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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno V - N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Annibale il liberatore La proposta di koiné Padana del Guazzo L’estinzione dei Padani Urbanistica protostorica padana Quale cultura per l’ecologismo Il modello bretone per la rinascita culturale della Padania 24 La Libera Compagnia Padana Quaderni Padani Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara Direttore Responsabile: Alberto E. Cantù Direttore Editoriale: Gilberto Oneto Redazione: Alfredo Croci Corrado Galimberti Flavio Grisolia Elena Percivaldi Andrea Rognoni Gianni Sartori Carlo Stagnaro Alessandro Storti Grafica: Laura Guardinceri Collaboratori Giuseppe Aloè, Camillo Arquati, Fabrizio Bartaletti, Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Diego Binelli, Roberto Biza, Giorgio Bogoni, Giovanni Bonometti, Romano Bracalini, Nando Branca, Ugo Busso, Giulia Caminada Lattuada, Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini, Gualtiero Ciola, Carlo Corti, Michele Corti, Mario Costa Cardol, Giulio Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Alexandre Del Valle, Corrado Della Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco, Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini, Alberto Fossati, Sergio Franceschi, Carlo Frison, Giorgio Fumagalli, Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Giacomo Giovannini, Michela Grosso, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Alberto Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo Maggi, Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Ettore Micol, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Alessia Parma, Giò Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela Piolini, Francesco Predieri, Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Laura Rangoni, Igino Rebeschini-Fikinnar, Giuliano Ros, Sergio Salvi, Lamberto Sarto, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura Scotti, Marco Signori, Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Candida Terracciano, Mauro Tosco, Nando Uggeri, Fredo Valla, Giorgio Veronesi, Antonio Verna, Alessio Vezzani, Eduardo Zarelli. Spedizione in abbonamento postale: Art. 2, comma 34, legge 549/95 Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041 Arona NO Registrazione: Tribunale di Verbania: n. 277 Periodico Bimestrale Anno V - N. 24 - Luglio-Agosto 1999 I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana. In ricordo dell’Highlander di Padania Per essere rispettati bisogna essere rispettabili - Brenno Annibale il liberatore - Marco Signori Una riflessione sul modello di koiné padana proposta dal Guazzo - Andrea Rognoni L’estinzione dei Padani - Gilberto Oneto Urbanistica protostorica padana - Confronto tra Vicenza paleoveneta e Milano celtica - Carlo Frison Quale cultura per l’ecologismo - Eduardo Zarelli La rinascita di una cultura attraverso l’esempio bretone: modello per la Savoia e per la Padania? - Pascal Garnier Biblioteca Padana 1 2 4 32 34 40 45 49 57 In ricordo dell’Highlander di Padania Q uesta estate se ne è andato Giorgio Veronesi. Tutti lo ricorderanno come uno dei più abili avvocati ambientalisti, come un uomo coltissimo e raffinato, come un agguerrito difensore dell’architettura e del paesaggio (soprattutto del suo Lario), come il competente e inflessibile amministratore di Vercelli e della Provincia comasca, e soprattutto come uno dei soci fondatori de La Libera Compagnia Padana. Giorgio è stato uno dei cinque “svitati” che una sera del marzo 1995 hanno firmato l’atto costitutivo della nostra Associazione di cui è sempre stato uno degli animatori più sagaci. Noi però preferiamo ricordarlo come un amico simpatico, come un irruento indipendentista, come un arguto conversatore, come l’indomabile combattente di cento battaglie ambientaliste e padaniste. Sulla difesa del territorio e della cultura dell’architettura popolare non ammetteva deroghe, non accettava compromessi: sosteneva le sue convinzioni con linearità calvinista e con una caparbietà di ferro, resa gradevole dalla sua intelligenza, dalla sua brillante cultura e dalla sua cordialità. Quanto era affabile e gioioso nei modi, tanto era inflessibile nella difesa di principi sacrosanti che ha sempre perseguito con onestà e con coeAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 renza fino a rinunciare a importanti cariche amministrative, pur di non accettare oscuri sotterfugi o gli ambigui compromessi cadregari di sedicenti padanisti. Noi rimpiangeremo il suo entusiasmo, le sue citazioni divertenti e divertite, la maniera elegante e spiritosa con cui riusciva a ridicolizzare tromboni, gasati e supponenti. Noi rimpiangeremo soprattutto la sua vitalità, la scanzonata baldanza con cui ha affrontato guai fisici che avrebbero abbattuto un bisonte: ha superato interventi chirurgici delicatissimi con l’irruenza spavalda di un ventenne. Ogni volta ricompariva più gagliardo e pieno di vita fino a guadagnarsi fra gli amici l’affettuoso appellativo di Highlander padano, il guerriero destinato all’immortalità. È caduto in piedi, all’improvviso, come fanno i combattenti veri, ormai sicuro di essersi guadagnata l’immortalità del nostro ricordo e del nostro affetto. Ma non solo quella: siamo certi che, il giorno in cui - secondo una delle più antiche convinzioni radicate nell’immaginario delle nostre genti - l’armata composta dai combattenti di oggi e da quelli caduti in duemila anni di battaglie libererà per sempre questa Terra, ci sarà la sua bella risata ad accompagnare la vittoria delle nostre bandiere e la rotta dei nemici di sempre. Quaderni Padani - 1 Per essere rispettati bisogna essere rispettabili N elle ultime elezioni europee i movimenti autonomisti hanno nel loro complesso subito una severa sconfitta. Identica (e più accentuata) sorte ha patito il maggiore partito padanista. Fra le motivazioni del disastro alcune sono generali e riguardano tutti gli autonomisti (il frazionismo eccessivo, l’alto tasso di rissosità, un eccesso di localismo deteriore, eccetera), e altre sono specifiche delle singole realtà. Molte sono esterne e altre sono interne. Sul numero 17 dei Quaderni Padani era stata fatta una lunga riflessione su questo argomento, che non è purtroppo servita a granché, visti i risultati. Quasi tutto quello che vi si diceva si è dimostrato giusto ma nulla è stato fatto per cercare qualche tempestivo rimedio. Le ragioni esterne sono rimaste tutte, rese più forti dall’efficienza degli avversari e dal loro formidabile apparato propagandistico, utilizzato con grande spregiudicatezza e abilità: il successo di Emma Bonino e di Forza Italia ne sono la conferma. Sono purtroppo rimaste anche tutte le ragioni interne, addirittura aggravate dal tempo e incattivite dalla sconfitta. La prima di queste ragioni è la sempre più scadente qualità del personale dirigente leghi2 - Quaderni Padani sta. Si è drammaticamente avverata la conseguenza della notissima e semiseria Legge di Murphy (“Se qualcosa può andar male, lo farà”) ma sembra che questo sia successo soprattutto a causa di un suo più serioso corollario, il cosiddetto Principio di Peter: “In una gerarchia ogni membro tende a raggiungere il proprio livello di incompetenza”. Quest’ultimo sembra necessitare di una nuova variante (che si adatta a larga parte delle realtà associative e organizzative): “Ciascheduno tende a circondarsi di gente di qualità inferiore alla propria”. In pochi mesi sul movimento padanista si sono concentrati tutti i possibili difetti ed errori (in realtà, spesso, risultato e frutto di vizi e deformazioni vecchi di anni). Il mondo padanista ha prodotto elaborazioni culturali, spesso anche piuttosto raffinate, in moltissimi settori tematici ma quasi tutto questo patrimonio giace ignorato e trascurato, ed è spesso saccheggiato da altre forze politiche: l’immagine pubblica del movimento è sempre più piena di incompetenza e approssimazione, e gli avversari sono abilissimi nello sfruttare e nell’esagerare tali caratteri. Sono stati in larga parte abbandonati i temi classici (e vincenti) dell’autonomismo: lo sfruttamento economico, l’oppressione culturale e Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 politica, la cancellazione delle identità e le aspirazioni alle libertà e all’indipendenza. Ad essi si sono gradualmente sostituite tematiche più generali, prese di posizione che implicano scelte morali individuali (e senza nessun legame con le istanze autonomiste), elucubrazioni fra il filosofico e l’esoterico, disquisizioni metapolitiche e ideologiche: tutti elementi di confusione, distrazione e divisione. Nel disegno sulle prassi per il raggiungimento dell’indipendenza e sui cammini istituzionali si è raggiunta la massima nebulosità, in un groviglio di proposte e controproposte costituzionali e referendarie, in disegni divergenti di autonomie regionali, comunali o provinciali, nella chiusura del dibattito sull’architettura istituzionale padanista. Si sono disperse grandi e irriproducibili energie in iniziative confuse e distraenti (referendum abortiti, governi e parlamenti sublimati nel nulla, moltiplicazione di associazioni) o in avventure editoriali e televisive capaci di succhiare enormi quantità di denaro senza produrre nulla in termini di immagine, di diffusione di idee o di aggregazione di consenso. Si è continuato a relegare la cultura identitaria in un ruolo marginale e secondario, privilegiando istanze pseudoculturali deteriori o banali soprattutto nella gestione delle amministrazioni locali che non sono un volano di padanità ma il prodotto dell’autorigenerazione di vecchie prassi di gestione del potere. Si è limitato lo spirito federalista e autonomista alla sfera dei più lontani obiettivi invece di farlo diventare il motore propulsore e qualificante di tutta l’attività del movimento padanista: la gestione quotidiana della politica è troppo spesso centralista e autoritaria, non lascia spazio alle differenze culturali e avvilisce di fatto la grande variegazione identitaria padana, quasi considerata un intralcio invece che una forza e una ricchezza. Infine, la conduzione nebulosa e altalenante del treno padanista ha di fatto favorito divisioni, tradimenti, cadreghismo e propensione per il compromesso. Troppo sovente il comportamen- Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 to del personale politico e amministrativo ha ingenerato confusione sui temi e sugli obiettivi, mutando radicalmente le condizioni iniziali in obiettivi diversi (Gustave Thibon lo avrebbe chiamato “irenismo”) trasferendo - ad esempio - le tensioni ideali per le libertà indipendentiste verso un generico federalismo o regionalismo, o riducendo il tutto a una modesta propensione per il “buon governo”, la “governabilità” o “il cambiamento dall’interno”. Oggi viene difficile cercare di proporre rimedi che non suonino come patetici e inutili tacconi. La sola soluzione sembra essere una molto radicale ricostruzione di tutta la macchina padanista che abbia una chiara visione degli obiettivi (la libertà e l’indipendenza della Padania e la costruzione di una entità istituzionale federata fatta dell’unione delle Piccole Patrie storiche) e dei mezzi per raggiungerli: rigenerazione di un movimento politico democratico, aperto al dibattito, costituito da diverse componenti ideologiche, fortemente impregnato di cultura identitaria, che rinunci alla gestione spiccia del potere amministrativo (e quindi a ogni compromissione cadreghistica) e che si faccia rappresentare da gente presentabile, colta e civile. Appoggi esterni possono anche essere concessi ad altre forze politiche ma solo in cambio di precisi impegni programmatici finalizzati al raggiungimento degli obiettivi padanisti o di precisi impegni tematici (come il bilinguismo, la toponomastica, la lotta all’immigrazione o la proporzionale etnica) che diano il senso concreto del cambiamento e costituiscano visibili tappe di un preciso cammino di libertà. Tutto deve essere infine avvolto in coerenti rappresentazioni simboliche (oggi spesso scadute all’avvilente rango di improvvisata paccottiglia) che di questo cammino siano la sicura componente segnaletica, la rassicurante e immutabile bandiera. La nostra gente ha bisogno di solidi riferimenti culturali e di certezze nel suo cammino verso la libertà. Brenno Quaderni Padani - 3 Annibale il liberatore di Marco Signori E’ l’autunno dell’anno 218 a.C.. Superate le Alpi, un esercito cartaginese forte di 26.000 uomini e 37 elefanti discende da Susa la Valle della Dora ed entra in Padania. Non viene come invasore, ma come liberatore dall’odiato dominio di Roma. Le comunità celtiche e liguri in attesa si sollevano come un sol uomo. Sono trascorsi appena sette anni dalla sciagurata giornata di Talamone, nella quale le forze congiunte dei Boi, dei Gesati, degli Insubri e dei Taurisci erano state distrutte in battaglia da due eserciti romani: scocca finalmente l’ora della riscossa e della liberazione. Dalla Fenicia a Cartagine Annibale, figlio di Amilcare. Più correttamente “Hann-i-ba ‘al”, che in lingua punica significa letteralmente “grazia di Baàl”. Baàl, divinità agreste dei Cartaginesi, la più nota della religione fenicio-punica. Secondo la propaganda filmografica romanista, un dio malvagio e sanguinario al quale venivano tributati olocausti di giovinette. Più veridicamente, una delle tante divinità risorgenti (mito e rito del dio che muore alla mietitura e rinasce l’anno seguente quando spuntano i germogli delle nuove culture) delle religioni agricole siriache. “Baàl” significa “signore” proprio come l’ebrai4 - Quaderni Padani co “Adonai” (1), e viene attestato già nella città fenicia di Ugarit (“Ras-ash-Shamrah”, all’estremità settentrionale della costa siriana)(2) nel XIV secolo a.C.. Per quanto riguarda i sacrifici umani poi, anticamente praticati un po’ dovunque, è da rammentare come essi fossero largamente diffusi in tutto il quadrante siriaco, financo nella forma della vivicombustione del primogenito eseguita da un personaggio prominente come supporto a una preghiera da esaudire, ancora nell’ultimo millennio a.C.. Ne fa paradigma l’episodio biblico di Abramo e del figlio Isacco, ma sono storicamente attestati Il cosiddetto “Busto di Annibale”, una delle poche testimonianze pervenute di lui, già conservato al Museo Nazionale di Napoli e scomparso durante la seconda guerra mondiale. (1) Il terzo comandamento non consente agli Ebrei di pronunciare il nome del loro dio, rivelatosi come YHWH, cioè Yahweh (Esodo 3, 14-15), perché “troppo grande”. La tradizione ebraica vuole quindi che il suo nome non venga mai invocato, preferendosi le forme HaShem (il nome) oppure Adonai (il Signore). (2) A Ugarit, agli inizi del XIV secolo a.C., i Fenici operarono il primo tentativo conosciuto di scrittura alfabetica, derivandolo da ideogrammi e fonemi sumero-accadici. Questo esperimento venne cancellato durante le invasioni dei “popoli del mare” (1250-950 circa a.C.), che schiantarono anche la civiltà micenea e disalfabetizzarono lo stesso bacino Egeo, per essere poi reiterato attorno all’XI secolo a.C., generando tutte le forme odierne di scrittura alfabetica, che quindi discendono da quella fenicia. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 i casi del re moabita (3) Mesha che sacrificò un figlio al dio Kemosh durante l’assedio dell’850 a.C. circa e i re Achaz (circa 735 a.C.) e Manasseh (dal 687/6 al 642 a.C.) di Giuda, che sacrificarono i propri figli a Yahweh sul rogo. Una civiltà antica, quella dei Fenici. Di estrazione linguistica cananea (4), quindi semitica (5) e di antica tradizione commerciale. Secondo la storiografia greca (6) essi, provenienti dai paesi litoranei del Golfo Persico, si sarebbero stanziati sulla costa orientale del Mediterraneo orientale attorno al 2700 a.C. Ciò è dubbio, mentre è certo che vi si erano già stabiliti agli inizi del II millennio a.C.. L’attività marittima, che storicamente ne costituisce un profilo caratteristico, non viene attestata tuttavia antecedentemente al I millennio a.C.. Tra il 969 e il 936 a.C. Hiram di Tiro fa fortuna commerciando diffusamente nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, per conto di Shelomo re d’Israele (7). Il commercio nel Mediterraneo, dopo il crollo cretese-miceneo, passa quindi in mano ai Fenici. Essi sviluppano la tecnica di navigazione perfezionando la vela e il timone, fondano colonie fin oltre le Colonne d’Ercole, esportano merci e materiali pregiati (vetrerie, tessuti tinti con la porpora, oggetti in metallo prodotti in serie, legno di cedro libanese per le costruzioni di lusso). I confini storici della Fenicia appoggiavano al Casio a nord, al Carmelo a sud e al Libano a est. Il paese era costituito da città-stato autonome, a regime monarchico-oligarchico: Arado, Berito, Biblo, Sidone e Tiro. Sidone e Tiro erano i centri principali. Essi si succedettero nel predominio: dal XII al X secolo a.C. Sidone esercitò la propria egemonia, mentre Tiro, fondata proprio da coloni di Sidone, raggiunse una posizione di primo piano verso il X secolo a.C. per toccare l’apogeo tra il X e il VII secolo a.C.. Secondo la leggenda greca fu proprio la principessa di Tiro, Didone o Elissa, a fuggire dalla Fenicia nel IX secolo a.C. e a fondare Cartagine sulla costa africana. Il mito di Didone, anacronisticamente rievocato anche da Virgilio nell’Eneide, fu molto popolare nell’antichità e la sua storia leggendaria appare come una versione del mito di Astarte (8). La nuova città (“Kart hadasht” in fenicio significa appunto “la città nuova”) fu effettivamente fondata nel IX secolo a.C. da coloni di Tiro. L’anno ufficiale che si tramanda è l’814 a.C., verosimilmente la fondazione va arretrata di qualche decennio. La fondazione di Cartagine va inquadrata nell’ambito della più vasta espansione delle colonie commerciali fenicie nel Mediterraneo (Gadir = Cadice, Almeria, Malaga, Utica, le due Leptis, Biserta, eccetera). L’importanza di Cartagine, fino ad allora piuttosto scarsa, si accrebbe di colpo nel VII-VI secolo a.C., contestualmente al declino subito da Tiro per effetto del predominio assiro (la Fenicia era tributaria degli Assiri già dal VIII secolo a.C.). Attorno al 650 a.C. Cartagine, dotata di una propria flotta e di un proprio esercito, occupa e protegge le colonie fenicie occidentali orfane della madrepatria. Ma non coltiva (né coltiverà) vocazioni espansionistiche di stampo imperiale. Si sviluppa piuttosto come potenza marittima e mercantile. L’attitudine al commercio è impressa nel suo codice genetico. Quel tanto di scaltrezza, di avidità, di contrattualismo, che è insito nei caratteri siriaci, predispone all’intrapresa. Il mare, poi, è nella natura stessa dei Cartaginesi. Essi infatti lo assumono a centro e riferimento di ogni azione. La loro presenza si sviluppa lungo una sottile striscia costiera che corre (3) I Moabiti erano un popolo semitico stanziato a sudest della Palestina e a oriente del Mar Morto. Spesso in guerra con gli Israeliti, lottarono accanitamente per la propria indipendenza fin quando, dopo la cattività babilonese, il loro territorio venne occupato dagli arabi Nabatei. (4) I Greci definirono Φοινιχες, da cui “Fenici”, le popolazioni semitiche stanziate sulle coste siriane (attualmente: Libano e Siria) che normalmente chiamavano sé stesse Kinahu, Khna, e simili, da cui “Cananei”. (5) Le origine semitiche dei Fenici e quindi dei Cartaginesi furono bersaglio di spropositati attacchi sia propagandistici sia storiografici e ideologici da parte di alcuni. Quando i fascisti italiani introdussero le cosiddette “Leggi razziali” nel 1938, i documentari del Minculpop rinnovellarono l’ostilità di Roma contro Cartagine accomunando disinvoltamente e piuttosto scioccamente Fenici ed Ebrei. Alfred Rosenberg, l’ideologo nazionalsocialista lituano ucciso dagli Alleati dopo il processo di Norimberga, che tra l’altro definì i Liguri “l’aborigena razza negroide” (Il mito del XX Secolo, Edizioni del Basilisco, Genova 1981, pag. 58), euristicamente sospinto dal proprio furore antisemita esaltava la vittoria di Roma: “... Roma dovette sempre più spesso adoperare il suo gladio per la propria affermazione (...). La distruzione di Cartagine fu un fatto estremamente importante, dal punto di vista della storia delle razze: tramite ciò, anche alla più tarda cultura dell’Europa centrale e occidentale, furono risparmiate le esalazioni di questo pestifero focolaio fenicio” (ibidem, pag. 55). (6) Cfr. Erodoto, “Storie” I 1, II 44, VII 89. (7) Il re Salomone (970-930 a.C.) (8) Divinità femminile fenicia, che a Cartagine verrà celebrata col nome di Tanit. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Quaderni Padani - 5 lungo il Nordafrica, abbraccia i litorali iberici fino all’Ebro (9) e tocca le isole grandi e piccole: le Baleari (10), la Sardegna, la Corsica, la Sicilia orientale, Malta. Una logica mercantile, non militare. Che produce stazioni commerciali e di pesca, approdi per gli scambi, qualche colonia agricola, qualche impianto minerario. Teste di ponte prive di retroterra, costituite senza concepire massicce conquiste degli altrui territori (11). Cartagine non inclina al militarismo, non espone nei templi i trofei di truculente vittorie (12), rifugge dalle avventure bellicose, eppure continua a crescere. Traffica, usa l’astuzia e l’ingegno piuttosto che la forza. In questo i Cartaginesi rivelano un carattere ben diverso da quello di popoli ai quali l’accomunano la lingua e la cultura semitica: non conoscono la violenta intolleranza degli Ebrei, né la cupa ferocia degli Assiri (13). Alcuni tracciano addirittura un paragone tra Cartagine e Venezia (14). A Cartagine non esiste un esercito di leva. Alle necessità militari, pur sempre insopprimibili in un’epoca di contrasti duri, sopperisce un’armata di professionisti (15), reclutati tra i popoli stranieri: Iberici, Baleari, Libici, Numidi (16). I comandanti a terra e in mare sono cartaginesi (17) e giovani aristocratici partecipano alle spedizioni militari. Ma non esiste una milizia nazionale. Una sola volta nella sua storia, prima di incrociare i suoi destini con Roma, Cartagine aveva concepito una massiccia operazione militare di conquista. Nel 480 a.C., durante l’assedio di Imera (18) venne mobilitata una poderosa forza d’invasione (si parla di trecentomila uomini) imbarcata su migliaia di na- (9) Il più antico insediamento fenicio rinvenuto in quest’area era situato in Aldovesta (attualmente, località Benifallet), sul fiume Ebro e consisteva in una fattoria risalente alla fine del VII secolo a.C. (Museu Historico de Catalunya, Barcelona). (10) Inizialmente a Ebussus o Eivissa (l’odierna Ibiza), nel 660 a.C.. (11) Un modello di sviluppo espansivo affatto diverso da quello romano, all’ideologia del quale ben si attaglierebbe la didascalica chiosa rousseauviana dei ricchi: “...non appena conobbero il piacere di dominare, disprezzarono tutti gli altri e, servendosi degli schiavi che avevano già per sottometterne dei nuovi, non pensarono che a soggiogare e ad asservire i loro vicini, simili a quei lupi affamati che, avendo una volta gustato la carne umana, sdegnano qualunque altro alimento e vogliono soltanto divorare uomini”. (12) Del pantheon cartaginese non si conosce alcuna divinità guerresca. (13) Gli Assiri furono il prodotto di molteplici sovrapposizioni e incroci linguistici e culturali, con prevalenti influenze dell’elemento semitico rispetto a quello indoeuropeo. (14) “Molti storici hanno paragonato Cartagine, sotto questo aspetto di governo aristocratico e senatorio, a Venezia di mille e più anni dopo. Ma vi era in Cartagine qualcosa di più primitivo e semplice che Venezia non aveva, e inoltre minor mollezza, meno inclinazione ai piaceri dello spirito e alle raffinatezze del gusto, che non appartenevano né ai sentimenti né all’educazione di questi mercanti avventurosi e scaltri. Anche nell’evitare fino ai limiti del possibile i rischi della guerra, che Venezia al contrario affrontò sempre con orgoglio” (Gianni Granzotto, Annibale, Mondadori, Milano, 1983, pag. 13). (15) Molta parte degli eserciti in epoca storica (forse la maggioranza) fu costituita da professionisti. Lo stesso vocabolo “soldato”, come noto, deriva da “soldo”, cioè dal latino “solidus” (moneta aurea di età imperiale, attestata da Apuleio e nei Digesta Iustiniani, utilizzata per il pagamento delle truppe). Il mestiere di soldato retribuito salvo sporadiche eccezioni non fu mai considerato di per sé sconveniente, almeno fino all’affermazione delle armate cosiddette “nazionali” della Francia rivoluzionaria e di Napoleone. E’ anche per effetto di quella rottura culturale, se il termine “mercenario” viene oggi spes- so usato in senso spregiativo. Resta il fatto che nei conflitti combattuti da professionisti l’odio e le efferatezze furono rari, mentre in quelli di massa i fondamenti nazionalistici, religiosi e ideologici, opportunamente attizzati dalla propaganda, molto più spesso apportarono atrocità e massacri. (16) È attestato che Cartagine, già dal quarto secolo a.C., utilizzò sistematicamente truppe celtiche. In particolare, esse furono determinanti nelle campagne di insediamento in Sardegna, in Corsica, a Malta, nelle Baleari e in Sicilia. L’apporto celtico nella prima e nella seconda guerra contro Roma rientrava quindi in una tradizione consolidata. D’altra parte la fama di guerrieri valorosi in capo ai Celti ne aveva diffuso il reclutamento come soldati di mestiere da parte di molti, tra i quali i Greci, gli Etruschi e addirittura gli Elleno-Egizi con Tolomeo II nel 275 a.C.. La massiccia partecipazione dei Celti alle campagne di Padania e d’Italia del 218-203 a.C., pur basata in tale contesto, ebbe tuttavia carattere di autentica guerra di liberazione condotta in una logica di alleanza politica, essendo direttamente in gioco i destini stessi delle comunità padane. Ma anche dopo la ritirata di Annibale dall’Italia i Celti restarono al suo fianco. Non si spiegherebbe altrimenti la loro presenza alla battaglia di Zama nel 202 a.C. (vedi anche nota 70). Né la successiva partecipazione di quarantamila combattenti padani alla disperata impresa di Amilcare, condottiero cartaginese venuto come sottordine di Asdrubale e rimasto sul Po dopo la morte di questi, che ancora nell’anno 200 a.C. , dopo avere espugnato Piacenza, venne attaccato da Furio Purpureone mentre assediava Cremona e cadde in battaglia con tutti i suoi (vedi anche nota 36). (17) I comandanti militari a Cartagine venivano tradizionalmente eletti dall’assemblea dei cittadini. (18) Città greca fondata nel 648 a.C. sulla costa nord della Sicilia, nei pressi di Cefalù, da coloni di Zancle e di Siracusa. Governata da tiranni e sottoposta all’influenza siracusana, partecipò alla guerra che culminò nella disfatta subita dai Cartaginesi nel 480 a.C., per opera di Gelone (tiranno di Gela e signore di Siracusa). Il conflitto fu causato della concorrenza portata da Cartagine ai commerci siracusani e greci nel Mediterraneo centrale. Nel 409 comunque i Cartaginesi si presero la rivincita e distrussero Imera, uccidendone gli abitanti a migliaia. 6 - Quaderni Padani Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 “Annibale giovinetto giura odio ai Romani”. Arazzo sabaudo tessuto da Francesco Demiguot da un bozzetto di C. F. Beaumont. Torino, Palazzo Reale vi. La flotta fu spazzata via e i resti dell’enorme esercito, scampati ai flutti, vennero annientati a terra. Fu la prima e l’ultima avventura militare su vasta scala. Stordita dal disastro, Cartagine si ritirò di fatto nel suo guscio e nulla più intraprese. Continuò a sprazzi, con alterne vicende, la guerra contro i Greci di Sicilia, e poi contro Pirro, che conquistò fuggevolmente l’isola nel 277. Finché, nell’anno 264, divampò la prima guerra punica. Il giovane Annibale Le vicende della prima guerra punica si concludono nel 241 a.C., con la disfatta della flotta cartaginese alla battaglia delle isole Egadi e la conseguente richiesta della pace. Annibale Barca (19), padre di Annibale, fu l’unico capo militare che ne uscì imbattuto, dopo avere contrastato e ripetutamente sconfitto i Romani in Sicilia. Rientrato in patria riuscì a venire a capo con freddezza e rapidità della rivolta dei mercenari esplosa dopo che la guerra era stata perduta. L’oligarchia mercantile che governava Cartagine (20) inclinava ormai alla rassegnazione, accentuando la naturale avversione della città alla guerra. Amilcare aveva già battuto i Romani, sapeva che non erano invulnerabili, anelava alla rivincita. Il sentimento lo spingeva alla vendetta, quando i mercanti per mero calcolo avevano scelto la pace e il quieto vivere. Le passioni politiche divampavano, con Amilcare stava la maggioranza del popolo, contro di lui gli ottimati. Il conflitto si caricò di ostilità, poi questa si mutò in odio e la città giunse alle soglie della guerra civile. Amilcare fu messo sotto (19) In punico “Himelqarth”, cioè “fratello, amico di Melqarth” (il dio omologo del greco Eracle, protettore della città fenicia di Tiro). “Melqar” significa letteralmente “dio della città”. Il secondo nome Barca non è un “cognome”, cioè un “nome aggiunto” come terzo membro del nome, alla maniera romana. E’ piuttosto, in origine, un vero e proprio soprannome, anche se poi diverrà familiare ed ereditario e verrà portato da Annibale stesso e dai suoi fratelli (che saranno detti anche i “barcidi”). L’analogia con il “cognomen” dei Romani si limita al tipo di origine del soprannome, che riflette anch’esso caratteristiche personali del portatore. Infatti “baraq”, in fenicio, significa “fulmine, lampo di guerra”, e presumibilmente si riferisce alle doti militari di Amilcare. Il cognome “Barkah” è Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 tuttora diffuso in Africa settentrionale. (20) A Cartagine il potere civile fin dal VI-V secolo a.C. veniva esercitato dai “sufeti” o “suffeti”, in punico “shophet”, magistrati di origine fenicia che detenevano competenze esecutive in politica interna ed estera, e originariamente anche competenze giudiziarie. Come i consoli romani, i sufeti venivano eletti in numero di due, governavano per un anno e probabilmente erano rieleggibili. Esisteva poi un consiglio degli anziani (o “senato”) che variò nel numero da cento a circa trecento componenti (e che a sua volta esprimeva un consiglio permanente più ristretto) con poteri verosimilmente analoghi a quelli del senato di Roma. Il senato era normalmente sotto il controllo degli aristocratici, che non erano nobili di sangue ma piuttosto mercanti eminenti. Quaderni Padani - 7 accusa come sovversivo, la sua libertà e la sua stessa vita pervennero a grave rischio. A tre anni soltanto dal suo ritorno, egli dovette lasciare Cartagine appena prima che la situazione precipitasse. Vi lasciò la famiglia, ma il figlio Annibale, di nove anni appena, chiese di poterlo seguire. Prima di accogliere la sua richiesta, Asdrubale condusse il figlio al cospetto dell’altare di Baàl, a giurare odio eterno ai Romani. La scena è celeberrima, tramandata da tutti i biografi fino nei minuti particolari. “Odierò i Romani, come essi mi odieranno”. Con queste poche, semplici parole, Annibale ragazzo s’impegnava per la vita e sanciva quella che sarebbe stata, fino all’ultimo respiro, l’intima ragione della sua stessa esistenza. Amilcare salpò da Utica con un pugno di uomini fidati e trasse seco il figlio, diretto a Gades (l’odierna Cadice), una stazione commerciale cartaginese oltre le Colonne d’Ercole. Era l’anno 238 a.C.. Amilcare vi arruolò un esercito, intraprese lo sfruttamento delle miniere d’argento e di rame, iniziò a supportare la patria lontana delle risorse necessarie al pagamento dei debiti di guerra con Roma. Incontrò così una rinnovata popolarità: Cartagine lo riconobbe, non senza qualche travaglio, come proprio supremo rappresentante nelle terre iberiche e come capo di tutte le truppe ivi stanziate. Amilcare poté quindi agire in tutta libertà e mosse verso est. Le regioni che diverranno l’Andalusia, la Murcia, il Paese Valenzano, parte dell’Estremadura e della Mancia (Castilla meridionale) caddero presto sotto il suo controllo per effetto di un’azione accorta che sapeva mescolare le alleanze politiche alle rapide puntate militari. Fondò una nuova colonia, chiamata dai Romani Lucentum (l’odierna Alicante) e vi trasferì le sue basi. Nel 229 a.C. Amilcare morì annegato in un fiume mentre era impegnato a domare la rivolta degli Orissi quando Annibale era appena diciottenne. Suo cognato Asdrubale detto “Il bello” assume la guida del territorio. Era un uomo già maturo, prudente ed esperto. Sotto il suo comando il dominio dei Barca si ampliò e consolidò, fino ad assumere quasi le sembianze di un vero stato. Nuove regioni vennero a farne parte, si svilupparono le attività agricole e minerarie, nel 221 a.C. si edificò una nuova capitale, poco più a sud di Alicante, che assunse il nome prestigioso di “Nuova Cartagine” (attualmente, Cartagena). Un importante numero di comunità iberiche riconobbe Asdrubale come principe di una sorta di federazione regionale. Annibale soffriva un po’ quel tempo di relativa pace, che gli imponeva La Padania nel 218 a.C. Il teatro bellico padano della guerra annibalica: insediamenti delle comunità celtiche, regioni già romanizzate, centri e luoghi significativi (tratta da Annibale di Gianni Granzotto, Mondadori, Milano, 1980) 8 - Quaderni Padani Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 A B C D Armi da colpo e da getto. Alcune armi utilizzate dagli opposti eserciti durante la seconda guerra punica. A - Il pilum, giavellotto comunemente usato dai legionari romani, nelle due versioni: il tipo leggero, a punta cava, poteva essere lanciato fino a trenta metri di distanza; il tipo pesante era lungo fino a tre metri e si gettava un attimo prima di ingaggiare il nemico alla spada. B - Il gladium, tipica spada corta romana (60 cm. circa di lunghezza), derivata forse da un’arma ispanica, acuminata e a doppio taglio. Potrebbe essere stata perfezionata proprio dopo la conquista di Nuova Cartagine, nel 209 a.C., dagli abili artigiani della città specializzati nelle forniture militari. Sembra che Scipione, per non distruggere la città, imponesse loro la consegna di centomila spade di ottima qualità, che sarebbero state fabbricate in una nuova e definitiva fattura. C - La spada corta preferita dai soldati iberici di Annibale, da taluni denominata gladium hispanicum: una specie di lungo coltellaccio, a un solo taglio, molto affilata, efficacissima per essere conficcata con rapidi affondi ravvicinati nel corpo a corpo. Usata come sciabola poteva fendere uno scudo o tranciare un arto in un colpo solo. D - La tradizionale spada lunga celtica, anticipatrice della spatha germanica, concepita per ampi movimenti di mulinelli e fendenti (tratta da Great Battlefields of the World di John Macdonald, Marshall Edition Ltd, London, 1985) una pausa forzata. Era ansioso di proseguire l’opera del padre e adempiere così al suo giuramento. Mise a profitto quegli anni dedicandosi alla riorganizzazione e al rafforzamento dell’esercito costituito da Amilcare. Arruolò e addestrò nuove forze e nel contempo prese a coltivare relazioni con i popoli transpirenaici, in vista dell’impresa che evidentemente già aveva iniziato a concepire. Per il tramite dei Celti stanziati in quella che sarà poi l’Occitania, i suoi rapporti diplomatici si estesero fino alle comunità celtiche di Padania, agli Insubri e ai Boi. Nello stesso anno 221 a.C. Asdrubale morì assassinato da un Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 montanaro iberico. Annibale, all’età di ventisei anni, venne acclamato capo da quello che ormai era il suo esercito. Non senza contrasti, Cartagine ne ratificò la nomina. La via della rivincita era aperta. Preparativi di guerra Ogni azione di Annibale, da quel momento in poi, apparve scientemente votata a un unico fine: la guerra a Roma. E già forse l’intero piano strategico era ben formato nella sua mente. Annibale aveva in chiaro due concetti. Il primo: il dominio ormai acquisito di Roma sul mare, che Quaderni Padani - 9 rendeva impensabile un attacco per quella via. Il secondo: l’influenza dei fattori etnici nella possibile costituzione di un grande schieramento antiromano con la sollevazione dei popoli oppressi da Roma, primi fra tutti i Celti padani. Il giovane capo si cimentò in alcune spedizioni locali di consolidamento, poi - non appena le condizioni politiche a Cartagine gli sembrarono mature determinò il “casus belli”: l’incidente di Sagunto. Nel 226 a.C., quando già si profilava l’offensiva celtica in Etruria, Roma per coprirsi le spalle aveva imposto al cedevole Asdrubale un trattato di spartizione delle zone d’influenza nelle terre iberiche. I Cartaginesi con quel trattato avevano accettato come linea di demarcazione il fiume Ebro. E Sagunto, un centro costiero di secondaria importanza, legato alla greca Marsiglia e per il tramite di questa indirettamente a Roma, sorgeva alla foce del fiume Palencia, cento chilometri a sud dell’Ebro, quindi in piena zona d’influenza cartaginese. Poco prima della morte di Asdrubale, il partito filoromano era stato estromesso dal governo di Sagunto grazie anche alle trame diplomatiche di Annibale. I Romani erano entrati nella città per restaurarne il potere e ne erano seguite rappresaglie e vendette. Venuto a mancare Asdrubale, i Romani inviarono un’ambasciata dal suo giovane successore per sottolineare che Sagunto era da considerarsi ormai inclusa nella loro sfera d’influenza e per chiedere formali garanzie in merito. Annibale, nella veste di capo riconosciuto delle comunità iberiche, stigmatizzò invece l’intervento romano in Sagunto come un’inaccettabile intromissione e praticamente mise la delegazione alla porta. Era sul finire l’anno 220 a.C.. Mentre i Romani discutevano il da farsi, Annibale mosse con l’esercito e nel marzo del 219 a.C. mise la città sotto assedio. Senza che Roma muovesse un dito in suo soccorso, Sagunto dopo una resistenza eroica cadde in ottobre e i difensori vennero massacrati. Il senato cartaginese, da parte sua, assunse una posizione ambigua, non approvando ma nemmeno sconfessando l’azione. Roma, che aveva concesso ai Saguntini la propria “fides”, richiese direttamente a Cartagine la consegna di Annibale e la restituzione della città. Era ormai il mese di marzo dell’anno 218 a.C.. Mentre Annibale occupava e fortificava il territorio tra Sagunto e il fiume Ebro, il Senato cartaginese respingeva l’umiliante diktat e Roma dichiarava la guerra. Annibale attendeva quel momento da anni. Si predispose a mettere in pratica il disegno strate10 - Quaderni Padani gico che già era pronto nei minuti particolari: una marcia di millecinquecento chilometri attraverso terre straniere per attaccare i Romani alle spalle. Un’impresa grandiosa e temeraria: le sole forze di prima schiera a mano del nemico ammontavano a oltre centomila uomini, le riserve mobilitabili a sette volte tanto. Dalla parte di Annibale erano la sorpresa e il possibile sostegno delle comunità liguri e celtiche. Sul finire di maggio dell’anno 218 a.C., un esercito composto da novantamila fanti e da dodicimila cavalieri mosse da Nuova Cartagine verso la fama imperitura. Gli uomini erano per due terzi africani di Libia e di Numidia, per un terzo Iberi e Celti, questi ultimi provenienti dalle comunità stanziate tra i Pirenei e le Alpi e imparentate con quelle padane. Portavano con loro trentasette elefanti africani, più piccoli e veloci di quelli che Pirro aveva impiegato sessant’anni prima. Erano tutti soldati di mestiere (21), entusiasti e motivati dal carisma del loro capo, dalla grandezza dell’impresa, dall’odio portato a Roma. Altre forze restavano nei territori iberici, al comando di Asdrubale, fratello minore di Annibale (22). Annibale lasciava la giovane moglie Himilce, sposata solo due anni prima, e il piccolo figlio: non li avrebbe rivisti mai più. La marcia fu lunga, costellata di imprevisti e di combattimenti. Certamente meritevole di una cronaca più dettagliata, che non è qui in argomento. Il poderoso esercito si disseminò lungo la via lasciando presidi e subendo il logorio delle battaglie come quello delle fatiche e delle malattie. Già ai Pirenei era ridotto a cinquantamila fanti e novemila cavalieri. I Romani da parte loro concentrarono in Sicilia centosessanta navi da guerra per scortare le due legioni del console Sempronio in uno sbarco in Africa. L’altro console Publio Scipione aveva ricevuto l’ordine di recarsi invece in Spagna con le sue due legioni per trattenervi le forze dei Barca. Ma quel piano invero un po’ presuntuoso naufragò subito. Nella primavera del 218 a.C., mentre Annibale si metteva in movimento, i Celti padani avvertiti di quanto si preparava ripresero le armi contro Roma. Diedero inizio al movimento i Boi, che accerchiarono e attaccarono il pretore Lucio Manlio in Mutina (oggi Modena). Si unirono gli Insubri, che congiuntamente ai (21) Vedi nota 15. (22) Omonimo e più noto dell’Asdrubale suo cognato, di cui sopra. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 liberi. Con tutto l’esercito, elefanti compresi, Annibale valicò il Moncenisio (23) per entrare nella leggenda. La guerra in Padania Era ormai autunno (secondo alcune fonti il 24 settembre, secondo altre i primi giorni di novembre) quando l’esercito punico raggiunse la pianura. Ne rimanevano ventimila fanti e seimila cavalieri, più l’intatta compagine dei 37 elefanti (tutti tranne uno, il leggendario Surus, moriranno prima della fine “Annibale varca le Alpi con gli elefanti”, bottega di Jacopo Ri- dell’anno, stroncati dalle fatipanda, primi del ’500 (Roma, Palazzo dei Conservatori) che dell’incredibile impresa). Da Segusio (l’antica Susa) AnBoi iniziarono a colpire con incessanti incursioni nibale menò le truppe lungo la Valle della Dora le colonie romane di Piacenza e Cremona, da po- Riparia, verso il cuore della Padania. Si trovava co fondate come avamposti sulla linea del Po. nel territorio dei Taurisci (o Taurini), una comuPrima l’una, poi l’altra delle legioni di Scipione nità ligure-celtica stanziata nelle vallate occidendovettero essere distaccate a fronteggiare gli at- tali dell’attuale Piemonte, componente della lega tacchi. Questi fatti del tutto imprevisti dai Roma- celtica che appena sette anni prima aveva attacni comportarono l’annullamento della spedizio- cato Roma per esserne tragicamente disfatta nel ne in Spagna e la conseguente sospensione delle massacro di Telamon (Talamone). E infatti i Tauoperazioni per lo sbarco in Africa che a quel pun- risci erano certamente nemici di Roma, senz’amto sarebbe stato eccessivamente rischioso. È que- biguità né ripensamenti. Fosse per una estemposto un aspetto poco esplorato, e tuttavia strategi- ranea tensione sorta tra Taurisci e Insubri (che camente cruciale per l’intera campagna: se le erano tra i più fidati alleati di Annibale), fosse forze romane non fossero state tempestivamente per una certa prepotenza dei Cartaginesi - finaldistolte dai programmati obiettivi, tutta l’azione mente pervenuti in terre opime - nell’attingere di Annibale avrebbe potuto essere sventata in ai granai e nell’insidiare le donne, fatto è che si partenza. Scipione, con forze raccogliticce, tentò verificò subito un grave incidente militare, invedi sbarrargli la strada sul Rodano in settembre. ro poco beneaugurante per l’ardua intrapresa apMa Annibale eluse l’insidia, sconcertò il nemico pena principiata. I Taurisci, sentendosi forse più con un improvviso cambiamento della direzione invasi che liberati, rifiutarono ad Annibale le di marcia e risalì lungo il fiume per imboccare la prove di amicizia richieste. Per tutta risposta, il via delle Alpi più a nord. Erano con lui guide fi- condottiero punico diede l’assalto al loro princidate inviategli dai Celti padani e i sentieri erano pale centro (24) (che in seguito i Romani avrebbe- (23) Sull’esatto percorso seguito da Annibale i classici e gli storici moderni sono divisi. Polibio e Mommsen indicano la Val d’Isère, il corso dell’Arc e il valico del Moncenisio (2084 m.). Tito Livio e Gibbon ipotizzano una via più a sud, in ipotesi la Val Durance e il Monginevro (1854 m.). Più remota l’ipotesi, affacciata da alcuni, del passaggio al Piccolo San Bernardo (m. 2188). Attualmente, salvo imprevisti, il Moncenisio è transitabile da maggio a novembre, il Monginevro tutto l’anno e il Piccolo San Bernardo da luglio a novembre. (24) “Capitale” viene correntemente definita “la città principale di uno stato, dal punto di vista politico e amministrativo” (G. Devoto-G.C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Le Monnier Firenze, 1990 , pag. 305). Tale concetto è relativamente moderno, in ogni caso inapplicabile alle comunità, come quelle celtiche, non costituite in stato. Affermare che Mediolanum era la capitale degli Insubri o peggio, che Felsina era la capitale dei Boi, non è appropriato. In questa sede si è preferito quindi evitare siffatte attribuzioni. Centri come Mediolanum per gli Insubri e Brixia per i Cenomani potrebbero essere piuttosto definiti come insediamenti protourbani di riferimento. A sud del Po le comunità celtiche erano maggiormente frammentate (Plinio afferma che secondo Catone il Vecchio i Boi erano costituiti da centododici tribù) e quindi i principali insediamenti svolgevano un ruolo ancora meno determinante. Quaderni Padani - 11 ro denominato Augusta Taurinorum), che cadde dopo tre giorni. Fece seguito un massacro. Comprensibile sul piano militare e su quello diplomatico (l’esempio portò alla immediata sottomissione delle comunità ancora incerte della zona), questo atto deliberato di terrore fu purtuttavia ripugnante e - va pur detto - vela ancora oggi con un’ombra di crudele cinismo l’esordio cartaginese in Padania. Tutto il territorio cisalpino era già in fiamme: i Boi da Bologna a Piacenza, i Lingoni tra Rimini e Bologna, gli Insubri tra Bergamo e Alessandria e i Liguri dal Magra fin oltre il Tanaro erano in rivolta. L’atteso momento della rivincita era giunto, era tempo di gettare le sorti della libertà (25). Dopo avere ritemprato gli uomini, Annibale si mise in marcia lungo la valle del Po. Nei pressi di Mortara si congiunsero a lui gruppi di Insubri in armi. Offrirono rifornimenti e soldati. Annibale ne accolse diecimila circa nel suo esercito, quanti ne poteva integrare in quel momento senza nuocere all’omogeneità militare della compagine. Dalla colonia romana di Piacenza nel frattempo già erano partite due legioni al comando di Publio Cornelio Scipione, per fronteggiarlo: circa ventimila fanti e duemila cavalieri, compresi i cosiddetti ausiliari italici, tra i quali diverse reclute inesperte. Avrebbero dovuto attendere le altre due legioni di Tiberio Sempronio Longo, che stavano risalendo dalla Sicilia a marce forzate. Ma Scipione pensava che il nemico fosse stanco e logorato dalla lunga marcia. Ai primi di dicembre, tra la Sesia e il Ticino, presso Lomello, ebbe luogo così il primo scontro. Fu solo una mischia di cavalleria: le opposte forze in perlustrazione si incontrarono e si scontrarono. I cavalieri numidi di Annibale, più numerosi e dotati di una più agile tattica di manovra, ebbero il sopravvento sulla cavalleria legionaria, formata prevalentemente da Celti arruolati a forza dai Romani. Scipione stesso, giunto in soccorso, restò ferito e venne salvato a stento dal figlio giovinetto (il futuro “Africano”). I Romani si ritirarono, ripassarono il Ticino e si rifugiarono nella base di Piacenza. Annibale non inseguì, passò a sua volta il fiume qualche giorno dopo e marciò sulla colonia. Nel frattempo, altre forze padane gli erano giunte di rinforzo. Alcuni reparti celtici inquadrati nell’esercito nemico, circa duemila fanti e duecento cavalieri, lo abbandonarono armi in pugno per ricongiungersi ai compatrioti (ciò che induce alquanti dubbi circa le cause reali dell’esito dello scontro al Ticino). Annibale preferì comunque congedare alcuni di questi reparti, puntando scientificamente sull’effetto propagandistico di un tale gesto. Comunque, ai suoi ordini in quel momento erano circa 14.000 combattenti celtici, dei quali 5.000 a cavallo. L’altro console Sempronio raggiunse intanto Scipione. L’esercito romano si trovava accampato sulle dolci alture di Ancarano, una quindicina di chilometri sotto Piacenza, proprio in faccia alla Trebbia poco prima che essa confluisca nel Po. Annibale si installò sulla riva opposta del fiume nei pressi di Sarturano, a una decina di chilometri dal nemico. Grosso modo le forze si equivalevano: Annibale coi rinforzi padani disponeva di circa quarantamila uomini, quanti ne contavano le quattro legioni romane coi loro ausiliari. Ma i Romani avevano poca cavalleria, forse meno di cinquemila soldati, mentre Annibale ne aveva diecimila. Per qualche tempo le opposte armate si fronteggiarono e nel frattempo Annibale prese Casteggio, sede di un importante magazzino romano di provviste alimentari. I Romani risposero disfacendo in una scaramuccia alcuni foraggiatori nemici intenti a razziare la campagna piacentina e tale modestissimo successo li rese temerari e impazienti Era il giorno 18 dicembre dell’anno 218 (secondo alcune fonti l’8 dello stesso mese). Dopo una notte di pioggia, l’alba plumbea e ventosa illuminò il giorno della battaglia. Le acque della Trebbia, solitamente chiare e poco profonde, erano più gonfie e fredde. Annibale, per provocare i Romani allo scontro, distaccò alcune centinaia di cavalieri Numidi per un’incursione contro il campo av- (25) La pervicace propaganda coloniale, a cominciare dai testi scolastici, insuffla da sempre l’ambigua menzogna dei “Galli” alleati di Annibale contrapposti agli “Italiani” fedeli a Roma. Ciò che istilla nei giovanissimi cervelli immagini di nebulosi invasori, probabilmente francesi primitivi, aggressivi e feroci. Il termine “Celti”, che potrebbe suscitare qualche interrogativo in più, è sistematicamente oscurato. Ovviamente si tace sugli originari insediamenti celtici e liguri in Padania e sul- l’aggressione che subirono da parte degli stranieri romani. Come si tace sulle stesse libertà degli Etruschi, degli Italici, dei Sardi e dei Siculi, soffocate da Roma. Ben diversa la situazione nell’attuale Repubblica Francese, ove i libri di scuola descrivono con ampiezza la lunga lotta antiromana dei Celti in Gallia, e documentano persino l’impresa del brenno padano che espugnò Roma nel 390 a.C. (26) Negli eserciti biconsolari in campagna di guerra, il comando spettava a entrambi i consoli a giorni alterni. 12 - Quaderni Padani Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 versario. Sempronio, di turno al comando (26), mandò fuori la cavalleria e non appena il nemico iniziò a ritirarsi fece uscire anche la fanteria leggera per bersagliarlo con le frecce. I Numidi si ritiravano combattendo. Altri reparti romani fuoriuscirono dal campo, lo scontro si ampliò, gli inseguitori furono risucchiati verso il fiume. Quando i Numidi ne ripassarono il corso a guado i Romani tennero dietro ma solo per riemergere dall’acqua gelida intirizziti e in disordine. Ecco allora che gli inseguiti si volsero e puntarono sul nemico, con la loro caratteristica tecnica di combattimento lo attaccarono sparpagliandosi in un galoppo velocissimo e inafferrabile. Avendo mezzo esercito già impegnato oltre il fiume, Sempronio decise che non era possibile tornare indietro ed uscì dal campo con le restanti forze per ingaggiare battaglia. I Romani erano a stomaco vuoto e infreddoliti dal guado. Annibale a quel momento mosse loro incontro col grosso delle forze. I suoi uomini avevano mangiato, si erano riscaldati ai fuochi, erano asciutti e si erano cosparsi d’olio per difendersi dal freddo. Ma non dovevano nemmeno mettere piede in acqua: era stato il nemico ad attraversare, ad avere adesso il fiume alle spalle. A sinistra erano i Libici, al centro i Celti, a destra gli Iberi. Su entrambe le ali, la forza di cavalleria. La lotta si accese nel breve tratto pianeggiante sulla sponda sinistra della Trebbia e fu lunga, tenace, sanguinosa. Mentre la cavalleria di Annibale affrontava con successo quella nemica ai due fianchi dello schieramento, i Romani avanzarono al centro in massa compatta scontrandosi con la linea degli Insubri. Annibale sostenne il proprio centro mandando in rinforzo i frombolieri delle Baleari, poi lanciando alla carica gli elefanti. Doveva guadagnare tempo, affinché la sua cavalleria potesse completare il compito affidatole. Suo fratello più giovane Magone piombò improvvisamente alle spalle dei Romani con un corpo scelto di mille fanti e mille cavalieri, tenuto di riserva tra i canneti e gli arbusti nelle isolette tra i rami del fiume. A tempo: con la loro pressione incessante al centro le legioni erano pervenute a infiggere un pericoloso cuneo nello schieramento. Ma a quel punto - era pomeriggio ormai e a dicembre viene buio presto - la cavalleria che aveva disperso le ali nemiche piombò sulle legioni completando l’accerchiamento. Fu, in questo, una manovra anticipatrice di Canne. Simile, e scontato, l’esito. I Romani assaliti da ogni parte abbandonarono l’attacco e si misero a combattere per la vita. Con una disperata sortiAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 ta, diecimila valorosi riuscirono a rompere il cerchio e a salvarsi. Mentre calava la sera e con essa, fitta, la nebbia padana, tutto il resto dell’esercito romano venne distrutto: massacrato sul posto o annegato nella Trebbia tentando il guado nel buio. I Cartaginesi e gli alleati, avvolti dal gelo e dalla nebbia, non inseguirono il nemico. Le loro perdite erano state consistenti, soprattutto tra i Celti che avevano sostenuto il peso maggiore dell’attacco, e aggravate dal rigore del freddo calato subito dopo la battaglia. Quelle romane, in compenso, erano state gravissime, stimandosi tra i quindicimila e i ventimila uomini. Oltre ai diecimila che si erano aperti un varco combattendo, erano scampati cinque-seimila uomini rimasti al campo con Scipione durante la battaglia e qualche altro migliaio di dispersi rientrò successivamente a Piacenza, ove i resti dell’esercito sconfitto si rinchiusero fino a primavera. La vittoria della Trebbia propagò la sollevazione antiromana come un incendio nell’intera Padania. Nuove forze affluirono a rimpiazzare i caduti, i Boi si unirono all’esercito alleato. Forse Nella cartina, l’itinerario percorso da Annibale dal valico delle Alpi alla battaglia di Zama Quaderni Padani - 13 era davvero arrivato il momento della riscossa e della vendetta. Troppo fresche erano ancora le ferite di Talamone, di Casteggio, di Milano, per non bruciare terribilmente. Tutte ferite alla libertà delle comunità celtiche, ferite di pochi anni prima soltanto. Antecedenti di guerra tra Padani e Romani La ripresa del movimento espansionistico di Roma verso nord aveva allarmato le comunità celtiche d’oltre Appennino. Nel 225 a.C. i Boi si unirono agli Insubri e da questo asse scaturì una grande alleanza padana antiromana. Solo i Cenomani e i Veneti non vi parteciparono e restarono alleati a Roma. Cinquantamila guerrieri a piedi e ventimila a cavallo e sui carri da guerra scesero allora verso il nemico anticipandone le mosse, mentre una parte delle forze rimase a presidio del territorio padano, nel caso di attacchi da parte degli alleati dei Romani. L’armata celtica, rinforzata da aliquote liguri ed etrusche, dilagò in Etruria e si spinse fino a Chiusi, minacciando direttamente Roma. I Romani mobilitarono l’esercito più grande che avessero mai portato in campagna: sei legioni direttamente operative più due in riserva (27). Lo scontro decisivo avvenne presso Telamon (l’odierna Talamone): l’esercito celtico in marcia venne affrontato da due armate romano-italiche comandate da L. Emilio Papo e da C. Attilio Regolo. Attaccati da due lati, i Celti dovettero dividere le proprie forze e affrontarono separatamente la battaglia: Taurisci e Boi contro Regolo, Gesati (28) e Insubri contro Papo. Lo scontro fu violentissimo, persero la vita lo stesso Regolo e i due coman- danti Celti (29). I Romani prevalsero, sul campo restarono quarantamila caduti padani e diecimila furono i prigionieri (30). La sconfitta fu decisiva, le forze lasciate sul campo non vennero più ricostituite. L’iniziativa passò in mano ai Romani, che condussero la campagna verso nord. Nel 224 i Boi furono costretti alla resa. Nel 223 il console Caio Flaminio attraversò il Po, forse con l’aiuto degli Anamari (31), e penetrò in territorio insubre ma non riuscì ad avanzare. Diresse allora per nordest, congiunse le proprie forze con quelle degli alleati Cenomani e attaccò da oriente: le sue forze si spinsero oltre l’Oglio e oltre l’Adda, devastando le campagne e massacrando le popolazioni disperse, provocando così l’intempestiva reazione degli Insubri che a ranghi incompleti lo affrontarono in battaglia e non senza difficoltà ne furono respinti, probabilmente presso il fiume Oglio. Sazi di bottino i Romani rientrarono alle loro basi mantenendo presidi presso gli alleati Cenomani, ma l’anno successivo scatenarono una nuova campagna. Gli Insubri proposero la pace, ma l’offerta venne rifiutata dagli invasori che per tutta risposta attaccarono il centro di Acherroe (oggi Pizzighettone, tra Lodi e Cremona). Gli Insubri reagirono con la forza della disperazione e lanciarono un attacco a Clastidium (l’attuale Casteggio, nell’Oltrepò pavese, non lontano da Voghera), scontrandosi con le forze del console Marco Claudio Marcello. Qui si decise la guerra: il capo insubre Vindomaro (o Virdumaro) venne ucciso da Marcello e la battaglia vinta dai Romani. Le forze sconfitte si ritirarono su Milano, che sull’impeto del successo venne assalita dall’altro console Gneo Corne- (27) Ogni singola legione, che con la riforma del II secolo a.C. attribuita a Mario avrebbe raggiunto un organico di oltre 6.000 combattenti, nel III secolo a. C. disponeva di una forza-base di circa tremila uomini a piedi accompagnati da un’”ala” di trecento cavalieri. Nei momenti di emergenza, tuttavia, questa forza poteva essere notevolmente incrementata fino a raggiungere l’organico di 5-6.000 combattenti. Ciò verosimilmente accadde già durante la campagna contro i Celti del 225-222 a.C. e poi ancora nella situazione di massima emergenza determinata dalla spedizione di Annibale in Padania e in Italia. Inoltre, ciascuna legione poteva raggiungere il doppio circa della propria forza essendo affiancata dai cosiddetti “auxilia” (contingenti forniti dai collegati) per una pari entità. (28) I Gesati erano una comunità celtica stanziata tra la valle del Rodano e le Alpi. Il loro nome derivava dalla principale arma offensiva in dotazione, il “gaesum”, una specie di spiedo in ferro, da cui la denominazione latina “Gaesatae”. Essi avevano inviato rinforzi ai Celti padani impegnati contro Roma e combatterono al loro fianco fino alla caduta di Milano (222 a.C.), che aiutarono a difendere fino all’ultimo. (29) Conosciamo attualmente non i veri nomi dei due comandanti celtici ma soltanto le versioni romanizzata di Aneroestus e Concolitanus. Il primo quando vide la battaglia perduta si ritirò su un rilievo collinoso e lì si diede la morte con tutto il seguito. Il secondo venne catturato a forza dal nemico e tradotto prigioniero a Roma ove in seguito fu assassinato. (30) Rileggendo la cronaca di Polibio sembra di potere attribuire la sconfitta dei Celti alle caratteristiche dell’armamento, in particolare delle spade e degli scudi. La spada celtica era concepita per colpire di taglio, non per affondare. Per giunta, era un’arma piuttosto pesante e spesso in combattimento si deformava. Quando veniva usata dal basso verso l’alto, per esempio da uomini appiedati contro la cavalleria, perdeva molta della sua efficacia. Nel momento in cui la cavalleria romana investì violentemente sul fianco lo schieramento nemico, i Celti appiedati non poterono contenerla e caddero tutti sul posto. I cavalieri, pur travolti anch’essi, riuscirono invece a fuggire. ( 31) Antica popolazione di origine celtica probabilmente stanziata nell’area attorno a Piacenza. 14 - Quaderni Padani Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 lio Scipione. Dopo una disperata lotta i sopraggiunti rinforzi di Claudio Marcello decisero la pugna e la città fu presa. Con la successiva caduta di Como la pianura venne ridotta sotto egemonia romana. Le condizioni della pace furono secondo alcuni relativamente miti, i Romani si insediarono però in un campo militare contiguo a Milano (32) e l’occupazione divenne permanente. In ogni caso l’opposizione e le rivolte non mancarono. Tutta la regione restò inquieta, il fuoco covava sotto la cenere. Nel 219 (o forse nel 218) i Romani fondarono la colonia di Placentia (Piacenza) e nello stesso 218 quella di Cremona (33): entrambe non erano che avamposti militari in territorio ostile. I Celti padani attesero il momento della rivincita e la discesa di Annibale si presentò come l’occasione più propizia. Annibale porta la guerra in Italia Una battaglia in dicembre era in quei tempi già un fatto straordinario. Dopo la Trebbia, i contrapposti eserciti si acquartierarono per l’inverno. Annibale fece base nella zona attorno a Modena e Bologna, coperto dagli alleati Boi. Il console Sempronio ad Ariminum (34), ove affluirono i complementi romani e vennero riorganizzate le forze sconfitte, mentre Scipione rimaneva ancora a Piacenza in attesa di partire come proconsole per la Spagna. La propaganda romana tentò di accreditare una versione addomesticata della battaglia alla Trebbia, che divenne una sorta di “vittoria mancata” a causa delle avverse condizioni meteorologiche. Intanto in Spagna Gneo Scipione guadagnava posizioni a spese del cartaginese Annone con il quale Asdrubale non riusciva a coordinare le forze. E una flotta punica avvicinatasi alle coste sicule venne respinta dai Romani alleati del vecchio tiranno Gerone II di Siracusa (35). A Roma il morale reggeva, ma ormai si cominciava a capire che Annibale costi- tuiva un pericolo reale e grave, e non tanto per le severe lezioni che egli aveva impartito sul campo, quanto piuttosto per gli effetti e i risultati politici della sua azione. I Celti liberi erano tutti con lui, la frontiera militare della cosiddetta “Gallia Cisalpina” era perduta, solo i capisaldi di Piacenza e Cremona vi erano ancora mantenuti (36). Non solo: anche le comunità etrusche erano in fermento, mentre i Fenici di Sardegna (37) attendevano la flotta cartaginese ed erano pronti all’insurrezione. A primavera dell’anno 217 i Romani si ritrovarono attestati sotto l’Appennino, ricacciati nella “loro” Italia che pure, nelle regioni meridionali, iniziava a sobbollire. A marzo di quell’anno furono eletti i nuovi consoli Gneo Servilio Gemino e Caio Flaminio Nepote. Il primo andò a presidiare il confine a Rimini, il secondo ad Arezzo. Per significativa coincidenza, Flaminio era quello stesso, già console nel 223, che aveva capeggiato la spedizione contro gli Insubri (vedi sopra). Il Senato, che per ragioni di politica interna avversava Flaminio, e ne veniva cordialmente ricambiato, portò a undici le legioni ma, di queste, sette ne destinò in Spagna, in Sardegna, in Sicilia e a presidio di Roma stessa. Quattro ne restarono a disposizione dei consoli e come di tradizione erano due per ognuno. Gli organici non furono rinforzati se non modestamente, un po’ di più la cavalleria che drammaticamente aveva fatto difetto alla Trebbia. Per Annibale, intanto, si era fatto tempo di scegliere. In quella primavera dell’anno 217 cadde probabilmente il primo dei due momenti veramente decisivi della campagna: se si fosse mantenuto in Padania, ne sarebbe forse scaturita una situazione più solida e permanente. I Celti, che al rinnovarsi della primavera avevano mandato a lui almeno sessantamila uomini a piedi e quattromila cavalieri, sarebbero forse stati sospinti a costituirsi in nazione, una nazione amica di Cartagine e avversaria implacabi- (32) Per la localizzazione del “castrum” romano a ridosso dello stanziamento celtico vedi, di Gilberto Oneto, “Milano, centro della terra di mezzo”, su Quaderni Padani n. 9, gennaio-febbraio 1997, pagg. 19-20. (33) Cremona fu definita da Tacito “propugnacolo contro i galli stanziati oltre il Po così come contro ogni altra minaccia proveniente attraverso le Alpi” (Storie, III, 34). Le due colonie, costituite nell’imminenza dell’invasione annibalica, furono popolate dai Romani con seimila coloni ciascuna, inviativi con preavviso di soli trenta giorni. (34) L’odierna Rimini. Fondata dai Senoni, divenne colonia romana nel 268 a.C. per acquisire fondamentale importanza strategica con la costruzione della Via Aemilia (187 a.C.) che vi incrociava la Via Flaminia (iniziata nel 220 a.C.). (35) Hieron II “il Giovane”, proclamato tiranno di Siracusa nel 265 a.C., provocò la prima guerra punica alleandosi con Cartagine contro i Mamertini e i Romani dei quali, dopo l’assedio della sua città nel 264, divenne fedele servitore. (36) Le due colonie fortificate saranno rifornite per via fluviale e resisteranno agli attacchi e alla fame. Cremona rimase inespugnata, mentre Piacenza finalmente cadde nell’anno 200 a.C., probabilmente a causa della defezione dei Cenomani, quando già la guerra era stata decisa a Zama due anni prima. (37) La Sardegna era stata occupata dai Romani nel 238 a.C., approfittando della rivolta dei mercenari scoppiata a Cartagine. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Quaderni Padani - 15 Accampamento cartaginese in un’antica illustrazione le di Roma, un coltello permanentemente puntato al cuore del nemico. D’altra parte, con l’eccezione dei Cenomani e dei Veneti, tutte le comunità e le città padane si erano già inequivocabilmente schierate. L’alternativa a questo scenario era quella di portare la guerra nel profondo del territorio nemico, mettendo a frutto la sorpresa e la mobilità che ad Annibale garantivano il vantaggio tattico, portando la rivolta - già fomentata nel silenzio dai suoi inviati e messaggi in Etruria, in Senonia, nell’italico sud. Piegando forse all’inquietudine della sua indole africana invece che ponderare una vera e propria riflessione, Annibale scelse di muoversi. Era un uomo intuitivo, una mente improntata al fiuto e all’esperienza pratica prima che alla meditazione razionale, la sosta lo innervosiva. Decise di avanzare. Valicò gli Appennini all’inizio di maggio, forse al passo della Collina. Sotto la pioggia eccezionalmente copiosa di quella primavera, l’esercito mosse per selve e per paludi soffrendo grandemente il logorio della marcia. I Celti, insofferenti per la stretta disciplina imposta da quel trasferimento periglioso, furono prossimi ad abbandonare l’impresa, ma comunque resta16 - Quaderni Padani rono. L’esercito pervenne infine a Fiesole. Da lì puntò decisamente a sud. Per un’infezione reumatica, dovuta alle fatiche e all’ambiente malsano, Annibale aveva perduto la vista dell’occhio sinistro, ma egli proseguì imperterrito. Giù per l’Etruria, per la media Val d’Arno e la Val di Chiana, verso Roma. Passò Arezzo senza curarsi di Flaminio, che gli si mise alle costole ma senza azzardare lo scontro prima dell’arrivo di Servilio, che aveva preso le mosse da Rimini e a tappe forzate puntava verso Foligno per effettuare il congiungimento. Annibale era più forte di ciascuno dei due eserciti nemici divisi, più debole nel caso si fossero riuniti. Per scongiurare tale eventualità, scompaginò le carte e giunto sotto Cortona improvvisamente puntò a est, verso Perugia. Punto di passaggio obbligato, il Lago Trasimeno. Paventando la netta superiorità della cavalleria nemica, il console Flaminio che ormai era a ridosso di Annibale non arrischiò pattuglie in avanscoperta e conseguentemente restò all’oscuro delle sue mosse: un errore che si sarebbe rivelato fatale. L’esercito alleato accelerò improvvisamente il passo e arrivò al lago a pomeriggio inoltrato. Il sole era ancora alto e vi fu Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 tutto il tempo per riconoscere i luoghi e disporre le forze. Flaminio, che oltretutto era carente di informazioni sui dintorni, a sera fece campo qualche chilometro più indietro. Il giorno successivo era il 23 giugno (38). Già di prima mattina la giornata si annunciò torrida e afosa. La bassa nebbia lacustre gravava sulla riva settentrionale, quando i venticinquemila Romani disposti in colonna di marcia (39) la imboccarono senza sapere cosa li attendeva. Dopo avere scavalcato un dosso tra gli ulivi essi si ritrovarono in una conca racchiusa tra le alture e il lago, lunga circa cinque chilometri e profonda al massimo tre o quattro. Era il campo di battaglia prescelto da Annibale. All’estremità orientale del catino, nel punto in cui le colline di Montigeto declinano richiudendosi sulla riva, erano appostate le fanterie pesanti libiche e iberiche. Le fanterie leggere e i frombolieri stavano in agguato lungo l’intera linea dei crinali. I Celti con tutta la cavalleria erano appostati intorno al dosso che fa da imboccatura, per chiudere la trappola alle spalle del nemico. Non vi erano più elefanti, che comunque sarebbe stato problematico impiegare su quel terreno chiuso. I Romani avanzavano nella coltre di nebbia. Quando la testa della colonna si approssimò alle balze di Montigeto, Annibale ordinò l’attacco generale. Inferiori di numero e costretti in una posizione sfavorevole, aggrediti di sorpresa e in formazione di marcia, impossibilitati a manovrare, i Romani non ebbero scampo. Si difesero per tre ore, stretti dal nemico che premeva da tre lati e chiusi sul quarto lato dalle acque del lago. Non vi era più ordine nelle fila, né schieramento alcuno. Il console cadde sul campo, per mano del lanciere insubre Ducarius (40). Dopo sei anni il debito dei Celti con Caio Flaminio Nepote era saldato. Tutto attorno, il mas- sacro. L’estrema resistenza si consumò molto a est, oltre il campo di Annibale. Là venne sterminato l’ultimo gruppo, che si era aperto la fuga rompendo la linea tenuta dai Libici. I caduti romani furono quindicimila e forse più, diversi gli annegati in una impossibile fuga. Tutti gli altri tranne pochissimi furono fatti prigionieri. L’esercito romano era stato letteralmente polverizzato nel breve volgere di un mattino. L’altro console Servilio stava marciando da Foligno e a sera la sua cavalleria in avanscoperta, quattromila uomini comandati dal propretore Caio Centenio, giunse in vista del campo di battaglia. Inseguita e raggiunta il giorno dopo dalla cavalleria numidica di Maarbale, questa forza venne annientata sotto Perugia, nella valle del fiume Topino, affluente del Tevere. La via di Roma era aperta. Ma Annibale non attaccò la città che pure era a meno di una settimana di marcia. Non era preparato per un lungo assedio e poi la città era cintata da undici chilometri di mura: con le sue forze non sarebbe arrivato nemmeno a circondarle. Seguì invece la strategia già abbracciata all’indomani della Trebbia. Dopo la Padania e l’Etruria, sarebbe andato a liberare l’Italia. Coerentemente, liberò senza riscatto i prigionieri italici. Loro tramite. promise l’indipendenza e il ripristino dei confini a ogni comunità che avesse abbandonato i Romani. Poi puntò a sud. La storia dei rapporti di Annibale con gli Italici è interessante e complessa, meriterebbe un degno approfondimento. In questa sede basterà annotare che in risposta alle profferte avanzate le reazioni furono contraddittorie e che l’Italia rimase sostanzialmente al fianco di Roma. I Celti, che non avevano fatto mancare il proprio apporto agli Italici durante la cosiddetta terza guerra sannitica (41) e poi ancora agli Etruschi nella lotta per Arezzo ( 42), restarono pratica- (38) Secondo alcune fonti il giorno della battaglia è il 20 giugno, è comunque certo che essa avvenne nell’immediata prossimità del solstizio. (39) Flaminio non aveva nemmeno provveduto a formare lo schieramento per manipoli affiancati, prescritto dal regolamento quando si era in prossimità del nemico. (40) È la versione romanizzata del nome, quello vero in lingua celtica ci è attualmente sconosciuto. (41) Iniziatasi nel 299 a.C. la terza guerra sannitica, nell’anno 296 a.C. si formò in funzione antiromana una coalizione di “quattuor gentes”, cioè di quattro popoli: Sanniti, Etruschi, Celti e Umbri. L’apporto più consistente all’alleanza venne contribuito dai Celti Senoni: anche se la guida politica fu esercitata dai Sanniti col loro capo Gellio Egnazio, l’esercito coalizzato si radunò in Umbria settentrionale, non lontano dalle basi cel- tiche sull’Adriatico. La battaglia di Sentino (oggi Sassoferrato, nelle Marche), combattuta nel 295 a.C., vide la sconfitta delle forze riunite dei Celti e dei Sanniti e il conseguente declino politico e militare dell’alleanza. A Sentino i Celti usarono certamente i loro carri da guerra, che nella prima fase dello scontro attaccarono e respinsero la cavalleria nemica. Riorganizzatisi, i Romani presero poi il sopravvento. La terza guerra sannitica si trascinò comunque fino al 290 a.C.. (42) Arretium, una delle dodici città originarie della confederazione etrusca, divenuta alleata di Roma attorno all’anno 295 a.C., dopo la battaglia di Sentino, fu investita da forze etrusche indipendentiste appoggiate dai Celti Senoni nel 285 a.C.. Durante l’assedio un esercito romano sopraggiunto in soccorso della piazzaforte venne disastrosamente sconfitto dalle forze alleate. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Quaderni Padani - 17 Battaglia della Trebbia, 18 dicembre 218 a.C. (8 dicembre secondo alcune fonti). Schieramenti e movimenti degli opposti eserciti (tratta da Annibale di Gianni Granzotto, Mondadori, Milano, 1980) mente soli coi Liguri a sostenere Annibale. Se ne sarebbero rammentati in seguito, ai tempi della cosiddetta guerra sociale (43), quando a loro volta avrebbero abbandonato gli Italici al loro destino. Anche la storia militare della campagna di Annibale in Italia è molto interessante, e poco studiata. Ma non è qui argomento in causa. Dopo diverse vicende, comunque, l’esercito di Annibale svernò in Apulia. A Roma l’esercito posto al diretto comando dei consoli venne raddoppiato: da quattro a otto legioni. Inoltre gli organici delle formazioni furono sensibilmente rafforzati. Metà di quest’armata già fronteggiava Annibale sulle rive del fiume Fortore, all’estremo nord dell’Apulia. Quando l’altra metà vi si unì, al comando erano già i nuovi consoli, eletti nel marzo del 216 a.C.: Lucio Paolo Emilio e Caio Terenzio Varrone. Avevano alla mano novantamila uomini. Sopravanzavano di più del doppio le forze di Annibale, che erano di quarantamila. Ma come al solito la cavalleria romana era scarsa, seimila uomini contro i diecimila del Cartaginese. Intanto in Spagna le cose si erano messe piuttosto male per i Barca: i fratelli Publio e Gneo Scipione avevano ripreso le terre oltre l’Ebro sconfiggendo e catturando Annone, il cugino 18 - Quaderni Padani che Annibale aveva lasciato a presidio con un’aliquota delle sue truppe. Una flotta punica era stata distrutta alle foci del fiume (battaglia delle Bocche dell’Ebro, 217 a.C.). Peggio, Sagunto era ricaduta in mano romana e rivolte delle tribù iberiche fomentate dai Romani minacciavano la posizione stessa di Asdrubale a Nuova Cartagine. Dunque, lo scontro che si preparava in Italia sarebbe stato vieppiù decisivo. Annibale scese di cento chilometri più a sud, nel cuore dell’Apulia che garantiva rifornimenti copiosi. Si attestò nei pressi della località di Canne, al fiume Aufidus (Ofanto), sulla linea che oggi separa le province italiane di Foggia e Bari. A fine luglio arrivarono i Romani e si schierarono, coi loro novantamila uomini, sulla riva sinistra del fiume. Annibale teneva campo sulla riva opposta, fronteggiandoli. Aveva scelto quel terreno per lo scontro ormai imminente. (43) Nell’anno 91 a.C. i “socii” italici di Roma di lingua osca, esclusi quindi i soli Umbri e Apuli, si rivoltarono e costituirono una “confederazione italica” che, salvo il protrarsi di sporadiche resistenze, venne sconfitta dai Romani nell’88 a.C.. Alla guerra non presero parte i popoli non italici colonizzati da Roma, come gli Etruschi e i Celti. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Battaglia del Lago Trasimeno, 23 giugno 217 a.C. (20 giugno o 27 aprile secondo alcune fonti). La marcia dei Romani verso la morte (tratta da Annibale di Gianni Granzotto, Mondadori, Milano, 1980) Canne Il 31 luglio Varrone ed Emilio passarono a guado il modesto corso d’acqua e si accamparono sulla sponda destra, impazienti di schiacciare il nemico sotto il peso della loro enorme superiorità numerica. Il giorno successivo gli opposti eserciti di disposero alla battaglia. I Romani davano la destra all’Aufidus e le spalle al mare: all’ala destra la cavalleria leggera formata da giovani aristocratici romani, le legioni ammassate fittamente al centro, la cavalleria pesante italica all’ala sinistra. Novantamila uomini in un chilometro e mezzo, forse due. Annibale schierò la cavalleria pesante formata dagli Iberi e soprattutto dai Celti sulla sinistra, appoggiata al fiume, gli uomini a piedi al centro, la cavalleria leggera numidica sulla destra. Canne restava alle sue spalle. Il 2 agosto dell’anno 216 a.C. è una data di solennità nazionale nel calendario padano. Su quel terreno ebbe luogo la battaglia forse più celebre dell’antichità. In una giornata calda, flagellata dal vento che spirava dal monte verso il mare, che si trova a sei chilometri appena, le due armate si affrontarono. Annibale, dall’alto della collinetta di Canne, misurò subito lo schieramento nemico. Troppo addossata al fiume la caAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 valleria leggera, senza spazio per manovrare. Schiacciata in quello stretto spazio dalle fanterie a loro volta tutte ammassate, più fittamente del solito, sulle abituali tre linee. Era evidente che i Romani intendevano ripetere la manovra tentata alla Trebbia: attacco al centro con obiettivo di sfondamento. Una manovra tradizionale, fondata sulla concezione già svolta con successo da Alessandro il Grande ad Arbela nel 331 a.C., apportatrice di travolgente successo in caso di riuscita. Ma la cavalleria era mal distribuita, e poi la legione non era la falange, necessitava di maggiori spazi per il movimento. Annibale dispose la sua fanteria ad arco, nella parte che sporgeva in avanti erano alcune unità iberiche e tutti i Celti. Più prossima al nemico, era la parte dello schieramento che doveva sostenere l’urto principale. Fu questa una scelta precisa, mirata ad attrarre i Romani al centro, assecondando e anzi massimizzando l’evidente loro disposizione tattica. Su entrambi i fianchi della fanteria si posizionarono il grosso degli Iberi e tutti i reparti libici. Questi ultimi erano quelli armati più pesantemente, equipaggiati col materiale preso ai Romani dopo le precedenti vittorie. I Romani avanzarono al centro come previsto e dopo le rituali scaramucce dei volteggiatori Quaderni Padani - 19 Battaglia di Canne, 2 agosto 216 a.C. L’imperituro capolavoro tattico di Annibale (tratta da Annibale di Gianni Granzotto, Mondadori, Milano, 1980) vennero subito alle mani col centro avanzato della fronte nemica. Così ebbe inizio la battaglia. Polibio ne svolge la memorabile cronaca nel terzo libro delle sue Storie (CXIV-CXVII). I Celti tennero bravamente le posizioni sia pure a prezzo di perdite molto forti. Ma la riuscita del piano di battaglia appoggiava proprio sul loro riconosciuto valore. Con la dovuta energia fecero contrasto all’attacco che veniva loro addosso come un rullo compressore. Poi, lentamente sospinti dalla pressione soverchiante del numero, iniziarono a rinculare tenendo sempre il nemico in faccia. La fronte di battaglia indietreggiò, ma non si ruppe. Se avesse ceduto, sarebbe stata la fine. Annibale stesso impartiva gli ordini operativi in quel settore cruciale, animando la resistenza dei suoi con calma e sicurezza a pochi passi dal mulinare delle spade, nel mezzo dei Celti come uno qualunque di loro. Nel frattempo le opposte cavallerie si scontravano sulle due ali. Dalla parte del fiume la cavalleria leggera romana, sacrificata in un collo di bottiglia e senza possibilità di manovra, venne coinvolta in una mischia corpo a corpo dai cavalieri celtici e iberici e distrutta sul campo. Intanto la cavalleria numidica attaccò dalla parte della pianura la meno agile cavalleria italica e la tenne immobilizzata con la tipica sequenza delle 20 - Quaderni Padani sue evoluzioni rapide e avvolgenti. Alle spalle del nemico sopraggiunse in aiuto la cavalleria celtica e iberica, già vittoriosa sull’altra ala. Gli Italici, presi in un carosello vertiginoso, furono sopraffatti. Molti restarono sul campo, una parte - compreso lo sciagurato console Terenzio Varrone - fuggì a briglia sciolta in direzione di Venosa, coi Numidi lanciati all’inseguimento. Al centro della battaglia, intanto, il sottile schieramento di Annibale era progressivamente arretrato sotto la pressione dei Romani. Non si era mai rotto: da convesso era divenuto concavo, come un elastico che si tende all’indietro. Centocinquanta metri all’indietro, forse duecento. Secondo il piano di Annibale. I legionari delle prime file, meccanicamente sospinti dai colleghi che in ordine serrato li seguivano, si battevano in spazi sempre più ristretti. Il cuneo massiccio e risolutore dei Romani, in questo modo, s’infilava sempre più in profondità in un imbuto, i bordi del quale erano presidiati dai reparti libici, che non si erano mai mossi dalle posizioni iniziali. Incastrati ormai nella trappola, senza più possibilità di allargarsi, i Romani non poterono evitare che i Libici convergessero contro i loro fianchi, indifesi dopo la duplice disfatta della cavalleria, stringendoli in una ferrea morsa. La formazione di battaglia della legione era tale, Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 che il combattimento sul fianco non poteva essere sostenuto in formazione serrata, ma per manipoli o addirittura individualmente. La compattezza assicurata dalla durissima disciplina romana in quel genere di scontro non serviva a nulla. E d’altra parte per il subitaneo accrescimento degli effettivi Roma aveva dovuto avvalersi di complementi non perfettamente addestrati, di reclute relativamente inesperte. Nel frangente, solo le prime righe potevano fare uso delle armi contro il nemico: così anche la conservata preponderanza numerica dei Romani non era concretizzabile. Il suggello alle sorti della giornata venne apposto dalla cavalleria pesante di Annibale, che dopo avere sbaragliato quella nemica fu libera di chiudere la trappola alle spalle delle legioni. Quando i cavalieri celtici e iberici ebbero completato l’accerchiamento, non ci fu più battaglia sul campo ma solo strage. Privi dei comandanti già tutti caduti, i Romani si batterono con valore ma senza alcun ordine e nel giro di alcune ore vennero annientati. Insieme al console Paolo Emilio caddero tutti i capi militari, i proconsoli, due questori, ventinove tribuni militari, ottanta senatori, il fiore della giovane aristocrazia romana. Le perdite furono talmente enormi che i classici ne restarono pressoché increduli. Plutarco e Appiano le stimarono a cinquantamila morti, Quintiliano a sessantamila, Polibio a settantamila. Forse quest’ultima stima è approssimata per eccesso, ma certamente non troppo lontana dal vero: i Romani infatti non ebbero alcuna possibilità di fuga e i vincitori, come scrive Livio, “diedero via libera ai vinti solo quando si furono stancati di uccidere”. Livio stesso parla di quarantanovemila morti e ventottomila prigionieri. Polibio stima invece i prigio- nieri nel numero di diecimila e gli scampati in quello totale di tremila. Molto diverso il conto delle perdite di Annibale: ancora Polibio le enumera in meno di seimila uomini (quattromila tra i Celti, millecinquecento tra Iberi e Libici, duecento appena nella cavalleria). E’ evidente che il prezzo di sangue più importante fu pagato anche quella volta, come alla Trebbia, dai Celti. E come alla Trebbia fu il prezzo della vittoria. La manovra a tenaglia di Annibale fece epoca e sarà citata molti secoli dopo in tutti i manuali militari (44): l’esercito più imponente mai messo in campo dai Romani annientato in poche ore nella più grande catastrofe militare della loro storia. Ma ciò che era strategicamente più importante, a quel punto Roma era proprio al tappeto. (44) Alcuni polemologi, in particolare quelli di scuola germanica del secolo scorso, credettero di ravvisare nello schema di battaglia di Canne una vera e propria rivoluzione nell’arte guerresca. Più recentemente altri ne dubitano, posto che Annibale stesso non riutilizzò tale schema e che la giornata fu condizionata da fattori compositi, molto specifici e probabilmente irripetibili. E’ un fatto che Canne sia citata sui manuali classici delle accademie militari d’ogni luogo e tempo, e che molti condottieri di fama, svariate volte, si siano riferiti a Canne per intraprendere ovvero per contrastare, mutatis mutandis, il medesimo svolgimento tattico. Ma forse Canne fu davvero frutto di un’intuizione folgorante, più che di un’elaborata riflessione. Invero Annibale fu stratega innovativo e tattico ingegnoso, ma la sua apparente spregiudicatezza un po’ paradossalmente si compendiava nel considerare - come già aveva fatto Alessandro il Grande - la guerra come una scienza codificabile e perciò tramandabile. L’uso dello spionaggio e dei servizi informativi, la grande mobilità, la natura- le avversione per le soste e le operazioni d’assedio, il ricorso agli stratagemmi e alla sorpresa, la riduzione al minimo dei servizi logistici e delle linee di rifornimento, la capacità di superare ostacoli naturali ritenuti invincibili: questi furono i principali apporti di Annibale alla tecnica militare della sua epoca, in qualche caso anticipando innovazioni che molti secoli dopo sarebbero state considerate “rivoluzionarie”. (45) Il 21 luglio 1861, presso Manassas, i Confederati clamorosamente vinsero la prima vera battaglia della guerra d’indipendenza che li opponeva all’Unione (cosiddetta “guerra di secessione”). Anche in quel caso le forze dei vincitori erano ampiamente insufficienti per potere trasformare una vittoria sonante in decisiva, e anche in quel caso alcuni polemisti sostennero che un’occasione d’oro non era stata colta. In realtà l’esito dello scontro di Manassas, in sé modesto, fu amplificato date l’albagia e la sicumera con le quali gli Unionisti, come i Romani a Canne, affrontarono la battaglia uscendone disastrosamente sconfitti. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Il lento declino verso la sconfitta Secondo diversi commentatori, dopo Canne Annibale non colse l’occasione più propizia per trasformare il “knock down” inflitto a Roma in un definitivo “knock out”. Quella sarebbe stata la svolta decisiva della campagna, la recondita premessa della successiva sconfitta. Duemilasettantasette anni dopo, analoghe critiche sarebbero state mosse alle armate confederate che dopo la sonante vittoria sul fiume Bull Run (45) non investirono subito Washington. In un caso come nell’altro, tuttavia, la critica era ampiamente controvertibile. Maarbale, comandante della cavalleria, chiese ad Annibale di potere galoppare direttamente su Roma. “Tra cinque giorni ti preparerò la cena in Campidoglio”, gli avrebbe proposto. Ma Annibale non accolse quell’ingenua proposta. Roma era solidamente cintata per una circonferenza di undici chilometri. Le mura erano alte fino a nove metri e spesse fino a quattro. Quaderni Padani - 21 “La carica degli Elefanti”. La battaglia di Canne secondo il celebre incisore Pinelli (sec. XIX). La partecipazione degli elefanti alla battaglia è un anacronismo artistico: a quell’epoca i trentasette elefanti dell’esercito di Annibale erano già tutti morti (tratta da Miles di Silvio Bertoldi, Vol. 1°, Fabbri Editori, Milano, 1985) La guarnigione era composta da due legioni. Prendere la città d’assalto non era possibile. E d’altra parte Annibale non disponeva di idonee macchine ossidionali, né di una rete stabile di rifornimenti, né di sufficienti forze, per mettervi l’assedio. Verosimilmente, dunque, sul piano strategico il dopo-Canne non costituì un vero punto tornante. La terribile sconfitta patita dai Romani a Canne, in ogni caso, diede subito i suoi frutti. Città e comunità italiche dell’Apulia, dell’Irpinia, del Sannio, del Bruzio, della Lucania passarono l’una dopo l’altra con Annibale. Capua, la seconda città italica dopo Roma, prospera e raffinata, legata ai Romani da un’alleanza obbligata e da una “civitas sine suffragio” (46), gli aprì le porte come autonoma alleata. Sembrava destinata a mettersi a capo degli Italici in via di ribellione: a sud di una linea che approssimativamente correva dal Gran Sasso al corso del Garigliano, le alleanze con Roma erano state in gran parte cancellate. La guerra continuò, diversi scontri si susseguirono. Nessuno però fu decisivo. Dice Polibio di questo lungo periodo di logoramento: “Le vi22 - Quaderni Padani cissitudini della fortuna vennero a dare a ciascuno dei due nemici, volta a volta, ora dei successi e ora dei rovesci”. In tutta questa fase relativamente oscura della campagna, che durò molti anni, i Celti restarono al fianco di Annibale (e avrebbero aiutato anche suo fratello Asdrubale) in tutte le battaglie (47). Nel novembre dell’anno 216 (48) la legione del console Lucio Postumio Albino (49) venne distrutta dai Celti Boi nella Silva Litana, una fitta foresta paludosa sita tra Bologna e Ferrara, presso il fiume Reno e l’attuale città di Cento. Lo stesso console restò ucciso e i Druidi di Fel(46) Diritto alla cittadinanza romana ma senza godimento dei privilegi politici ed elettorali. (47) Essi seguiranno addirittura Annibale in Africa al suo rientro via mare nella primavera del 203 a.C., tra i quindicimila superstiti dell’esercito alleato. (48) Secondo alcune fonti questo episodio è invece da collocare nei primi mesi dell’anno 215. (49) Nel suo consolato dell’anno 234 aveva sconfitto i Liguri, in quello del 229-228 aveva sconfitto gli Illiri della regina Teuta. Dopo la morte di Lucio Paolo Emilio a Canne era stato nominato “suffectus”, cioè suo sostituto come console fino al termine del mandato annuale. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 sina (50) libarono col suo cranio laminato d’oro. Le ostilità ripresero nella primavera del 215. Annibale non riuscì a prendere il porto di Napoli, gli alleati Capuani furono battuti davanti a Cuma. La stessa Capua, così simile a Cartagine nello spirito mercantile, colta ed elegante, non offrì il decisivo sostegno sperato. Il suo clima rilassato e la relativa determinazione alla lotta finirono anzi per invischiare lo stesso esercito cartaginese - che vi trascorse l’inverno 216-215 - in quelli che sarebbero appunto stati chiamati gli “ozi di Capua”. Anche il tentativo di portare soccorso ai ribelli filocartaginesi di Nola venne frustrato dal pretore Marco Claudio Marcello. Annibale spostò la sua base ad Arpi, in Daunia (51) e da lì mosse per espugnare Locri e Crotone. Nell’estate del 215 l’ammiraglio Bomilcare gli recò da Cartagine un piccolo rinforzo di quattromila uomini con quaranta elefanti, ma intanto una flotta punica diretta in Sardegna per sbarcarvi un importante corpo di truppe venne annientata dalle navi romane con la perdita di tutta la spedizione. La flotta romana incrociava a ridosso delle coste italiane e siciliane, sorvegliando i movimenti navali del nemico. Come forze mobili in Italia operavano quindici legioni: due a Roma, sei in Campania e una nel Piceno, più altre sei di nuovissima formazione (52). Annibale si muoveva liberamente nel sud, ma veniva tenuto a debita distanza sia da Roma sia da obiettivi strategici decisivi. Ciò consentì ai Romani di rinsaldare il quadro delle loro pericolanti alleanze nella penisola. Ancora nel 215 Annibale stipulò personalmente un’alleanza col giovane sovrano Filippo V di Macedonia. Ciò scatenò la prima guerra macedonica tra Filippo e Roma, ma non produsse alcun effetto reale rispetto alla situazione sul campo (53). Annibale tentò per quattro volte di raggiungere da Capua il litorale campano, che distava appena venticinque chilometri. ma ogni volta fallì l’obiettivo. Tra l’anno 214 e il 213 la guerra si trascinò nella pania del logoramento. I Romani controllavano le strade e si appoggiavano su una rete di centri fortificati che resistevano pur nell’ambito dei territori occupati da Annibale. La superiorità numerica, fortissima nello spiegamento generale di scacchiere, consentiva loro di imporre al nemico la micidiale strategia del temporeggiamento, che consumava le scarse forze di AnniAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 bale sottraendogli la possibilità di misurarsi in uno scontro decisivo. Annibale, da parte sua, non si arrischiava nemmeno a stringere d’assedio le piazzeforti alleate dei Romani: non aveva l’equipaggiamento, né a tale scopo poteva distaccare contingenti troppo numerosi. Ad Annibale veniva meno il vantaggio della mobilità. Roma metteva in campo forze sempre più numerose e poco alla volta iniziava a riprendersi il territorio perduto. Un corpo di quattro legioni era schierato davanti a Capua, un altro di eguale consistenza fronteggiava Annibale in Apulia. Verso la fine dell’anno 216 era morto Gerone di Siracusa e dopo un periodo di torbidi civili la città (una vera metropoli dell’epoca, di importanza paragonabile a quella di Cartagine e di Roma) si era alleata con Annibale. Da Siracusa l’influenza cartaginese si era diffusa come in una vampata per tutta la Sicilia ridestandone le mai sopite inclinazioni antiromane, fino a minacciare i muniti presidi che i Romani avevano stabilito sull’isola. Nel 213 due eserciti e una flotta, al comando di Marco Claudio Marcello, posero uno stretto assedio alla città. Bomilcare vi sbarcò aiuti, mentre Archimede collaborava alla difesa coi suoi straordinari congegni. Una forza cartaginese di soccorso, approdata presso Agrigento, diresse a est ma venne affrontata e sconfitta da Marcello in battaglia campale. Siracusa cadde infine, nella primavera del 212. Poco prima che ciò accadesse, i Tarantini erano insorti contro il presidio romano, che si era rinchiuso nella rocca, e avevano aperto le porte ad Annibale. Le città greche del golfo, da Metaponto a Turi, avevano seguito in blocco. Taranto era la terza città dell’Italia romana e costituiva con Siracusa una coppia di porti essenziale per Annibale. Tuttavia non fu possibile venire a capo della resistenza dei cinquemila Romani rinserra- (50) L’antico insediamento etrusco di Felsina fu conquistato dai Celti Boi attorno all’anno 350 a.C. e ne divenne il principale centro. I Romani lo espugnarono, insediandovi la propria colonia di Bononia (oggi: Bologna), solo nel 189. (51) Dal greco ∆αυνιοι, nome col quale i greci designavano gli abitanti della regione compresa tra i fiumi Ofanto e Fortore (attualmente: Puglia settentrionale). Assieme ai Messapi e ai Peucezi erano parte degli Iapigi, che i Romani chiamarono Apuli. (52) Altre forze erano impegnate nella penisola iberica, in Padania, in Sicilia e in Sardegna. (53) Un’offensiva di Filippo contro la base romana di Apollonia, situata alla foce del fiume Vojussa (attualmente Albania), proprio di fronte a Brindisi, fallì miseramente. Quaderni Padani - 23 ti nella cittadella che dominava l’accesso al porto, quindi Annibale fece transitare le navi per l’istmo tra la costa e la rada, sopra enormi rulli di legno appositamente costruiti. Poi una nuova vittoria, significativa ma certamente non decisiva, venne colta da Annibale in Lucania contro le forze di Centenio Penula: il primo vero successo sul campo, dopo quello di Canne. Ma intanto, in quell’anno 212, i Romani avevano stretto le maglie dell’assedio attorno a Capua, su cui premevano ormai con circa cinquantamila uomini. Annibale mandava rifornimenti dall’Apulia. Il suo luogotenente Annone, al comando di una spedizione di vettovaglie, venne attaccato di sorpresa dai Romani e nonostante una valorosa difesa tutto il convoglio andò perduto. Annibale mosse allora personalmente alla testa delle truppe verso la Campania. A Benevento era ad attenderlo Tiberio Sempronio Gracco, già console l’anno prima, per intercettarne la marcia. Era maggio. In un attacco di sorpresa, condotto dalla cavalleria, il comandante romano restò ucciso e le sue forze vennero messe in rotta. Pochi giorni dopo, Annibale entrò per la seconda volta in Capua, accolto come liberatore. E infatti i Romani furono costretti ad allentare la pressione sulla città, che potè riprendere a respirare. Annibale tornò in Apulia a svernare nei primi mesi dell’anno 211 e i Romani ripresero l’assedio a Capua, questa volta munendo le proprie posizioni di opere poderose di circonvallazione e di controvallazione (54). Annibale ritornò in soccorso alla fine di marzo. Tentò inutilmente un attacco di cavalleria appoggiato dagli elefanti. I Romani perfettamente trincerati non si smossero. Su quel terreno non era possibile manovrare per una battaglia campale. Con un lampo di fantasia, Annibale si risolse allora a giocare la carta insidiosa e rischiosa dell’intimidazione strategica. Solo condottieri di eccezionale tempra, nel corso della storia, sarebbero stati capaci di attingere efficacemente a quel difficilissimo repertorio: Napoleone Buonaparte, Robert Edward Lee, Erwin Rommel. L’intimidazione strategica è ti24 - Quaderni Padani “Annibale”, incisione ottocentesca picamente la risorsa ultima del grande generale che, in sensibilissima inferiorità di forze, distoglie l’attenzione del nemico dallo scacchiere principale minacciando un’azione ardita e ficcante diretta al cuore del nemico stesso. Dunque Annibale formò un’agile colonna di uomini scelti, poche migliaia soltanto di fanti a cavalieri, e risalì attraverso le montagne puntando su Roma. Saccheggiando e sterminando, quell’armata si portò fin sotto le mura della città, nella quale il panico già serpeggiava. Annibale mise campo a tre o quattro miglia di distanza, fece scorrerie nei dintorni, in segno di sfida - si favoleggia - lanciò personalmente un giavellotto oltre la cinta. Vi fu qualche scaramuccia con le pattuglie inviate fuori dalle mura. Ma i Romani conservarono il sangue freddo. L’assedio a Capua non fu tolto, solo un pugno di uomini ne vennero distaccati per sorvegliare l’evolversi della situazione. E d’altra parte Roma restava imprendibile. Così Annibale dopo cinque giorni appena levò le tende e si ritirò verso sud. Il neoconsole Publio Sulpicio Galba uscì dalla città con alcuni reparti e attaccò la cavalleria numidica che proteggeva il ripiegamento del grosso, infliggendole perdite. Fattosi baldanzoso, il console proseguì l’inseguimento fino all’altezza del fiume Liri. Allora Annibale ne attaccò il campo in piena notte, disfacendo le sue forze. Poi proseguì la ritirata verso l’Apulia: Capua era condannata, e infatti si arrese alla metà di aprile. Era, quella, la prima vera sconfitta di Annibale in otto anni di guerra. I Romani si abbandonarono a sanguinose vendette, le terre di Capua furono assegnate al pubblico demanio, molti cittadini vennero ridotti in schiavitù. Capua, privata dello statuto municipale e ridotta al rango di piccolo mercato agricolo, non si sarebbe ripresa mai più. (54) In scala minore, ciò che Caio Giulio Cesare avrebbe fatto cingendo d’assedio Alesia nell’anno 52 a.C.. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Pressoché contemporaneamente alla caduta di Capua, tuttavia, un evento insperato venne a risollevare lo spirito e le sorti della parte cartaginese. I fratelli Publio e Gneo Scipione, in due distinte battaglie avvenute a meno di un mese l’una dall’altra, erano stati battuti e uccisi in Iberia da Asdrubale. Le forze al loro comando erano state distrutte. I Romani, che dopo la riconquista di Sagunto avevano iniziato a penetrare in profondità nel territorio controllato dai Cartaginesi, costringendo questi ultimi a dirottare laggiù buona parte dei rinforzi destinati ad Annibale, erano stati costretti a ripiegare a nord dell’Ebro. Un grave colpo, per Roma. Ma dopo la presa di Capua aveva abbondanza di forze e subito mandò Caio Claudio Nerone con buoni rinforzi a Tarragona per tagliare la strada ad Asdrubale. Annibale, da parte sua, dopo il disastro di Capua aveva visto il proprio credito diminuire presso quegli Italici che gli si erano alleati. Si mise a colpire qua e là, in uno spazio sempre più ristretto dopo la perdita della Campania e della Sicilia. Espugnò Reggio, ma nel frattempo altri centri tornavano ai Romani. Nell’estate dell’anno 209, dopo un lungo assedio, cadde anche Taranto per il tradimento del comandante la guarnigione. La città venne saccheggiata, i trentamila abitanti furono venduti come schiavi. Annibale non arrivò a tempo per impedire quel tragico epilogo. E nella primavera dello stesso anno un altro grave rovescio aveva colpito i Cartaginesi in Iberia. Publio Cornelio Scipione, figlio dell’omonimo ucciso nel 211, l’anno seguente era stato designato a soli venticinque anni come nuovo comandante di quel fronte. Con due legioni di rinforzo, era passato all’offensiva. Uscito da Tarragona, l’esercito romano forte di trentamila uomini passò l’Ebro e mentre Asdrubale lo attendeva sui monti piombò su Nuova Cartagine con l’appoggio della flotta e la conquistò d’impeto, prendendo diecimila prigionieri. Ma non era finita: nella primavera successiva 208 a.C. il giovane Scipione sfuggì alla morsa di tre armate nemiche che lo braccavano e grazie a una manovra magistrale, nel perfetto stile di Annibale, pur combattendo con terreno sfavorevole inflisse ad Asdrubale la bruciante sconfitta di Becula, sul Guadalquivir, che costò ai Cartaginesi 8.000 caduti, circa 10.000 prigionieri e soprattutto il controllo dell’importante comprensorio minerario attivato da Amilcare. I Cartaginesi sembravano davvero alle corde. Ma la sorte aveva ancora in serbo delle sorprese. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Nuovamente nella primavera del 208, Annibale si misurò coi Romani sulle alture nei pressi di Banzi, circa 35 chilometri a sudest di Venosa. In uno scontro di avanguardie i due consoli romani in carica, Marco Claudio Marcello e Tito Quinzio Crispino, persero la vita. Il loro esercito viene sbaragliato. Una fulgida vittoria, che tolse di mezzo uno degli uomini-simbolo del nemico, quel Claudio Marcello già occupatore di Milano che in seguito, durante la guerra contro Annibale, non aveva perso l’occasione di accumulare profitti personali in Sicilia (55). Alle soglie dell’autunno successivo Asdrubale, apparentemente ridotto sulla difensiva e respinto dalla costa sulle montagne, riuscì a filtrare attraverso lo schermo approntato dai Romani e, portatosi all’estremo nord fin sull’Atlantico, valicò i Pirenei passando in Aquitania. Qui svernò con le sue truppe per poi discendere in Occitania nella successiva primavera del 207 e riprendere grosso modo il cammino già percorso da Annibale quasi undici anni prima dal Rodano alle Alpi. Asdrubale le valicò ad aprile, con pochi danni, e a maggio era sul Po con trentamila uomini e una trentina di elefanti. Erano due anni che Annibale, secondo le intese, lo attendeva. Nella Padania celtica, escludendo le terre dei Cenomani (56), i Romani tenevano ormai soltanto le colonie-fortezze di Cremona e Piacenza. Asdrubale tentò inutilmente di assediare quest’ultima e ci perse un mese. Ma nel frattempo nuovi combattenti padani accorsero tra le sue schiere, e tra questi un agguerrito contingente di ottomila Liguri. Rinforzato così l’esercito, alle soglie dell’estate Asdrubale mosse verso sud per unire le proprie forze a quelle del fratello. L’ultima occasione: il Metauro In quell’anno 207 Roma aveva alle armi qualcosa come ventitré legioni, per complessivi duecentomila uomini circa. Otto erano dislocate in Iberia e nelle isole. Tre se ne stavano di riserva a Roma e a Capua. In campo contro i due fratelli (55) A vergogna di Milano, tuttora una via cittadina risulta intitolata a questo tristo individuo al quale più appropriatamente dovrebbe essere intitolata un’epigrafe di esecrazione. (56) I Cenomani, una comunità celtica appartenente alla confederazione degli Aulerci, originariamente stanziata tra la Loira e la Senna nella regione di Maine, verso il 400 a.C. trasmigrò in Padania venendosi a stabilire tra l’Adige e l’Adda, in un’area approssimativamente definita dalle attuali città di Brescia, Verona, Cremona. Alleati di Roma dal 225 a.C., furono gli unici Celti padani a non insorgere al fianco di Annibale durante la seconda guerra punica. Quaderni Padani - 25 Barca ne erano schierate dodici, al comando dei due consoli neoeletti Caio Claudio Nerone e Marco Livio Salinatore. Nerone con sei legioni era attestato a Venosa, in faccia ad Annibale. Salinatore con le altre sei tra Rimini e Arezzo, cioè sulla nuova linea di confine oltre la quale i Romani, cacciati dalla Padania, erano stati ributtati. I messaggi inviati ad Annibale dal fratello per Statuina proveniente dagli scavi di Pompei che raffigura un elefante da guerra (uno dei simboli dell’impresa annibalica in Italia) e un soldato annunciare il suo arrivo furono intercettati dai Romani. Asdrubale intraprese quindi la marcia all’insaputa di Annibale. Se i due eserciti fossero riusciti a riunirsi, la guerra avrebbe potuto subire una svolta decisiva. I Romani erano ben decisi a impedirlo. Non appena Asdrubale piegò verso la costa adriatica mossero le proprie pedine. Le due legioni dislocate a Rimini agli ordini del pretore Porcio Licinio ripiegarono lentamente davanti al nemico per rallentarne la marcia, mentre il grosso dell’armata di Livio Salinatore lasciato un presidio di forze ad Arezzo a sorve26 - Quaderni Padani gliare l’Etruria inquieta - a tappe forzate puntò su Senigallia. Le opposte forze pervennero a fronteggiarsi sul fiume Metauro, a mezza strada circa tra Fano e Fossombrone, a una quindicina di chilometri dalla costa. Salinatore aveva raggiunto Licinio e dunque aveva alla mano circa trentamila uomini. Asdrubale, da parte sua, era arrivato fin lì con una forza leggermente superiore, recando seco una decina di elefanti superstiti. I due schieramenti ristettero l’uno in faccia all’altro, cercando Asdrubale di comprendere le reali intenzioni del nemico. Nel frattempo l’altro console Nerone si muoveva verso nord con un corpo scelto di ottomila uomini, lasciando il grosso dei suoi a trattenere Annibale in Daunia. Le fila di questo reparto si ingrossarono notevolmente per via. Con un’incredibile marcia di soli dieci giorni, compiuta al ritmo di diciotto ore al giorno e in aperta violazione delle prescritte procedure (57), Nerone raggiunse il collega assicurando a Roma la superiorità numerica sul campo. E’ stimato che a questo punto i Romani disponessero di circa quarantacinquemila uomini, gli alleati di trentacinquemila. Si era alla fine di giugno. I Romani erano attestati sulla riva destra del Metauro, dunque a sud del corso del fiume, dalla parte di Fano, volgendo le spalle alla costa e tenendo sotto controllo sia la strada costiera adriatica sia la via Flaminia nell’importante tratto che da Fano adduceva verso l’interno (58). Asdrubale aveva messo campo sulla riva sinistra, a nord del fiume, dalla parte di Fossombrone, con le spalle coperte dalle alture e il corso d’acqua tra sé e il nemico: una posizione forte, che com’era nelle sue abitudini aveva scelto con cura, funzionale al suo disegno di lasciare ai Romani la prima mossa per poterli prendere in contropiede. Ma quando essi, non potendo indugiare con il pensiero rivolto ad Annibale lontano, si schierarono in ordine di battaglia, Asdrubale si accorse che cospicui rinforzi si erano aggregati all’esercito nemico e riconobbe la propria sopravvenuta inferiorità numerica. Si trin(57) Era assolutamente vietato ai consoli in carica di abbandonare le province assegnate e soprattutto di portarsi in quelle attribuite al collega, senza la speciale autorizzazione del Senato. (58) La via Flaminia metteva in collegamento Roma con Rimini attraversando le terre della Sabinia e dell’Umbria. Raggiungeva la costa a Fano e da lì piegava verso nord lungo il mare dirigendo verso Rimini. Fano era quindi un’importante snodo strategico per un esercito che volesse marciare verso sud, da lì potendo scegliere se procedere per via di costa o inoltrarsi invece nell’interno. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 cerò allora nel proprio campo che era ben munito e che i Romani non osarono attaccare d’impeto. Non appena scese l’oscurità, Asdrubale guidò i suoi lungo il fiume verso l’interno, cercando un guado per aggirare lo sbarramento nemico e proseguire verso l’Umbria. Non sapeva che i suoi messaggi ad Annibale erano stati intercettati, pensava che il fratello stesse dirigendosi all’appuntamento, fissato nei pressi di Narni. Sperava di sgusciare silenziosamente sotto il naso dei Romani, invece smarrì la via e vagò inutilmente per tutta la notte, stancando gli uomini e logorandone il morale. I Celti, poco inclini alla disciplina rigida e innervositi da quell’inconcludente andirivieni, si staccarono riportandosi in cima all’altura ove erano stati accampati il giorno prima. Al sorgere del sole i Romani passarono il fiume in forze, con la cavalleria in testa, portandosi a ridosso del nemico. Asdrubale ritenne impossibile proseguire il ripiegamento sotto l’assillo del nemico e immediatamente si risolse a combattere. Entrambi gli eserciti si trovavano a nord del fiume, al quale gli alleati davano la destra e i Romani la sinistra. Il luogo era ricompreso, approssimativamente, tra due modesti affluenti del Metauro, il Maggiore e lo Scarlino, poco a sud della località di Tavernelle, a cavallo della via Flaminia. Asdrubale lasciò che i Celti restassero a presidio del colle, probabilmente il Monte degli Sterpeti, che copriva la sinistra del suo schieramento. Da lì il terreno digradava al fiume in pendio per una distanza di millecinquecento metri circa. Asdrubale occupò quel pendio per costringere i Romani ad attaccare dal basso e dispose la propria linea di combattimento con i Liguri al bordo dell’altura a tenere il centro, mentre la destra che appoggiava al fiume era costituita dagli Iberi e dalle truppe d’Africa. I Romani mossero in avanti, con Nerone alla destra in faccia ai Celti, Licinio al centro contrapposto ai Liguri e Livio Salinatore alla sinistra, un po’ più avanzato. Egli infatti venne subito a contatto con la destra di Asdrubale, che validamente resistette. Poi fu Licinio ad attaccare al centro, ma anche i Liguri non cedettero terreno. In quanto a Nerone, tentò di risalire l’altura tenuta dai Celti ma questi ripetutamente lo respinsero con micidiali lanci di giavellotti e macigni. Le sorti della battaglia, nonostante la netta superiorità numerica dei Romani, erano in equilibrio. Asdrubale tentò allora il colpo a sorpresa: si mise alla testa della cavalleria e condusse un attacco lungo il fiume, tentando di agAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 “Annibale guarda la testa di Asdrubale”, Giovan Battista Tiepolo, 1725-1730 (Vienna, Kunsthistorisches Museum) girare il nemico sulla sinistra. Ma la sua mossa non fu abbastanza rapida, i Romani riuscirono a bloccarla. A quel punto l’iniziativa passò di mano: mentre la battaglia infuriava su tutto il fronte, Nerone che a differenza dei colleghi non era impegnato a contatto fisico col nemico essendo tenuto a distanza dai getti dei Celti, lasciò in posizione una forza di copertura e sfilò col grosso dei suoi alle spalle dello schieramento amico, portandosi dalla parte del fiume e assalendo di fianco la destra alleata nel momento in cui essa più duramente era impegnata a fronteggiare l’attacco di Salinatore. Una mossa di Quaderni Padani - 27 scuola annibalica, che decise la battaglia. La destra di Asdrubale fu sospinta in disordine addosso al centro ed entrambi i settori, sopraffatti dal numero, vennero annientati. I soldati alleati combatterono con valore fino all’ultimo e caddero quasi tutti sul posto. Asdrubale si avvide della catastrofe e senza esitare andò a cercare la morte spronando con la spada in pugno nel folto delle schiere nemiche. I Celti soccombettero per ultimi: quando già tutti gli altri erano stati massacrati, le soverchianti forze nemiche accerchiarono la loro posizione e li sterminarono. La battaglia del Metauro costituì una vera svolta, forse il secondo momento veramente decisivo della campagna dopo quello della discesa dalla Padania in Italia di dieci anni prima. Se Asdrubale l’avesse vinta, o se soltanto fosse riuscito a passare e a raggiungere il fratello, le sorti di tutta la guerra avrebbero potuto essere rovesciate. Quando, alcuni giorni dopo, la testa di Asdrubale venne gettata da un cavaliere romano nel campo di Annibale, come macabro araldo di un inopinato disastro (59), egli pianse per il dolore e per la rabbia. La guerra si sarebbe trascinata per cinque anni ancora, in Italia, in Iberia e in Africa. Cinque anni di lotta disperata che si sarebbe conclusa, sulla piana di Zama (60), nell’ottobre dell’anno 202. Ma in quell’estate del 207, con ogni probabilità, le sue sorti furono definitivamente segnate. La Padania celtica aveva vissuto la propria Alesia (61) ante litteram. Alcune considerazioni conclusive Come sempre accade, sono i vincitori a scrivere la storia. E d’altra parte pochi, tra i personaggi storici di primo piano, furono vittime nella misura di Annibale della damnatio memoriae che solitamente è decretata in danno dei vinti. Non esiste quindi, della guerra annibalica, alcuna versione di parte cartaginese (62). Molti autori si occuparono del conflitto tra Cartagine e Roma, quattro soli però sono quelli noti che scrissero in dettaglio della vita di Annibale: Polibio, Tito Livio, Cornelio Nepote e Lucio Anneo Floro. Polibio (201 circa - 118 circa a.C.) era greco e fu tradotto come ostaggio a Roma, ove divenne amico di Scipione Emiliano e di Fabio Massimo e ammiratore dei Romani. Fu testimone oculare della distruzione di Cartagine (146 a.C.) e nelle sue Storie magnificò i destini di Roma conquistatrice. Tito Livio (59 a.C. circa - 17 d.C.) era padovano e visse in epoca augustea. Scrisse una monumentale storia di Roma in 142 libri (Ab Urbe condita libri) dedicata al primo popolo dell’universo e che gli storici considerano d’intenti “moralistici e patriottici”. Nonostante l’evidente inclinazione agiografica, forse dipinse di Annibale, come persona, il ritratto meno smaccatamente partigiano. Di Cornelio Nepote (tra il 98 e l’86 a.C. - tra il 42 e il 32 oppure nel 25 a.C.), mantovano di Ostiglia, sono pervenuti solo frammenti della principale opera De viris illustribus, tra i quali il libro III che contiene un capitolo piuttosto sintetico sulla vita di Annibale. In quanto a Floro, un latino di origine africana vissuto nel I o nel II secolo d.C., se ne sa abbastanza poco. Fu amico dell’imperatore Adriano e scrisse la Epitome o Compendio di storia romana dalle origini fino al tempo di Augusto. Da queste fonti, oltre che da alcune ricostruzioni moderne principalmente effettuate da storici militari, è attualmente possibile ricavare le nostre conoscenze della guerra condotta da Annibale in Padania e in Italia. I limiti di obiettività degli storici latini o latinizzati sono eviden- (59) Il “barbaro” Annibale, spietato odiatore dei Romani, aveva sempre onorato in morte i suoi nemici: Caio Flaminio caduto al Trasimeno, Paolo Emilio morto a Canne, Sempronio Gracco ucciso a Benevento. Di Claudio Marcello, perito nello scontro di Banzi, inviò addirittura a Roma le ceneri racchiuse in un’urna d’argento. Agli stessi Celti, ai quali spesso si rimprovera di essersi fregiati delle teste dei nemici uccisi e di avere praticato sacrifici umani, si riconosce di non avere coltivato siffatte pratiche per efferatezza, bensì per mere finalità rituali e religiose (non a caso i Celti furono una delle pochissime nazioni dell’antichità a ignorare la pratica della tortura sui nemici). La fredda brutalità dei “civili” Romani, asseriti iniziatori e maestri in materia di diritto, attesta di converso la selvaggia natura del loro espansionismo aggressivo. (60) Secondo alcuni storici, nella località di Naraggara. (61) Fu ad Alesia, nell’anno 52 a.C., che con la sconfitta del capo Vercingetorix ebbe fine la tenace resistenza antiromana dei Celti transalpini. La circostanza è particolarmente nota in quanto esaltata da Caio Giulio Cesare, vincitore della battaglia, nel “De bello gallico”. L’antico sito di Alesia trovasi in località Alise-Sainte-Reine, nella Cote d’Or, circa dodici chilometri a nordest di Sémur, nell’attuale regione della Borgogna. (62) Alla partenza della sua spedizione, Annibale condusse seco due memorialisti di lingua greca, lo spartano Sosilo e il siculo Sileno, che certamente annotarono i fatti dei quali furono testimoni accompagnando l’esercito, ma di tali opere non resta nulla (probabilmente scomparvero nel giro di pochi decenni), anche se Polibio e il suo contemporaneo Celio Antipatro forse poterono consultarle. 28 - Quaderni Padani Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 ti (63). In quanto alla parte avuta dai Celti nella seconda guerra punica e nelle coeve vicende, le notizie sono ancora più frammentarie e tendenziose, tant’è che ogni ricostruzione pur se modesta non può non basarsi sul duplice procedimento del filtro e della giustapposizione di testimonianze coeve. D’altro luogo, la drammatica carenza di attendibile documentazione scritta costituisce un limite purtroppo ormai noto nella esplorazione analitica della storia delle comunità celtiche. L’aspetto politico dell’azione intrapresa dai Celti di Padania nella guerra di Annibale è evidente, non necessita di commenti: tale azione costituì l’ultimo tentativo su vasta scala di preservare la propria indipendenza e quindi anche pur se non del tutto consapevolmente - la propria identità etnica. Certamente comunque fu una lotta per la libertà. Se Annibale, dopo i primi successi, non avesse deciso di portare la guerra in Italia, forse il conflitto avrebbe avuto esito diverso. Forse le terre padane avrebbero preservato la propria indipendenza, o forse no. Comunque, la loro storia e i loro destini avrebbero preso un’altra piega. Non si può dire che tra Cartaginesi e Celti, pur nei comuni destini della guerra, sia mai esistita una “intesa etnica”. I due popoli, come si è visto, erano tra loro assai diversi nelle radici, nelle indoli, nelle mentalità, nei comportamenti sociali. È anzi possibile che per alcuni aspetti particolari, come le fonti classiche lasciano fuggevolmente intendere, Annibale diffidasse un poco degli alleati. Purtuttavia il quadro relazionale che si compone a una meditata lettura delle vicende è connotato da rispetto e considerazione reciproci. Né i rapporti tra i Celti e il condottiero punico avrebbero potuto durare tanto a lungo nel tempo e resistere alle avversità della fortuna, se così non fosse stato. Può essere che la convergenza degli intenti fosse inizialmente dovuta a considerazioni di opportunità immediata (per i Celti la libertà da Roma poteva ben valere l’alleanza con qualunque nemico del nemico), ma che poi essa definitivamente si temprasse via via che la durezza del conflitto metteva alla prova e rinsaldava i propositi antiromani e la combattività di entrambi gli alleati. In quanto al ruolo più strettamente militare assolto dai Celti nel corso della guerra, alcuni aspetti meritano un cenno di approfondimento. Del pari ai cugini Germani, i Celti non costituivano un popolo guerriero. Essi erano soprattutto dei contadini, le migrazioni e le guerre Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 erano causate dalla necessità di terre da coltivo e da pascolo. Il loro comportamento in battaglia, oltre che dall’indubbio coraggio individuale, era determinato da diversi fattori. La predisposizione fisica, innanzitutto. Non pare azzardato estendere in via generale ai Celti quelle stesse caratteristiche che Tacito attribuisce ai Germani: “... grandi corporature adatte soprattutto al primo assalto. Non altrettanto resistenti ai lavori assidui, né in grado di sopportare la sete e il caldo, assuefatti al freddo e alla fame per via del clima e del territorio” (64). Dipoi la struttura sociale. È noto come i Celti fossero del tutto insofferenti ai rigori della disciplina, non fu un caso se essi mai costituirono uno stato in senso proprio né un esercito permanente. Percepivano i legami di comunità (famiglia, consanguineità, villaggio, tribù), ma non già una qualche forma di “nazione celtica”. Anche in questa carenza d’identità etnica erano simili ai Germani. Combattevano quindi essenzialmente organizzati in bande tribali e il coordinamento faceva spesso difetto. Tra i Celti occidentali, quindi anche tra i Padani, in periodo di pace normalmente non esistevano forze militari di sorta. Era l’assemblea che dichiarava lo stato di guerra e mobilitava secondo necessità i guerrieri della tribù. A differenza dei Germani primordiali, presso i quali era la fanteria a costituire il nerbo dell’esercito (65), i Celti erano cavalieri di eccezionale abilità e non a caso i guerrieri a cavallo erano considerati presso le comunità continentali e soprattutto presso quelle occidentali un gruppo sociale eminente, d’importanza di poco inferiore - se non addirittura pari - a quello dei Druidi. Da Pausania (66) viene ripreso il vocabolo celtico trimarcisia (usato nel II secolo a.C.) che indicava un tipico gruppo di tre uomini a cavallo, costituito da un combattente nobile e da due “assistenti”. (63) Gli autori maggiormente consultabili sono Tito Livio e Polibio. Il primo appare nettamente di parte. E’ lo stesso intento di esaltare Roma (non va dimenticato che scrisse in epoca imperiale) che spinge Livio a non sminuire la grandezza di Annibale e a dipingerlo sostanzialmente come un degno avversario. Polibio fu quasi contemporaneo di Annibale (alla sua morte aveva diciotto anni) e, pur essendo praticamente romano d’adozione, nell’impianto storiografico generale appare un po’ meno condizionato di Livio dal pregiudizio di parte. (64) Tacito, Germania, IV. (65) Tacito, Germania, VI. (66) Geografo e scrittore greco di origine libica, vissuto nel II secolo a.C., autore dell’Hellados Periegesis, una completa panoramica della Grecia in età classica. Quaderni Padani - 29 Le armi offensive maggiormente utilizzate in battaglia dai combattenti Celti nel periodo della guerra annibalica erano la spada di ferro a doppio taglio, munita di fodero cinturato e lunga anche più di ottanta centimetri, ideale quindi per il combattimento di cavalleria, e la picca o lancia che poteva essere in metallo fuso, della quale si conoscono tre o quattro sottotipi e che tutta completa poteva superare i due metri di lun- ro e da una spina di rinforzo, solitamente aveva uno spessore di poco più di un centimetro al centro e di pochi millimetri ai bordi. Solo in un secondo tempo l’umbone protettivo venne manufatto in metallo, e furono aggiunti un rinforzo centrale e una fascia di rinforzo parafendenti ai bordi, anch’essi in metallo. Ma lo scudo celtico restò fragile e spesso in battaglia veniva dismesso per non essere d’impaccio ai combattenti, se non addirittura utilizzato esso stesso come arma da colpo. Tutto ciò a riconferma di un pensiero militare certamente volto all’offensiva e non alla difensiva, di una decisa inclinazione all’assalto risolutivo piuttosto che a manovre di copertura o a complesse tattiche temporeggiatrici, di una naturale ritrosia a quelle forme coartanti di disciplina che costituivano invece il vero segreto degli eserciti di Roma (67). L’impeto militare dei Celti raggiunse l’acme nell’uso dei carri da guerra ( 68), che venivano lanciati en masse contro lo schieramento avverso eruttando una tempesta di dardi e proiettili di ogni tipo, Rovine sulla collina di Byrsa, l’antico sito della città di Car- mentre i corni di guerra suonatagine vano la carica e dai combattenti si levavano grida terrificanti allo ghezza. In alcuni casi essa era munita di tallone scopo di atterrire ancor più il nemico. Quando per un migliore ancoraggio nel terreno quando era opportuno, il guerriero portato da ogni carro doveva esservi conficcata in funzione difensiva, poteva poi smontare e proseguire il combattial fine di ostacolare l’avanzata del nemico. I lan- mento a piedi, mentre il conducente lo attendeva cieri tra l’altro costituivano una componente col veicolo fuori dalla mischia per recuperarlo in fondamentale dell’armata. Lo scudo ebbe larga seguito. Lo stesso Giulio Cesare testimoniò il vadiffusione in epoca relativamente tarda (dalla lore in guerra dei Celti, che fu persino superiore metà del III secolo a.C. circa) e offriva una prote- a quello dei Germani fin quando la contaminazione piuttosto debole: in legno, nella tipica for- zione romana non apportò le mollezze tipiche di ma allungata (anche oltre un metro) e con gli uno stile di vita più agiato conducendo i Celti a angoli arrotondati, retto da un’asse di legno du- una rapida decadenza. Ma nel III secolo a.C. i (67) Il “modus pugnandi” degli armati celtici differiva da quello dei romani proprio in questo: per gli uni la virtù di guerra risiedeva nel coraggio personale e nel valore del singolo combattente, per gli altri nella disciplina collettiva inculcata da un addestramento omologante. Tale disciplina rendeva possibile l’esecuzione di manovre abbastanza complesse nella mischia, senza che venisse meno la coesione della formazione di combattimento. Il valore individuale passava in secondo piano. Quello tipico dei Celti alla lunga si rivelò insufficiente per battere una siffatta, brutale macchina. (68) Il carro da guerra a due ruote entra in uso già verso la fine del V secolo a.C. e viene certamente adottato dai Celti oc- 30 - Quaderni Padani cidentali. Durante la cosiddetta guerra gallica, è utilizzato contro le legioni di Giulio Cesare. Tuttavia è in Britannia che esso viene impiegato con maggiore frequenza e per più lungo tempo, fino in epoca relativamente tarda. Non esistono attestazioni specifiche dell’uso di tali carri da parte dei Celti durante le battaglie ascrivibili alla guerra annibalica, mentre essi dovrebbero essere stati impiegati in altri scontri pressoché coevi in Padania e in Italia, per esempio nella campagna del 225 a.C. culminata nella disfatta di Talamone e nella sanguinosa campagna di riconquista romana della Padania successiva alla ritirata di Annibale in Africa (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXXII, 30, 4-12). Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Celti erano considerati combattenti temibili. celtiche, cioè le caratteristiche attitudinali proQuando Annibale, ancora sottordine al padre prie di esse truppe. I Celti non erano rigidamenAsdrubale, aveva messo mano alla riforma del- te inquadrati né particolarmente disciplinati; l’arruolamento in Spagna, i reparti mercenari non potevano soffrire le severe costrizioni militaerano stati costituiti con distinti compiti, sulla ri, non potevano contare su un sistematico addebase delle più spiccate attitudini militari delle di- stramento. Erano fisicamente forti, impetuosi verse etnie: i Baleari - esperti frombolieri - per il nell’assalto, coraggiosi nel corpo a corpo, ottimi combattimento a distanza, i Numidi per le loro cavalieri. Nella guarnigione, nella difesa, nel agili tattiche di cavalleria, mantenimento di una posigli Iberici per la resistenza zione statica non erano alnel combattimento di fantetrettanto idonei. La loro orria (69) e i Celti per i gruppi ganizzazione e il loro ard’assalto. Per la funzione, mamento, la loro stessa cioè, che più si attagliava alcultura guerresca, li rendele loro virtù di guerra. vano combattenti diversi Truppe celtiche furono tanto dai Romani quanto con Annibale, in misura didai Cartaginesi stessi. A versa, in tutto il lungo ciclo Canne Annibale li schierò della lotta antiromana: dalnel punto più esposto, ove l’assedio di Sagunto (219 maggiori si attendeva le a.C.) fino alla battaglia di perdite. Ma era anche il setZama (202 a.C.) ( 70 ). Per tore più delicato di tutta la quanto è noto, queste trupmanovra, tanto è vero che pe vennero sistematicamenne assunse personalmente te adibite alle funzioni più il comando. E sotto la sua rischiose, impiegate nelle guida i Celti sostennero il posizioni più esposte. Qualpeso dell’attacco principale cuno ha creduto di vedere, delle legioni senza scompain questo, il segno di una Statuetta di cavaliere cartaginese ginarsi, rincularono tenenscelta cinica che Annibale do lo schieramento e detteavrebbe effettuato per risparmiare i propri vete- ro prova di una capacità di resistenza difensiva rani iberici e libici (71). Certamente Annibale fu addirittura inusitata rispetto alle loro tradizionatattico accortissimo e sufficientemente cinico da li tecniche di combattimento. Senza tale coragsacrificare deliberatamente aliquote delle sue giosa tenacia la battaglia avrebbe avuto un esito truppe in funzione dell’ambita vittoria. D’altra diverso. Bastò per vincere la giornata, non la parte la posta in gioco era immensa, né gli usi guerra. E l’epilogo fu tragico per l’uno e per gli militari dell’epoca tenevano in qualche conto l’a- altri. spetto umano delle perdite in guerra. Ciò nondiAnnibale morì suicida nel 183 a.C. per non cameno, questa interpretazione alla luce dei fatti dere nelle mani dei suoi eterni nemici. appare limitata e parziale. Non considera cioè un Tredici anni prima, con la seconda caduta di altro fattore importante, che potrebbe avere in- Milano, il sogno di libertà dei Celti padani era dotto Annibale a un siffatto impiego delle truppe stato definitivamente cancellato . (69) Presso gli Iberi, verso la fine del III secolo a.C., la fanteria costituiva il nerbo della truppa, mentre piccoli cavalli venivano solitamente usati per l’esplorazione o tutt’al più per l’inseguimento. L’armamento di alcune popolazioni della costa si distingueva da quello tipico iberico per l’evidente l’influenza celtica, essendo costituito da grandi scudi, grandi spade, elmi di ferro o di bronzo (Museu Historico de Catalunya, Barcelona). (70) Sul campo di Zama, nell’ultima disperata battaglia, a fianco dei Cartaginesi e dei loro alleati africani combatterono, tra gli altri, Iberi, Liguri e Celti. Tra questi ultimi, provenienti dalle terre a nord e a sud delle Alpi, erano unità di Insubri. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 (71) Nel suo libro Annibale (Casini, Bologna, 1968), Gilbert Charles-Picard scrive: “I barbari sono la forza ausiliaria, reclutata quando sta per affrontare un nemico numeroso, licenziata quando si deve affrontare una marcia troppo lunga, spietatamente sacrificata alle esigenze tattiche: nelle grandi battaglie Annibale fa sempre massacrare scientemente i soldati indigeni, specialmente i Galli. L’originalità della manovra, come quella di Canne, è fondata in realtà sul disprezzo per l’elemento barbarico, che viene utilizzato come esca per attirare il nemico in trappola, e lasciato massacrare per stancare i legionari, prima di gettare nella mischia la “vecchia guardia”. Quaderni Padani - 31 Una riflessione sul modello di koiné padana proposta dal Guazzo di Andrea Rognoni U n modello cui guardare con interesse da parte di tutti quelli che credono possibile il formarsi, o meglio, il riformarsi, di una koinè linguistica padana, in grado di far parlare un’idioma comune alla maggior parte degli abitanti della nostra terra, è contenuto nel testo cinquecentesco “Civil conversazione” del Guazzo. Stefano Guazzo nacque e crebbe a Casale Monferrato, in tempi di marchesato, ma ebbe modo di viaggiare e soggiornare presso molte corti padane, da Mantova a Pavia. L’opera ed il pensiero del Guazzo vanno inquadrati nel vasto e complesso dibattito attorno alla “questione della lingua”, che dominava la scena culturale padana ed italiana nel Rinascimento. I maggiori scrittori e trattatisti che si erano cimentati nella discussione rispondevano al nome di Pietro Bembo e Giangiorgio Trissino, veneti, Girolamo Muzio, lombardo e benedetto Varchi, toscano. Quest’ultimo difendeva a spada tratta il modello fiorentino ancor più di come aveva fatto il Bembo, Trissino proponeva un italiano delle corti e il Muzio sottolineava il ruolo del superstrato germanico nella formazione della lingua parlata nell’Italia settentrionale e in Toscana. Una certa divergenza di opinione era presente anche tra quelli che sottolineavano il ruolo paradigmatico della lingua scritta e letteraria e coloro che tendevano a valorizzare anche il linguaggio popolare e parlato, patrimonio di più vasti ranghi rispetto alle scelte lessicali e sintattiche di Dante ed Ariosto (nella stessa Toscana c’era chi difendeva il modello senese come esempio di lingua popolare rispetto al fiorentino colto, che grazie alla fortuna poetica aveva assunto ormai un assetto molto diverso rispetto al vero e proprio vernacolo di Firenze, rifiutato tra 32 - Quaderni Padani l’altro anche dai predicatori ecclesiastici arrivati in Toscana dalla Padania). Il dialogo “Civil Conversazione “(1574) del Guazzo fornisce un contributo importanissimo alla chiarificazione della necessità di prendere in considerazione sia la lingua scritta che la lingua parlata. La prima, secondo Guazzo, poteva benissimo essere quella toscana di ispirazione letteraria; ma la seconda avrebbe dovuto tener conto della lingua effettivamente parlata nelle corti e nella città di una determinata area italiana, ad esempio del territorio padano: esiste infatti secondo il linguista piemontese un tipo di conversazione quotidiana che non potrà mai venire sostituita da un modello arrivato da ambienti esterni a quello padano ed imposto in maniera artificiosa da chi considera più bella la lingua letteraria rispetto a quella del popolo. Quest’ultimo assioma parte da un’intuizione mirabile e realistica, destinata a rimanere valida ancora oggi di fronte al prepotere del codice massmediale: la conversazione “civile”, cioè della comunità di appartenenza e dell’insieme di comunità che riconoscono un unico denominatore comune sulla base di una reale affinità linguistica, deve continuare a venire esercitata (e quindi insegnata), con spirito alternativo alla comunicazione scritta (peraltro utilissima come codice franco rispetto a tutte le nazioni diverse dalla nostra “naturale”), altrimenti non sarà più possibile il dialogo tra persone della stessa etnia, private della loro naturalezza e vittime pertanto di una cattiva intesa. Secondo il Guazzo pochissimi sarebbero stati in grado di parlare “schietto”, cioè secondo il vero modello toscano, creando così una elite innaturale,lontana dagli usi, dai costumi e dal pensiero del popolo e della comunità. Ecco allora la Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 necessità di parlare con una lingua “mista”, composta cioè da elementi lessicali, morfologici e sintattici tratti dai dialetti consimili e capaci di permettere la comunicazione a livello sovraregionale, anche attraverso un moderato adattamento fonetico, che non superasse cioè la soglia della naturalezza fisiologica ed espressiva. “Soglia di naturalezza fonetica”. Ecco un concetto fondamentale che deve indurci a riflettere sull’assurdità dell’operazione condotta dopo la costituzione del regno italiano nel tentativo di far parlare con lo stesso insieme di suoni popolazioni che sono state costrette a superare chiaramente la soglia della naturalezza. Imporre una fonetica comune a padani e ausonici rappresenta una sorta di “atto contro natura” perché infrange vistosamente le leggi di questa soglia. “Scrivere come si dee, parlar come si suole”. La massima guazzana condanna l’uso parlato dello stesso toscano e si rifà ad una specie di diritto comunitario dei popoli padani, ad una tradizione che nessun progetto politico può annullare, anche se il vantaggio derivante dalla convivenza tra regioni affini consiglia di creare Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 una Koiné pragmatica. Ma -ecco il punto- quali devono essere le regole di questa koiné? Guazzo ha le idee chiare, almeno in campo lessicale, idee che potrebbero valere ancora oggi, assieme ad altre soluzioni di sintassi e morfologia, per la costruzione della lingua padana. Ci sono molti vocaboli che, nella loro inconfondibile bellezza, sono pressoché uguali in tutti i cosiddetti dialetti della Padania. Ad esempio “tempesta”, al posto del lessema toscano “bufera”, è presente dal Monviso a Trieste e possiede un determinato campo semantico che caratterizza secondo la padanità un certo tipo di avversità meteorologica, che altrove presenta altri connotati. Converseremo allora usando sempre “tempesta”, o, per significare lo zio “barba”. Da eliminare invece i termini micro territoriali (usati cioè soltanto in Brianza, nel Vicentino, nel Monferrino o nel piacentino), perché impossibili da intendere da parte di tutte le altre provincie padane. Un auspicio per il Duemila: approfondiamo il progetto del Guazzo e fondiamo finalmente un padano orale che faccia tornare la nostra conversazione da “barbara” a “civile”. Quaderni Padani - 33 L’estinzione dei Padani di Gilberto Oneto M entre tutti noi siamo occupati da altri problemi (veri o inventati), il nostro mondo stà rapidamente cambiando e quasi non ce ne accorgiamo. Tutti i mezzi di informazione e di gestione del potere sono impegnati in un colossale e criminale progetto di distrazione della nostra gente da un drammatico processo di mutazione e di degradazione che stà subendo il nostro mondo, quello creato da millenni di lavoro e di intelligenza da parte di generazioni e generazioni. Le mutazioni investono ogni sua componente: il suo aspetto fisico, i suoi caratteri morali e culturali e la sua composizione umana. In particolare, stanno rapidamente cambiando i caratteri etnici della gente che abita la nostra terra e questa mutazione incide fortemente su tutte le altre e quindi sullo stravolgimento generale. Non cessano gli arrivi sempre più massicci di clandestini extracomunitari sulle coste e alle frontiere della cosiddetta Repubblica italiana. Gli sbarchi di frotte di diseredati, accompagnati da stuoli di bambini, non fanno neanche più notizia, né ci si occupa più delle evasioni di massa dai centri di accoglienza e delle ondate di foresti che percorrono la penisola verso nord. È quasi diventata “cosa normale”, ci si è tristemente abituati all’aumento vertiginoso della criminalità grande e piccola, e di tutti i problemi sociali di inciviltà, di intolleranza e di igiene che tutti costoro portano con sé. Le autorità italiane di oc- cupazione ci dicono che è un fenomeno epocale, che tutto è sotto controllo, che la società multirazziale è parte inevitabile del nostro futuro, che costoro sono una ricchezza e che vengono a rivitalizzare una società in calo demografico. Ma dove stà scritto che il calo demografico sia una iattura? Il fascismo sembra avere lasciato nel DNA di questo povero paese l’idea del “numero uguale potenza”, i cui effetti sono stati guerre, emigrazione e miseria per generazioni di cittadini italiani. Oggi, che le nostre genti padane hanno deciso di autoridursi di numero anche per rimediare a condizioni di sovraffollamento che rendono invivibili molte aree urbane di pianura, i vuoti che questa decisione lascia vengono rapidamente riempiti da foresti che non si pongono di certo troppi problemi circa la qualità della vita o l’avvenire dei loro figli, figuriamoci dei nostri. Così, a fronte del più basso tasso di natalità mondiale della Padania, si colloca il tasso da terzo e quarto mondo degli immigrati più o meno clandestini che permette loro di occupare ogni spazio. Ma non è finita lì: in virtù della loro prepotenza e della bassa età media delle loro comunità, essi stanno scalzando la nostra gente da casa sua e si troveranno presto nella condizione di tornare a fare aumentare vertiginosamente il numero complessivo degli abitanti dello stivale. Questa crescita diventerà sempre più veloce mano a mano che i foresti saranno più numerosi. 2 = Il dato comprende anche i SudTirolesi 34 - Quaderni Padani Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 2 = Il dato comprende anche i SudTirolesi Ci si dice che si tratta di un fenomeno che riguarda il mondo intero: i cosiddetti “paesi sviluppati” (Nord America, Europa, Giappone, Australia e Nuova Zelanda) hanno oggi (1998) una popolazione di circa 1.180.000.000 di abitanti contro i 4 miliardi e 750.000.000 dei cosiddetti “paesi in via di sviluppo” (un cinico eufemismo per indicare tutti quei paesi che non si svilupperanno mai anche a causa del loro incontrollato incremento demografico). Si stima che nel 2050 i primi avranno un miliardo e 160 milioni di abitanti (con una diminuzione appena percepibile) e i secondi arriveranno a 8 miliardi e 200 milioni (con un aumento del 73%). In realtà però questi dati non tengono presente il fenomeno dell’immigrazione e la concreta possibilità che una fetta dell’incremento dei secondi venga rovesciata sui primi. Il tutto deriva dall’enorme divario dei tassi di natalità fra i due mondi. La Tabella 1 riporta i dati relativi a taluni paesi indicativi della situazione generale. Se ne deduce che l’Italia (nel suo complesso) è il paese meno prolifico del mondo. Confrontando questi dati con quelli pubblicati sul numero 22-23 dei Quaderni Padani (Tabella sul Saldo naturale della popolazione della “Rubrica silenziosa”, pag.111) risulta evidente che la Padania (decremento percentuale dell’1,8 fra Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 1981 e 1990, contro un incremento dell’Italia etnica del 2,4 nello stesso periodo) è di gran lunga il paese col più basso tasso di natalità del mondo intero. E’ chiaro che, nell’attuale condizione di apertura indiscriminata delle sue frontiere, la nostra Terra venga invasa da stranieri prolifici e aggressivi oltre che da Italiani (ma questa non è una novità) che hanno tassi di natalità ancora simili a quelli di molti paesi del Terzo Mondo. Abbiamo provato a ipotizzare gli scenari futuri della condizione demografica di questo paese. Oggi gli abitanti della penisola (fra residenti regolari e clandestini) sono circa 58-59 milioni. Il 45,7% circa è costituito da Padani, Tirolesi, Sardi e Toscani; il 50,9% da Italiani etnici e il 3,4% da immigrati di vario genere, ma in prevalenza musulmani. Confrontando gli attuali tassi di natalità dei tre gruppi, sommando il numero di ingressi clandestini e regolari, e gli effetti delle demenziali norme sul ricongiungimento famigliare, si arriva ai risultati descritti dai Grafici n.1 e 2. Nel 2035 i Padani (e le altre minoranze) saranno lo stesso numero degli extracomunitari, nel 2045 circa gli Italiani etnici cesseranno di essere maggioranza assoluta, nel 2060 gli extracomunitari saranno il gruppo etnico di maggioranza Quaderni Padani - 35 1= Il dato comprende anche Toscani, Sardi e SudTirolesi relativa e nel 2075 saranno la maggioranza assoluta degli abitanti. Nel 2100 essi saranno il 67,8% del totale e i poveri Padani, Tirolesi, Sardi e Toscani saranno ridotti a un misero 7,6% e cioè saranno virtualmente estinti. In termini numerici assoluti, ci potrebbero essere 73 milioni di abitanti nel 2050 (di cui solo circa 15 milioni padani) e 118 milioni nel 2100, di cui solo 9 padani, sempre che i nuovi padroni non avranno nel frattempo provveduto diversamente, secondo usanze molto diffuse nei loro paesi di origine. (Il Grafico n.1 riporta la proiezione in termini percentuali e il Grafico n.2 quella in termini assoluti) I Grafici n.3 e 4 illustrano la situazione ancora più drammatica in cui potrebbe trovarsi la Padania presa separatamente. Dei 25 milioni di abitanti attuali, circa un milione (il 4%) sono extracomunitari. Il resto è composto in larga maggioranza da Padani e da Italiani etnici (circa l’8%) che saranno d’ora in poi, in questo nostro ragionamento, considerati uniti per l’alto grado di integrazione fra i due gruppi, soprattutto nel caso del raggiungimento dell’indipendenza che scongiurerebbe di fatto ulteriori migrazioni. Nel 2030 gli abitanti potrebbero essere circa 24 milioni, un terzo dei quali stranieri. Nel 2045 i foresti potrebbero già essere la maggioranza dei probabili 26 milioni di abitanti; nel 2060 il 63%, nel 2080 il 74% e nel 2100 l’85% dei probabili 53 milioni di abitanti del tempo. (Il Grafico n.3 riporta la proiezione in termini percentuali e il Grafico n.4 quella in termini assoluti) I dati sono costruiti sugli attuali tassi di incremento dei popoli padani, degli Italiani e sulla media di incremento dei popoli del Terzo Mondo. In particolare, giova ricordare che, accanto a una immigrazione di genti relativamente poco prolifiche (Cinesi, Filippini) o mediamente prolifiche (Sudamericani, Curdi), gli “ospiti” di questo paese provengano in buona parte da pae36 - Quaderni Padani si con propensione all’alta o altissima prolificità, come Africani, Nordafricani e - soprattutto - Albanesi. Questi ultimi hanno a casa loro un tasso di incremento annuo del 2,7%, che è il più alto d’Europa, con il 52% della popolazione inferiore ai 19 anni (Limes, n.3, 1998), e tutto lascia pensare che non abbiano intenzione di modificare le loro abitudini. Nella elaborazione dei dati si è anche tenuto conto degli effetti di moltiplicazione nel tempo degli attuali incrementi, dei dati tendenziali di immigrazione regolare e clandestina, degli effetti dei “ricongiungimenti famigliari” previsti dalla Legge Turco-Napolitano, ma anche della possibile diminuzione dei tassi di crescita di Italiani etnici e di tutti gli immigrati una volta stabilizzati e adattati alle nuove condizioni di vita meno “terzomondiste”. Tutti questi dati non tengono evidentemente in conto il possibile meticciamento che non farebbe che accelerare la diminuzione e la virtuale estinzione dei Padani. Si tratta di proiezioni drammatiche che ci mettono di fronte a un futuro senza speranza per la nostra civiltà. Quello che non sono riusciti a fare i Saraceni (e i Musulmani, in generale) in più di 14 secoli di aggressioni militari, riuscirà grazie alla loro esuberanza genetica, al tradimento dei nostri governanti e all’ottusa viltà di parte della nostra gente. Tutti questi scenari spaventosi potrebbero però diventare solo il ricordo di un incubo se si cambiasse radicalmente l’attuale colpevole atteggiamento nei confronti dell’immigrazione selvaggia, limitandola a un fenomeno controllato e temporaneo. In particolare, il destino dei popoli padani potrebbe cambiare nel caso del raggiungimento dell’indipendenza della nostra Terra e di una responsabile regolamentazione della presenza degli stranieri. A questa eventuale mutazione di tendenza potrebbe fortemente contribuire anAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 che quell’”effetto libertà” che si è già visto in molte altre occasioni della storia. In particolare, dalle nostre parti, questo è accaduto in Sud Tirolo dove la popolazione tedesca stava rapidamente diminuendo davanti all’aggressività foresta e di fronte alle drammatiche prospettive per l’avvenire della comunità, schiacciata politicamente e culturalmente: non a caso, fino a tutti gli anni Sessanta, si parlava di “marcia verso la morte” dei SudTirolesi. Con il raggiungimento dell’autonomia provinciale e con i suoi corollari positivi sulle prospettive della comunità tedesca (difesa dei valori culturali, blocco dell’immigrazione, proporzionale etnica, eccetera), questa ha ripreso a crescere con vigore e non deve più affrontare seri pericoli di estinzione. Tutto lascia supporre che anche la libertà dei popoli padani potrebbe avere lo stesso benefico effetto sui loro livelli riproduttivi portandoli almeno alle condizioni degli altri paesi europei che hanno un tasso di crescita che consente il mantenimento degli attuali livelli demografici o un loro lieve incremento o decremento. Certo, una Padania indipendente dovrebbe affrontare con grande decisione il problema dell’immigrazione pregressa e futura. Gli immigrati extracomunitari oggi presenti dovrebbero tutti lasciare il Paese secondo un efficiente schema di Evacuazione Programmata che preveda l’uscita di tutti i foresti nel giro di qualche anno: la durata del soggiorno concesso per organizzare la partenza dovrebbe essere commisurata alla lunghezza della permanenza passata, alla sua regolarità e al comportamento dei soggetti. Un periodo più lungo dovrebbe essere concesso a quelli che hanno ottenuto residenza o cittadinanza: in ogni caso si dovrebbero revocare tutte le nuove cittadinanze concesse negli ultimi 40 o 50 anni. Al termine dell’Evacuazione, i cittadini di paesi extracomunitari potranno entrare e soggiornare in Padania solo a precise condizioni. Gli ingressi dovrebbero essere consentiti per motivi di turismo, studio, cure mediche e lavoro. Ai turisti andrebbe concesso un visto di durata limitata e non estensibile. Agli studenti potrebbe essere concesso un visto di soggiorno limitato alla durata degli studi a condizione che abbiano una regolare iscrizione a un istituto di istruzione, abbiano una casa e dimostrino di avere adeguati mezzi di sostentamento. Simile è la situazione per chi voglia usufruire di cure mediche specialistiche in Padania: l’ingresso del paziente sarebbe limitato nel tempo, subordinato all’accettazione di una struttura ospedaliera e dietro verifica della disponibilità di mezzi economici adeguati. I lavoratori stranieri potrebbero entrare solo a condizione che abbiano un posto di lavoro, che abbiano una abitazione, che non esistano disoccupati involontari in Padania o che si possa dimostrare che nessun padano è in grado o in condizione di voler effettuare il lavoro per cui lo straniero è chiamato. La presenza di un lavoratore foresto avverrebbe cioè in base a una sorta di contratto di “vendita di forza lavoro” che deve essere definito nel tempo (e non rinnovabile) e che non preveda nessuna forma di ricongiungimento famigliare. Per tutto il periodo della sua permanenza, il lavoratore straniero disporrà di forme obbligatorie di assistenza medica e alla fine del contratto dovrà inderogabilmente lasciare il paese. Tutti gli stranieri dovranno dimostrare di disporre al loro ingresso di un biglietto di ritorno e di adeguati mezzi di sostentamento, e dovranno garantire l’intenzione di lasciare il paese al termine del periodo autorizzato e la loro buona condotta mediante un deposito cauzionale. Oltre a questa casistica, si può prevedere l’in- 1= Il dato comprende anche Toscani, Sardi e SudTirolesi Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Quaderni Padani - 37 Paese Media di figli per donna Percentuale di minorenni che partoriscono ogni anno Mortalità infantile per ogni 1.000 nati Italia 1,2 1 6 Russia 1,2 5 17 Giappone 1,4 Meno di 1 4 Gran Bretagna 1,7 3 6 Australia 1,8 2 5 Cina 1,8 1 31 Stati Uniti 2,0 5 7 Brasile 2,5 9 43 Iran 3,0 6 35 Colombia 3,0 9 28 Messico 3,1 7 28 Bangladesh 3,3 15 82 India 3,4 7 72 Egitto 3,6 6 63 Botswana 4,3 8 60 Kenya 4,5 9 62 Nicaragua 4,6 16 46 Papua Nuova Guinea 4,8 8 77 Arabia Saudita 6,4 12 29 Nigeria 6,5 15 84 Mali 6,7 19 123 Media Paesi Sviluppati 1,6 3 8 Media dei paesi del Terzo Mondo 3,3 6 64 Fonte: United Nations Population Division, 1998 gresso di stranieri per eccezionali motivazioni (ad esempio di ordine scientifico o artistico), per anziani che intendano trascorrere da noi la loro pensione (dietro la corresponsione di una sorta di “affitto” o a fronte del lascito di beni) o per asilo politico. Quest’ultimo dovrà avere forti limitazioni temporali e potrà riguardare solo chi abbia personalmente subito delle condanne per ragioni politiche, e non potrà essere concesso a chi si è macchiato di qualche delitto o azione violenta. 38 - Quaderni Padani Tutti gli stranieri che entreranno clandestinamente o che non rispetteranno i termini del rimpatrio dovranno scontare (se non hanno commesso altri reati più gravi) un periodo di lavoro coatto al termine del quale sarà loro consegnato un biglietto di ritorno. La recidività farà aumentare la lunghezza di tali periodi. Questi avverranno in speciali campi di lavoro dedicati ad attività che non sono svolte da Padani a causa della loro bassa rimuneratività a fronte del disagio connesso: smaltimento di rifiuti, miniere, alAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 ti forni, gestione e pulizia di boschi e di alvei fluviali, costruzione e manutenzione di opere infrastrutturali, eccetera. Si sente spesso ripetere che l’immigrazione extracomunitaria costituirebbe una ricchezza perché consentirebbe di fare svolgere lavori che altrimenti nessuno farebbe e perché contribuirebbe alla gestione del sistema pensionistico. Si tratta di evidenti balossate, anche nell’attuale allucinante sistema sociale, stipato di cassintegrati e disoccupati veri e finti (in ogni caso con le presenze percentuali più alte della Comunità europea) e di pensionati che non hanno mai lavorato. Anche in una Padania indipendente (e molto presumibilmente prospera) continuerà a sussistere il problema del rapporto fra posti di lavoro e mano d’opera che è organico a tutte le strutture liberali. Si tratterà infatti molto presumibilmente (e auspicabilmente) di una società nella quale il mercato del lavoro sarà molto libero: non ci saranno parassiti imboscati a milioni nel pubblico impiego, non ci saranno assurdi meccanismi di protezione di lavoratori neghittosi, non ci sarà un sistema pensionistico burocratizzato e statalista. Questo farà si che i cittadini lavoreranno fino all’età che vorranno (sulla base Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 dei programmi assicurativi che avranno individualmente stipulato), che ci sarà grande mobilità, che i salari saranno frutto di libere trattative di mercato (con la sola garanzia di soglie minime), che l’esecuzione e la distribuzione dei lavori subiranno un inevitabile riassetto di razionalizzazione e che non ci saranno più impieghi parassitari, politicizzati, assistenziali o inutili. In una situazione del genere la presenza di lavoratori stranieri diventerà una rara (e costosa) eccezione. Certo tutto questo non interromperà la pressione sulle nostre frontiere. Questa andrà affrontata con adeguate politiche di investimenti e di aiuti ai paesi del Terzo Mondo (subordinata a severe politiche di contenimento demografico) e con una attenta difesa dei confini che costituirà un inevitabile impegno della Comunità padana, costituendo addirittura uno dei principali motivi di aggregazione e di unità dei suoi popoli. In quel caso la Padania continuerebbe a essere popolata da Padani fino alla fine dei secoli, sarebbe libera e prospera, e continuerebbe a essere quella fucina di cultura e di civiltà che così determinante è stata per la storia d’Europa. Un bel vantaggio per noi, ma anche per il mondo intero. Quaderni Padani - 39 Urbanistica protostorica padana Confronto tra Vicenza paleoveneta e Milano celtica di Carlo Frison I romani antichi solitamente rispettarono buona parte della forma urbanistica delle città conquistate. Studiando il nucleo originario di Vicenza e Milano si individuano alcuni orientamento astronomici attribuibili all’urbanistica degli antichi popoli padani. L o storico greco Polibio (Storie, II, 17, 5) riferisce che le “tribù molto antiche chiamate veneti sono poco differenti dai celti nelle usanze e nella foggia degli abiti, ma parlano un’altra lingua”. Il termine “usanze” è del tutto generico e da tempo mi chiedevo se fosse possibile specificare qualche uso sociale simile dei Veneti e dei Celti. Le fonti antiche ci offrono pochi particolari sui Veneti. Credo che a livello socio-politico tra i Veneti fosse buona norma la segretezza. Ne è prova il silenzio delle fonti - di Tito Livio per primo - sui nomi dei capi veneti, mentre per le tribù celtiche viene pressoché regolarmente citato il nome del re. La segretezza riguardo alle autorità è caratteristica delle società matriarcali. Per fare un esempio, Minosse era il titolo dato dai Cretesi ai loro re, popolo a forte connotazione matriarcale, ma nessun nome di re cretese è stato tramandato. Mi pareva deducibile che il carattere molto più matriarcale della società paleoveneta rispetto a quella celtica implicasse poche somiglianze tra i due popoli. Ma troppo poco conosciamo della protostoria. Altre cose potevano accomunarli. Per esempio l’urbanistica. In una decina d’anni di studio sull’urbanistica delle città di Padova, Vicenza e Treviso, ho individuato alcuni orientamenti astronomici, alcune pianificazioni e forme perimetrali attribuibili alla protostoria. Non avevo mai preso in considerazione città al di fuori della mia regione, finché un articolo apparso su la Padania del 31 maggio 1998, titolato “L’ellisse di Milano” e firmato da Giorgio Fumagalli, ha attratto la mia attenzione 40 - Quaderni Padani verso una città celtica. Dalle mappe sette-ottocentesche si rileva un circuito quasi completo di strade disposte vagamente a forma ellittica che deriverebbe da un’area sacra celtica. Oggi corrisponde alle vie Morone, Romagnosi, Andegari, Boito, Clerici, S. Protaso e il passaggio est-ovest della Galleria. Immediatamente ho collegato questa ipotesi con quanto avevo scoperto nelle città venete e ho intrapreso lo studio della topografia di Milano. Le maggiori analogie che ho riscontrato sono con Vicenza. Comincio dunque descrivendo Vicenza, poi vedremo il confronto con Milano. Il materiale paleoveneto raccolto a Vicenza proviene da luoghi più o meno allineati lungo il corso Palladio, antico asse viario che ci ha restituito anche tre tratti di basolato di età romana. L’orientamento del corso Palladio è circa 241° (gli angoli degli orientamenti sono qui tutti misurati da nord in senso orario). Questo orientamento è prossimo a quello del tramonto della luna nel lunistizio minore, tenendo conto dell’altezza delle propaggini dei monti Lessini dietro ai quali tramonta la luna. L’altra ampia via, il corso Fogazzaro, non è ortogonale al corso Palladio, al contrario di altre strade vicine. La difformità troverebbe spiegazione nell’orientamento di una strada antica che non coincide esattamante col corso Fogazzaro perché un tratto di basolato antico è stato trovato tra il lato ovest del corso e la chiesa di S. Lorenzo. Quindi l’orientamento della strada antica potrebbe essere stato di 137°, un po’ diverso da quello dell’attuale corso Fogazzaro, corrispondente al sorgere della luna al momento del lunistizio maggiore sopra le modeste alture dei vicinissimi monti Berici. I lunistizi osservati all’orizzonte sono due posizioni, una verso nord e una verso sud, assunte dalla luna nel corso di un mese, paragonabili ai due solstizi nel corso di un anno. Il complesso Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Tracce perimetrali e orientamenti astronomici di Vicenza paleoveneta. Il corso Palladio ha l’orientamento in un lunistizio minore e il corso Fogazzaro quello in un lunistizio maggiore moto della luna porta alla oscillazione di ciascun lunistizio tra due orientamenti estremi chiamati lunistizio maggiore e minore. Consideriamo ora la forma pressoché circolare delle prime mura medioevali che ripercorrono forse del tutto quelle di età romana. Presumibilmente la forma circolare è di origine protostorica, perché i Romani preferivano il perimetro quadrato. Molti siti pre-protostorici hanno forma arrotondata secondo uno o due assi di simmetria: a ovale, a cerchio schiacciato o a ellisse. Nel caso di Vicenza sono ricostruibili tre tracciati curvilinei che assieme formano una struttura pressoché circolare. Il primo sembra configurarsi come cerchio schiacciato, parzialmente ricostruito raccordando tra loro le curvature di contrà Porti, contrà Motton Pusterla, contrà Canove, piazza Matteotti e contrà Cabianca. A oriente il cerchio schiacciato sarebbe stato affiancato da un fossato non più esistente ma citato nei docuAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 menti medioevali. Il secondo sito protostorico ha anch’esso la forma di cerchio schiacciato e occupa la parte occidentale della città. Il suo percorso segue la metà occidentale della contrà S. Biagio, prosegue per la contrà Motton S. Lorenzo, attraversa piazza Castello e continua per un tratto di contrà Mura Pallamaio. Il limite meridionale della città è un arco di circonferenza che attraversa il ponte Furo e che raccorda due brevi tratti rettilinei in modo simmetrico rispetto a un asse nord-sud. Come per Vicenza, anche per Milano celtica possiamo riconoscere un perimetro arrotondato e gli orientamenti astronomici di alcune strade antiche. Nella trattazione dell’archeologia di Milano di Aristide Calderini, contenuta nel primo volume dell’opera Storia di Milano edito una cinquantina di anni fa, l’autore (a pag. 482 del volume in bibliografia), prima di affrontare l’età romana, esprime un dubbio: “l’orientazione e la Quaderni Padani - 41 planimetria primitiva della città dovrebbero indurci nell’ipotesi di una primitiva fondazione palafitticola o terramaricola”. Più avanti (a pag. 487, nota 2) dice che per la forma originaria della città “si è pensato anche a una causa religiosa cioè a esigenze richieste da rito di fondazione sull’esempio di altri popoli preistorici, come i terramaricoli e gli etruschi, sicché l’orientamento del cardo e decumano dovesse essere imposto dalla declinazione del sole nel momento della fondazione”. Ma l’astronomo Francesco Zagar dell’Osservatorio di Brera, interpellato in proposito, rispose che “l’orientazione del corso di Porta Romana non coincide con alcuna possibile posizione del sole all’orizzonte” e che è “difficile che altri fenomeni astronomici appariscenti abbiano potuto determinare il detto orientamento”. Inspiegabilmente questo indirizzo di ricerca non è stato più preso in considerazione. Il fatto è che dal 1964, quando sono stati scoperti a Stonehenge gli orientamenti sui lunistizi, nell’archeoastronomia protostorica la luna ha acquisito quasi maggior interesse del sole. Rivolgiamo, quindi, l’attenzione non all’orientamento del corso di Porta Romana, ma a quello della sua prosecuzione urbana, il decumano, che in realtà è leggermente diverso. L’asse viario del decumano è riconoscibile nelle vie S. Maria alla Porta, S. Maria Fulcorina e Bollo. Ermanno Arslan (a pag. 191, nota 19 del saggio in bibliografia) esprime l’opinione che “non è possibile proporre soluzioni indiscutibili al problema” del mancato allineamento del decumano col reticolo urbano tardo-repubblicano. Il problema è che il decumano ha l’orientamento di 134° e non i 125° necessari per l’ortogonalità col cardo, ossia con l’asse passante per le vie S. Margherita, Cantù e Nerino (per il cardo urbano non considero la via Manzoni all’esterno della città celtica). La spiegazione consiste nella coincidenza dei 134° col lunistizio maggiore osservato all’orizzonte. Ciò va a favore dell’ipotesi, che il Calderini aveva escluso, dell’origine protostorica dell’urbanistica di Milano. L’orientamento del cardo, invece, è al di fuori dell’arco delle posizioni del sole o della luna all’orizzonte, però una retta ortogonale al cardo - come dirò più avanti, l’asse maggiore dell’ellisse è ortogonale al cardo - essendo di 125° punta verso il sorgere del sole al solstizio. Osservando le piante della città, un’altra strada ha attratto la mia attenzione. Il rettifilo delle vie Meravigli e Porrone, che inizia dall’antica 42 - Quaderni Padani porta Vercellina e compare chiaramente fin dalle piante del Seicento, è manifestamente opera di una pianificazione perché su di esso si affacciano numerosi e grandi isolati. Il suo orientamento di 263° è quello di una delle posizioni all’orizzonte della luna piena quando il sole è all’equinozio. Anche questo è uno degli orientamenti presi in considerazione per la prima volta a Stonehenge. Ricavati tre orientamenti astronomici caratteristici dei siti protostorici, passiamo alla ricostruzione del perimetro più antico della città. Il Calderini ha proposto una ricostruzione del tracciato delle prime mura romane risalenti al I secolo dC. A questa ricostruzione Mario Mirabella Roberti ha introdotto delle modifiche, ampliandola a sud-est. Credo che quella del Calderini presenti la situazione più antica, corrispondente probabilmente al perimetro preesistente alla erezione delle mura romane. La parte delle mura che il Calderini individua percorre piazza Mentana, via Morigi, via Brisa, via S. Giovanni sul Muro, via Lauro, via Filodrammatici, via Marino e poi su una direttrice tra le vie Agnello e S. Radegonda arriva al lato orientale di Piazza Fontana. Gli argomenti addotti dal Calderini sono un rudere di muraglione trovato in via Filodrammatici, il toponimo che si riferisce “al Muro”, innalzamenti del suolo giustificabili dall’esistenza di un vallum, l’andamento delle strade attuali e la disposizioni di alcuni muri di case antiche. Per la parte restante delle mura il Calderini avanza un’ipotizza con minori riscontri. Egli pensa a un raccordo tra Piazza Fontana e Piazza Missori che lasci fuori dalle mura la basilica paleocristiana di S. Giovanni in Conca, poi prosegue fino all’antica porta Ticinese (al Carrobbio) e quindi arriva a Piazza Mentana. Penso che questa parte del percorso racchiuda un’area maggiore di quella originaria del perimetro di età insubre. Infatti, il palatium romano, richiamato nella denominazione di S. Giorgio al Palazzo, sarebbe stato costruito su terreno libero fuori dalla città celtica. Riportato sulla mappa del catasto austriaco del 1855, il percorso di nord-ovest da via Lauro a S. Giorgio risulta ben approssimato a una circonferenza. Quindi, anche a sud-est io proseguirei sulla stessa circonferenza passando per via Bagnera e sulle chiese antiche di S. Giorgio (romanica), S. Alessandro (seicentesca costruita sul luogo di un’altra romanica), S. Giovanni in Conca (altomedioevale), S. Giovanni Laterano (romanica, demolita) e più oltre attraversando S. Maria Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Maggiore (romanica, era sul luogo del Duomo). La localizzazione delle chiese antiche sulla circonferenza significherebbe che permaneva una soluzione di continuità tra il perimetro circolare celtico e l’espansione urbanistica di età romana, dovuta forse a un basso argine la cui circonferenza interna sarebbe rilevabile dalle stradine (scomparse) a nord di S. Giovanni in Conca e S. Giovanni Laterano, e dalla distanza tra i due tratti paralleli della via Morigi. Quest’argine spiegherebbe la leggenda della siepe di biancospino che circondava Milano o l’ipotesi di terrapieno e palizzata costruita, abbattuta e rifatta in occasione di assalti nemici fino all’età romana (cfr. Calderini, pag. 482, op. cit.). Veniamo ora alla “ellisse di Milano”. La rico- struzione delle mura proposta dal Calderini taglia circa a metà l’ipotetica ellisse. Infatti in via Filodrammatici è stato trovato il rudere di un muraglione nella stessa direzione della strada. A prima vista sembrerebbe che venga smentita l’ipotesi dell’ellisse celtica, ma l’analogia con la forma pressoché circolare di Vicenza con il cerchio e l’ellisse di Milano mi induce a cercare una spiegazione. L’area di tutta l’ellisse era certamente di insediamento antico. Lo testimonia l’altimetria del terreno identica da via Morone fino al foro situato in S. Sepolcro, come si ricava da una carta dalle curve di livello pubblicata nel 1913 e riportata dal Calderini. Questa è la zona a maggiore altimetria, indubbiamente a causa del maggior accumulo di detriti nel luogo di più an- Tracce perimetrali e orientamenti astronomici di Milano celtica. L’asse maggiore dell’ellisse ha l’orientamento del solstizio invernale, il decumano quello di un lunistizio maggiore e il rettifilo delle vie Meravigli e Porrone della luna piena all’equinozio. Il perimetro circolare sembra fosse formato da un argine di cui la circonferenza ha lasciato qualche traccia. 1: S. Giorgio al Palazzo. 2: S. Alessandro. 3: S. Giovanni in Conca. 4: S. Giovanni Laterano Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Quaderni Padani - 43 tico insediamento. A sud-est dell’ellisse invece, cioè da via Agnello verso le piazze Fontana e Beccaria, il terreno si abbassa e si sono trovati depositi di anfore con funzione di vespaio e palificazioni. L’Arslan (a pag. 192, op. cit.) deduce dal maggior livello altimetrico l’esistenza di un sobborgo a est delle mura, cioè un’area che comprende l’ellisse. Osservando le piante sette-ottocentesche della città, l’ellisse non è ben delineabile. Si nota però la differenza della struttura viaria tra l’area dell’ellisse e il resto della città, evidenziata dagli angoli netti che alcune strade formano sulla presumibile linea dell’ellisse. La ricostruzione che mi è sembrata migliore considera l’asse minore dell’ellisse coincidente col cardo, e l’asse maggiore passante per gli sbocchi sull’ellisse delle vie Lauro e Agnello. La lunghezza dell’asse maggiore è determinata dalle intersezioni con la via Boito e con la breve via che collega via Marino a via Agnello. La lunghezza dell’asse minore dall’intersezione con la via S. Protaso e con lo sbocco di via Morone. L’asse maggiore risulta di 400 metri circa e quello minore di 360 metri circa. È da chiedersi perché l’area dell’ellisse non sia stata completamente inclusa nel circuito delle mura romane. Evidentemente il passaggio delle mura per via Filodrammatici la ha danneggiata. La spiegazione potrebbe essere molto semplice. Le città antiche si sono solitamente formate per aggregazione di villaggi diventati con l’evoluzione urbanistica i quartieri della città. Per esempio, le iscrizioni milanesi ci ricordano il nome di tre vici della città: vicus Bardomagus, vicus Corogennatium (nomi celtici), e vicus Venerius che prenderebbe nome da un tempio dedicato a Venere (o meglio, a una dea celtica assimilata a Venere). Gli abitanti dei villaggi rinsaldavano la loro unione in un tempio comune eretto in un’area sacra fortificata. Questa situazione è testimoniata per i veneti dal nome pilpotis, “signore della cittadella”, dato al capo delle comunità cittadine. Nella cittadella di Padova, racchiusa da un anello d’acqua quasi circolare, probabilmente sorgeva il tempio principale dedicato a una dea assimilata a Giunone. Una situazione simile dovrebbe trovarsi anche a Milano, dato che Polibio (II, 32, 6) narra che gli Insubri ritirarono dal tempio della loro dea principale (assimilata a Minerva) le insegne d’oro, dette” inamovibili”, prima di affrontare i Romani nello scontro decisivo. Il tempio della dea celtica a Milano plausibilmente si trovava, come quello di Padova, in un’area sacra delimitata e divisa dal44 - Quaderni Padani l’abitato. Mi pare che l’ellisse potesse svolgere questa funzione. In proposito vorrei fare un paragone tra le insegne d’oro conservate dagli Insubri nel tempio di Minerva e i trofei conservati dai padovani nel tempio di Giunone. Tito Livio (X, 2) riferisce con rammarico della scomparsa dei trofei padovani tacendo però sui colpevoli della sottrazione. È probabile che siano stati i Romani a requisirli negli anni della formalizzazione giuridica dell’assoggettamento dei Veneti. Chiediamoci allora se anche agli Insubri i Romani non abbiano voluto infliggere una punizione umiliante che li colpisse nei loro sentimenti sacri. In questo senso si può ipotizzare la distruzione dei templi della cittadella col passaggio delle mura attraverso l’ellisse. Non molti anni dopo la costruzione delle mura, nel loro tratto lungo la via Lauro venne addossata in età claudia un’aula destinata forse al culto imperiale. L’Arslan (a pag. 195, nota, op. cit.) commenta che “non deve sfuggire l’importanza della dislocazione di una simile impianto a Nord-Est della città”, ma non aggiunge altro per specificare a quali connessioni intenda riferirsi. Io vorrei supporre che dopo la distruzione della cittadella sacra i vincitori abbiano voluto sostituirvi nelle vicinanze un culto romano per completare l’abbattimento morale del temibile avversario. Gli antichi facevano le guerre in nome e col favore degli dèi. Per scoraggiare la rivalsa dei guerrieri insubri era necessario distruggere i templi in cui giuravano prima di scendere in campo. Bibliografia ❐ Arslan, Ermanno. “Urbanistica di Milano romana. Dall’insediamento insubre alla capitale dell’impero”. Aufstieg und Niedergang der roemischen Welt. II, 12, 1. 1982. ❐ Calderini, Aristide. “Tracce di archeologia preromana nell’ambito della città”. in AA. VV. Storia di Milano. vol. I. Milano 1953. ❐ Calderini, Aristide.” La fondazione della città e la sua topografia originaria”. ibidem. ❐ Frison, Carlo. “Vicenza antica: indagine sulle trasformazioni urbanistiche”. Il Piovego. n. 47. Padova 1993. ❐ Frison, Carlo. Dal pilpotis al doge. Padova: Libraria padovana editrice. 1997. ❐ Gambi, Lucio; Gozzoli, Maia Cristina. Le città nella storia d’Italia. Milano, Roma-Bari: Laterza, 3° ed, 1997. ❐ Mirabella Roberti, Mario. “Milano”. Enciclopedia dell’arte antica e orientale. Roma 1963. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Quale cultura per l’ecologismo di Eduardo Zarelli Il paradigma comunitarista e antiutilitarista Non è difficile, a nostro avviso, identificare con chiarezza ciò che non funziona nelle odierne società occidentali, nonché nelle culture che le informano e rappresentano. La frammentazione sociale, la crisi della partecipazione alla vita pubblica, l’anomia generalizzata, l’isterilimento dei rapporti e dei legami sociali, il mito della self-realisation come corollario di ben più resistenti mitologie individualistiche: queste, sul piano sociale, le cause più evidenti del decadimento della qualità del nostro vivere quotidiano. Sul piano più specificatamente teorico, i paradigmi di riferimento largamente diffusi e generalizzati nel più ampio spettro delle scienze umane applicano ormai sistematicamente una lettura largamente riduzionista dell’uomo, del suo agire e del contesto sociale in cui vive. In particolare le due formulazioni egemoniche (individualismo metodologico e teorie utilitariste) hanno prodotto una lettura dei fenomeni sociali che, per quanto lontana dal definire la natura umana nella sua multiforme complessità, é filtrata come nuovo universale culturale nelle profonde sfere dei rapporti e delle relazioni, divenendo a tutti gli effetti senso comune. Da alcuni anni, al di qua e al di là dell’oceano, queste problematiche vengono sistematicamente affrontate da vere e proprie correnti di pensiero, che sono state capaci di produrre un corpus teorico che va imponendosi sempre più come nuova teoria critica della società. Ci riferiamo soprattutto allo statunitense “Communitarian Network” di Amitai Etzioni, Alasdair MacIntyre e Charles Taylor ( nonché alle diverse realtà sociali e culturali ad esso collegate) e al francese “Mouvement Anti-Utilitarist dans les Sciences Sociales” di Alain Caillé e Serge Latouche. Nella prospettiva del MAUSS è necessario deAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 finire un nuovo paradigma per le scienze sociali, ormai completamente “contagiate” dalla dottrina utilitaristica originariamente propria della sola economia. Tale paradigma si sostanzia nella Teoria del Dono che affonda le sue radici nello studio della sfera di socialità primaria che si sottrae al dominio del mercato. L’analisi comunitarista muove da una critica serrata alla dottrina individualista dei diritti, contestando l’assenza di una prospettiva che li leghi indissolubilmente ai doveri e alle responsabilità di cittadinanza. Il punto di partenza é che tutti ci troviamo a vivere in un contesto di tipo comunitario, un insieme denso di relazioni sociali e di rapporti di mutua assistenza. La condizione primaria di sopravvivenza di una comunità é che i suoi membri dedichino parte del loro interesse, energia e risorse a progetti comuni. L’attenzione esclusiva per gli interessi personali erode la rete di legami sociali da cui tutti dipendiamo, minando i fondamenti stessi della convivenza. Per queste ragioni i diritti individuali non possono essere preservati a lungo al di fuori di una prospettiva comunitaria. Il degrado ambientale La difesa dell’ambiente è un concetto che, oltre a rappresentare il fondamento dell’attività dei movimenti verdi, è oramai diffuso nella demagogia programmatica della maggior parte dei partiti politici occidentali e delle burocrazie amministrative che ne conseguono nei più diversi livelli di responsabilità territoriale. I “costi dello sviluppo” sono presi in considerazione dai governi locali, nazionali e sovranazionali e dalla stessa organizzazione economica industriale, che tentano di sfruttare il pianeta in forme compatibili al mercato e alle risorse presenti. Un grosso ruolo, in tutto questo, lo svolge Quaderni Padani - 45 un’opinione pubblica preoccupata di perdere il “candore” di un consumismo “delicato” che concili la qualità delle merci con la quantità della massa degli aventi diritto; un bel rompicapo, tanto più se allarghiamo l’ottuso sguardo d’Occidente ai restanti 3/4 dell’umanità. L’ecologia - la scienza delle relazioni tra gli organismi viventi e il loro ambiente naturale ha generato molti figli e, soprattutto, un fraintendimento ed una eterogenesi dei fini. Il suo utilizzo strumentale ne ha snaturato il significato di critica complessiva al modello di sviluppo industriale. Ambientalismo: un’ecologia funzionale Il tentativo di conciliare la produttività industriale con la gestione dell’ambiente è l’ambientalismo. Esso si colloca in una prospettiva antropocentrica, grazie ad una visione scientificomaterialista della natura, per cui il deterioramento dell’ambiente compromette gli interessi umani di sopravvivenza. L’atteggiamento culturale, che ne consegue è largamente maggioritario, limitandosi a concepire la natura come un capitale da preservare da parte di un uomo “responsabile” e “preveggente”. Su questa base, le politiche liberiste tentano di inserire il principio “chi inquina paga” nelle giurisdizioni più avanzate, inconsapevoli di generare un ancor più perverso “mercato dell’inquinamento”, che mette d’accordo inquinatori ed inquinati fissando il prezzo per il danno causato. Le aziende vengono semplicemente indotte ad aggiungere il costo inquinamento tra i costi di produzione. Più articolata la proposta riformista per un ecosviluppo o modello di sviluppo sostenibile. La filosofia che sorregge questa proposta si basa sulla presa di coscienza che i costi della protezione della natura sono sempre inferiori ai danni che ne risulterebbero qualora non venissero adottati. In questo senso, si proietta lo sfruttamento dell’ambiente in una prospettiva temporale futura, per cui risulta necessario non compromettere la capacità delle prossime generazioni di far fronte alle proprie necessità. In pratica si vuole semplicemente posticipare una scadenza ineluttabile. Nel frattempo, nonostante conferenze internazionali e grandi petizioni di principio, si è ovviamente incapaci di modificare il compromissorio modello di sviluppo dominante, che, anzi, si arricchisce di un vero e proprio “mercato dell’ambiente” o ecobusiness, che mantiene l’ambientalismo all’in46 - Quaderni Padani terno di un sistema di produzione e consumo, causa prima dei danni a cui tenta di porre rimedio. L’ecologia radicale L’unica posizione ecologista minoritaria, che non accetta compromissioni con il modello di sviluppo dominante e la tecnocrazia che ne è severa esecutrice è l’ecologia del profondo. Il termine “ecologia profonda” fu coniato da Arne Naess, nel tentativo di descrivere un approccio alla natura spirituale esemplificato negli scritti dei precursori americani Aldo Leopold e Rachel Carson. Naess cercava un approccio sostanziale alla natura tramite una apertura e una sensibilità fondante per noi stessi e la vita umana che ci circonda. L’ecologia profonda oltrepassa l’approccio scientifico fattuale per raggiungere la consapevolezza del sè e della saggezza della terra. La critica all’antropocentrismo è fondamentale, l’uomo - olisticamente - viene inteso come parte di un tutto “cosmico”. L’implicazione di questo principio è l’ecocentrismo per cui la natura va protetta di per sè, per un suo valore intrinseco, indipendentemente da qualsivoglia utilità umana. Se arrechiamo danni alla natura, danneggiamo noi stessi. Con questa impostazione sono identificabili senza forzature e nella varietà delle proposte svariati pensatori europei e americani come Bill Devall, George Session, Edward Goldsmith, Gary Snyder, Kirkpatrick Sale, Peter Berg, Ernst Schumacher, James Lovelock, Giannozzo Pucci. Il tipo di approccio ecologico alla realtà, che se ne ricava, è radicale: bisogna interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto dell’uomo nella natura, uscire dall’industrialismo, dall’utilitarismo individualista, dal paradigma tecno-scientifico dominante. In pratica occorre agire sulle cause invece che sugli effetti. Non c’è bisogno di nulla di nuovo, ma di riscoprire qualcosa di molto antico, arcaico: la comprensione della Saggezza della Terra, la consapevolezza del rapporto di simbiosi e armonia tra tutti i viventi. Andare all’origine delle cose significa, conseguenzialmente, decostruire la macchina tecnomorfa creata dalla scienza moderna, superando l’approccio parziale e riduzionista e immedesimandosi con il senso perduto dell’armonia tra uomo e natura, la visione metafisica della realtà divulgata dagli scienziati Fritjof Capra e Gregory Bateson. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Una visione sacrale me una improbabile parità di diritti giuridico La maggior parte delle forme di religiosità formali. animistiche e politeistiche tradizionali ha un In realtà, la natura vale per quello che è, non carattere cosmico. L’universo viene da esse inte- esiste una natura buona o cattiva, che risente di so come un insieme vivente correlato, del quale una proiezione umanistica e, quindi antropol’uomo è parte per il solo fatto di esistere. La centrica. Conseguentemente, l’uomo, pur non natura è animata, il territorio si compone di essendo l’unico essere “biocosciente”, è sicuraluoghi sacri, il tempo è connaturato ai cicli co- mente l’unico ad avere coscienza di questa cosmici celebrati con i riti e i sacrifici, che uni- scienza ed è per questo che sulla base dei suoi scono in un’eterna spirale il dare e il ricevere presupposti naturali biologici, genetici, istindella vita e della morte, in una solidarietà tuali, rimane spiritualmente indeterminato e liprofonda tra l’uomo e l’esistente. bero di scegliere. La natura è emanazione spirituale a differenIl tentativo di una riconversione ecologica deza dei monoteismi che subentreranno universa- ve consistere nel tentativo di ricreare nell’uomo listicamente nella storia della umanità. Questi la profonda consapevolezza di essere parte della ultimi, infatti, intendono la natura come creato, natura, lasciandogli la libera volontà di decidere prodotto del libero volere di un Dio. L’universo di farne parte armonicamente, sacralmente. viene desacralizzato e svuotato delle sue forze magiche o spirituali, aprendo la strada - in una Il concetto di limite visione unilineare dello sviluppo storico - allo Una cultura ecologista conseguente deve scientismo, che priverà di Dio una materia già identificarsi con una opposizione all’ideologia morta e renderà l’uomo razionale un riferimen- economica dominante e ai suoi presupposti tecto assoluto e disincantato. Il messaggio dell’e- nologici e scientifici, ovvero alla concezione secologia profonda reagisce ad un antropocentri- condo cui la società degli individui - intesi cosmo che fa dell’uomo un valore supremo, rial- me produttori e consumatori razionali - si fonlacciandosi a una concezione del mondo tipica da sul meccanismo autoregolativo del mercato. della religiosità delle società arcaiche e tradizioIn controtendenza, è possibile ritrovare un nali; queste, da sempre giudicate superficial- rapporto armonico tra cultura e natura in ammente “società chiuse”, si rivelano, al contrario, biti di reciprocità comunitaria, che, in chiave aperte alla totalità del cosmo e quindi malleabi- locale, subentri alla contrattualità mercantile e li, nell’organizzazione del corpo sociale, in una riducano la scala delle necessità fino a ricreare varietà di sfumature e di significati profondi una situazione di interdipendenze tra regioni che permeavano il senso del vivere quotidiano. naturali. Vanno riconosciuti i diritti universali Disse il capo indiano Duvamish al presidente degli abitanti, legati al proprio territorio da un Pierce nel 1855: “Noi siamo una parte di questa legame profondo, simpatetico, che si avvalga di terra ed essa è parte di noi. Non è stato l’uomo tecnologie appropriate, e di un’economia che a creare il tessuto della vita; ne è solo un filo. conviva con le risorse locali completandosi Ciò che voi farete al tessuto, Tabella comparativa Atteggiamenti lo farete a voi stessi”. Cultura dominante Ecologia profonda Partendo da questa interDominio sulla natura Armonia con la natura pretazione tradizionale della Natura come risorsa Natura come valore in sé natura è possiSviluppo economico Autorealizzazione economica bile completare il concetto Sfruttamento delle risorse Limite naturale di uguaglianza Progresso tecno-scientifico Tecnologie appropriate biocentrica che altrimenti poConsumismo Sobrietà/riciclaggio trebbe essere Società stato/nazionale Comunità autonomismo/bioregione intesa moralisticamente coAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Quaderni Padani - 47 nella minor quantità possibile - con beni di e produzioni esterne. Il senso del limite, la sobrietà esistenziale, la cultura delle differenze quale logica conseguenza della biodiversità, devono imperniare l’azione diretta ed esemplare di chiunque, gruppo o singolo, voglia sentirsi in connessione con la saggezza “omeostatica” della terra. Un messaggio minoritario? Il tipo di comunità maggiormente in grado di cominciare il “vero lavoro” di formare una consapevolezza ecologica allargata si trova nella tradizione minoritaria. La crisi dello Stato nazionale, il rifiuto delle strutture centralizzate, ipertrofiche e della massificazione della società consumistica, va nel senso del riconoscimento delle lingue e delle culture regionali dei costumi e delle tradizioni locali come via d’uscita all’uniformazione e alla spersonalizzazione della monocultura industrialista. Non a caso, questo riconoscimento si accompagna al ritorno alla manualità, all’artigianato, ai saperi intuitivi, ai comportamenti spontanei che sostanziano la cultura vernacolare (1) che Ivan Illich ha sempre indicato come serbatoio inesausto di praticità ecologica e di saggezza popolare. L’essenza della tradizione minoritaria è una comunità capace di autoregolarsi. Le consuetudini condivise prendono il posto delle leggi imposte, l’autorevolezza prende il posto dell’autorità, la democrazia consensuale e qualitativa responsabilizza ogni libero partecipante alla vita comunitaria. Le società originarie, tradizionali, antropologicamente indigene - spesso residualmente presenti in vari aspetti delle cultura popolare - forniscono numerosi esempi di ciò che si può intendere per tradizione minoritaria. Le comunità locali hanno provveduto all’esigenza della vita associata autoregolamentandosi, in solidale rapporto con la natura. Il bioregionalismo è vecchio almeno quanto la coscienza dell’uomo poichè investe il sistema naturale in cui si abita della responsabilità sia del nutrimento fisico sia dell’insieme di metafore dalle quali il nostro spirito trae sostanziale sostentamento. Comprendere i cicli della natura significa cominciare a comprendere se stessi, il radicamento interiore che ci lega a quell’universo di sensazioni che compone l’animo umano e ci rimanda simbolicamente alle armonie cosmiche. 48 - Quaderni Padani Bibliografia ❐ AA.VV., Verso casa. Una prospettiva bioregionalista, Arianna Editrice, Casalecchio, 1998 ❐ AA.VV., Bioregione. Rimparare a vivere nel luogo, Macro/Edizioni, 1993 ❐ G. Bateson, Verso un’ecologia della Mente, Adelphi, Milano, 1976 ❐ W. Berry, Con i piedi per terra, Red Edizioni, Como, 1997 ❐ L. Bonesio (a cura di), L’uomo e il territorio, SEB, Milano, 1996 ❐ P. Bunyard - E. Goldsmith - J. Lovelock, L’Ipotesi Gaia, R.E.D., Como, 1992 ❐ A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino, 1991 ❐ F. Capra, Il Punto di Svolta, Feltrinelli, 1992 ❐ B. Devall-G. Sessions, Ecologia Profonda, Edizioni Gruppo Abele, 1989 ❐ L. Dumont, Saggi sull’Individualismo, Adelphi, Milano, 1993 ❐ M. Eliade, Il Sacro e il Profano, Bollati Boringhieri, Torino, 1989 ❐ A.Etzioni, Nuovi comunitari. Persone, virtù e bene comune, Arianna Editrice, Casalecchio, 1998 ❐ A. Ferrara, Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma, 1992 ❐ E. Goldsmith, Il Tao dell’Ecologia, Muzzio Editore, Padova, 1997 ❐ I. Illich, Il Genere e il Sesso, Mondadori, Milano 1984 ❐ S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992 ❐ J. Mander-E.Goldsmith, Glocalismo. L’alternativa strategica alla globalizzazione, Arianna Editrice, Casalecchio, 1998 ❐ G. Pucci, Il Rapporto Uomo Natura alle Radici della Cultura Europea, Editrice Fiorentina, Firenze, 1987 ❐ K. Sale, Le Regioni della Natura, Elèuthera, Milano, 1991 ❐ E. Schumacher, Piccolo è Bello, Mondadori, Milano, 1993 ❐ G. Snyder, La Grana delle Cose, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987 (1) È un termine che proviene dal diritto romano ed indica l’opposto di una merce. Possiamo quindi intenderlo in una prospettiva qualitativa e di appropriatezza tecnica e artistica: artigianale. Lo stile vernacolare rimanda a una finitezza morfologica della vita comunitaria, basata sul presupposto, implicito e sovente espresso attraverso il rituale e rappresentato in termini mitologici, che una comunità, come la vita di un singolo, non può svilupparsi oltre le proprie dimensioni. Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 La rinascita di una cultura attraverso l’esempio bretone: modello per la Savoia e per la Padania?(*) di Pascal Garnier D esidero richiamare alla memoria la questione dell’Europa dei popoli, dell’Europa dalle cento bandiere, per riprendere la formula inventata da Yann Fouéré e gradita anche allo svizzero Denis de Rougemont, teorico del federalismo. Questa idea è in sé seducente, sulla carta, ma si tratta di un’Europa virtuale. Se noi vogliamo giungere a una presa del potere politico, bisogna che questa Europa sia formata da uomini affratellati tra loro a formare una comunità. In questo momento noi abbiamo molte difficoltà a individuare un popolo, tanto la società si ritrova atomizzata di fronte all’individualismo che esercita i suoi danni sull’intero pianeta. Se la Savoia o la Valledaosta conservano ancora una coscienza identitaria forte, è perché sono dei paesi di montagna in possesso di un forte atavismo paesano che ha permesso di conservare una notevole specificità: la stessa cosa non vale per le regioni della pianura con grandi megalopoli come Milano o Torino. Questa mancanza della coscienza identitaria ha fatto sì - ad esempio - che la Lega Nord, dopo aver conquistato talune grandi città, le abbia ben presto perse, ma che abbia, per contro rinforzato le sue roccaforti tradizionali nei piccoli villaggi e nelle piccole città della montagna. Adesso, dopo qualche decennio di amalgama delirante, dappertutto le folle urbane si mettono alla ricerca delle proprie radici. Lo testimoniano, un po’ ovunque, il successo di libri di storia o sulla vita rurale e le società di ricerche genealogiche. Però, troppo sovente, restiamo in un mondo troppo virtuale, troppo idealizzato. Questa conciliazione tra la tradizione e la modernità è un’impresa difficile. In Savoia, per esempio, i gruppi di musica tradizionale, pur portatori di un potenAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 ziale enorme, si sono, in generale, incagliati sullo scoglio dell’attaccamento ai valori del passato, malgrado lodevoli tentativi (come quello di Jean Marc Jacquier) di farli evolvere. Ciò nonostante esistono esempi di successo, come i musici dei Paesi Baschi o il gruppo Corso di canti polifonici “I Muvrini”. (*) Discorso pronunciato al Congresso della Lega Nord della Val d’Aosta, il 10 ottobre 1998 a St. Oyen. Traduzione di Franco Actis Alesina Quaderni Padani - 49 Ma è sull’esperienza della Bretagna che mi vorrei soffermare. Sempre alla ricerca di un modello, mi sono recato, nell’estate del 1998, al Festival Interceltico di Lorient (FIL) dove ho trovato anche numerosi amici padani. Sono rimasto in quell’occasione sbalordito dalla brillantezza, dalla potenza e dalla grande vitalità del movimento culturale bretone. La cultura celtica ha sempre affascinato i Padani e non è per caso che Alan Stivell ricordava recentemente sull’Avenir de la Bretagne che proprio a Milano, nel 1980, avesse tenuto uno dei maggiori concerti di musica celtica davanti a più di 14.000 persone. Non è quindi per caso che i movimenti padanisti insistano sull’importanza delle nostre radici celtiche. Allora ho cominciato ad analizzare la storia del movimento bretone, e come questa musica avesse potuto essere trasferita dalle campagne nelle città e ho indagato sui collegamenti che si erano potuti costruire con il mondo economico, nella speranza che l’insieme culturale potesse un giorno sfociare in un forte movimento politico. Il successo del movimento culturale bretone C’è una eccellente novità: per la prima volta, dopo moltissimo tempo, la cultura americana arretra davanti a una locale. D’ora in poi, alla punta occidentale dell’Europa, un popolo irriducibile di meno di 3 milioni di persone umilia la civilizzazione della Coca-cola e del Mac Donald. Malgrado l’ostilità o l’indifferenza di un altro paese colonizzatore, la Francia, tutto un popolo è in procinto di riprendere la propria lingua: le scuole Diwan (scuole “alternative” con circa 4.000 allievi, cui si sommano altri 24.000 scolari in totale che ricevono un insegnamento in Bretone) si riempiono e una larga fetta della gioventù preferisce andare ai festoù-nos (“feste della notte”) piuttosto che nei locali notturni “normali”. Queste cifre possono sembrare relativamente basse: non è che il 5% della popolazione studentesca contro l’85% dei piccoli corsi che - ad esempio imparano la loro lingua. Ma la percentuale cresce ogni anno ed è un segno di successo culturale. Le presenze ai festivals e ai festoù-nos La stampa fa eco a questi fatti e i suoi titoli parlano da soli: “Avere vent’anni nei festoù-nos”, “Sale colme tutti i sabati in Bretagna”. È un fenomeno urbano che conoscono tutte le grandi città bretoni da tre o quattro anni. La danza bretone piace per la sua convivialità. Queste feste creano un legame sociale e vi si incontra gente di tutte le età, di tutte le categorie: in discoteca 50 - Quaderni Padani le persone sono sole mentre nei festoù-nos la gente si tiene per mano. Oggigiorno una marea di giovani di 16 o 17 anni non vuole più andare nelle discoteche e scopre i festoù-nos con entusiasmo. Questo successo si spiega - ben inteso anche con il fatto che i gruppi di musica tradizionale non hanno avuto alcun ritegno a “rivisitare il folclore” per riammodernarlo al fine di riappropriarsene. Adesso moltissimi gruppi riescono a vivere bene con la propria musica. A Brest, la Gven-ha-du rifà la sua apparizione a ogni manifestazione studentesca. I corsi di danza e di pratica degli strumenti musicali sono sempre al completo. Durante il Festival Interceltico di Lorient, al Salone Carnot, prima del festoù-nos, tutti i pomeriggi si davano gratuitamente dei corsi di danza. Per tutta l’estate la Bretagna ha vissuto al ritmo delle sue feste: c’erano decine di migliaia di persone a Pluvigner, 100.000 persone nei tre giorni del “Festival dei vecchi aratri”. Anche il Festival di danza bretone, la “Saint Loup” di Guingamp, ha riunito decine di migliaia di partecipanti, 100.000 erano presenti alla grande festa marittima di Douarnenez sabato 15 agosto e in 25.000 si sono presentati alle “Feste dell’Armor” a Vannes. L’autonomia delle regioni di cui si parla Jean Pierre Pichard, il segretario generale del FIL, ha fatto qualche interessante riflessione sulla riuscita del movimento culturale bretone. Ogni giorno, durante tutto il periodo del Festival, ha tenuto una conferenza stampa di fronte a una frotta di giornalisti. Quest’anno più di 400 sono stati i corrispondenti accreditati. Pichard è una persona soddisfatta che ama dividere il suo entusiasmo con i suoi interlocutori. È felice che il suo Festival abbia ancora quest’anno, con più di 400.000 visitatori, superato dal 10 al 15% il proprio record di presenze, cosa che ne fa il più frequentato Festival europeo. Ma quest’uomo mantiene la testa fredda e, con il senso della sintesi che lo caratterizza, sa riproporre tutto questo in un quadro più globale. Allora espone gli altri successi del movimento culturale bretone, la moda della musica celtica, e l’autonomia delle regioni. Giustamente, a questo proposito, ci dice: “I Festival più in vista, i più “classici”, perdono vigore (calo delle presenze a Bourges, Avignon, La Rochelle). La Francia è il paese d’Europa con la maggior quantità di Festival. La cosa più importante è sapere se il Festival è destinato a durare nel tempo. Orbene la maggior parte dei FeAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 stival si occupa di tematiche limitate (jazz, lirica, eccetera). Fin dall’inizio, nel 1971, il nostro concetto guida è stato d’essere adattabili, a geometria variabile, in un’epoca dove le nostre tematiche potevano sembrare marginali, in un’epoca dove la cultura celtica e bretone era meno di moda che adesso. È questa la ragione per cui ci si è anche rivolti verso l’editoria e i libri specialistici. C’erano dunque due tipi di Festival: da una parte i Festival “parigini” e dall’altra i Festival prodotti sul posto. I Festival che avevano dei finanziamenti erano quelli ideati a Parigi (Avignon, le “francofolies”, eccetera), in una sorta d’établisment parigino, che si comincia a conoscere un poco, con i loro direttori che dividevano i loro Festival con i critici, i giornalisti... La “combriccola” se ne tornava a Parigi e dava la notizia a tutti i media nazionali. Il FIL fatto sul posto non era preso sul serio. Non si rientrava in quella logica di gente che si conosce l’un l’altro...” Bisogna aggiungere, per la cronaca, che il FIL non ha mai ricevuto la più piccola sovvenzione dal Ministero della Cultura e che le relazioni con quest’ultimo restano penose. Però le celebrità del paese si impegnano ugualmente. Roger Gicquel, l’anziano presentatore vedette del primo canale della televisione, messo in pensione dal video dall’anno scorso, era presente al concerto di Dan Ar Bras. Al salone del libro, firmava dediche a tutta forza sulla sua ultima opera. A primavera presiedeva il comitato di sostegno del Partito per Organizzazione della Bretagna Libera (POBL) in occasione delle elezioni regionali. Ma anche quelli che sono ancora in attività cominciano a “degnarsi” di occuparsene: Patrick Le Lay, (Presidente e Direttore Generale di TF 1) presenta il suo progetto di televisione bretone e dichiara: “Entro tempi brevi noi avremo la possibilità di creare delle televisioni regionali. Fino a oggi lo Stato lo vietava e non concedeva le frequenze. Una televisione in Bretagna, in Corsica, in Occitania, in Fiandra andava a scontrarsi con il giacobinismo francese.” Sul tema delicato dell’identità, non esita a impegnarsi anche di più: “In materia sono molto radicale. Io mi qualifico essenzialmente bretone. Questo permette di avere un’identità tanto più forte quanto più questa é stata combattuta. Oggigiorno c’è una fortissima reazione a questo tentativo di eliminazione. Questo è formidabile! Una vera presa di coscienza. Noi non abbiamo più vergogna di essere bretoni. La vita rispetto al paese, rispetto ai valori che riscattano questa appartenenza è certamenAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 te più ricca di quella che si può trovare a Parigi. In effetti l’Europa è una grande occasione per le regioni che vogliono provare a esprimersi. La Francia è il solo paese statalista d’Europa. La Spagna, la Germania non sono degli Stati. La Catalogna è una regione estremamente possente. In Gran Bretagna si disegna una evoluzione molto significativa con i Parlamenti scozzese e gallese.” (1) Della mia visita al FIL, avrò conservato un’idea base che emerge sempre nei dibattiti: sullo sfondo c’è sempre la feroce volontà d’indipendenza dei popoli celti. Questi riprendono sicurezza in sè stessi e rifiutano il vecchio colonialismo degli Stati nazione, che sia quello della Gran Bretagna per gli scozzesi e i gallesi, o quello della Francia per i bretoni. Analizzerò quindi il successo di questo impressionante movimento culturale studiando le sue origini, i collegamenti che ha saputo tessere col mondo economico e politico, essendo essenziale per i movimenti come i nostri la comprensione dei meccanismi che “oliano” le articolazioni tra queste tre sfere. La trasmissione della cultura attraverso l’esempio della musica bretone: la storia di una riforma e di una resurrezione Dunque l’Europa è scossa da regioni che si impongono, da regioni che sbocciano. Nel novero degli ingredienti del successo, quasi sempre si trova la presenza di una identità culturale forte. Per le regioni l’identità culturale non è neutra. All’interno permette di cristallizzare le energie della comunità e all’esterno costituisce molto semplicemente l’occasione di esistere agli occhi degli altri: è creatrice di immagine. Un forte progresso in tutta l’Europa L’anno prossimo, la Scozia dovrebbe accedere alla propria indipendenza. Il cineasta scozzese George Kenavan, membro dello SNP (Scottish National Party) da due anni, vecchio laburista deluso da Blair e dal New Labor, spiega: “Questo sentimento indipendentista è stato nutrito da un rinnovamento culturale, dai romanzi, dagli spettacoli teatrali che parlano della realtà scozzese; esistono dei gruppi di rock gaelico come i Dunrig.” In quanto alla celebre arpista gallese (1) Si noti che la Repubblica italiana non viene neppure citata: non è ritenuta seria neanche come oppressore delle identità locali. Quaderni Padani - 51 Eléonore Bennet (presente al FIL del 1998), è sposata con uno dei principali leaders del movimento indipendentista: ecco come cultura e politica vanno innegabilmente assieme. Anche la Slovenia, qualche tempo prima d’ottenere l’indipendenza, aveva visto espandersi la nuova arte slovena, una cultura in qualche modo legata alla montagna. In seno a questa Europa delle Regioni, la Bretagna è di moda. I turisti estivi ne fanno una meta privilegiata. I consumatori apprezzano i suoi prodotti con marchio d’origine, il suo patrimonio architettonico e culturale, i suoi appuntamenti festivi e la sua buona tavola. Si tratta di una moda? Non è questo qualcosa di più radicato? In effetti, se si studia più in profondità il fenomeno, ci si accorge che l’esplosione culturale bretone è il frutto di un lungo lavoro che ha permesso di arginare la fuga di talenti creando dei veri mercati culturali in Bretagna. La creazione di questi mercati ha così permesso di far restare in zona degli artisti la cui sola preoccupazione era, stata, fino allora, di “andare a Parigi” lasciando in loco la “seconda scelta” delle loro creazioni. Il talento, la cultura, l’attitudine a creare si aggiungono così all’attivo della ricchezza delle regioni e contribuiscono indubitabilmente a farle vivere e a farle riconoscere. Noi stiamo attualmente vivendo una fase di mondializzazione e di standardizzazione culturale. Più generalmente, questo fenomeno è inevitabile perchè attinge a degli intrecci strutturali, economici e soprattutto tecnologici (facilità di telecomunicazioni), e questo ha come effetto di dare dei vantaggi supplementari alle regioni che possono vantarsi d’essere costruite su un solco culturale forte. Se si aggiunge a questa condizione il fatto di aver conservato una coesione sociale, queste Regioni si trovano straordinariamente ben equipaggiate per fornire sia delle radici alle genti che ci vivono, sia dei riscontri alle genti esterne che ne hanno bisogno. Questo è dunque qualcosa di più profondo di una moda, è realmente un vero fenomeno di civilizzazione che non farà che amplificarsi oltre le piccole risacche ritmate dalle mode parigine o romane. In tutta Europa l’avvenire appartiene alle Regioni che saranno culturalmente forti. Bernard Cadoret, direttore delle riviste Ar Men e Le chasse-marée ci dice: “Si ha la sensazione che oggigiorno si è maggiormente attaccati, per necessità, alle proprie radici. Per schematizzare, due campi di idee si contrastano. Si vuole una standardizzazione generale col dollaro-re, la 52 - Quaderni Padani cultura unicamente anglofona o, meglio, si vuole mettere in evidenza quello che fa la personalità, la differenza? Io non penso che si possa essere felici quando si è diventati una semplice pedina sul mercato dei consumi.” Cadoret ci spiega successivamente che in Bretagna si è cominciato a effettuare una ricerca storica approfondita, un po’ come hanno fatto da parte loro i musicisti. Si sono scritti dei libri, creati dei musei e, finalmente, i Bretoni si sono resi conto che questo salvataggio delle memorie costituisce la base per vivere il domani. Sembrerebbe che si stia giungendo a questo stadio anche in Savoia perché, come ci ha detto Jean de Pingon: “Savoia e Alta-Savoia hanno, sembra, il privilegio di essere i Dipartimenti di Francia che hanno il più gran numero di aderenti a delle società culturali, è anche in questi Dipartimenti che sarebbe pubblicato annualmente il più alto numero di opere dedicate alla storia regionale.” Per la Padania, non saprei pronunciarmi perchè non conosco molto il contesto locale, ma il confronto potrebbe confermarsi interessante. Il fenomeno della musica tradizionale La musica tradizionale bretone non ha mai conosciuto tanti interpreti di qualità come oggi e la Bretagna è il primo produttore di dischi della Francia. I musicisti del mondo celtico si contano a decine di migliaia. Dietro a questo fenomeno vi è un lungo lavoro realizzato dai movimenti associativi che hanno capito che la formazione era l’elemento cardine del rinnovamento della cultura in Bretagna. In effetti queste migliaia di musicisti, che si spartiscono le feste e i Festival, non sono usciti improvvisamente dal nulla e la loro moltiplicazione è stata il frutto di un lungo lavoro, avviato da sodalizi culturali per lungo tempo marginalizzati. La vita o la morte delle musiche tradizionali dipendono dalla solidità di una catena nella quale ogni elemento è necessario. Questa catena è formata da quattro elementi: la raccolta, l’insegnamento, la pratica e la creazione, la diffusione. Annotiamo che questo lavoro di raccolta primordiale è stato fatto in Savoia da Jean Marc Jacquier. In Bretagna, un cantante tanto conosciuto come Yann Fanch Kemener prosegue ancora oggi questa opera. Questo figlio di modesti contadini è reduce dall’aver pubblicato questa esperienza in un libro intitolato Carnets de route. I “Celtofili” si sono interessati al primo anello della catena, ma l’approccio etnomusicologico e Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 la raccolta (malgrado l’interesse che poteva suscitare) non bastano a far vivere delle culture a fronte degli immensi sconvolgimenti sociologici di una regione. Tra le due guerre, restavano in Bretagna solamente poche decine di musicisti, di suonatori di biniou, di bombarde, fisarmonicisti, violinisti e suonatori di clarinetto. È per questo che i nostri suonatori di baghet (come il nostro amico Giorgio Mazzocchi) non devono scoraggiarsi, una rinascita è sempre possibile: l’esempio della musica bretone lo prova in maniera meravigliosa. E’ Alan Stivell stesso che lo dice: “Abbiamo quasi dovuto crearci delle basi tradizionali perchè, per le persone della mia generazione, le radici erano tagliate.” I musicisti bretoni di quell’epoca appartengono a un mondo rurale in rapido cambiamento. Il complesso d’essere bretoni, i nuovi mezzi di trasporto, l’esodo rurale, hanno allora spinto i musicisti ad abbandonare le musiche tradizionali a vantaggio delle musiche della città. I figli dei contadini, immersi nel turbinio della città, installati a Parigi, Rennes o Nantes, si sentono un po’ sradicati e cominciano a rivolgersi verso la musica o la danza bretone accorgendosi che avevano immolato un po’ troppo presto la loro cultura in nome del progresso. Il contatto dei primi musicisti usciti dalla tradizione e da queste nuove strutture urbane permette in un primo tempo di mantenere il collegamento. La transizione si può fare tra gli ultimi rappresentanti della tradizione e dei movimenti ove si mescolano la nostalgia, il “folklore” ma anche con quelli che hanno scommesso di vivere al presente le culture che non si sono mai estinte. I circoli celtici fioriscono allora nelle città piccole e grandi, da Pont-Aven a Parigi. Alla fine della seconda guerra mondiale si sono organizzati i primi stages di musica bretone a Arzhon e a Argol. Con la comparsa dei primi bagadoù imitanti le “pipes bands” scozzesi e irlandesi, la formazione musicale si organizza a scala regionale per le cornamuse bretoni, le Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 bombarde e le batterie. Manca tutto: gli strumenti, le ancie, le raccolte di musica, i metodi, gli insegnanti. Bodareg Ar Sonnerion e altre organizzazioni moltiplicano gli stages. Emile Alain, Jean L’Herelgouach pubblicano dei metodi didattici. Dorig Le Voyeur si installa a Rennes e fabbrica dei binious e delle bombarde. Più tardi Dastum raggrupperà il lavoro di compilazione effettuato in questo periodo e continuerà l’opera dei pionieri. Negli anni 70, il sistema di formazione comincia ad affinarsi e ci sono parecchie migliaia di suonatori bretoni. Dopo gli sconvolgimenti del maggio 1968, Alan Stivell, che dirigeva la bagad Bleimor de Paris, mette in orbita la musica bretone. Allora sulla base del volontariato, i migliori musicisti bretoni si mettono al servizio di tutto un reticolo di formazione. Nel 1978, la pubblicazione di una Carta Culturale per la Bretagna sembra dover segnare una svolta per la musica bretone. È il riconoscimento, da parte del Presidente della Repubblica in persona, del diritto dei Bretoni ad avere una cultura differente. Un intoppo importante è sbloccato per costruire un Conservatorio Regionale a Lorient, inaugurato nel 1981. Per la prima volta, l’insegnamento tradizionale è svolto in locali adatti da dei professori rinomati seguendo un corso chiaro, sostenuto da una appropriata pedagogia. Ma questo non accade senza porre dei problemi nei rapporti tra i tradizionalisti e i modernisti. Il molto carismatico segretario generale del FIL, Jean Pierre Pichard, si ricorda: “Quello che avrebbe potuto essere uno strumento di prim’ordine diventa un luogo di contrasto. I priQuaderni Padani - 53 mi rappresentanti del Ministero, gli etnomusicologi, volevano vedere le espressioni musicali morire di morte naturale con le società che le avevano generate. I seguenti, i classici, non vedono alcun interesse nella cosa. Gli ultimi vogliono semplicemente dei corsi di etnomusicologia senza pratica strumentale. Per contro, dall’altro lato i rappresentanti duri del movimento culturale bretone, che avevano paura di perdere importanza e credibilità, considerano il Conservatorio come un concorrente. Preso in una morsa tra Parigi e i Bretoni, talvolta integralisti, questo progetto è soffocato sul nascere quando il numero degli allievi raddoppia tutti gli anni. 524 allievi si ritrovano senza professori nel 1985.” I Conservatori di Nantes, Lorient, Quimperlé, Kemper, St Brieuc aprono delle sezioni di musica tradizionale, riassumendo in parte i professori usciti da questa esperienza. E l’insegnamento della musica bretone è ora riconosciuto grazie alle istanze regionali e dipartimentali. Jean Pierre Pichard fa la sintesi di questo fenomeno: “La musica tradizionale è una materia fragile e, uscita dal suo contesto originale, avrebbe potuto intristirsi e vuotarsi della sua sostanza. Malgrado situazioni materiali difficili, e un contorno qualche volta ostile, la tradizione è tuttavia riuscita a sopravvivere e a prosperare. I musicisti bretoni sono riusciti nella prova di forza di portare le loro musiche dal fondo della civiltà rurale al cuore delle città senza perdere l’anima e il contenuto. [...] Si sarebbe potuto temere una distorsione, una folklorizzazione, una perdita di identità della musica bretone, si sarebbe potuto trovare dei tecnici seguenti il loro spartito e non dei veri musicisti conoscitori della materia vivente che interpretano. La maggior parte degli scogli e degli errori sono stati evitati, non ci sono mai stati tanti musicisti di talento in Bretagna come in questa fine del XX° secolo. I più arditi creatori, come Alan Stivell, Roland Becker, Jean Louis Le Vallégant, che sono stati anche campioni dei concorsi di musica tradizionale, quando creano, non lo fanno “non importa come”, ma sono capaci di non tradire la materia con cui essi lavorano. Una cultura che non evolve, che si congela, è una cultura in una triste posizione. In Bretagna, si trovano tutti i segni qualitativi e quantitativi di una cultura in piena salute, si constata che la sorgente celtica non è disposta a tradirsi. Questo è sicuramente un esempio per altre regioni e una dimostrazione per quelli che l’avevano sotterrata troppo presto.” 54 - Quaderni Padani Bilancio e prospettive per la Savoia Ringraziamo Jean Pierre Pichard per questa eccellente lezione, soprattutto sperando che da noi, dove il lavoro sembra arduo, ci siano dei buoni ascoltatori! In Savoia, uno come Jean Marc, è in urto permanente con dei gruppi di suonatori che rifiutano di evolvere e restano disperatamente congelati in un folklore tradizionalistico e condannato. La loro francofilia, talora senza limiti, non è più di attualità al tempo dell’Europa dei popoli! Si è ugualmente potuto vedere un gruppo, di cui tacerò per carità il nome, celebrare l’annessione della Savoia alla Francia... Inoltre da 15 o 20 anni, non hanno registrato alcun disco e questo è totalmente incomprensibile perché la Savoia, come la Bretagna, ha la fortuna di avere una forte identità. In Savoia non esiste niente a livello di insegnamento della musica tradizionale, sia nei Conservatori che altrove. Nella catena dei quattro elementi di cui abbiamo precedentemente parlato, noi non siamo stati capaci di superare il primo, quello della collezione, e questo fa arrabbiare. E che nessuno venga a dirci che il patrimonio musicale della Savoia è povero e meno degno di quello delle altre regioni! Chi afferma questo da prova di un pessimismo o di un disfattismo, o di ignoranza, al pari di vera ostilità nei confronti della nostra identità culturale. In effetti Patrice Abeille ricorda su Renaissance Savoisienne: “La Savoia possiede un ricchissimo patrimonio musicale. Oltre il Noël de Bessans, i compositori Nicolas Martin e Georges Muffat, che si possono attribuire al repertorio classico, sono stati collezionati migliaia di canti e canzoni. E lo stesso vale per le danze: sono stati raccolti valzer, monferrine, polche, mazurche, quadriglie. Lo stesso vale per le danza popolari del vecchio Ducato. Questo patrimonio musicale dovrebbe essere valorizzato.” Io non conosco ancora il patrimonio musicale delle altre Alpi. Io so semplicemente che esiste poiché il nostro amico Jean Marc Jacquier ha costruito due anni or sono, sullo stesso concetto di Dan Ar Braz, uno spettacolo inter alpino intitolato Musik’Alpes dove il patrimonio musicale valdostano e piemontese è stato messo in forte evidenza. Fin tanto che saremo, nostro malgrado, governati dalla Francia e dal suo colonialismo, dobbiamo fare delle richieste per rivitalizzare la nostra cultura. Noi chiediamo quindi che l’80% dei fondi del Ministero della Cultura siano “regionalizzati”. Oggi del 62% di questi beneficia direttamente l’Ile-de-France, nonostante che in tale reAnno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 gione si concentri solo il 19% della popolazione totale. Un altro esempio sorprendente: il settore delle musiche e delle danze tradizionali riceve una sovvenzione totale di 6 milioni di franchi all’anno (somma che non è mai stata rivalutata dal 1993), inscritta nel bilancio del Ministero della Cultura, ed è l’equivalente dell’1% dell’aiuto accordato alla sola opera di Parigi, quando questo settore vende più di 2 milioni di dischi all’anno e raggruppa 10.000 manifestazioni annuali. Economia e cultura: una coppia finalmente riconciliata L’ultimo punto del mio intervento tocca le relazioni del mondo culturale con quello dell’economia. Al FIL, quest’anno, si è molto parlato di complementarità dei rapporti tra il mondo dell’economia e quello della cultura, con la delicata questione dei finanziamenti di quest’ultimo. Secondo la sociologa Pascale Weil, una delle caratteristiche originali del nostro decennio sarebbe quella di essere ingordi di alleanze, anche paradossali: così abbiamo conosciuto l’economia mista, le tecnologie che si riconciliano con la logica della qualità della vita nelle biotecnologie, le relazioni di coppia che si negoziano, la moda che alle volte fa lega con influenze esotiche, etniche e rigoriste, l’alimentazione con l’insperata alleanza tra la ghiottoneria e la dietetica. Per uno spazio economico e culturale autogestito È in quest’ottica che attualmente si stà cercando di elaborare un’alleanza tra la cultura bretone e l’economia. Sembra che il “padronato” di Bretagna carezzi l’idea di divenire un padronato bretone. Negli anni 50 era già stato creato il CELIB (Comitato di Collegamento degli Interessi Bretoni), un’organizzazione un tempo presieduta da René Pleven e che funzionava come una sorta di lobby, raggruppante i parlamentari bretoni (dalla destra al PS) e i rappresentanti degli organismi professionali e dei sindacati. Questa struttura giocò un ruolo di primo piano nella modernizzazione economica della Bretagna dal 1951 al 1964. Ma le tematiche storiche e culturali erano state trascurate. Sembra che le cose siano in procinto di cambiare con dei capitani d’industria quali Pinot, Boloré, Leclerc, Le Duff, Yves Rocher. Questi si sono raggruppati nel “Club dei Trenta”, con riferimento alla battaglia del 1351 che mise di fronte 30 cavalieri bretoni e 30 cavalieri inglesi e che i Bretoni avevano vinto. E’ sorprendente che il padronato bretone Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 emergente provi la necessità di cercare riferimenti nella vera storia della Bretagna, soprattutto della Bretagna indipendente. Questa associazione ha impegnato delle somme importanti nella produzione e nella diffusione massiva presso il grande pubblico di “strisce” disegnate e di cassette video destinate a divulgare la storia della Bretagna e realizzate da autori molto conosciuti, come Reynald Seycher. Esistono anche due associazioni di imprese che vogliono identificare i loro prodotti come bretoni. La più in voga è “Produit en Bretagne” che è stata creata nel 1993 per iniziativa dei gruppi Even e Leclerc, del quotidiano Le Télégramme e da distributori e banche. “Produit en Bretagne”, che interessa 87.000 salariati, mira a creare un clima generale favorevole ai prodotti bretoni con la messa in opera di mezzi di comunicazione pubblicitari e istituzionali. L’iniziativa parte dalla constatazione che si produce “dappertutto in Europa, in reazione alla mondializzazione della società, un movimento affettivo di fondo in favore della regione”. Le Peuple Breton (organo mensile del partito autonomista UDB) sostiene che la cosa costituisca “un vero manifesto autonomista” mentre Le Télégramme stima: “Piuttosto che aspettare la salvezza dallo Stato, una comunità dinamica e solidale deve appoggiarsi sulle proprie forze vive e valorizzare le proprie capacità.” In questo modo la maggior parte degli attori sottolinea che è rinforzando l’identità culturale che si rinforza uno dei motori dello sviluppo economico, e che lo sviluppo della cultura e dell’economia vanno di pari passo. Simili erano le preoccupazioni di Jean Pierre Pichard quando ha deciso con Jean Luis Simon, direttore dei Produit en Bretagne di creare dei premi consegnati al FIL per incoraggiare la creazione culturale. Questi premi sono stati consegnati dall’astronauta Jean Loup Chrétien (che non esita a dichiarare che si sente bretone molto prima d’essere francese) e dal direttore della NASA il sabato 15 agosto al gruppo Skeduz per il suo primo album; il pianista Didier Squiban ha ricevuto il primo premio del Disco prodotto in Bretagna e i suonatori Baron-Anneix hanno ottenuto il premio del miglior disco tradizionale. Verso un movimento politico fortemente bretone Oggi pare che l’osmosi tra le tre sfere sia perfettamente funzionante in Bretagna. Jean Pierre Pichard constata che: “Quest’anno si sono allacQuaderni Padani - 55 ciate nuove relazioni con un certo numero di politici. (..) In Bretagna quello che emerge è una cultura viva e differente dalle altre. Io credo che l’avvenire apparterrà alle regioni che esistono per la loro cultura. (..). Tra economia e cultura, le passerelle si sono moltiplicate molto in fretta. C’è pure questo inizio di interesse per il FIL da parte del mondo politico poiché è il primo anno che dei politici si mettono in mostra ufficialmente al FIL (Consiglieri generali, regionali, amministratori locali). Dunque tra culture, FIL, politici e decisori economici, un lavoro di riflessione va a operarsi attorno a questa idea dell’esistenza culturale e dell’avvenire economico.” Prenderò la libertà di concludere senza Jean Pierre Pichard, che non può senza dubbio avventurarsi troppo lontano, che da un momento all’altro, alla mercé di circostanze storiche imprevedibili, questa non può che sfociare in un movimento politico forte come in Savoia, in Scozia, in Slovenia... Se lo sbocco politico non è ancora avvenuto, questo non può essere la cosa più grave perché l’anima celtica è ben viva. E’ quello che mi veniva in mente durante il concerto di Dan Ar Bras, lo “spettacolo faro” del festival interceltico: se la Bretagna non era ancora libera politicamente, il popolo bretone è ben in piedi. Allora, questo è solo più un problema di accomodamento politico, ma la Bretagna è potenzialmente libera. “Tutto l’amore dei Celti con Dan Ar Bras”, “L’eredità celtica è viva”, “Indimenticabile”: i titoli cubitali della stampa quotidiana bretone, erano eloquenti. Hanno messo tutti d’accordo! Non di meno si credeva che questo gruppo avesse già dato tutto al suo pubblico, in materia di emozioni e di piacere, a Nantes nel settembre del 1996, quando si era esibito davanti a più di 30.000 spettatori. Ma il venerdì 14 agosto è accaduto tra gli artisti e i 10.000 spettatori qualche cosa di incredibile, una specie di fusione totale da cui nessuno è uscito indenne. In effetti questo è iniziato come un concerto, ed è terminato in un ardore incredibile, dove non c’erano più né palcoscenico, né musicisti, né artisti, né spettatori. Il fenomeno è stato generato dalla fierezza collettiva di appartenere a una terra diversa dalle altre, impastata di magia, di emozioni e di misteri che derivano dagli arcipelaghi immaginifici degli antichi Celti. Si potrebbe vantare il grande talento di strumentisti straordinari come il suonatore di gaïta galiziana Carlos Nunez o il bagad Kemper, che 56 - Quaderni Padani da solo fa commuovere un popolo intero. Bisogna pure salutare lo spirito impegnato nelle canzoni come quelle cantate da Gilles Servat che intenerisce i Bretoni con i testi di Le Pays (“Lui è là, lui è in te...”) o con La blanche hermine (“Io dico che è follia andare a fare la guerra ai Franchi, io dico che è follia essere incatenato per ancora più tempo”), per terminare con Le vieux vin gaulois ma in bretone (“Vive le vieux vin de vigne, le vieux vin gaulois. Tan tan terre et ciel chêne faux rouge soleil..”). Alla fine del concerto tutti i bis abitualmente previsti erano finiti da tempo, Dan, le lacrime agli occhi è tornato e ha gridato “Siete meravigliosi! Se un giorno la Celtica è stata inventata, è a Lorient che si è fatta!” Allora tutti sono risaliti sul palco davanti all’insistenza degli spettatori che non volevano più andarsene, per suonare altri pezzi d’antologia, mentre giovani e vecchi, borghesi e proletari, sia bretoni che turisti, si sono trovati a ondeggiare le braccia alzate e a cantare durante qualche minuto. Infine Dan ha lasciato andare la sua chitarra, ha abbracciato Gilles Servat e i suonatori di bagad Kemper. È in quel preciso istante che io ho veramente compreso la potenza che potevano generare i decenni d’investimento e di lavoro continuo all’interno di un movimento culturale. Questo auguro al nostro amico Thierrj Jigourel, al tempo stesso dirigente del POBL e collaboratore di periodici padanisti: un seguito politico per il suo movimento. E noi speriamo che il risveglio politico della Savoia e della Padania abbia al pari un soprassalto culturale e che non resti allo stadio di articoli teorici, perché un giorno orchestre e cantori possano celebrare la primavera dei nostri popoli! Bibliografia Patrice Abeille, Renaissance savoisienne (Cabédita, 1998) Jean De Pingon, Savoie française: Historie d’un pays annexé (Cabédita, 1996) Ronan Le Coadic, L’Identité bretonne (Terre de Brume - Presses Universitaire de Rennes, 1998), pag. 479 Le Peuple Breton- Pobl Vreizh, luglio-agosto 1998, n° 415-416 Le Télégramme, Lorient, 18 agosto 1998 Libération, 12 agosto 1998, p. 7 “L’Ecosse libre, un rêve de moins en moins fou” L’InterCeltique: le magazine du Festival interceltique de Lorient, primavera 1998 Ouest-France 15-16, 17, 18 agosto 1998 Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 Biblioteca Padana Michael Collins L’Irlanda contro il “diritto di conquista” Raffaello Cortina Editore È sicuramente di grande attualità per il movimento padanista la pubblicazione dell’edizione italiana di Path to Freedom, raccolta di scritti del rivoluzionario irlandese Michael Collins, con prefazione di uno studioso del calibro di Giulio Giorello. Si tratta di un volumetto agile ed interessante per ripercorrere con Collins la “strada verso la libertà”, rivivendo i giorni dell’insurrezione irlandese del 1916 e i tempi dell’Irish Free State, finendo inevitabilmente per riflettere sul tema-chiave delle lotte di indipendenza di ieri e di oggi: la libertà, appunto. Libertà che Collins scrive di aver ricercato “senza aggettivi”, sicuramente dal dominio inglese, ma anche come diritto di ritornare allo stile di vita gaelico, malgrado “questa schiavitù che ancora esiste”, ovvero l’omologazione ai costumi inglesi, la perdita delle proprie radici, e di conseguenza della propria autonomia individuale prima ancora che nazionale. Sostiene Collins: “Siamo divenuti pallidi imitatori degradati dei nostri tiranni”. Autonomia è dunque in primo luogo consapevolezza delle proprie peculiarità e (legittimo) orgoglio per la propria “diversità”. Non a caso, per il rivoluzionario irlandese è necessario “liberarci della degradante menzogna che tutto ciò che è inglese è necessariamente rispettabile e tutto Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999 ciò che è irlandese è necessariamente meschino e inferiore”. In questo frangente, significativo il richiamo dell’ex minister for gun running and general mayhem alla stampa, che festeggia sì la ritrovata libertà dello Stato Libero d’Irlanda, ma non è capace di liberarsi dai vincoli acquisiti in secoli di dominazione straniera, e continua a parlare in prima pagina della società inglese. Nei testi raccolti in Path to Freedom, si può poi scorgere il richiamo alla essenziale piena libertà economica, in chiara contrapposizione alla schiavitù dei gabellieri inglesi, e nel ricordo di un periodo particolare della storia irlandese, a posteriori indicato come “anarchico” e laissez faire. Periodo improntato agli scambi volontari all’interno dell’isola, nel segno di un’economia e di una società “aperte”: le stesse che Cromwell avrebbe impunemente distrutto inaugurando la (troppo) lunga stagione del predominio inglese in Irlanda. Questo sogno, di un’Irlanda capace di recuperare gli antichi costumi che fosse al contempo una società pluralista e tollerante, fu assassinato con Collins: ed il risultato fu diametralmente opposto, cioè quella “nazione” cattolica e rurale che fu la “repubblica delle ventisei contee” di De Valera. Seppure (speriamo, solo momentaneamente) sconfitta, la voce di Collins si inserisce in quel coro di individui disposti a lottare per l’altrui libertà come per la propria: “Se Dio o la Natura hanno concesso a un popolo di possedere delle Terre, e qualche altro Principe o popolo l’invade e lo conquista, privandolo della sua terra, imponendogli leggi, Governo e funziona- ri, non è forse giusto diritto di chi è invaso e conquistato opporsi ai propri nemici per riavere la propria Libertà e ciò che gli spetta ?” . Non a caso Collins si rifiuta di chiamare “assassinii” i legittimi atti cui fu costretto dall’occupazione inglese il popolo irlandese, che non cominciò la guerra né poté scegliere il campo di battaglia. Egli smaschera l’ipocrisia dell’Inghilterra che, nel momento in cui privò del legittimo diritto di portare armi agli irlandesi rendendolo un reato, aveva sviluppato una campagna barbara ed omicida verso i singoli abitanti dell’Irlanda. I singoli: Collins non dimentica mai, in queste sue pagine, che “quando pensava alla nazione, Thomas Davis (il leader della “Giovane Irlanda”, ndr) pensava agli uomini ed alle donne della nazione. Sapeva che se non fossero stati liberi, non avrebbe potuto essere libera l’Irlanda”. Una riflessione di grande efficacia e di straordinaria attualità, che pone necessariamente Michael Collins al centro del dibattito non solo dunque come grande rivoluzionario, ma anche come pensatore limpido, onesto e liberale. Un’ultima considerazione: molto spesso gli ideali dei Collins o dei suoi omologhi (siano essi il Mohatma Gandhi o Thomas Jefferson) non vengono portati a compimento come si vorrebbe. È stato così per l’Irlanda di DeValera, è stato così per quegli Stati Uniti, dove “il governo che governava meno era il governo che governava meglio”, che hanno subito nel ‘900 un’esclation statalista e centralista che li ha portati a combattere e sovente affossare quei diritti individuali per la difesa dei quali erano nati. Spesso, poi addiritQuaderni Padani - 57 Biblioteca Padana tura i liberatori divengono “tiranni” al pari di quelli che li hanno preceduti. Ha avuto un senso allora la lotta? Così risponde, nell’introduzione a La Strada per la libertà, Giulio Giorello: “Collins ha saputo fare sua la replica dei libertari di ogni tempo: se anche una lotta di liberazione sfocia (temporaneamente) nel compromesso o “muore” nella dittatura, non è valsa comunque la pena di rischiare?”. Alberto Mingardi Trasgressioni Quadrimestrale di cultura politica, numero 25 (1998), Pp. 128, e numero 26 (1998), pp. 128. Lire 10.000 cad. Il nome di Marco Tarchi -professore nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze- è ben noto a chi si occupa di studi politici e istituzionali. Pur riconoscendo la sua serietà metodologica e storiografica, gran parte dell’apparato culturale liberal gli attribuisce posizioni politiche personali a dir poco oscure. Al contrario, attento e metodico studioso della crisi politica dei regimi democratici (e il fenomeno del “leghismo” non poteva non passare attraverso la sua lente meticolosa ed esigente), Tarchi è anche animatore di un orizzonte culturale che si definisce, con orgoglio, “non conformista”. In questa prospettiva, dirige e coordina due importanti riviste: il quadrimestrale di cultura politica “Trasgressioni” e il mensi58 - Quaderni Padani le di attualità culturali “Diorama letterario”. Negli ultimi numeri di “Trasgressioni” si leggono due articoli dello stesso Tarchi che senz’altro interesseranno il lettore dei Quaderni: “Il ‘crimine’ etnopluralista”, sul numero 25 (l’articolo è apparso anche, con lo stesso titolo, in versione parziale, sul numero 20/1998 di Tellus, rivista di geofilosofia), e “Le radici della crisi italiana e le scorciatoie dell’ingegneria istituzionale”, sul numero 26. Quest’ultimo riporta, tra l’altro, anche una ben curata analisi di Pietro Montanari sul “Documento per un nuovo federalismo” di Massimo Cacciari. Già da una prima lettura ci si può rendere conto della serietà del “prodotto” e della sua indubbia utilità documentaria. L’articolo sul “ ‘crimine’ etnopluralista” è una risposta critica di Tarchi alle posizioni di Bruno Luverà (giornalista della Rai, del quale i lettori ricorderanno gli interventi, pubblicati su Limes, non sempre benevoli nei confronti dei Quaderni; in particolare, il riferimento è a: “La politica estera della Lega”, Limes, 2/1997, pp. 87-96) e ai detrattori dell’idea federalista. La risposta, analitica e rigorosa, non manca però di spunti polemici. Accanto ad una certa confusione metodologica, Tarchi rimarca, respingendola, la volontà di inutile criminalizzazione che accompagnerebbe le posizioni di Luverà. Certamente, la “dietrologia” sui presunti “finanziamenti” e “suggerimenti” bavaresi alla Lega e ai federalisti tout court sta cadendo in disgrazia anche presso coloro che si nutrono di insinuazioni allarmistiche, ma è comunque viva e attuale l’esigenza di portare finalmente chiarezza (quantomeno chiarezza intellettuale) su questo tema. Tarchi ha questo merito, e ha l’indubbia capacità di legare verve polemica e cognizione di causa (cosa che, purtroppo, non sempre avviene). L’articolo sul numero 26 di Trasgressioni, invece, parte da una questione fondamentale nella ricostruzione della dinamica della crisi del sistema italiano: la latenza della crisi stessa nel piano dei governi di centro sinistra. La “crisi italiana” viene così analizzata da Tarchi secondo i suoi sviluppi, seguendo i tempi lunghi della sua costituzione, abbandonando gran parte dei luoghi comuni tra Prima Repubblica e Seconda Repubblica, e mostrando, infine, continuità e divergenze nel segno di quella latenza, diventata, col tempo, “patenza” e, purtroppo, degenerazione costante. Le riviste, dal prezzo contenuto, sono facilmente reperibili in libreria, ma per informazioni ci si può rivolgere alla Cooperativa culturale “La Roccia di Erec” di Firenze (che coordina anche un bel servizio di offerte librarie), telefonando allo 055-2340714 o mandando una mail a [email protected]. Marco Dotti Anno V, N. 24 - Luglio-Agosto 1999