropriate, e di un’economia che
a creare il tessuto della vita; ne è solo un filo. conviva con le risorse locali completandosi Ciò che voi farete al tessuto,
Tabella comparativa Atteggiamenti
lo farete a voi
stessi”.
Cultura dominante
Ecologia profonda
Partendo da
questa interDominio sulla natura
Armonia con la natura
pretazione tradizionale della
Natura come risorsa
Natura come valore in sé
natura è possiSviluppo economico
Autorealizzazione economica
bile completare il concetto
Sfruttamento delle risorse
Limite naturale
di uguaglianza
Progresso tecno-scientifico
Tecnologie appropriate
biocentrica che
altrimenti poConsumismo
Sobrietà/riciclaggio
trebbe essere
Società stato/nazionale
Comunità autonomismo/bioregione
intesa moralisticamente coAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Quaderni Padani - 47
nella minor quantità possibile - con beni di e
produzioni esterne. Il senso del limite, la sobrietà esistenziale, la cultura delle differenze
quale logica conseguenza della biodiversità, devono imperniare l’azione diretta ed esemplare
di chiunque, gruppo o singolo, voglia sentirsi in
connessione con la saggezza “omeostatica” della terra.
Un messaggio minoritario?
Il tipo di comunità maggiormente in grado di
cominciare il “vero lavoro” di formare una consapevolezza ecologica allargata si trova nella
tradizione minoritaria.
La crisi dello Stato nazionale, il rifiuto delle
strutture centralizzate, ipertrofiche e della massificazione della società consumistica, va nel
senso del riconoscimento delle lingue e delle
culture regionali dei costumi e delle tradizioni
locali come via d’uscita all’uniformazione e alla
spersonalizzazione della monocultura industrialista. Non a caso, questo riconoscimento si
accompagna al ritorno alla manualità, all’artigianato, ai saperi intuitivi, ai comportamenti
spontanei che sostanziano la cultura vernacolare (1) che Ivan Illich ha sempre indicato come
serbatoio inesausto di praticità ecologica e di
saggezza popolare.
L’essenza della tradizione minoritaria è una
comunità capace di autoregolarsi. Le consuetudini condivise prendono il posto delle leggi imposte, l’autorevolezza prende il posto dell’autorità, la democrazia consensuale e qualitativa responsabilizza ogni libero partecipante alla vita
comunitaria.
Le società originarie, tradizionali, antropologicamente indigene - spesso residualmente presenti in vari aspetti delle cultura popolare - forniscono numerosi esempi di ciò che si può intendere per tradizione minoritaria. Le comunità locali hanno provveduto all’esigenza della
vita associata autoregolamentandosi, in solidale
rapporto con la natura.
Il bioregionalismo è vecchio almeno quanto
la coscienza dell’uomo poichè investe il sistema
naturale in cui si abita della responsabilità sia
del nutrimento fisico sia dell’insieme di metafore dalle quali il nostro spirito trae sostanziale
sostentamento. Comprendere i cicli della natura significa cominciare a comprendere se stessi,
il radicamento interiore che ci lega a quell’universo di sensazioni che compone l’animo umano e ci rimanda simbolicamente alle armonie
cosmiche.
48 - Quaderni Padani
Bibliografia
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❐ A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, 1991
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Adelphi, Milano, 1993
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❐ A.Etzioni, Nuovi comunitari. Persone, virtù e
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1998
❐ A. Ferrara, Comunitarismo e liberalismo,
Editori Riuniti, Roma, 1992
❐ E. Goldsmith, Il Tao dell’Ecologia, Muzzio
Editore, Padova, 1997
❐ I. Illich, Il Genere e il Sesso, Mondadori, Milano 1984
❐ S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992
❐ J. Mander-E.Goldsmith, Glocalismo. L’alternativa strategica alla globalizzazione, Arianna
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❐ G. Pucci, Il Rapporto Uomo Natura alle Radici della Cultura Europea, Editrice Fiorentina,
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❐ K. Sale, Le Regioni della Natura, Elèuthera,
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Milano, 1993
❐ G. Snyder, La Grana delle Cose, Edizioni
Gruppo Abele, Torino, 1987
(1) È un termine che proviene dal diritto romano ed indica
l’opposto di una merce. Possiamo quindi intenderlo in una
prospettiva qualitativa e di appropriatezza tecnica e artistica:
artigianale. Lo stile vernacolare rimanda a una finitezza
morfologica della vita comunitaria, basata sul presupposto,
implicito e sovente espresso attraverso il rituale e rappresentato in termini mitologici, che una comunità, come la vita di
un singolo, non può svilupparsi oltre le proprie dimensioni.
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
La rinascita di una cultura
attraverso l’esempio bretone:
modello per la Savoia
e per la Padania?(*)
di Pascal Garnier
D
esidero richiamare alla memoria la questione dell’Europa dei popoli, dell’Europa dalle
cento bandiere, per riprendere la formula
inventata da Yann Fouéré e gradita anche allo
svizzero Denis de Rougemont, teorico del federalismo.
Questa idea è in sé seducente, sulla carta, ma
si tratta di un’Europa virtuale. Se noi vogliamo
giungere a una presa del potere politico, bisogna
che questa Europa sia formata da uomini affratellati tra loro a formare una comunità. In questo momento noi abbiamo molte difficoltà a individuare un popolo, tanto la società si ritrova atomizzata di fronte all’individualismo che esercita i
suoi danni sull’intero pianeta. Se la Savoia o la
Valledaosta conservano ancora una coscienza
identitaria forte, è perché sono dei paesi di montagna in possesso di un forte atavismo paesano
che ha permesso di conservare una notevole specificità: la stessa cosa non vale per le regioni della pianura con grandi megalopoli come Milano o
Torino.
Questa mancanza della coscienza identitaria
ha fatto sì - ad esempio - che la Lega Nord, dopo
aver conquistato talune grandi città, le abbia ben
presto perse, ma che abbia, per contro rinforzato
le sue roccaforti tradizionali nei piccoli villaggi e
nelle piccole città della montagna. Adesso, dopo
qualche decennio di amalgama delirante, dappertutto le folle urbane si mettono alla ricerca delle
proprie radici. Lo testimoniano, un po’ ovunque,
il successo di libri di storia o sulla vita rurale e le
società di ricerche genealogiche.
Però, troppo sovente, restiamo in un mondo
troppo virtuale, troppo idealizzato. Questa conciliazione tra la tradizione e la modernità è un’impresa difficile. In Savoia, per esempio, i gruppi di
musica tradizionale, pur portatori di un potenAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
ziale enorme, si sono, in generale, incagliati sullo scoglio dell’attaccamento ai valori del passato,
malgrado lodevoli tentativi (come quello di Jean
Marc Jacquier) di farli evolvere. Ciò nonostante
esistono esempi di successo, come i musici dei
Paesi Baschi o il gruppo Corso di canti polifonici
“I Muvrini”.
(*) Discorso pronunciato al Congresso della Lega Nord della
Val d’Aosta, il 10 ottobre 1998 a St. Oyen. Traduzione di
Franco Actis Alesina
Quaderni Padani - 49
Ma è sull’esperienza della Bretagna che mi vorrei soffermare. Sempre alla ricerca di un modello, mi sono recato, nell’estate del 1998, al Festival Interceltico di Lorient (FIL) dove ho trovato
anche numerosi amici padani. Sono rimasto in
quell’occasione sbalordito dalla brillantezza, dalla potenza e dalla grande vitalità del movimento
culturale bretone. La cultura celtica ha sempre
affascinato i Padani e non è per caso che Alan
Stivell ricordava recentemente sull’Avenir de la
Bretagne che proprio a Milano, nel 1980, avesse
tenuto uno dei maggiori concerti di musica celtica davanti a più di 14.000 persone. Non è quindi per caso che i movimenti padanisti insistano
sull’importanza delle nostre radici celtiche.
Allora ho cominciato ad analizzare la storia del
movimento bretone, e come questa musica avesse potuto essere trasferita dalle campagne nelle
città e ho indagato sui collegamenti che si erano
potuti costruire con il mondo economico, nella
speranza che l’insieme culturale potesse un giorno sfociare in un forte movimento politico.
Il successo del movimento culturale bretone
C’è una eccellente novità: per la prima volta,
dopo moltissimo tempo, la cultura americana arretra davanti a una locale. D’ora in poi, alla punta
occidentale dell’Europa, un popolo irriducibile di
meno di 3 milioni di persone umilia la civilizzazione della Coca-cola e del Mac Donald. Malgrado l’ostilità o l’indifferenza di un altro paese colonizzatore, la Francia, tutto un popolo è in procinto di riprendere la propria lingua: le scuole
Diwan (scuole “alternative” con circa 4.000 allievi, cui si sommano altri 24.000 scolari in totale
che ricevono un insegnamento in Bretone) si
riempiono e una larga fetta della gioventù preferisce andare ai festoù-nos (“feste della notte”)
piuttosto che nei locali notturni “normali”. Queste cifre possono sembrare relativamente basse:
non è che il 5% della popolazione studentesca
contro l’85% dei piccoli corsi che - ad esempio imparano la loro lingua. Ma la percentuale cresce
ogni anno ed è un segno di successo culturale.
Le presenze ai festivals e ai festoù-nos
La stampa fa eco a questi fatti e i suoi titoli
parlano da soli: “Avere vent’anni nei festoù-nos”,
“Sale colme tutti i sabati in Bretagna”. È un fenomeno urbano che conoscono tutte le grandi
città bretoni da tre o quattro anni. La danza bretone piace per la sua convivialità. Queste feste
creano un legame sociale e vi si incontra gente
di tutte le età, di tutte le categorie: in discoteca
50 - Quaderni Padani
le persone sono sole mentre nei festoù-nos la
gente si tiene per mano. Oggigiorno una marea
di giovani di 16 o 17 anni non vuole più andare
nelle discoteche e scopre i festoù-nos con entusiasmo. Questo successo si spiega - ben inteso anche con il fatto che i gruppi di musica tradizionale non hanno avuto alcun ritegno a “rivisitare il folclore” per riammodernarlo al fine di
riappropriarsene. Adesso moltissimi gruppi riescono a vivere bene con la propria musica. A Brest, la Gven-ha-du rifà la sua apparizione a ogni
manifestazione studentesca. I corsi di danza e di
pratica degli strumenti musicali sono sempre al
completo. Durante il Festival Interceltico di Lorient, al Salone Carnot, prima del festoù-nos,
tutti i pomeriggi si davano gratuitamente dei
corsi di danza.
Per tutta l’estate la Bretagna ha vissuto al ritmo delle sue feste: c’erano decine di migliaia di
persone a Pluvigner, 100.000 persone nei tre
giorni del “Festival dei vecchi aratri”. Anche il
Festival di danza bretone, la “Saint Loup” di
Guingamp, ha riunito decine di migliaia di partecipanti, 100.000 erano presenti alla grande festa
marittima di Douarnenez sabato 15 agosto e in
25.000 si sono presentati alle “Feste dell’Armor”
a Vannes.
L’autonomia delle regioni di cui si parla
Jean Pierre Pichard, il segretario generale del
FIL, ha fatto qualche interessante riflessione sulla riuscita del movimento culturale bretone.
Ogni giorno, durante tutto il periodo del Festival, ha tenuto una conferenza stampa di fronte a
una frotta di giornalisti. Quest’anno più di 400
sono stati i corrispondenti accreditati. Pichard è
una persona soddisfatta che ama dividere il suo
entusiasmo con i suoi interlocutori. È felice che
il suo Festival abbia ancora quest’anno, con più
di 400.000 visitatori, superato dal 10 al 15% il
proprio record di presenze, cosa che ne fa il più
frequentato Festival europeo. Ma quest’uomo
mantiene la testa fredda e, con il senso della sintesi che lo caratterizza, sa riproporre tutto questo in un quadro più globale. Allora espone gli altri successi del movimento culturale bretone, la
moda della musica celtica, e l’autonomia delle
regioni. Giustamente, a questo proposito, ci dice:
“I Festival più in vista, i più “classici”, perdono
vigore (calo delle presenze a Bourges, Avignon,
La Rochelle). La Francia è il paese d’Europa con
la maggior quantità di Festival. La cosa più importante è sapere se il Festival è destinato a durare nel tempo. Orbene la maggior parte dei FeAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
stival si occupa di tematiche limitate (jazz, lirica, eccetera). Fin dall’inizio, nel 1971, il nostro
concetto guida è stato d’essere adattabili, a geometria variabile, in un’epoca dove le nostre tematiche potevano sembrare marginali, in un’epoca dove la cultura celtica e bretone era meno
di moda che adesso. È questa la ragione per cui
ci si è anche rivolti verso l’editoria e i libri specialistici. C’erano dunque due tipi di Festival: da
una parte i Festival “parigini” e dall’altra i Festival prodotti sul posto. I Festival che avevano dei
finanziamenti erano quelli ideati a Parigi (Avignon, le “francofolies”, eccetera), in una sorta
d’établisment parigino, che si comincia a conoscere un poco, con i loro direttori che dividevano
i loro Festival con i critici, i giornalisti... La
“combriccola” se ne tornava a Parigi e dava la
notizia a tutti i media nazionali. Il FIL fatto sul
posto non era preso sul serio. Non si rientrava in
quella logica di gente che si conosce l’un
l’altro...” Bisogna aggiungere, per la cronaca,
che il FIL non ha mai ricevuto la più piccola sovvenzione dal Ministero della Cultura e che le relazioni con quest’ultimo restano penose.
Però le celebrità del paese si impegnano ugualmente. Roger Gicquel, l’anziano presentatore vedette del primo canale della televisione, messo in
pensione dal video dall’anno scorso, era presente
al concerto di Dan Ar Bras. Al salone del libro,
firmava dediche a tutta forza sulla sua ultima
opera. A primavera presiedeva il comitato di sostegno del Partito per Organizzazione della Bretagna Libera (POBL) in occasione delle elezioni
regionali.
Ma anche quelli che sono ancora in attività cominciano a “degnarsi” di occuparsene: Patrick Le
Lay, (Presidente e Direttore Generale di TF 1)
presenta il suo progetto di televisione bretone e
dichiara: “Entro tempi brevi noi avremo la possibilità di creare delle televisioni regionali. Fino a
oggi lo Stato lo vietava e non concedeva le frequenze. Una televisione in Bretagna, in Corsica,
in Occitania, in Fiandra andava a scontrarsi con
il giacobinismo francese.” Sul tema delicato dell’identità, non esita a impegnarsi anche di più:
“In materia sono molto radicale. Io mi qualifico
essenzialmente bretone. Questo permette di avere un’identità tanto più forte quanto più questa
é stata combattuta. Oggigiorno c’è una fortissima reazione a questo tentativo di eliminazione.
Questo è formidabile! Una vera presa di coscienza. Noi non abbiamo più vergogna di essere bretoni. La vita rispetto al paese, rispetto ai valori
che riscattano questa appartenenza è certamenAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
te più ricca di quella che si può trovare a Parigi.
In effetti l’Europa è una grande occasione per le
regioni che vogliono provare a esprimersi.
La Francia è il solo paese statalista d’Europa.
La Spagna, la Germania non sono degli Stati.
La Catalogna è una regione estremamente possente. In Gran Bretagna si disegna una evoluzione molto significativa con i Parlamenti scozzese
e gallese.” (1)
Della mia visita al FIL, avrò conservato un’idea
base che emerge sempre nei dibattiti: sullo sfondo c’è sempre la feroce volontà d’indipendenza
dei popoli celti. Questi riprendono sicurezza in
sè stessi e rifiutano il vecchio colonialismo degli
Stati nazione, che sia quello della Gran Bretagna
per gli scozzesi e i gallesi, o quello della Francia
per i bretoni.
Analizzerò quindi il successo di questo impressionante movimento culturale studiando le sue
origini, i collegamenti che ha saputo tessere col
mondo economico e politico, essendo essenziale
per i movimenti come i nostri la comprensione
dei meccanismi che “oliano” le articolazioni tra
queste tre sfere.
La trasmissione della cultura attraverso
l’esempio della musica bretone: la storia di una
riforma e di una resurrezione
Dunque l’Europa è scossa da regioni che si impongono, da regioni che sbocciano. Nel novero
degli ingredienti del successo, quasi sempre si
trova la presenza di una identità culturale forte.
Per le regioni l’identità culturale non è neutra.
All’interno permette di cristallizzare le energie
della comunità e all’esterno costituisce molto
semplicemente l’occasione di esistere agli occhi
degli altri: è creatrice di immagine.
Un forte progresso in tutta l’Europa
L’anno prossimo, la Scozia dovrebbe accedere
alla propria indipendenza. Il cineasta scozzese
George Kenavan, membro dello SNP (Scottish
National Party) da due anni, vecchio laburista
deluso da Blair e dal New Labor, spiega: “Questo
sentimento indipendentista è stato nutrito da un
rinnovamento culturale, dai romanzi, dagli
spettacoli teatrali che parlano della realtà scozzese; esistono dei gruppi di rock gaelico come i
Dunrig.” In quanto alla celebre arpista gallese
(1) Si noti che la Repubblica italiana non viene neppure citata: non è ritenuta seria neanche come oppressore delle identità locali.
Quaderni Padani - 51
Eléonore Bennet (presente al FIL del 1998), è
sposata con uno dei principali leaders del movimento indipendentista: ecco come cultura e politica vanno innegabilmente assieme.
Anche la Slovenia, qualche tempo prima d’ottenere l’indipendenza, aveva visto espandersi la
nuova arte slovena, una cultura in qualche modo
legata alla montagna.
In seno a questa Europa delle Regioni, la Bretagna è di moda. I turisti estivi ne fanno una
meta privilegiata. I consumatori apprezzano i
suoi prodotti con marchio d’origine, il suo patrimonio architettonico e culturale, i suoi appuntamenti festivi e la sua buona tavola. Si tratta di
una moda? Non è questo qualcosa di più radicato? In effetti, se si studia più in profondità il fenomeno, ci si accorge che l’esplosione culturale
bretone è il frutto di un lungo lavoro che ha
permesso di arginare la fuga di talenti creando
dei veri mercati culturali in Bretagna. La creazione di questi mercati ha così permesso di far
restare in zona degli artisti la cui sola preoccupazione era, stata, fino allora, di “andare a Parigi” lasciando in loco la “seconda scelta” delle loro creazioni. Il talento, la cultura, l’attitudine a
creare si aggiungono così all’attivo della ricchezza delle regioni e contribuiscono indubitabilmente a farle vivere e a farle riconoscere.
Noi stiamo attualmente vivendo una fase di
mondializzazione e di standardizzazione culturale. Più generalmente, questo fenomeno è inevitabile perchè attinge a degli intrecci strutturali,
economici e soprattutto tecnologici (facilità di
telecomunicazioni), e questo ha come effetto di
dare dei vantaggi supplementari alle regioni che
possono vantarsi d’essere costruite su un solco
culturale forte. Se si aggiunge a questa condizione il fatto di aver conservato una coesione sociale, queste Regioni si trovano straordinariamente
ben equipaggiate per fornire sia delle radici alle
genti che ci vivono, sia dei riscontri alle genti
esterne che ne hanno bisogno.
Questo è dunque qualcosa di più profondo di
una moda, è realmente un vero fenomeno di civilizzazione che non farà che amplificarsi oltre le
piccole risacche ritmate dalle mode parigine o
romane. In tutta Europa l’avvenire appartiene alle Regioni che saranno culturalmente forti.
Bernard Cadoret, direttore delle riviste Ar Men
e Le chasse-marée ci dice: “Si ha la sensazione
che oggigiorno si è maggiormente attaccati, per
necessità, alle proprie radici. Per schematizzare,
due campi di idee si contrastano. Si vuole una
standardizzazione generale col dollaro-re, la
52 - Quaderni Padani
cultura unicamente anglofona o, meglio, si vuole mettere in evidenza quello che fa la personalità, la differenza? Io non penso che si possa essere felici quando si è diventati una semplice pedina sul mercato dei consumi.” Cadoret ci spiega
successivamente che in Bretagna si è cominciato
a effettuare una ricerca storica approfondita, un
po’ come hanno fatto da parte loro i musicisti. Si
sono scritti dei libri, creati dei musei e, finalmente, i Bretoni si sono resi conto che questo
salvataggio delle memorie costituisce la base per
vivere il domani.
Sembrerebbe che si stia giungendo a questo
stadio anche in Savoia perché, come ci ha detto
Jean de Pingon: “Savoia e Alta-Savoia hanno,
sembra, il privilegio di essere i Dipartimenti di
Francia che hanno il più gran numero di aderenti a delle società culturali, è anche in questi
Dipartimenti che sarebbe pubblicato annualmente il più alto numero di opere dedicate alla
storia regionale.” Per la Padania, non saprei pronunciarmi perchè non conosco molto il contesto
locale, ma il confronto potrebbe confermarsi interessante.
Il fenomeno della musica tradizionale
La musica tradizionale bretone non ha mai
conosciuto tanti interpreti di qualità come oggi
e la Bretagna è il primo produttore di dischi della Francia. I musicisti del mondo celtico si contano a decine di migliaia. Dietro a questo fenomeno vi è un lungo lavoro realizzato dai movimenti associativi che hanno capito che la formazione era l’elemento cardine del rinnovamento
della cultura in Bretagna. In effetti queste migliaia di musicisti, che si spartiscono le feste e i
Festival, non sono usciti improvvisamente dal
nulla e la loro moltiplicazione è stata il frutto di
un lungo lavoro, avviato da sodalizi culturali per
lungo tempo marginalizzati. La vita o la morte
delle musiche tradizionali dipendono dalla solidità di una catena nella quale ogni elemento è
necessario. Questa catena è formata da quattro
elementi: la raccolta, l’insegnamento, la pratica
e la creazione, la diffusione. Annotiamo che questo lavoro di raccolta primordiale è stato fatto in
Savoia da Jean Marc Jacquier. In Bretagna, un
cantante tanto conosciuto come Yann Fanch
Kemener prosegue ancora oggi questa opera.
Questo figlio di modesti contadini è reduce dall’aver pubblicato questa esperienza in un libro
intitolato Carnets de route.
I “Celtofili” si sono interessati al primo anello
della catena, ma l’approccio etnomusicologico e
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
la raccolta (malgrado l’interesse che poteva suscitare) non bastano a far vivere delle culture a
fronte degli immensi sconvolgimenti sociologici
di una regione. Tra le due guerre, restavano in
Bretagna solamente poche decine di musicisti,
di suonatori di biniou, di bombarde, fisarmonicisti, violinisti e suonatori di clarinetto. È per
questo che i nostri suonatori di baghet (come il
nostro amico Giorgio Mazzocchi) non devono
scoraggiarsi, una rinascita è sempre possibile:
l’esempio della musica bretone lo prova in maniera meravigliosa. E’ Alan Stivell stesso che lo
dice: “Abbiamo quasi dovuto crearci delle basi
tradizionali perchè, per le persone della mia generazione, le radici erano tagliate.”
I musicisti bretoni di quell’epoca appartengono a un mondo rurale in rapido cambiamento. Il
complesso d’essere
bretoni, i nuovi mezzi
di trasporto, l’esodo
rurale, hanno allora
spinto i musicisti ad
abbandonare le musiche tradizionali a vantaggio delle musiche
della città. I figli dei
contadini, immersi nel
turbinio della città, installati a Parigi, Rennes o Nantes, si sentono un po’ sradicati e
cominciano a rivolgersi verso la musica o la
danza bretone accorgendosi che avevano
immolato un po’ troppo presto la loro cultura in nome del progresso. Il contatto dei primi
musicisti usciti dalla tradizione e da queste nuove strutture urbane permette in un primo tempo di mantenere il collegamento. La transizione
si può fare tra gli ultimi rappresentanti della
tradizione e dei movimenti ove si mescolano la
nostalgia, il “folklore” ma anche con quelli che
hanno scommesso di vivere al presente le culture che non si sono mai estinte. I circoli celtici
fioriscono allora nelle città piccole e grandi, da
Pont-Aven a Parigi.
Alla fine della seconda guerra mondiale si sono organizzati i primi stages di musica bretone
a Arzhon e a Argol. Con la comparsa dei primi
bagadoù imitanti le “pipes bands” scozzesi e irlandesi, la formazione musicale si organizza a
scala regionale per le cornamuse bretoni, le
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
bombarde e le batterie. Manca tutto: gli strumenti, le ancie, le raccolte di musica, i metodi,
gli insegnanti. Bodareg Ar Sonnerion e altre organizzazioni moltiplicano gli stages. Emile
Alain, Jean L’Herelgouach pubblicano dei metodi didattici. Dorig Le Voyeur si installa a Rennes
e fabbrica dei binious e delle bombarde. Più tardi Dastum raggrupperà il lavoro di compilazione
effettuato in questo periodo e continuerà l’opera
dei pionieri. Negli anni 70, il sistema di formazione comincia ad affinarsi e ci sono parecchie
migliaia di suonatori bretoni. Dopo gli sconvolgimenti del maggio 1968, Alan Stivell, che dirigeva la bagad Bleimor de Paris, mette in orbita
la musica bretone. Allora sulla base del volontariato, i migliori musicisti bretoni si mettono al
servizio di tutto un reticolo di formazione.
Nel 1978, la pubblicazione di una Carta Culturale per la Bretagna sembra dover segnare una
svolta per la musica bretone. È il riconoscimento, da parte del Presidente della Repubblica in
persona, del diritto dei Bretoni ad avere una cultura differente. Un intoppo importante è sbloccato per costruire un Conservatorio Regionale a
Lorient, inaugurato nel 1981. Per la prima volta,
l’insegnamento tradizionale è svolto in locali
adatti da dei professori rinomati seguendo un
corso chiaro, sostenuto da una appropriata pedagogia. Ma questo non accade senza porre dei
problemi nei rapporti tra i tradizionalisti e i modernisti. Il molto carismatico segretario generale del FIL, Jean Pierre Pichard, si ricorda: “Quello che avrebbe potuto essere uno strumento di
prim’ordine diventa un luogo di contrasto. I priQuaderni Padani - 53
mi rappresentanti del Ministero, gli etnomusicologi, volevano vedere le espressioni musicali
morire di morte naturale con le società che le
avevano generate. I seguenti, i classici, non vedono alcun interesse nella cosa. Gli ultimi vogliono semplicemente dei corsi di etnomusicologia senza pratica strumentale. Per contro,
dall’altro lato i rappresentanti duri del movimento culturale bretone, che avevano paura di
perdere importanza e credibilità, considerano il
Conservatorio come un concorrente. Preso in
una morsa tra Parigi e i Bretoni, talvolta integralisti, questo progetto è soffocato sul nascere
quando il numero degli allievi raddoppia tutti
gli anni. 524 allievi si ritrovano senza professori
nel 1985.” I Conservatori di Nantes, Lorient,
Quimperlé, Kemper, St Brieuc aprono delle sezioni di musica tradizionale, riassumendo in
parte i professori usciti da questa esperienza. E
l’insegnamento della musica bretone è ora riconosciuto grazie alle istanze regionali e dipartimentali. Jean Pierre Pichard fa la sintesi di questo fenomeno: “La musica tradizionale è una
materia fragile e, uscita dal suo contesto originale, avrebbe potuto intristirsi e vuotarsi della
sua sostanza. Malgrado situazioni materiali difficili, e un contorno qualche volta ostile, la tradizione è tuttavia riuscita a sopravvivere e a
prosperare. I musicisti bretoni sono riusciti nella prova di forza di portare le loro musiche dal
fondo della civiltà rurale al cuore delle città
senza perdere l’anima e il contenuto. [...] Si sarebbe potuto temere una distorsione, una folklorizzazione, una perdita di identità della musica bretone, si sarebbe potuto trovare dei tecnici
seguenti il loro spartito e non dei veri musicisti
conoscitori della materia vivente che interpretano. La maggior parte degli scogli e degli errori sono stati evitati, non ci sono mai stati tanti
musicisti di talento in Bretagna come in questa
fine del XX° secolo. I più arditi creatori, come
Alan Stivell, Roland Becker, Jean Louis Le Vallégant, che sono stati anche campioni dei concorsi di musica tradizionale, quando creano, non
lo fanno “non importa come”, ma sono capaci
di non tradire la materia con cui essi lavorano.
Una cultura che non evolve, che si congela, è
una cultura in una triste posizione. In Bretagna, si trovano tutti i segni qualitativi e quantitativi di una cultura in piena salute, si constata
che la sorgente celtica non è disposta a tradirsi.
Questo è sicuramente un esempio per altre regioni e una dimostrazione per quelli che l’avevano sotterrata troppo presto.”
54 - Quaderni Padani
Bilancio e prospettive per la Savoia
Ringraziamo Jean Pierre Pichard per questa
eccellente lezione, soprattutto sperando che da
noi, dove il lavoro sembra arduo, ci siano dei
buoni ascoltatori!
In Savoia, uno come Jean Marc, è in urto permanente con dei gruppi di suonatori che rifiutano di evolvere e restano disperatamente congelati in un folklore tradizionalistico e condannato. La loro francofilia, talora senza limiti, non è
più di attualità al tempo dell’Europa dei popoli!
Si è ugualmente potuto vedere un gruppo, di cui
tacerò per carità il nome, celebrare l’annessione
della Savoia alla Francia... Inoltre da 15 o 20 anni, non hanno registrato alcun disco e questo è
totalmente incomprensibile perché la Savoia,
come la Bretagna, ha la fortuna di avere una forte identità. In Savoia non esiste niente a livello
di insegnamento della musica tradizionale, sia
nei Conservatori che altrove. Nella catena dei
quattro elementi di cui abbiamo precedentemente parlato, noi non siamo stati capaci di superare il primo, quello della collezione, e questo
fa arrabbiare. E che nessuno venga a dirci che il
patrimonio musicale della Savoia è povero e meno degno di quello delle altre regioni! Chi afferma questo da prova di un pessimismo o di un disfattismo, o di ignoranza, al pari di vera ostilità
nei confronti della nostra identità culturale. In
effetti Patrice Abeille ricorda su Renaissance Savoisienne: “La Savoia possiede un ricchissimo
patrimonio musicale. Oltre il Noël de Bessans, i
compositori Nicolas Martin e Georges Muffat,
che si possono attribuire al repertorio classico,
sono stati collezionati migliaia di canti e canzoni. E lo stesso vale per le danze: sono stati raccolti valzer, monferrine, polche, mazurche, quadriglie. Lo stesso vale per le danza popolari del
vecchio Ducato. Questo patrimonio musicale
dovrebbe essere valorizzato.” Io non conosco
ancora il patrimonio musicale delle altre Alpi. Io
so semplicemente che esiste poiché il nostro
amico Jean Marc Jacquier ha costruito due anni
or sono, sullo stesso concetto di Dan Ar Braz,
uno spettacolo inter alpino intitolato Musik’Alpes dove il patrimonio musicale valdostano e
piemontese è stato messo in forte evidenza.
Fin tanto che saremo, nostro malgrado, governati dalla Francia e dal suo colonialismo, dobbiamo fare delle richieste per rivitalizzare la nostra
cultura. Noi chiediamo quindi che l’80% dei fondi del Ministero della Cultura siano “regionalizzati”. Oggi del 62% di questi beneficia direttamente l’Ile-de-France, nonostante che in tale reAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
gione si concentri solo il 19% della popolazione
totale. Un altro esempio sorprendente: il settore
delle musiche e delle danze tradizionali riceve
una sovvenzione totale di 6 milioni di franchi all’anno (somma che non è mai stata rivalutata dal
1993), inscritta nel bilancio del Ministero della
Cultura, ed è l’equivalente dell’1% dell’aiuto accordato alla sola opera di Parigi, quando questo
settore vende più di 2 milioni di dischi all’anno
e raggruppa 10.000 manifestazioni annuali.
Economia e cultura: una coppia finalmente
riconciliata
L’ultimo punto del mio intervento tocca le relazioni del mondo culturale con quello dell’economia. Al FIL, quest’anno, si è molto parlato di
complementarità dei rapporti tra il mondo dell’economia e quello della cultura, con la delicata
questione dei finanziamenti di quest’ultimo. Secondo la sociologa Pascale Weil, una delle caratteristiche originali del nostro decennio sarebbe
quella di essere ingordi di alleanze, anche paradossali: così abbiamo conosciuto l’economia mista, le tecnologie che si riconciliano con la logica della qualità della vita nelle biotecnologie, le
relazioni di coppia che si negoziano, la moda
che alle volte fa lega con influenze esotiche, etniche e rigoriste, l’alimentazione con l’insperata
alleanza tra la ghiottoneria e la dietetica.
Per uno spazio economico e culturale
autogestito
È in quest’ottica che attualmente si stà cercando di elaborare un’alleanza tra la cultura
bretone e l’economia. Sembra che il “padronato”
di Bretagna carezzi l’idea di divenire un padronato bretone. Negli anni 50 era già stato creato
il CELIB (Comitato di Collegamento degli Interessi Bretoni), un’organizzazione un tempo presieduta da René Pleven e che funzionava come
una sorta di lobby, raggruppante i parlamentari
bretoni (dalla destra al PS) e i rappresentanti degli organismi professionali e dei sindacati. Questa struttura giocò un ruolo di primo piano nella modernizzazione economica della Bretagna
dal 1951 al 1964. Ma le tematiche storiche e culturali erano state trascurate. Sembra che le cose
siano in procinto di cambiare con dei capitani
d’industria quali Pinot, Boloré, Leclerc, Le Duff,
Yves Rocher. Questi si sono raggruppati nel
“Club dei Trenta”, con riferimento alla battaglia
del 1351 che mise di fronte 30 cavalieri bretoni
e 30 cavalieri inglesi e che i Bretoni avevano
vinto. E’ sorprendente che il padronato bretone
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
emergente provi la necessità di cercare riferimenti nella vera storia della Bretagna, soprattutto della Bretagna indipendente. Questa associazione ha impegnato delle somme importanti
nella produzione e nella diffusione massiva presso il grande pubblico di “strisce” disegnate e di
cassette video destinate a divulgare la storia della Bretagna e realizzate da autori molto conosciuti, come Reynald Seycher.
Esistono anche due associazioni di imprese
che vogliono identificare i loro prodotti come
bretoni. La più in voga è “Produit en Bretagne”
che è stata creata nel 1993 per iniziativa dei
gruppi Even e Leclerc, del quotidiano Le Télégramme e da distributori e banche. “Produit en
Bretagne”, che interessa 87.000 salariati, mira a
creare un clima generale favorevole ai prodotti
bretoni con la messa in opera di mezzi di comunicazione pubblicitari e istituzionali. L’iniziativa
parte dalla constatazione che si produce “dappertutto in Europa, in reazione alla mondializzazione della società, un movimento affettivo di
fondo in favore della regione”. Le Peuple Breton
(organo mensile del partito autonomista UDB)
sostiene che la cosa costituisca “un vero manifesto autonomista” mentre Le Télégramme stima:
“Piuttosto che aspettare la salvezza dallo Stato,
una comunità dinamica e solidale deve appoggiarsi sulle proprie forze vive e valorizzare le
proprie capacità.”
In questo modo la maggior parte degli attori
sottolinea che è rinforzando l’identità culturale
che si rinforza uno dei motori dello sviluppo
economico, e che lo sviluppo della cultura e dell’economia vanno di pari passo. Simili erano le
preoccupazioni di Jean Pierre Pichard quando
ha deciso con Jean Luis Simon, direttore dei
Produit en Bretagne di creare dei premi consegnati al FIL per incoraggiare la creazione culturale. Questi premi sono stati consegnati dall’astronauta Jean Loup Chrétien (che non esita a
dichiarare che si sente bretone molto prima
d’essere francese) e dal direttore della NASA il
sabato 15 agosto al gruppo Skeduz per il suo
primo album; il pianista Didier Squiban ha ricevuto il primo premio del Disco prodotto in Bretagna e i suonatori Baron-Anneix hanno ottenuto il premio del miglior disco tradizionale.
Verso un movimento politico fortemente
bretone
Oggi pare che l’osmosi tra le tre sfere sia perfettamente funzionante in Bretagna. Jean Pierre
Pichard constata che: “Quest’anno si sono allacQuaderni Padani - 55
ciate nuove relazioni con un certo numero di
politici. (..) In Bretagna quello che emerge è
una cultura viva e differente dalle altre. Io credo che l’avvenire apparterrà alle regioni che esistono per la loro cultura. (..). Tra economia e
cultura, le passerelle si sono moltiplicate molto
in fretta. C’è pure questo inizio di interesse per
il FIL da parte del mondo politico poiché è il
primo anno che dei politici si mettono in mostra ufficialmente al FIL (Consiglieri generali,
regionali, amministratori locali). Dunque tra
culture, FIL, politici e decisori economici, un
lavoro di riflessione va a operarsi attorno a questa idea dell’esistenza culturale e dell’avvenire
economico.”
Prenderò la libertà di concludere senza Jean
Pierre Pichard, che non può senza dubbio avventurarsi troppo lontano, che da un momento
all’altro, alla mercé di circostanze storiche imprevedibili, questa non può che sfociare in un
movimento politico forte come in Savoia, in
Scozia, in Slovenia... Se lo sbocco politico non è
ancora avvenuto, questo non può essere la cosa
più grave perché l’anima celtica è ben viva.
E’ quello che mi veniva in mente durante il
concerto di Dan Ar Bras, lo “spettacolo faro” del
festival interceltico: se la Bretagna non era ancora libera politicamente, il popolo bretone è
ben in piedi. Allora, questo è solo più un problema di accomodamento politico, ma la Bretagna
è potenzialmente libera.
“Tutto l’amore dei Celti con Dan Ar Bras”,
“L’eredità celtica è viva”, “Indimenticabile”: i titoli cubitali della stampa quotidiana bretone,
erano eloquenti. Hanno messo tutti d’accordo!
Non di meno si credeva che questo gruppo avesse già dato tutto al suo pubblico, in materia di
emozioni e di piacere, a Nantes nel settembre
del 1996, quando si era esibito davanti a più di
30.000 spettatori. Ma il venerdì 14 agosto è accaduto tra gli artisti e i 10.000 spettatori qualche cosa di incredibile, una specie di fusione totale da cui nessuno è uscito indenne. In effetti
questo è iniziato come un concerto, ed è terminato in un ardore incredibile, dove non c’erano
più né palcoscenico, né musicisti, né artisti, né
spettatori. Il fenomeno è stato generato dalla
fierezza collettiva di appartenere a una terra diversa dalle altre, impastata di magia, di emozioni e di misteri che derivano dagli arcipelaghi
immaginifici degli antichi Celti.
Si potrebbe vantare il grande talento di strumentisti straordinari come il suonatore di gaïta
galiziana Carlos Nunez o il bagad Kemper, che
56 - Quaderni Padani
da solo fa commuovere un popolo intero. Bisogna pure salutare lo spirito impegnato nelle
canzoni come quelle cantate da Gilles Servat
che intenerisce i Bretoni con i testi di Le Pays
(“Lui è là, lui è in te...”) o con La blanche hermine (“Io dico che è follia andare a fare la guerra ai Franchi, io dico che è follia essere incatenato per ancora più tempo”), per terminare con
Le vieux vin gaulois ma in bretone (“Vive le
vieux vin de vigne, le vieux vin gaulois. Tan tan
terre et ciel chêne faux rouge soleil..”). Alla fine
del concerto tutti i bis abitualmente previsti erano finiti da tempo, Dan, le lacrime agli occhi è
tornato e ha gridato “Siete meravigliosi! Se un
giorno la Celtica è stata inventata, è a Lorient
che si è fatta!” Allora tutti sono risaliti sul palco
davanti all’insistenza degli spettatori che non
volevano più andarsene, per suonare altri pezzi
d’antologia, mentre giovani e vecchi, borghesi e
proletari, sia bretoni che turisti, si sono trovati a
ondeggiare le braccia alzate e a cantare durante
qualche minuto. Infine Dan ha lasciato andare
la sua chitarra, ha abbracciato Gilles Servat e i
suonatori di bagad Kemper. È in quel preciso
istante che io ho veramente compreso la potenza che potevano generare i decenni d’investimento e di lavoro continuo all’interno di un
movimento culturale.
Questo auguro al nostro amico Thierrj Jigourel, al tempo stesso dirigente del POBL e collaboratore di periodici padanisti: un seguito politico per il suo movimento. E noi speriamo che
il risveglio politico della Savoia e della Padania
abbia al pari un soprassalto culturale e che non
resti allo stadio di articoli teorici, perché un
giorno orchestre e cantori possano celebrare la
primavera dei nostri popoli!
Bibliografia
Patrice Abeille, Renaissance savoisienne (Cabédita, 1998)
Jean De Pingon, Savoie française: Historie d’un
pays annexé (Cabédita, 1996)
Ronan Le Coadic, L’Identité bretonne (Terre de
Brume - Presses Universitaire de Rennes, 1998),
pag. 479
Le Peuple Breton- Pobl Vreizh, luglio-agosto
1998, n° 415-416
Le Télégramme, Lorient, 18 agosto 1998
Libération, 12 agosto 1998, p. 7 “L’Ecosse libre,
un rêve de moins en moins fou”
L’InterCeltique: le magazine du Festival interceltique de Lorient, primavera 1998
Ouest-France 15-16, 17, 18 agosto 1998
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
Biblioteca
Padana
Michael Collins
L’Irlanda contro il “diritto di
conquista”
Raffaello Cortina Editore
È sicuramente di grande attualità per il movimento padanista
la pubblicazione dell’edizione
italiana di Path to Freedom,
raccolta di scritti del rivoluzionario irlandese Michael Collins,
con prefazione di uno studioso
del calibro di Giulio Giorello. Si
tratta di un volumetto agile ed
interessante per ripercorrere
con Collins la “strada verso la libertà”, rivivendo i giorni dell’insurrezione irlandese del 1916 e
i tempi dell’Irish Free State, finendo inevitabilmente per riflettere sul tema-chiave delle
lotte di indipendenza di ieri e di
oggi: la libertà, appunto.
Libertà che Collins scrive di
aver ricercato “senza aggettivi”,
sicuramente dal dominio inglese, ma anche come diritto di ritornare allo stile di vita gaelico,
malgrado “questa schiavitù che
ancora esiste”, ovvero l’omologazione ai costumi inglesi, la
perdita delle proprie radici, e di
conseguenza della propria autonomia individuale prima ancora
che nazionale.
Sostiene Collins: “Siamo divenuti pallidi imitatori degradati
dei nostri tiranni”.
Autonomia è dunque in primo
luogo consapevolezza delle proprie peculiarità e (legittimo) orgoglio per la propria “diversità”.
Non a caso, per il rivoluzionario
irlandese è necessario “liberarci
della degradante menzogna che
tutto ciò che è inglese è necessariamente rispettabile e tutto
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
ciò che è irlandese è necessariamente meschino e inferiore”.
In questo frangente, significativo il richiamo dell’ex minister
for gun running and general
mayhem alla stampa, che festeggia sì la ritrovata libertà
dello Stato Libero d’Irlanda, ma
non è capace di liberarsi dai vincoli acquisiti in secoli di dominazione straniera, e continua a
parlare in prima pagina della
società inglese.
Nei testi raccolti in Path to
Freedom, si può poi scorgere il
richiamo alla essenziale piena
libertà economica, in chiara
contrapposizione alla schiavitù
dei gabellieri inglesi, e nel ricordo di un periodo particolare
della storia irlandese, a posteriori indicato come “anarchico”
e laissez faire. Periodo improntato agli scambi volontari all’interno dell’isola, nel segno di
un’economia e di una società
“aperte”: le stesse che Cromwell
avrebbe impunemente distrutto
inaugurando la (troppo) lunga
stagione del predominio inglese
in Irlanda.
Questo sogno, di un’Irlanda capace di recuperare gli antichi
costumi che fosse al contempo
una società pluralista e tollerante, fu assassinato con Collins: ed
il risultato fu diametralmente
opposto, cioè quella “nazione”
cattolica e rurale che fu la “repubblica delle ventisei contee”
di De Valera.
Seppure (speriamo, solo momentaneamente) sconfitta, la
voce di Collins si inserisce in
quel coro di individui disposti a
lottare per l’altrui libertà come
per la propria: “Se Dio o la Natura hanno concesso a un popolo di possedere delle Terre, e
qualche altro Principe o popolo
l’invade e lo conquista, privandolo della sua terra, imponendogli leggi, Governo e funziona-
ri, non è forse giusto diritto di
chi è invaso e conquistato opporsi ai propri nemici per riavere la propria Libertà e ciò che
gli spetta ?” .
Non a caso Collins si rifiuta di
chiamare “assassinii” i legittimi
atti cui fu costretto dall’occupazione inglese il popolo irlandese, che non cominciò la guerra né poté scegliere il campo di
battaglia. Egli smaschera l’ipocrisia dell’Inghilterra che, nel
momento in cui privò del legittimo diritto di portare armi agli
irlandesi rendendolo un reato,
aveva sviluppato una campagna
barbara ed omicida verso i singoli abitanti dell’Irlanda.
I singoli: Collins non dimentica
mai, in queste sue pagine, che
“quando pensava alla nazione,
Thomas Davis (il leader della
“Giovane Irlanda”, ndr) pensava
agli uomini ed alle donne della
nazione. Sapeva che se non fossero stati liberi, non avrebbe potuto essere libera l’Irlanda”.
Una riflessione di grande efficacia e di straordinaria attualità,
che pone necessariamente Michael Collins al centro del dibattito non solo dunque come
grande rivoluzionario, ma anche come pensatore limpido,
onesto e liberale.
Un’ultima considerazione: molto spesso gli ideali dei Collins o
dei suoi omologhi (siano essi il
Mohatma Gandhi o Thomas Jefferson) non vengono portati a
compimento come si vorrebbe.
È stato così per l’Irlanda di DeValera, è stato così per quegli
Stati Uniti, dove “il governo che
governava meno era il governo
che governava meglio”, che
hanno subito nel ‘900 un’esclation statalista e centralista che
li ha portati a combattere e sovente affossare quei diritti individuali per la difesa dei quali
erano nati. Spesso, poi addiritQuaderni Padani - 57
Biblioteca
Padana
tura i liberatori divengono “tiranni” al pari di quelli che li
hanno preceduti. Ha avuto un
senso allora la lotta?
Così risponde, nell’introduzione
a La Strada per la libertà, Giulio Giorello:
“Collins ha saputo fare sua la
replica dei libertari di ogni tempo: se anche una lotta di liberazione sfocia (temporaneamente)
nel compromesso o “muore”
nella dittatura, non è valsa comunque la pena di rischiare?”.
Alberto Mingardi
Trasgressioni
Quadrimestrale di cultura politica, numero 25 (1998), Pp. 128,
e numero 26 (1998), pp. 128.
Lire 10.000 cad.
Il nome di Marco Tarchi -professore nella Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Firenze- è ben noto a chi si occupa di studi politici e istituzionali. Pur riconoscendo la sua serietà metodologica e storiografica, gran parte dell’apparato culturale liberal gli attribuisce posizioni politiche personali a dir
poco oscure. Al contrario, attento e metodico studioso della
crisi politica dei regimi democratici (e il fenomeno del “leghismo” non poteva non passare attraverso la sua lente meticolosa ed esigente), Tarchi è anche animatore di un orizzonte
culturale che si definisce, con
orgoglio, “non conformista”. In
questa prospettiva, dirige e
coordina due importanti riviste:
il quadrimestrale di cultura politica “Trasgressioni” e il mensi58 - Quaderni Padani
le di attualità culturali “Diorama letterario”. Negli ultimi numeri di “Trasgressioni” si leggono due articoli dello stesso Tarchi che senz’altro interesseranno il lettore dei Quaderni: “Il
‘crimine’ etnopluralista”, sul
numero 25 (l’articolo è apparso
anche, con lo stesso titolo, in
versione parziale, sul numero
20/1998 di Tellus, rivista di geofilosofia), e “Le radici della crisi
italiana e le scorciatoie dell’ingegneria istituzionale”, sul numero 26. Quest’ultimo riporta,
tra l’altro, anche una ben curata
analisi di Pietro Montanari sul
“Documento per un nuovo federalismo” di Massimo Cacciari.
Già da una prima lettura ci si
può rendere conto della serietà
del “prodotto” e della sua indubbia utilità documentaria.
L’articolo sul “ ‘crimine’ etnopluralista” è una risposta critica
di Tarchi alle posizioni di Bruno
Luverà (giornalista della Rai,
del quale i lettori ricorderanno
gli interventi, pubblicati su Limes, non sempre benevoli nei
confronti dei Quaderni; in particolare, il riferimento è a: “La
politica estera della Lega”, Limes, 2/1997, pp. 87-96) e ai detrattori dell’idea federalista. La
risposta, analitica e rigorosa,
non manca però di spunti polemici. Accanto ad una certa confusione metodologica, Tarchi rimarca, respingendola, la volontà di inutile criminalizzazione che accompagnerebbe le posizioni di Luverà. Certamente,
la “dietrologia” sui presunti “finanziamenti” e “suggerimenti”
bavaresi alla Lega e ai federalisti
tout court sta cadendo in disgrazia anche presso coloro che
si nutrono di insinuazioni allarmistiche, ma è comunque viva e
attuale l’esigenza di portare finalmente chiarezza (quantomeno chiarezza intellettuale) su
questo tema. Tarchi ha questo
merito, e ha l’indubbia capacità
di legare verve polemica e cognizione di causa (cosa che,
purtroppo, non sempre avviene).
L’articolo sul numero 26 di
Trasgressioni, invece, parte da
una questione fondamentale
nella ricostruzione della dinamica della crisi del sistema italiano: la latenza della crisi stessa nel piano dei governi di centro sinistra. La “crisi italiana”
viene così analizzata da Tarchi
secondo i suoi sviluppi, seguendo i tempi lunghi della sua costituzione, abbandonando gran
parte dei luoghi comuni tra Prima Repubblica e Seconda Repubblica, e mostrando, infine,
continuità e divergenze nel segno di quella latenza, diventata,
col tempo, “patenza” e, purtroppo, degenerazione costante.
Le riviste, dal prezzo contenuto,
sono facilmente reperibili in libreria, ma per informazioni ci
si può rivolgere alla Cooperativa
culturale “La Roccia di Erec” di
Firenze (che coordina anche un
bel servizio di offerte librarie),
telefonando allo 055-2340714 o
mandando una mail a [email protected].
Marco Dotti
Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999
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