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“Vieni e vedrai” (Gv 1,46) La passione per il compito educativo

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“Vieni e vedrai” (Gv 1,46) La passione per il compito educativo
ALCESTE CATELLA
VESCOVO DI CASALE MONFERRATO
“Vieni e vedrai” (Gv 1,46)
La passione per il compito educativo
Messaggio alla Diocesi per l’anno pastorale 2009–2010
Misericordias Domini cantabo
Carissimi,
“Vieni e vedrai” è l‟invito che l‟apostolo Filippo rivolge a Natanaele
che è scettico nei riguardi di quel Gesù di Nazaret che gli viene
annunciato. Filippo da buon educatore insiste ed invece di proporre
dottrine, propone un‟esperienza da fare insieme. E‟ l‟invito che con
semplicità e forza intendiamo rivolgere ai fratelli e alle sorelle “in
ricerca”: perché proprio da questo invito s‟avvia l‟incontro e la
proposta educativa. Vieni tra noi e vedrai una comunione d‟amore
fondata sulla fede in Gesù. Vieni tra noi e vedrai come si ascolta la
Parola che illumina la storia; come si celebra l‟Eucaristia, come si
prega lodando Dio per i suoi doni; come ci si ama aiutandosi e
perdonandosi…
Firmo questa lettera nella data del 7 settembre: ad un anno dall‟inizio
del mio servizio pastorale all‟amata Diocesi di Casale Monferrato.
Sento urgente il bisogno del cuore di esprimere a tutti: sacerdoti,
diaconi, assistenti pastorali; a tutti voi sorelle e fratelli che costituite
il popolo santo di Dio il mio affetto e la mia gratitudine. E‟ stato per
me un anno intenso d‟incontri, di ascolto, di conoscenza, di
riflessioni comunitarie… Ho avuto la gioia di svolgere la Visita
Pastorale nella Vicaria di S. Salvatore, sono stato in sessantacinque
comunità parrocchiali per i più diversi motivi: il sacramento della
Cresima, festività patronali, momenti di preghiera… Ho trovato
dovunque accoglienza cordiale e fraterna e per questo dico il mio
grazie sincero.
Il tema sul quale intendo intrattenermi in riflessione con tutti voi è di
grande importanza: si tratta di quella che viene oggi definita
l‟emergenza educativa e che io preferisco chiamare la sfida
educativa o -ancor meglio- la passione per il compito educativo.
In altri termini, “perché l’esperienza della fede e dell’amore
cristiano sia accolta e vissuta e trasmessa da una generazione
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all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella
dell’educazione della persona”.
Occorre, allora, interrogarci con franchezza: in che misura sappiamo
comunicare, trasmettere, educare? In che misura sappiamo
annunciare con vigore e gioia l‟evento della morte e risurrezione di
Cristo, cuore del cristianesimo?
Si tratta di compiere una vera e propria “conversione pastorale”.
Occorre fare la scelta di centrare l‟azione pastorale attorno alla
persona, alle sue concrete e quotidiane esperienze. Si tratta, non tanto
di coordinare e organizzare le diverse attività; si tratta di partire e di
arrivare alla persona, all‟unità della persona e della sua coscienza.
«Una delle frontiere più delicate per la Chiesa di oggi consiste nella
grande sfida di comunicare il Vangelo alle nuove generazioni» (cfr
C.E.I., Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 57 § 4).
Ciò che sperimentano i genitori nei confronti dei figli, lo sperimenta
la Chiesa nei confronti delle nuove generazioni. La grande sfida è
quella di trovare i sentieri più opportuni per comunicare con loro e
per farlo in maniera persuasiva, soprattutto trattandosi della
comunicazione del Vangelo.
Non sono poche le famiglie cristiane e le parrocchie che avvertono e
soffrono in maniera lancinante questo problema.
Eppure, la nuova generazione resta, senza alternative, la nostra
risorsa per il futuro. Perciò, più che lamenti, occorre senso di
responsabilità.
L’impegno
“missionario”,
l’impegno
del
“trasmettere e comunicare”, l’impegno dell’“educare”…, deve
diventare sempre di più non un argomento, un impegno tra altri;
deve diventare il compito che qualifica la nostra pastorale
ordinaria.
Una premessa
Desidero richiamare un tratto del mio Messaggio inviato alla Diocesi
all‟inizio dello scorso anno pastorale, anno che abbiamo dedicato alla
Parola:
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«Forse ci ricordiamo di una famosa definizione dell‟uomo quale
“essere razionale”; è giusta; eppure credo che -fondamentalmente- essa
voglia dire: “essere che ha la parola” e dunque: essere fatto per ascoltare e
rispondere; essere fatto per instaurare un dialogo, per vivere un rapporto;
essere che raggiunge la sua pienezza e maturità quando è capace di dialogo;
per questa via si è davvero persone: donne e uomini davvero “riusciti”; per
questa via si è davvero “credenti”, cioè capaci di ascoltare Dio che parla, di
accoglierne la proposta, di metterla in pratica nella vita quotidiana; per
questa via si costruisce la società e la chiesa. In buona sintesi, si tratta di
compiere un‟umile scelta “culturale”: quella del “primato del dono” invece
del primato del piacere o del tornaconto… L‟inaudita novità del
cristianesimo postula l‟esigenza di mettersi nell‟attitudine di “accettare il
dono”. […]. Ascoltare è accogliere; è far spazio all‟altro, è stimarlo, è
valorizzarlo, è corresponsabilizzarlo…
Accogliere è mettersi al servizio dell‟altro… Accogliere è togliere da noi,
dalle nostre comunità ogni atteggiamento che possa favorire disprezzo,
rifiuto, chiusura preconcetta…».
Ebbene, mi pare che l‟azione dell‟educare s‟innesti esattamente in
questo punto: educare è instaurare un dialogo inteso non già a
trasmettere competenze o a fare addestramento… Si tratta di
realizzare l‟attenzione del cuore. Il rapporto educativo è “dialogo”,
anzi è intreccio vitale del destino di due persone.
Un’icona biblica
Porremo davanti alla nostra mente ed al nostro cuore il rapporto tra il
Signore Gesù e Simone Pietro. E‟ un rapporto educativo: il Maestro
prende Simone com‟è e dove è, ed è capace di far emergere
l‟entusiasmo generoso di questo discepolo e lo conduce ad affrontare
-passo dopo passo- tutte le esigenze del Regno, lo conduce alla “vera
coscienza di se stesso”. Il rapporto tra Gesù e Simone è a volte sereno
e bello, a volte conflittuale e drammatico; conosce attestazioni di
fedeltà e di gioia, ma anche di tradimento e d‟incertezza. Alla fine
questo rapporto educativo è vincente e Simone diventa veramente la
Roccia su cui è edificata la Chiesa del Signore.
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«Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone
figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu
lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci…”. Gli disse di nuovo per la
seconda volta: “Simone figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo,
Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pascola…”. Gli disse per
la terza volta: “Simone figlio di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase
addolorato che per la terza volta gli domandasse: mi vuoi bene?, e gli
disse: “Signore, tu conosci tutto, tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose
Gesù…, “tu, segui Me”»(Gv 21, 15-19).
1. Il “mistero” della Chiesa, ovvero: “chi è” la
Chiesa?
Cinquant‟anni or sono, il Beato Papa Giovanni XXIII annunciava il
Concilio Ecumenico Vaticano II. Tra i doni più preziosi che
dall‟evento conciliare abbiamo ricevuto, vi è la Costituzione Lumen
Gentium che individua le fondamentali dimensioni della Chiesa nella
comunione, nella ministerialità, nella missionarietà.
Ritengo opportuno sostare un poco a riflettere su questa realtà umana
e divina insieme che è la Chiesa; vogliamo fare nostra la domanda
cruciale che il Servo di Dio Paolo VI esprimeva iniziando la seconda
Sessione del Concilio: «Chiesa, che cosa dici di te stessa?». A partire
poi dalla risposta a questo interrogativo il Papa Paolo VI individuava
alcuni impegni: il rinnovamento della Chiesa, la ricomposizione
dell‟unità fra tutti i cristiani, il colloquio della Chiesa con il mondo
contemporaneo…: comunione – ministerialità – missionarietà, ecco
le “dimensioni” della Chiesa, ecco la sua “vocazione”.
Vogliamo anche riascoltare il puntuale magistero di Mons. Carlo
Cavalla così come si è “depositato” nei testi del XXVII Sinodo della
Chiesa casalese.
«Anche in mezzo a difficoltà e prove di ogni genere vi è la certezza, per noi
credenti, che la storia della salvezza continua e si dipana ogni giorno dalle
mani di Dio che “si serve delle strutture e delle impalcature di questo
mondo che passa, per realizzare il suo progetto di salvezza” (S. Agostino)»
(Orientamenti e Norme, 2).
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E proseguendo, il Sinodo afferma l‟inderogabile esigenza di
realizzare una profonda comunione, dato che solo per questa strada
possono venire ad esistere la ministerialità (vissuta da tutto il popolo
di Dio) e la missionarietà.
«Soltanto così le parrocchie, le comunità religiose e le varie aggregazioni
ecclesiali potranno offrire una testimonianza credibile, convincente ed
attraente di “famiglia di Dio”. La comunione ecclesiale è dono del Signore.
E‟ ricchezza che dovremo costantemente ricercare nel concreto di ogni
scelta ed atteggiamento, attraverso la piena disponibilità a pagarne il prezzo
in moneta di rinuncia, di sacrificio personale, di dono di sé agli altri»
(Orientamenti e Norme, 4).
Consentitemi, a questo punto, di svolgere una rapida catechesi sul
“mistero” della Chiesa.
- Invece di privilegiare un‟immagine, una categoria, un elemento per
delineare la realtà della Chiesa, cerchiamo di cogliere la Chiesa nel
suo momento nativo, vale a dire nel suo momento di derivazione da
Gesù Cristo; scopriremo che la Chiesa è la comunione che nasce
sull‟annuncio del Signore Gesù, il Crocifisso Risorto.
- Partiamo da un interrogativo: “Dove accade la Chiesa?” Dove essa
si fa avvenimento significativo per l’uomo? Per l‟attuale congiuntura
culturale? E potremmo rispondere così: “La Chiesa accade là e
quando qualcuno annuncia a qualcun altro che Cristo è risorto”.
- Lasciamoci istruire dal prologo della prima lettera di Giovanni.
Esso è molto semplice. Ci presenta la Chiesa non come una “cosa”
davanti al credente, ma come un evento che genera e alimenta la vita
del discepolo. Giovanni fotografa la Chiesa nel suo momento
sorgivo, e la vede come il “grembo” in cui nasce l‟esperienza
cristiana.
«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che
noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e
ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della Vita (poiché la
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vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza
e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a
noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi,
perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col
Padre e col Figlio sua Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la
nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1, 1-4).
In questo testo vediamo come tre momenti.
- Il primo corrisponde al primo versetto. Giovanni dice: abbiamo
visto, contemplato, ascoltato, toccato con mano il mistero di Dio che
si rende presente nella carne di Gesù e che ci fa suoi discepoli…,
«ossia il Verbo della vita», la Parola della vita.
Insomma, che cosa hanno visto, ascoltato, contemplato, toccato gli
apostoli? Che cosa ci annunciano? Che cosa abbiamo contemplato sin
qui? Un uomo, una persona che parla le nostre parole, che condivide i
nostri sentimenti, che si avvicina a noi, che fascia le nostre ferite, che
guarisce il nostro cuore, che accoglie su di sé la pecorella smarrita,
che mangia con i peccatori… E proprio in Lui, proprio in quella sua
vicenda umana, in quella sua storia, noi abbiamo trovato la Parola
della vita: la Parola che dà la vita.
Il fondamento della Chiesa, dunque, non può essere altro che
l‟esperienza viva di Gesù di Nazaret e in quest‟esperienza non si
tratta solo di cose che riguardano l‟anima oppure la dottrina, il
sapere…; si tratta di qualcosa in cui è implicato tutto quanto l‟essere
umano: udito, vista, tatto, sguardo. La Chiesa è là dove la totalità del
nostro io, della nostra persona incontra e fa esperienza di Gesù di
Nazaret.
- Il secondo momento ci è descritto dal terzo versetto: «Quello che
abbiamo visto e udito… noi lo annunciamo anche a voi, perché
anche voi siate in comunione con noi». L‟apostolo, la comunità (si
noti che l‟apostolo non usa il singolare, ma si colloca dentro e
insieme alla comunità), la comunione dei discepoli (= la Chiesa)
esiste per annunciare quella sua viva esperienza di Gesù. Insomma, la
Chiesa non si ripiega su se stessa, sul suo “fare esperienza di Gesù”,
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la Chiesa non mette in mostra se stessa, bensì rimanda oltre: essere
nella Chiesa, ascoltare l‟apostolo è incontrare Lui, il Signore… Così
nasce la Chiesa: nasce come comunione attorno all‟annuncio
dell‟apostolo e della comunità apostolica. Non semplicemente perché
abitiamo sullo stesso territorio e ci troviamo nel medesimo luogo.
Non perché semplicemente celebriamo alcuni gesti tutte le
domeniche. Non perché siamo anagraficamente iscritti alla comunità
cristiana dei battezzati. Noi siamo nella Chiesa perché realizziamo
ogni giorno la comunione attorno l’annuncio apostolico.
La Chiesa è là dove accogliamo l’annuncio dell’esperienza del
Signore che l’apostolo e la comunità apostolica hanno fatto e
hanno trasmesso.
Il modo con cui noi siamo venuti alla fede dice anche che cosa è la
Chiesa o, meglio, chi è la Chiesa. Non siamo venuti alla fede perché
ci è stato trasmesso un libro o una tabella di dottrine e di norme, ma
perché ci è stata trasmessa la Parola che dà la vita da una comunità
apostolica che è fatta dalle persone più semplici: dalla mamma e dal
papà che ci hanno insegnato a balbettare per la prima volta Dio con il
nome di Padre, a chiamare Gesù quando ci portavano sulle braccia;
dalla comunità, dal sacerdote, dal catechista che ci hanno introdotto
nei sacramenti dell‟iniziazione cristiana; dalle persone significative
che ci hanno accompagnato fino ai momenti della vita adulta, ai
momenti difficili o decisivi della nostra esistenza… Nella Chiesa
nessuno è il “primo”, nella Chiesa nessuno diviene ed è cristiano “da
solo”…
Possiamo dire che il secondo momento della Chiesa ne coglie il tratto
della concreta visibilità, del suo essere nel tempo e nello spazio…: la
Chiesa “si raduna attorno ad un annuncio”.
- Ed ecco il terzo momento; è introdotto dall‟espressione seguente:
“La nostra comunione (comunione generata da un annuncio
trasmesso e accolto) è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”.
Dunque, la nostra comunione, quella che realizziamo nelle nostre
case, quella che viviamo nella parrocchia, non è un vago segno, non è
un rimando incerto alla nostra comunione con Dio, ma è la
comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Proprio
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quell‟umile e semplice comunione che è la Chiesa, è l‟unica strada
per incontrare il Padre e il Figlio.
Oggi ci è difficile accettare questo: si preferisce pensare (illudersi) di
poter incontrare Dio anche senza vivere quella comunione che è la
Chiesa. La comunità credente (vivere la comunione con Dio “in” e
“tramite” la comunità credente) non è un optional. Non si dà
evangelo, cioè: non si dà la buona relazione con Dio, se non dentro la
trama delle relazioni ecclesiali, luogo dell‟accoglienza della Parola
quale autentica Parola di vita.
La Chiesa è l’evangelo accolto, la Parola di vita nel prisma della
risposta credente, la voce di Gesù che si fa eco nel discepolo, la
Pasqua del Signore che crea la comunità, l‟incontro con Lui che
perdona il nostro tradimento e rigenera la nostra solitudine, il dono
del suo Spirito che riconcilia le nostre separazioni e solitudini. In
questa comunione (in questa comunione che è la Chiesa, la Chiesa
nella sua concretezza di realtà storica e visibile, la Chiesa nella sua
umana povertà…) è davvero presente il Signore!
Indichiamo ora alcune conseguenze: il primo e fondamentale
“momento” della Chiesa comporta il riconoscere dove si fonda il
nostro “essere insieme”: il fondamento è un‟esperienza, ma non
prima di tutto un‟esperienza nostra bensì un‟esperienza ricevuta, di
cui noi non siamo titolari, ma di cui siamo tutti discepoli. Prima di
essere consacrati, preti, vescovi, laici… c‟è un punto che ci unisce e
precede tutti: siamo discepoli dell‟unico Signore che abbiamo
incontrato come Parola che è vita e dà la vita.
Ecco una prima conseguenza: la Chiesa c‟è per dire e comunicare il
Signore; si è nella Chiesa soprattutto per Lui, perché c‟è Lui. Questa
è la ragione fondamentale per cui noi siamo una comunione fraterna.
Occorre essere persuasi che stare insieme perché ci si trova bene,
perché ci si sente accolti, perché ci si comprende…, sono esperienze
belle ed anche necessarie; tuttavia per quanto tutto ciò sia importante,
rimane radicalmente insufficiente. Noi siamo nella Chiesa in ragione
dell‟appartenenza a Cristo. Siamo nella Chiesa perché abbiamo
contemplato e abbiamo trovato Colui che è la Parola di vita.
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Una seconda conseguenza riguarda l‟annuncio e la comunione. La
Chiesa, abbiamo detto, è la comunione che nasce dall‟annuncio
dell‟apostolo e della comunità apostolica ed è una comunione
visibile.
Allora l’annuncio non è solo verbale; l‟annuncio del Vangelo è
costituito di fatti e parole, di gesti e insegnamenti tra loro
intrinsecamente connessi, tra loro profondamente collegati.
Credo che si debba temere la frequente oscillazione tra parola e gesto,
tra annuncio e carità, continuando ad altalenare dall‟una e dall‟altra
parte, seguendo le “mode culturali”. Contrapposizioni del tipo:
“Dobbiamo essere una Chiesa della carità, che fa prevalentemente
volontariato, che sta con gli altri, che serve, che aiuta…, oppure una
Chiesa che prega, che medita, che ascolta la Parola, che punta sulla
formazione…?”, sono inutili, improduttive, defatiganti…; e se si opta
solo per l‟uno o solo per l‟altro aspetto ciò significa che qualcosa non
ha funzionato o non funziona.
Occorre ritrovare la circolarità armonica tra i momenti della
Chiesa: la missione della Chiesa non ha altra modalità che la
comunione e la comunione non ha altro orizzonte che la missione.
E’ importante costruire dentro di sé questa armonia cristiana, come
una sorta di bussola interiore, evitando le schizofrenie diffuse tra
parola e carità, tra azione e contemplazione.
Occorre ancora ricordare che l’annuncio, fin dall’origine, ha una
forma sacramentale. All‟inizio della vita cristiana stanno dei gesti
che non abbiamo posto noi, che nessuno si è inventato, ma che
abbiamo ricevuto da altri. Credo che il problema nodale, a questo
proposito, sia quello della “iniziazione cristiana”: cioè di quel
cammino “esperienziale” percorrendo il quale si perviene a
trasmettere e a maturare una “fede adulta”.
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Da ultimo, l’annuncio -inteso nella sua accezione completa- genera
comunione; comunione vera, costituita da una fitta rete di rapporti
fraterni. E senza porre irraggiungibili mete, senza sognare e
fantasticare una comunione idealizzata, perché non cominciare con
l‟accogliere quei rapporti che ho già con gli altri facendoli diventare
“fraterni”? Perché non cominciare dalle cose quotidiane, normali,
sobrie, dall‟apprezzare le cose di ogni giorno? Sono convinto che
questo potrebbe diventare un “segno che annuncia” anche per la vita
familiare, anche per il nostro stare insieme feriale… Forse le
comunità cristiane sono poco fraterne perché sono comunità di
singoli e non di famiglie; e la famiglia è un elemento di
umanizzazione della comunità cristiana.
Ed ecco la terza conseguenza. La comunione che è la Chiesa è il
luogo dove incontriamo Dio. Che cosa si cerca oggi nella Chiesa? Al
fondo di tutto, penso che la Chiesa dovrebbe essere il luogo ove
cercare se mai sia possibile oggi nella città degli uomini ancora
incontrare Dio.
Certo è proprio quella visibile comunione fraterna attorno a Cristo il
luogo ove è realmente possibile incontrare Dio. Tuttavia questo non è
automatico e magico: richiede costante tensione, costante impegno
di conversione, costante cammino verso la pienezza… Questo è il
“mistero” della Chiesa!
Mi piace riassumere così quanto siamo venuti fin qui dicendo:
 la Chiesa è il luogo della Parola che dona la vita; Parola che
interpella e propone;
 la Chiesa è luogo dell‟ascolto che si fa risposta concreta;
 la Chiesa è luogo del dialogo.
 Proprio per questa strada la Chiesa è chiamata ad essere luogo
della trasmissione della fede; in altri termini, la Chiesa è
quella realtà alla quale il Signore Gesù ha affidato un
compito: «Andate e fate discepole tutte le nazioni» (Mt
28,19). La Chiesa, dunque, è chiamata ad essere «Madre e
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Maestra» (cfr Giovanni XXIII, Enciclica “Mater et
Magistra”, 15 maggio 1961), realtà che educa, realtà capace
di far crescere al suo interno veri figli di Dio e di offrire
motivi di speranza e di vita in ogni contesto umano, anche al
di fuori dei confini della comunità dei credenti, promuovendo
la libertà e la dignità piena di ogni persona umana.
2. La Chiesa «Madre e Maestra» genera ed educa i
figli di Dio nelle varie espressioni della sua vita e
della sua missione
Affrontiamo ora più direttamente il nostro tema: quello
dell‟educazione. Nel discorso che il papa Benedetto XVI rivolse, il
19 ottobre 2006, al Convegno ecclesiale di Verona, troviamo
affermato che l‟educazione della persona è «una questione
fondamentale e decisiva» e che pertanto «occorre preoccuparsi della
formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua
libertà e capacità di amare». L‟11 giugno 2007, in occasione del
Convegno annuale della Diocesi di Roma, il papa è tornato sullo
stesso argomento, sottolineando che siamo in presenza di una grande
«emergenza educativa» per «la crescente difficoltà che s‟incontra nel
trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell‟esistenza e di un
retto comportamento»: difficoltà che coinvolge sia la scuola sia la
famiglia e ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi.
Educare appartiene alla dimensione materna della Chiesa e ne fa
emergere la fecondità. Il tempo che ci è posto innanzi impegna ogni
comunità cristiana a ritrovare il gusto e la gioia dell’educare.
Possiamo chiederci: quali sono le motivazioni profonde di questa
emergenza educativa? L‟educazione e la formazione della persona
hanno anzitutto e necessariamente a che fare con la persona stessa,
ossia con l‟uomo, inteso nel senso di essere umano, comprensivo
della differenza tra uomo e donna.
Quando avviene che non sia chiaro o che muti profondamente il
senso che attribuiamo alla parola “uomo”, non possono non entrare a
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loro volta in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i
paradigmi educativi.
Vorrei allora proporre una seconda catechesi che ci aiuti a riscoprire
chi è l‟uomo e lo facciamo ripercorrendo quell‟esperienza così
fondamentale nella vita della Chiesa e di ogni cristiano che è la
celebrazione eucaristica.
2.1. La celebrazione
educativo
eucaristica:
singolare
“paradigma”
Vorrei tentare di “mostrare” come l‟esperienza costituita dal
“celebrare” l‟Eucaristia sia “luogo” capace di far conoscere la
persona umana a se stessa quale “essere dialogico” e sia, pertanto,
“luogo” capace di “e-ducare” alla “dialogicità”.
Partiamo da una semplice costatazione: quando risuona una parola o
appare un segno si è soliti ricondurne il significato all‟intenzione di
chi ha emesso la parola o ha posto il segno. Viene voglia di pensare
che -in questo modo- il “mittente” venga a svolgere un ruolo, per così
dire, di “padrone del linguaggio”, mentre al “destinatario” non
resterebbe altro compito se non quello di ascoltare e di rispettare
l‟intenzione del mittente.
La “sudditanza” del destinatario si aggrava se l‟autore dei segni e
delle parole è particolarmente autorevole: come sarebbe nel caso dei
genitori, degli insegnanti, degli educatori…; di un testo sacro che ha
Dio per autore… In questo caso il destinatario sembra dover
scomparire!
Eppure, a pensarci bene, è proprio nel caso dei testi sacri (della
Parola di Dio) che si sviluppa, in modo particolarmente vistoso, il
fenomeno della “presenza attiva” di colui cui la parola (il messaggio)
è rivolta. Sì, perché il mittente da cui trae origine il “progetto”
contenuto ed espresso dalla parola, ha un “progetto di vita, un
progetto di salvezza” che è totalmente rivolto al destinatario, che è un
“farsi carico” del destinatario, che è un “amare” il destinatario.
Possiamo dire che quella parola risuona in verità e pienezza solo per
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il destinatario e solo se il destinatario accetta di entrare in un “circolo
comunicativo” con il mittente.
La celebrazione liturgica cristiana appartiene e si riconosce in questa
dinamica; essa è esperienza intesa -di sua natura- a instaurare e a far
vivere un “circolo comunicativo”; la celebrazione liturgica “gioca”
sulla comunicazione, sulla relazione, sull‟inter-azione tra mittente e
destinatario; anzi, affida proprio al destinatario il ruolo di essere
“punto di svolta” del circolo stesso. Tale punto di svolta si configura,
più precisamente, come “risposta” a fronte di una “proposta”; come
“reazione di ritorno” rispetto all’interpellanza ed alla
comunicazione da parte del mittente.
Pensiamo: già lo stesso riunirsi dell’assemblea celebrante appartiene
a tale “risposta”, ne è il momento iniziale, ne costituisce l‟origine.
Perché, in realtà, l‟assemblea è il concreto rispondere ad una
“convocazione” da parte di Dio.
La celebrazione, nel suo complesso, è da comprendersi
fondamentalmente come la “risposta cultuale” alla proposta di Dio,
al suo intervento salvifico nella storia: noi siamo lì per ringraziare e
per lodare il Padre di tutte le misericordie. Per questo, colui che nella
celebrazione è destinatario è anche colui che porta a maturazione la
celebrazione stessa, colui che matura e fa maturare nella lode e nel
ringraziamento. Tutto questo lo abbiamo riscoperto e lo abbiamo
definito come “partecipazione”: non “spettatori”, bensì “partecipi”.
La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, sintetizzando
quanto proviene dalla Rivelazione e dalla Tradizione definisce la
celebrazione liturgica utilizzando un metodo descrittivo. Tra tutti gli
elementi che SC ricorda è possibile individuare come un “trittico”
capace di ben definire la complessità della natura della liturgia. Essa
è:
“mistero” (= piano salvifico che ha il suo cuore nella Pasqua di
Cristo e che viene riattualizzato dalla Chiesa)
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“celebrato” (= nella modalità cultuale nella quale Cristo esercita il
suo sacerdozio e nella quale “segni visibili” realizzano ciò che
significano”)
“per l’uomo” (= il quale incorporato alla Chiesa e partecipante alla
celebrazione glorifica Dio ed è santificato).
Questi tre elementi non possono venire considerati indipendenti l‟uno
dall‟altro; bensì sono strettamente congiunti così da essere
coessenziali ad ogni atto cultuale cristiano.
Il “mistero” nascosto da secoli in Dio, rivelato
manifestato realizzato in Cristo attraverso (e nella)
Pasqua, è presente nella celebrazione secondo le
modalità del “memoriale”.
- La “celebrazione”, memoriale della storia della
salvezza, riattualizza il mistero di Cristo nel tempo e
nello spazio della Chiesa.
- L‟“uomo partecipando” all‟azione liturgica partecipa
al mistero, glorifica Dio, viene santificato, così che la
liturgia è «culmine e fonte» (Sacrosanctum Concilium,
n. 10) di tutta l‟attività della Chiesa.
E‟ compito dello Spirito unificare e rendere dinamici i tre elementi
sopra descritti. E‟ la sua presenza ed azione quella che permette al
memoriale del mistero di farsi liturgia dell‟atto celebrativo; ma anche
che la vita dell‟uomo nel culto cristiano sia liturgia rivolta al Padre
per mezzo di Gesù Cristo.
In sintesi: la liturgia è “la celebrazione rituale dell‟Alleanza da parte
del popolo cristiano riunito in assemblea”.
-
Componenti “strutturali” del fatto liturgico, allora, sono:
-
l‟“assemblea”; segno della “convocazione” del
popolo da parte di Dio; espressione ed implicazione
della Chiesa la quale è dall‟assemblea annunziata e
manifestata nella sua natura; riunione di credenti 14
-
ministerialmente servita e presieduta- in un luogo e in
un tempo; in continua ed articolata ”relazione” con la
Trinità o meglio col Dio che essendo Padre-FiglioSpirito genera una storia di relazione/comunicazione,
una storia salvifica che proprio nell‟atto celebrativo ha
la sua espressione sacramentale di cui l‟assemblea
prende coscienza e a cui “partecipa”; cosciente della
sua natura “sacerdotale”; situata in un concreto tessuto
storico-sociale-culturale (= radicata in una comunità);
la “Parola” e
il “segno/simbolo”.
Se l‟assemblea è la componente “soggettiva” e “personale” della
struttura della celebrazione, la Parola ed il segno/simbolo ne sono le
componenti “rituali/celebrative”. Intendo qui per “rito” l‟azione
simbolica compiuta dall‟assemblea, risultante da parole pronunziate e
da gesti eseguiti ed aventi significato in un preciso contesto: quello
della storia delle “relazioni” del Dio Uni-Trino con l‟uomo nel
mondo.
Davvero l‟esperienza liturgica rivela la comprensione dell‟uomo
quale “essere dialogico” e si propone come “palestra” per apprendere
la “dialogicità”…
2.1.1. I riti di introduzione
Non hanno per nulla un ruolo estemporaneo: hanno invece una
doppia e ben precisa finalità:
- promuovere il senso di comunicazione e di comunione
tra i fedeli che si radunano;
- suscitare la giusta disposizione per ascoltare ed
accogliere la Parola e celebrare l‟Eucaristia.
Il “fulcro” che regge questi momenti è costituito dall‟esperienza di un
incontro comunitario e i segni non verbali, le prime espressioni di
saluto, l‟inizio del dialogo, l‟invito alla partecipazione fatto sotto
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forma di monizione iniziale…, tutto porta verso questo centro
unificatore che è l‟incontro dei fedeli in nome del Signore e proprio
questo “in nome del Signore” rende “speciale” l‟umana esperienza
dell‟incontro: è un incontro vero e pienamente umano, eppure non è
come andare a teatro… La consapevolezza di questo incontro e il
rendersi disponibili a questo “stare insieme” in maniera diversa è
l‟atteggiamento fondamentale da viversi nei “riti di introduzione”. E
la preghiera pronunziata dal sacerdote e chiamata “orazione colletta”
(orazione del popolo radunato) sigilla questi primi passi della
celebrazione.
2.1.2. La liturgia della Parola
Questa parte della celebrazione eucaristica s‟impone ancor più
esplicitamente quale espressione/educazione al “dialogo”, infatti, il
suo schema è: Dio/uomo; Parola di Dio/risposta dell‟uomo.
E‟ evidente che il “fulcro” di questo momento è costituito
dall‟esperienza dell‟ascolto/assenso nei confronti della Parola di Dio.
Il “processo educativo” qui proposto parte dalla consapevolezza che
Dio parla all‟uomo, gli si rivolge, lo interpella, lo chiama e diventa
concreto aiuto a “sapere” che nella celebrazione Eucaristica l‟uomo
che “partecipa” è posto a “confronto diretto” con questa Parola alla
quale occorre rispondere. Se i piccoli e semplici gesti che
compongono la liturgia della Parola sono “veri”, allora si è
gradualmente condotti all‟ascolto e alla risposta, a rendere vero
quanto acclamato: Parola del Signore – Lode a Te, o Cristo!
2.1.3. La liturgia Eucaristica
-
Nella “preparazione dei doni” o offertorio non vi
sono tante parole; vi è presente soprattutto l‟atto del
“donare”; l‟esperienza educativa è di quelle “forti”,
perché qui il dialogo diventa “dono”, diventa
“scambio”, diventa “attenzione all‟altro”: è come un
“maturare”, un “crescere” che culmina in quelle
16
-
-
parole: «In alto i nostri cuori – Sono rivolti al
Signore».
Nella “Preghiera Eucaristica”, la “logica della vita
intesa quale dono” non è più solo “annunciata” o
“detta”: è resa presente. Le parole e i gesti rendono
presente il Signore Gesù: abbiamo lì un cibo da
mangiare e una bevanda da bere che sono realmente il
corpo del Signore dato e il suo sangue versato.
Nei “riti di comunione” il dialogo ed il dono si fanno
reciproca immedesimazione: il Signore Gesù “fa
spazio a noi e ci accoglie”, noi “facciamo spazio a Lui
e Lo accogliamo nella nostra vita” e così “impariamo”
tutte le principali dinamiche d‟una vita effettivamente
matura…
In sintesi: gli uomini e le donne che costituiscono l‟assemblea
presentano (si separano da, portano e offrono a qualcuno) il dono;
questo è accolto e “trasformato”: un “racconto” lo inserisce
nell‟evento della Pasqua e la Preghiera Eucaristica invoca il
“realizzarsi” di quanto raccontato (“che quei santi doni siano il
sacrificio di Gesù”); non solo, è pure invocata la “trasformazione dei
donanti” (“che anch‟essi diventino comunione con quel sacrificio;
siano partecipi e parte di quel sacrificio”); si verifica qui un nuovo
“donare”, un nuovo separarsi da, un nuovo offrire; e gli uomini e le
donne che costituiscono l‟assemblea vengono ad accogliere, a
“mangiare e bere”, ad “aver parte”: sono così trasformati e diventano
il “Corpo di Cristo che è la Chiesa”: quella Chiesa “comunione” di
cui abbiamo parlato nel primo capitolo.
Voglio concludere questa “catechesi” nella quale ho cercato di far
emergere come l‟Eucaristia celebrata ci aiuta a scoprire chi è la
persona umana e per quali passi essa possa essere “edificata” con
l‟invito pressante perché le nostre celebrazioni aiutino davvero a
scoprire il “singolare paradigma educativo” che vi è contenuto e non
lo oscurino: fretta, sciatteria, improvvisazione…, sono proprio i modi
per “oscurare” quella ricchezza educativa… Sgorga da qui l‟istanza
17
sempre da riprendere con impegno: educhiamo alla liturgia per
poter essere educati dalla liturgia. Vedete, carissimi, non sto
parlando di “cose sempre nuove e stravaganti” da far fare; sto
parlando di un‟iniziazione al senso del celebrare, alla gestualità, al
senso dell‟assemblea; si tratta di far sperimentare che quanto il corpo,
nell‟atto celebrativo, compie e vive nello Spirito può e deve diventare
la “misura” con cui il cuore ama, la mente comprende, la bocca
esprime…
2.2.Tre punti e alcune proposte di metodo
Mi pare che una lettera pastorale sul tema dell‟educazione e la
conseguente impostazione pastorale dell‟attività della Diocesi su
questo tema possa muoversi sulle seguenti linee di fondo. Linee che
devono essere presenti nella nostra “mens” pastorale.
Inoltre credo che sia utile trovare un “punto d‟innesto” sul Convegno
di Verona (per non disperdersi e per “fare tesoro” del magistero della
nostra Chiesa che è in Italia). Tale “punto d‟innesto” è costituito
esattamente da quell‟ambito di "tradizione” che non può di certo,
essere descritto come una consegna dottrinale della fede ma come un
fatto d‟incontro di generazioni diverse, come un racconto della
speranza che attraverso i secoli è giunto fino a noi, e incontrando la
nostra storia, genera a sua volta speranza. “La testimonianza della
speranza ha così l‟insostituibile funzione di dare consistenza e
stabilità all‟identità consapevole dei fedeli, rendendoli capaci di
essere protagonisti maturi della fede, cioè, a loro volta, testimoni per
i fratelli e nel mondo” 1.
Rimane anche come punto di riferimento il passaggio “I giovani e la
famiglia”, n. 51 de “Comunicare il vangelo in un mondo che
cambia”. L‟esigenza descritta è quella di guardare al giovane non
come un‟età chiusa in se stessa e nei suoi problemi ma come una fase
propedeutica all‟età adulta e alle sue responsabilità. “Per amare da
persone adulte, mature e responsabili, bisogna saper assumere tutte le
1
Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo. Traccia di riflessione in
preparazione al Convegno Ecclesiale di Verona 16-20 ottobre 2006, n. 10.
18
responsabilità della vita umana: studio, acquisizione di una
professionalità, impegno nella comunità civile. Le esperienze forti
possono tanto più giovare quanto più si coniugano con i cammini
ordinari della vita, che consistono nell‟operare scelte di cui poi si è
responsabili”.
2.2.1. Educare è un’attività eminentemente umana, descrive
l’umano per eccellenza
“Tutti gli uomini di qualunque razza, condizione ed età, in forza della
loro dignità di persona, hanno il diritto inalienabile a un‟educazione che
risponda al proprio fine, convenga alla prima indole, alla differenza di
sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro paese e insieme aperta a una
fraterna convivenza con gli altri popoli al fine di favorire la vera unità e la
pace sulla terra. La vera educazione però promuove la formazione della
persona umana in vista del suo fine ultimo e nello stesso tempo per il bene
delle società, delle quali l‟uomo è membro e nelle quali, divenuto adulto,
avrà mansioni da svolgere” (Gravissimum educationis,1).
L‟uomo è tale grazie a un‟opera di educazione che viene compiuta.
Opera di educazione che non consegna una forma già conosciuta di
esistenza ma che sa far emergere la persona nel proprio cammino e
nel proprio incontro con la realtà. «Il compito di educare non può
essere rappresentato, in tal senso, quasi consistesse nel conferire alla
vita e alla persona del figlio una forma nota ai genitori dapprima»2.
Inoltre abbiamo bene presente che educare è compito non tanto di
plasmare l‟altro ma di far emergere possibilità e rischi della persona
che abbiamo di fronte che viene coinvolta in un rapporto relazionale
che muta (o dovrebbe mutare) anche le condizioni stesse
dell‟educatore.
Sarà bene allora, su questo tema, evitare ogni ipotesi in cui
l‟intervento educante venga descritto come risolutivo. Il rischio
grande in un‟epoca incerta come la nostra, frammentata e relativista,
è quello di proporre un‟idea “debole” oppure un‟idea “autoritaria”
di educazione: occorre, ritengo, un‟idea “umile”; occorre proporre
2
G. ANGELINI, Educare si deve ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002, 227.
19
un‟idea di educazione che abbia “la forza e la tenerezza
dell’amore”; lo “stile educativo di Dio e del Figlio suo Gesù…”
Non possiamo poi dimenticare che non siamo gli unici attori della
scena e vi sono altre persone e altre agenzie educative. Questo non
significa essere minimalisti ma realisti, facendo i conti, in pacatezza,
con la fatica di educare, la possibilità dell‟insuccesso e della
sconfitta. Il rischio di educare, appunto.
E‟ per altro fondamentale ricordare che noi intendiamo porre al
centro del processo educativo, come suo fine e pieno inveramento,
la comunione con Cristo che è la via, la verità e la vita di ogni
persona umana; questo vuol dire orientare tale processo alla
centralità della persona, al valore assoluto delle relazioni
interpersonali, all‟inesauribile ricerca della verità che, pur conquistata
con certezza al di là di ogni tentazione soggettivistica o relativista,
non esaurisce mai l‟appello ad un‟ulteriore esplorazione e ad un
fecondo e vero dialogo e stimola la ragione a esercitarsi sempre di
nuovo di fronte all‟ineludibile e sorprendente novità dell‟iniziativa
divina nella storia… In questa luce si colloca la sfida educativa
affidata alla Chiesa, «Madre e Maestra».
Ritengo che la giusta impostazione della sfida educativa richieda a
noi di riconoscere che il fine del processo educativo è la verità
dell’uomo in Cristo, in vista del quale è stato creato l‟universo e in
riferimento al quale ogni uomo, fin da prima della creazione del
mondo, è «predestinato ad essere santo e immacolato nella carità» (Ef
1,4).
Non dobbiamo aver paura -come cristiani impegnati nel “mondo”,
singolarmente o in varie forme associative- di assumere l‟arduo
compito educativo quale modo esigente di “dar ragione” a chiunque
lo chiede, proprio di quella speranza centrata sulla venuta di Cristo
nella storia che è alla base del modo “cristiano” di ragionare, di
20
vivere, di educare alla pienezza della verità (anche “razionale”!) e del
bene (anche quello raggiunto nel consenso “etico”).
Provo ad approfondire un aspetto nodale per riguardo a quanto detto
sopra. Mi riferisco al “caso serio” della libertà. La diffusa ricerca
umana della libertà costituisce il luogo fecondo di una rinnovata
educazione alla fede.
Sappiamo quanto la mentalità odierna sia incline ad individuare nella
libertà non solo una facoltà del soggetto ma piuttosto l‟essenza del
suo stesso esistere come uomo, sottratta ad ogni controllo e ad ogni
disciplina. La libertà individuale, i desideri dell‟individuo sono
diventati il nuovo spazio del diritto insindacabile e assoluto. Eppure
la storia anche recente dell‟umanità dimostra con evidenza che una
libertà cercata e realizzata come fine a se stessa è causa di veri e
propri disastri: come il sonno della ragione, così anche la libertà
umana produce mostri, se non è adeguatamente finalizzata a valori
più alti e, in ultima analisi, all‟esercizio di un vero amore.
Qui si realizza, anche in termini educativi, l‟incontro tra l‟anelito del
nostro tempo ed il messaggio cristiano che è, nella sua essenza, un
evento di libertà. “Dio è amore” (1Gv 4,8.16) e l‟amore è sempre
evento di libertà. La libertà di Dio non si presenta come concorrente
con la libertà umana, bensì come libertà che la rende concretamente
possibile, consentendole di esistere, di perdurare e di trovare,
finalmente il proprio fine adeguato, l‟unico “contenuto” in grado di
sostenerne e motivarne il drammatico ed impegnativo esercizio.
L‟agire libero e amorevole di Dio ci introduce nella relazione
(“comunione”) con Lui. Soltanto dentro quest‟orizzonte l‟uomo può
realmente essere libero e sentirsi assegnato al carattere affidabile di
una relazione nella quale la sua libertà si sente affermata e
riconosciuta. Quando due persone si amano, l‟una non reprime l‟altra
e l‟amore significa anzitutto spogliazione e donazione di sé ma, al
tempo stesso, anche influsso e “condizionamento” dell‟altro. Non per
questo, però, si dirà che l‟amore assume il carattere della violenza e
della coercizione.
Solo in questo rapporto tra la “donazione di sé” e l‟“offerta
amorevole di un‟adeguata disciplina” l‟educazione raggiunge il suo
21
fine. Ciò vale tanto per quella di Dio nei confronti del suo popolo,
quanto per quella esercitata da quanti hanno responsabilità educative.
La libertà andrà sempre considerata, nell’educare cristiano, non
come un pericolo -come se la migliore condizione dell’educare sia
quella di una minore libertà- ma come una possibilità, anzi un dato
indispensabile alla crescita della persona, quando tale libertà sia
vissuta in una misura che cresce con il crescere dei valori e delle
motivazioni di alto profilo che il processo educativo riesce a far
maturare nella persona stessa. La libertà non è soltanto un dato
originario ed un elemento base della dignità della persona umana,
ma sempre si traduce in un processo continuo di liberazione e di
custodia affidato alla relazione educativa, sostenuto da una vera
autorevolezza da parte dell’educatore e ad una costante
collaborazione da parte del soggetto chiamato ad assumersi la
propria responsabilità di autoeducazione.
2.2.2. Educare è la stessa vita pastorale della Chiesa
La Chiesa da sempre è stata chiamata a confrontarsi con il tema
dell‟educazione. Tempo, il nostro, in cui si è compreso che non può
esistere un‟educazione “a strati”: educhiamo prima l‟uomo
“naturale”, poi la sua dimensione genericamente religiosa, poi il
credente in Cristo e infine il discepolo impegnato nella sua figura
vocazionale. Come abbiamo sopra ricordato è la persona umana colta
nella sua interezza che intendiamo porre al centro del processo
educativo, ben consci del primato della “verità di Gesù” in
riferimento al pieno riconoscimento della “verità dell‟uomo”. Ancora
G. Angelini: «l‟opera educativa espressamente mirata a suscitare la
fede non può essere separata da quella volta a propiziare in genere
l‟accesso all‟età adulta, e dunque alla libertà. Per questo suo profilo
più comprensivo, d‟altra parte, l‟opera educativa cristiana non può
realizzarsi in altro modo che riprendendo la verità iscritta nell‟evento
22
educativo così come esso si realizza, a monte della consapevolezza
dei singoli, in ogni esperienza umana»3.
Dunque educazione come responsabilità principale e come sfida.
Sarebbe necessario riscoprire lo specifico educativo che deve avere
tutta la nostra opera pastorale, rivolta ai giovani e non solo.
Scoprendo, ad esempio, che forse proprio gli ambiti più incisivi, per
un‟opera educativa che sappia abbandonare ogni protagonismo, sono
quelli in cui i giovani non sono primariamente messi a tema (carità,
liturgia, famiglia, …).
Penso proprio che non siamo tanto chiamati ad attivare iniziative
particolari e speciali; dobbiamo piuttosto guardare agli spazi di vita
di una comunità, della fede, e dell‟uomo evidenziane meglio e
maggiormente la loro dimensione educativa. Certo alcune iniziative
dovranno essere riscoperte e proposte, ma ben inserite nel cammino
pastorale ordinario delle nostre comunità e gruppi. È quello che il
card. C. M. Martini nella sua lettera pastorale Dio educa il suo
popolo definisce come un “educare attraverso”4.
A tal punto forse sarà opportuno insistere più che su iniziative
specifiche su itinerari educativi. Sarà utile (e lo chiedo come impegno
per gli Uffici pastorali) elaborare essenziali “itinerari educativi”, per
aiutarci a riscoprire la qualità educativa insita nei cammini che la
tradizione ci consegna. Per primo quello dell‟Iniziazione cristiana,
l‟Eucaristia stessa (come ho cercato di mostrare nel primo capitolo) e
l‟anno liturgico… Mi sia consentito indicare in maniera breve e
3
G. ANGELINI, Educare si deve ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002, 218.
C. M. MARTINI, Parola alla Chiesa. Parola alla Città, ITL-EDB, Milano-Bologna
2002, 465 ss. «Si vuole anzitutto, riaffermare la forza educativa dell‟esperienza: gli
atti educano; le parole, che pure occorrono, non bastano e spesso illudono; il pagare
di persona, in termini di tempi, di fatica, di disponibilità e di ricerca fa assimilare i
valori ed è un grande aiuto a capire le cose in profondità. Il significato
dell‟”educare attraverso” è però anche un altro, (…): le vie di Dio sono
imperscrutabili; il cammino educativo non è da affrontare semplicemente come
qualcosa di deducibile; esso viene esaurientemente espresso da un approccio
teologico, perché l‟educazione è via ed azione di Dio». (p. 467).
4
23
sommaria alcune linee che potrebbero entrare negli itinerari
educativi.
 Il problema educativo non è anzitutto un problema
riguardante i bambini, i ragazzi e i giovani da educare. È un
problema di adulti. In questa prospettiva la figura
dell’educatore è il punto di partenza di ogni progetto
educativo.
 Riprendendo quanto sopra esposto occorrerà evidenziare
chiaramente il fine dell’educare: Educare nella verità –
Educare alla vita - Educare alla libertà/responsabilità –
educazione comunitaria e personale.
 Si tratta poi di individuare i soggetti e gli ambiti dell‟azione
educativa. Innanzitutto i “soggetti primari”: la famiglia – la
comunità cristiana (nella sua dimensione parrocchiale e poi
negli altri ambiti e articolazioni) – la scuola di ogni ordine e
grado. Poi i “soggetti diffusi”: la compagine sociale e
l‟ambiente culturale – la comunicazione sociale – il mondo
della professione e del lavoro – il mondo della sofferenza e
del disagio. Per ognuno di questi soggetti ed in ciascuno di
questi ambiti sarà necessario tener presente le diverse età:
giovani – adulti – anziani.
 Occorre anche non dimenticare il fatto che il cristiano va
educato a vivere un “doppia cittadinanza”. Il Concilio
Vaticano II e tutto il magistero post-conciliare afferma che
sbagliano quei cristiani che sapendo che qui non abbiamo una
città stabile, pensano di poter trascurare i doveri terreni e non
riflettono che proprio la fede li obbliga ancor di più a
compierli… Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali,
trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso,
e mette in pericolo la propria salvezza eterna (cfr Gaudium et
Spes, 43). Di fronte a quest‟appello pressante i cristiani
talvolta assumono atteggiamenti rinunciatari (“tanto non
24
cambia nulla!”), oppure pensano di dover costruire una sorta
di “cittadella cristiana” che rifiuta e delegittima, che innalza
steccati e chiusure. Ovvero si ritiene di potersi adattare
indiscriminatamente e acriticamente alla cultura dominante:
se ne accettano mentalità, comportamenti e stili di vita.
Eppure ai cristiani è chiesto di essere “sale” della terra e
“lievito” della società.
Partecipare alla vita della propria città -per un cristiano- non è
facoltativo; è impegno che sgorga dall‟appartenere ad una Chiesa
“comunione”, ad una Chiesa che celebra e vive l‟Eucaristia: ognuno è
chiamato a fare la sua parte.
Partecipare alla vita della propria città vuol dire anche per chi ha
responsabilità politico-amministrative, fare spazio a chi vuole “aver
voce” offrendo concrete possibilità e luoghi di “socialità, modalità
trasparenti del governo della città e politiche sociali che prevengano
l‟esclusione ed includano gli esclusi.
Un progetto educativo non potrà, allora, non proporre -innanzitutto
con la concreta testimonianza- un deciso “no” all‟indifferenza, alla
superficialità, alla distrazione…, ed un deciso “sì” ad uno “stile di
vita” sostanziato di solidarietà (anzi, di fraternità), di sobrietà, di
condivisione, di dono di noi stessi, del nostro tempo, delle nostre
capacità..
 Un fondamentale principio metodologico: l’educazione è
opera corale, si educa tutti insieme o non si educa; i diversi
interventi educativi vanno armonizzati e coordinati in
maniera che ne risulti qualcosa di “organico”. Le Unità
Pastorali possono essere il “luogo” per realizzare tale
“pastorale integrata” ed esattamente questa dovrà essere la
metodologia delle Unità Pastorali.
Ritengo poi necessario proporre un‟attenzione particolare alla
famiglia: dobbiamo ricostruire una “alleanza educativa” tra le
25
famiglie e la comunità cristiana. Su questo punto desidero sostare in
riflessione.
Sono note le difficoltà delle famiglie a coinvolgersi sul piano
educativo. Sovente le famiglie sono immerse in forti tensioni, a causa
dei ritmi del lavoro che si fa più incerto, per la fatica di un compito
educativo che si fa più arduo, e per la distanza che si è andata
maturando tra la visione cristiana del Matrimonio, della famiglia e
modelli culturali di famiglia di fatto praticati a seguito di separazioni,
divorzi, convivenze.
Le difficoltà nascono anche da parte della pastorale, che fatica a
rivolgersi agli adulti in genere, e a rendere i laici corresponsabili
nell’educazione alla fede. Una recente inchiesta sottolinea che la
richiesta dei sacramenti da parte dei genitori per i loro figli viene
sempre più motivata con l‟idea della necessità e importanza della
religione per la crescita umana. La formazione religiosa dei figli è
desiderata perché dà ai genitori un senso di sicurezza. Nasce da qui,
nella maggior parte dei casi, l‟atteggiamento di “delega” delle
famiglie alla Chiesa, perché questa sarebbe l‟istituzione più capace di
successo in campo educativo.
Compito perciò dei genitori, di coloro che si sono assunti la
responsabilità di essere “genitori”, prima che amici e confidenti, è
quello di rendere ragione al figlio della promessa che i genitori
hanno fatto mettendolo al mondo: la promessa per cui “c‟è una
speranza per la tua vita; c‟è anche un ordine di valori che tu puoi
apprendere: rispettare e assimilare quest‟ordine ti consentirà di non
avere paura, di non temere mai che il mondo precipiti nel caos”.
Educare diventa, così, trasmettere il “segreto” che presiede allo stesso
atto della generazione. Ma questo ha da essere un segreto che
anzitutto costituisce la vita del padre e della madre, e come tale si
pone sotto gli occhi del figlio come il “segreto” da scoprire. In questo
senso, la figura del padre e della madre è assai più quella dei
“testimoni” che non dei maestri, degli insegnanti e degli stessi
catechisti. Essi sono educatori, perché genitori.
26
Occorre, ritengo, aiutare a scoprire non tanto e non solo i “doveri”,
bensì il fondamento antropologico e cristiano della famiglia.
Matrimonio e famiglia non sono, in realtà, una costruzione
sociologica casuale, frutto di particolari situazioni storiche ed
economiche. Al contrario, la questione dell’essere famiglia affonda
le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può
trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere
separata, cioè, dalla domanda antica e sempre nuova dell‟uomo su se
stesso: chi sono io? Che cosa è l‟uomo? Per chi esisto io? E questa
domanda, a sua volta, non può essere separata dall‟interrogativo su
Dio: esiste Dio? E chi è Dio? Qual è il senso dell‟esistenza di Dio per
me, per l‟uomo?
La risposta della fede cristiana a questi quesiti è unitaria e
consequenziale: l‟uomo è creato a immagine di Dio, e Dio stesso è
amore. Perciò la vocazione all‟amore è ciò che fa dell‟uomo
l‟immagine autentica di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in
cui diventa qualcuno che ama. La verità del matrimonio e della
famiglia, che affonda le sue radici nella verità dell‟uomo, trova qui il
suo fondamento più vero. Nella generazione dei figli, come nel patto
coniugale, perciò, la famiglia riflette il modello divino, l‟amore di
Dio per l‟uomo. La famiglia diventa così l’ambito privilegiato, dove
ogni persona impara a dare e ricevere amore. Essa si esprime
anzitutto con l’avere cura. L’avere cura, inteso come l’avere a
cuore gli uni degli altri, che non riduce gli altri soggetti a oggetti,
diventa la modalità fondamentale delle relazioni familiari, e la
ragione per cui la famiglia persiste, in una società sempre più
caratterizzata dal prevalere di rapporti funzionali. Inoltre, quando la
famiglia non si chiude in se stessa, i figli imparano che ogni persona
è degna di essere amata, e che c‟è una fraternità fondamentale, che va
oltre le mura di casa.
La famiglia e la Chiesa, in concreto le parrocchie e le altre forme di
comunità ecclesiale, sono chiamate alla più stretta collaborazione
per quel compito fondamentale e unitario che è costituito,
inseparabilmente, dalla formazione della persona e dalla trasmissione
27
della fede. Per questo occorre un‟effettiva alleanza educativa, che
non è scontata, tra famiglie e comunità cristiana.
La via da percorrere verso un’alleanza educativa tra famiglie e
comunità cristiana è quella dell’accompagnamento. Per ridurre le
distanze e contenere il conflitto è determinante, pertanto, assumere il
vissuto quotidiano delle realtà familiari. Il plurale “realtà familiari”
qui è d‟obbligo. Se si vogliono evitare generalizzazioni indebite,
importa anzitutto rendersi conto delle diverse forme dell‟esperienza
familiare e, in questa luce, rilevare le dinamiche che effettivamente
muovono il relazionarsi reciproco di genitori e figli.
Si apre allora un ventaglio di situazioni fra loro diversificate e
difficilmente riconducibili a un unico denominatore. È impossibile
trattare pastoralmente il soggetto „famiglia‟ come se fosse una realtà
univoca. In buona sostanza, occorre avere una visione “plurale” della
situazione della famiglia rispetto al compito educativo, quando si
pensa a una programmazione pastorale.
In conclusione, va rimarcata anzitutto l’inevitabilità del
coinvolgimento familiare per ogni processo formativo. Al tempo
stesso, occorre ribadire che la famiglia da sola non basta, perché è
parte di un sistema sociale e della comunità ecclesiale. Non solo: va
preso atto che la famiglia è un “genere plurale”, per cui l‟azione
pastorale non potrà essere semplicemente l‟attivazione di una
funzione assopita, ma dovrà prevedere una diversificazione di
proposte. Così, famiglie e comunità cristiana iniziano a camminare
insieme per diventare, senza confondersi, i due grembi privilegiati
dell‟iniziazione alla fede.
2.2.3. Educare è opera di tutta la Chiesa
È forse il punto più delicato perché richiede la delineazione delle
figure di Chiesa che si prendono cura dell‟educazione. È necessario
su questo punto proporre cammini concreti di corresponsabilità alle
nostre comunità. Educare non prevede nessun tipo di delega.
Certamente prevede e richiede una competenza umana, di fede ed
ecclesiale. Nella Chiesa non vi sono figure solitarie preposte
28
all‟educazione, ma è la Chiesa tutta chiamata ad educare. Questo
perché tutta la Chiesa è discepola dell‟unico Signore. In questo senso
la Chiesa potrà essere presentata, anche e non certamente solo, come
una comunità educante che sa mettersi in ascolto del suo grande
educatore che è Cristo Signore. E da questa stessa opera nasce la
Chiesa, ne è come generata.
«In ogni impresa umana veramente educativa la dimensione comunitaria è
presente. Basti pensare alla comunità più originaria e più decisiva per
l‟educazione, la famiglia. Nessun grande genio educatore si mosse mai
senza immediatamente generare comunità. Il senso dell‟universale genera,
inesorabilmente, il senso della comunità. Un‟ipotesi di senso totale
veramente vissuta non può che presentarsi come comunità. Questa struttura
“ontologica” della ricerca del vero è dal cattolicesimo fatta addirittura
condizione di salvezza, presenza inesauribile del Significato tra gli uomini.
L””autorità” stessa ha come funzione tipica la genesi della comunità”5.
In tutto questo emergerà un‟esperienza di Chiesa con forti legami
educativi al suo interno ma anche la prospettiva di una Chiesa che sa
creare rete, sa essere aperta sulle dinamiche del territorio pur
portando la radicale novità del messaggio cristiano
Perché, ad esempio, non mettere a tema la pastorale degli ambienti
propri dei giovani: sia quanto sta all‟origine della loro esperienza
(famiglia) sia l‟ambiente stesso in cui si trovano ad operare e a vivere
(scuola e tutte le dimensioni del tempo libero).
E poi: come i giovani vedono le nostre comunità cristiane? Come
creare un dialogo con chi, giovane, impegnato sui tanti versanti del
“sociale” e del “politico” non sente la necessità di un‟adesione a
Gesù? Quale proposta di vangelo portare a loro?
Insomma, ancora una volta emerge con forza l‟esigenza di una
“pastorale integrata”.
5
L. GIUSSANI, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, 96-97.
29
La capacità educativa è nell‟ attività ordinaria delle nostre comunità
con la catechesi, con la liturgia e con la carità. La comunità
parrocchiale ha l‟opportunità di educare non per mezzo di qualche
cosa ma attraverso le sue dimensioni costitutive.
Desidero sottolineare nel ministero dei sacerdoti il sacramento della
Riconciliazione.
Cari confratelli sacerdoti, cercate di dare del tempo per le
confessioni: è un ministero fondamentale in vista dell‟educazione.
Egualmente importante è il servizio di accompagnamento personale:
non si può collettivizzare l‟educazione. Il gruppo è utile e necessario,
ma non basta. E‟ necessario dare del tempo a ciascuno, favorendo la
confidenza sincera, la discrezione e l‟affetto profondo. Si tratta di
riscoprire quella “paternità spirituale” capace di motivare
profondamente il nostro compito pastorale.
Allora: quale metodo di lavoro per gli uffici pastorali?
Invito a cogliere la proposta del tema educativo come una grande
occasione: per aiutare la Diocesi a costruire una “pastorale integrata”
vera ed effettiva, tutti gli Uffici pastorali sono chiamati ad operare in
maniera coordinata propriamente attorno a questo tema. Mi pare che
la prospettiva possa essere doppia.
Da una parte alcuni settori (famiglia, giovani, vocazionale, scuola,
lavoro, cultura) devono essere di stimolo ai grandi ambiti della
pastorale (carità, liturgia, evangelizzazione) perché sappiano proporsi
nettamente ai giovani, con linguaggi e metodi adeguati
Dall‟altra parte, la pastorale di settore deve irrobustirsi alla luce delle
grandi esperienze educative della chiesa (catechesi, liturgia/preghiera,
esercizio della carità).
3. Mezzi per “essere” e per “operare”
30
Desidero ancora intrattenermi con voi su tre realtà che ritengo
strumenti fondamentali per poter pervenire ad essere davvero “Chiesa
comunione, Chiesa comunità educante”. La prima realtà è quella che
ci vede impegnati da circa un anno: le Unità Pastorali; le altre due
(l‟Iniziazione cristiana e la formazione di operatori pastorali che
siano veri collaboratori corresponsabili) dovranno impegnarci nella
riflessione, nelle scelte, nell‟impegno in un prossimo futuro.
3.1. Le Unità Pastorali: “concretizzazione” della Chiesa
comunione
3.1.1. Le idee fondamentali
Desidero riprendere qui quanto, con affetto fraterno, ho proposto ai
presbiteri, in particolare, ma a tutta la nostra Chiesa diocesana, lo
scorso Giovedì Santo durante la Messa Crismale:
«…Di fronte alla gente del nostro tempo -a tutti!-, la Chiesa avverte
la gravissima responsabilità di compiere la missione ricevuta dal suo
Signore, ma insieme riconosce l‟inadeguatezza dei mezzi di cui
dispone. Di questa inadeguatezza -che è strutturale e di cui dobbiamo
essere coscienti sempre, in qualsiasi situazione e in ogni momento sono segno anche la diminuzione e l‟invecchiamento del clero. E ci
pare, allora, di risentire, quasi uscisse dalle nostre stesse labbra, la
voce delusa di Andrea, l‟apostolo, in mezzo alla grande folla senza
cibo: “C‟è qui un ragazzo che ha cinque pani d‟orzo e due pesci; ma
che cos‟è questo per tanta gente?” (Gv 6, 9).
Ma se i preti diventano anziani, la Chiesa rimane giovane, è sempre
ricolma della fresca audacia dello Spirito.
Se i preti diventano pochi, la missione però rimane universale e la
Chiesa non può accettare che qualcuno -neppure uno!- sia privato del
Vangelo e dell‟Eucaristia, sia lasciato nell‟ignoranza circa la sua
vocazione e le sue responsabilità, la sua dignità e il suo destino.
31
Dovremo pertanto offrire al Signore quel poco che abbiamo, quel
poco che siamo, perché dia lui la sua benedizione e distribuisca
quello che serve per saziare la fame di tutti.
Siamo allora invitati a coltivare, in particolare, la vigilanza, quella
vigilanza che Gesù ha fortemente e ripetutamente richiamato ai suoi
discepoli. Siate vigilanti!
Siamo invitati a vigilare sulla tentazione di svuotare il senso di
appartenenza al presbiterio e l‟impegno di obbedienza espresso
nell‟Ordinazione presbiterale.
La missione che ci è affidata è un’impresa troppo grande e una
grazia troppo alta perché si possa immaginare che sia meglio
viverla da soli piuttosto che insieme con il Vescovo e con i
confratelli. E la gente, alla quale siamo mandati, è troppo importante
e preziosa per il cuore di Dio perché possa essere disorientata da
scelte pastorali eccessivamente legate alla sensibilità e alle idee dei
singoli preti.
Siamo invitati a vigilare sulla tentazione della possessività, che ci
porta a legare a noi stessi, più che al Signore, la comunità alla quale
siamo mandati.
Siamo invitati a vigilare sulla tentazione della paura di non essere di
nessuno, tentazione questa che ci induce ad aggrapparci a persone e a
cose che ci danno sicurezza.
Siamo invitati a vigilare sulla tentazione di difendere come libertà
quello che è solo lo spazio per scelte che ci sono più facili e che
rischiano di essere arbitrarie.
La vera libertà significa responsabilità e, più precisamente,
responsabilità a vivere una condivisione -cordiale e concreta- delle
scelte e dei cammini pastorali proposti dal Vescovo e dai suoi
collaboratoti all’intera Diocesi, come pure della preghiera e talvolta
della mensa.
La vera libertà, da amare e da vivere, trova allora la sua radice e il
suo frutto in quella “spiritualità della comunione” (cfr Novo millennio
ineunte, n. 43) che è forza di edificazione della Chiesa e preziosa
testimonianza offerta al mondo.
32
Siamo, dunque, invitati a vigilare. Ma la vigilanza non è un
atteggiamento negativo, preoccupato principalmente o solo di evitare
possibili tentazioni. Vigilare è “avere cura” di ciò che si è, perché il
“mistero” di ciascuno possa manifestarsi e compiersi.
Vigilare è, dunque, una delle condizioni indispensabili per poter
vivere uno stile di ministero “sinfonico”, capace veramente di
esprimere la partecipazione alla carità pastorale del presbiterio.
Di questo stile abbiamo oggi un bisogno rinnovato e particolare. In
realtà, la comune coscienza di appartenere all‟unica opera del Signore
e all‟unica missione da lui ricevuta farà sì che la carità pastorale, per
essere autentico cammino personale di santità, si lasci plasmare da un
ministero pastorale comune e condiviso, favorendo così la premurosa
ricerca dei modi pratici con cui il Vangelo può raggiungere ogni
persona ed edificare l‟intera comunità. Infatti, la convergenza delle
scelte maturate insieme e la fatica serena del lavoro comune sono la
forma più alta di quella comunione pastorale, che fa dire a Paolo: «Io
ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1Cor
3, 6).
Per descrivere questa impostazione complessiva dell‟azione pastorale
si può parlare di “strategia per la missione”, togliendo ovviamente al
termine il sapore di una mera organizzazione umana. Del resto è
Gesù stesso che ci spinge in questa direzione, quando afferma: «Chi
di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la
spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se
getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono
comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non
è stato capace di finire il lavoro…» (Lc 14, 28-30).
Un fondamentale principio riguarda il rapporto tra la Chiesa e il
territorio, proprio a partire e in riferimento alla missione di
annunciare Gesù e il suo Vangelo.
Infatti, la missione di una Chiesa locale è certamente quella di abitare
come “ straniera e pellegrina” il luogo in cui vive (cfr 1 Pt 2, 11), ma
con quel preciso modo di ascoltare, parlare e agire che ripropone lo
stile di vita di Gesù, prendendosi cura delle folle perché non siano
come pecore senza pastore (cfr. Mt 9, 36). La comunità cristiana,
33
dunque, ha il dovere di mettersi in ascolto della voce dello Spirito
che -col variare dei tempi, delle condizioni di vita e delle risorse e
forze a disposizione- risuona anche attraverso le specifiche e
concrete caratteristiche del territorio con cui è compenetrata: si
potranno così definire le modalità più adatte della presenza e
azione missionaria di ogni comunità locale.
E tutto ciò lo dobbiamo fare con quella saggia e coraggiosa duttilità
che ci deve condurre a individuare le forme concretamente più adatte,
di situazione in situazione, per far crescere sempre più una vera e
propria “pastorale d‟insieme”.
È sempre la stessa duttilità a chiederci di individuare e mettere in
atto quelle forme diversificate di “comunione pastorale” che, di
caso in caso, meglio corrispondono alle necessità locali, sempre
considerate anche in prospettiva futura.
Tra queste forme, ce n’è una -da avviare con oculatezza, ma anche
con fiducia e con audacia evangeliche- che si presenta come
particolarmente significativa e promettente -quasi esemplare per le
altre- perché intende realizzare in modo più pieno e intenso quella
“pastorale d’insieme” che costituisce l’orizzonte e lo stile
irrinunciabile di tutta la nostra azione ecclesiale e che, quindi, deve
abbracciare ogni articolazione territoriale della Diocesi. Si tratta
della “costituzione delle unità pastorali” tra più parrocchie affidate
a una cura pastorale unitaria e chiamate a vivere un cammino
condiviso e coordinato di autentica comunione, attraverso la
realizzazione di un concreto, preciso e forte progetto pastorale
missionario.
Proprio perché sono costitutivi della comunità, i gesti propri dei
ministeri della Parola, della liturgia e della carità non possono
essere continuamente moltiplicati al solo scopo di rispondere ai
numerosi e pur legittimi bisogni religiosi delle persone, ma vanno
compiuti, nella quantità e nella qualità, in modo tale da essere
davvero al servizio dell’edificazione di un’autentica comunità
missionaria.
34
Per altro, il servizio pastorale alla vicenda spirituale delle persone
dovrà normalmente prevedere feconde collaborazioni tra le
parrocchie vicine, dentro un sapiente e forte spirito di “pastorale
d‟insieme” e secondo una “regìa” del ministero pastorale dei preti
con il loro responsabile.
Così l‟impostare l‟azione pastorale tenendo presenti le “sfide” che ci
vengono dal territorio sarà frutto di un paziente e insieme coraggioso
“discernimento comunitario” sempre più condiviso e capace di
coinvolgere tutto il popolo cristiano secondo le diverse vocazioni e
condizioni di vita: i presbiteri anzitutto e, insieme con loro, i diaconi,
le persone consacrate, i fedeli laici».
3.1.2. Che coso sono le Unità Pastorali?
“Unità Pastorale”: con quest‟espressione si designa un insieme di
parrocchie vicine che, sotto la guida di una Équipe presieduta da un
Presbitero Moderatore, camminano pastoralmente in modo unitario al
fine di dar vita ad una comunità missionaria capace di essere
immagine viva e trasparente della comunione e missione Trinitaria.
«Un insieme di parrocchie vicine»: l‟Unità Pastorale non è una
superparrocchia e non comporta la soppressione di parrocchie che
restano tutte in vita unitamente ai loro due Consigli (Pastorale e per
gli Affari Economici). Sì, ogni parrocchia conserva la propria identità
giuridica e amministrativa, ma costruisce quella pastorale operando
con le altre parrocchie vicine.
«che sotto la guida di un’Équipe presieduta da un Presbitero
Moderatore»: l‟Équipe di Unità Pastorale, costituita da un numero
non troppo ampio di persone coordina ed orienta, secondo gli
indirizzi contenuti nel piano pastorale diocesano, la pastorale
dell‟Unità; individua quali esperienze ecclesiali vanno conservate in
ogni comunità parrocchiale e quali vanno elaborate e realizzate
insieme nell‟Unità Pastorale. Il Presbitero Moderatore, che è
nominato ad tempus (5 anni) dal Vescovo e non è un superparroco,
convoca e presiede l‟Équipe, nomina i suoi membri e cura
35
l‟attuazione delle sue decisioni che hanno carattere vincolante per i
Consigli Pastorali delle Parrocchie che fanno parte dell‟Unità.
«camminano pastoralmente in modo unitario al fine di dar vita
ad una comunità missionaria capace di essere immagine viva e
trasparente della comunione e missione Trinitaria»: siamo in un
momento storico ed ecclesiale in cui le comunità parrocchiali sono
chiamate a costruire ora, e con le risorse (persone e strutture)
attualmente a disposizione, la Chiesa del futuro. Si tratta di uscire dai
fortini della pastorale individualista e della visione della parrocchia
autosufficiente, non per fare qualche aggiustamento finalizzato alla
sopravvivenza, ma per mettere in atto una vera e propria riforma della
parrocchia tradizionale nell‟ottica della comunione e della missione:
insieme per annunciare e testimoniare efficacemente Cristo Gesù,
unica speranza del mondo. Sul rapporto comunione–missione
risultano particolarmente illuminanti le parole del Servo di Dio Papa
Giovanni Paolo II: «La comunione con Gesù, dalla quale deriva la
comunione dei cristiani tra loro, è condizione assolutamente
indispensabile per portare frutto: “Senza di me non potete far nulla”
(Gv 15, 5). E la comunione con gli altri è il frutto più bello che i tralci
possono dare: essa, infatti, è dono di Cristo e del suo Spirito. Ora la
comunione genera comunione, e si configura essenzialmente come
comunione missionaria. Gesù, infatti, dice ai suoi discepoli: “Non voi
avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e
portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15, 16). La comunione
e la missione sono profondamente congiunte tra loro, si
compenetrano e si implicano mutuamente, al punto che la comunione
rappresenta la sorgente e insieme il frutto della missione: la
comunione è missionaria e la missione è per la comunione» (Es. Ap.
Christifideles laici, 32).
In questo contesto si colloca la imprescindibile necessità di formare
fedeli laici coelaboratori e non solo collaboratori nella vita delle
singole parrocchie dell‟Unità Pastorale. A loro, infatti, spetta il
compito ecclesiale di dare continuità alla vita e all‟originalità della
36
propria comunità, sempre, ma specialmente qualora essa non abbia
più il parroco residente.
3.1.3. Unità Pastorali: il punto della situazione
Credo utile riportare la relazione presentata il 27 giugno u.s. ai
Consigli Pastorale e Presbiterale da don Giampio Devasini, Vicario
Episcopale per la Pastorale:
«L‟Intrumentum laboris “Per avviare il cammino verso la
costituzione delle Unità Pastorali” elaborato da mons. vescovo è stato
trasmesso ai membri dell‟Équipe per le UP istituita il 25 gennaio c.a.,
ai diaconi permanenti, alle assistenti pastorali, ai presbiteri ordinati
negli ultimi 15 anni ed incontratisi a Bose il 16 aprile. Non solo. In
apposite riunioni, i vicari foranei l‟hanno portato a conoscenza dei
presbiteri del loro Vicariato.
L‟Équipe si è già riunita, pressoché al gran completo, tre volte (9
marzo, 20 aprile e 4 giugno). In occasione della seconda riunione, i
vicari foranei di Casale, Cerrina, Moncalvo, Vignale e San Salvatore
hanno presentato un abbozzo scritto di articolazione dei loro Vicariati
in UP mentre altri vicari foranei (Frassineto, Montiglio, Oltrepo e
Brusasco) hanno, sempre per iscritto, sostenuto l‟utilità di
configurare in UP l‟intero loro Vicariato. In occasione della terza
riunione (4 giugno), tutti i vicari foranei nonchè altri membri
dell‟Équipe hanno offerto per iscritto le loro risposte ai seguenti
quesiti: 1) Quali ambiti della pastorale lasciare alla Parrocchia e quali
trasferire all‟UP?; 2) Quale valore attribuire alle decisioni
dell‟Équipe di UP? Valore vincolante?; 3) Quali criteri seguire per
l‟individuazione del Presbitero Moderatore?; 4) Chi inserire
nell‟Équipe di UP?; 5) Cosa fare per dare un‟adeguata formazione ai
laici e così metterli in condizione di divenire veramente
coelaboratori, veramente corresponsabili?
Diversi presbiteri ed alcune assistenti pastorali hanno fatto pervenire
le loro osservazioni scritte.
Il 25 marzo, giornata sacerdotale, don Giovanni Villata,
dell‟Arcidiocesi di Torino, ha tenuto un‟interessante riflessione sulle
UP.
37
Sul secondo numero di quest‟anno della Rivista Diocesana Casalese
è stata pubblicata una sintesi dell‟Instrumentum laboris. Tale sintesi è
stata inviata ai membri dei 2 Consigli -Presbiterale e Pastorale
Diocesano- in vista dell‟odierna discussione. A detti membri sono
stati sottoposti anche i quesiti poc‟anzi enunciati con l‟aggiunta del
seguente: “Pensi che l‟articolazione o la trasformazione del tuo
vicariato in Unità Pastorale possa favorire una pastorale meglio
capace di rispondere alle numerose e complesse sfide della società
contemporanea?”.
In occasione della Messa del Crisma (9 aprile) è stato diffuso un
sussidio da distribuire ai fedeli e so che alcuni presbiteri già lo hanno
fatto.
A partire dall‟autunno del corrente anno Mons. vescovo ed il Vicario
episcopale per la pastorale andranno nei Vicariati e per illustrare
progetto e abbozzo di articolazione in UP e per raccogliere le relative
osservazioni: le riunioni, adeguatamente preparate attraverso una
capillare informazione, dovranno essere aperte a tutti.
Che io sappia, fin‟ora nessuno, né verbalmente né per iscritto, si è
dichiarato contrario alla prospettiva delle UP. Non pochi hanno però
avanzato dubbi, perplessità, riserve. Sei le ragioni fondamentali
addotte:
1) La fatica a comprendere l‟utilità di articolare i Vicariati in UP
con la conseguente domanda: non sarebbe meglio impegnarsi
a realizzare a livello di Vicariato- eventualmente ritoccato nei
confini- le dinamiche proprie dell‟UP e così farlo finalmente
funzionare anziché spendere tempo ed energie per costituire
una realtà -l‟UP- che rischia di essere semplicemente un
Vicariato ridimensionato ed avente gli stessi problemi degli
attuali Vicariati? E ancora: lasciare in piedi la struttura
vicariale laddove il Vicariato si articolerà in UP è cosa buona
oppure si avrebbe una moltiplicazione delle figure
istituzionali che finirebbe per appesantire l‟azione pastorale?
2) Il campanilismo, a volte veramente esasperato, che
contraddistingue non poche delle nostre comunità
parrocchiali, campanilismo che ha radici antiche e che spesso
38
3)
4)
5)
6)
è stato alimentato, per motivi economici, da non pochi
presbiteri.
La difficoltà di molti presbiteri a collaborare tra di loro. Più
puntualmente e se ho capito bene: non fa problema la
collaborazione che si esaurisce nella richiesta di aiuto per la
celebrazione di Messe o del sacramento della riconciliazione
e nello svolgimento di periodiche e a volte poco produttive
riunioni. A fare problema è la collaborazione intesa come
coelaborazione di una pastorale unitaria nei vari settori della
vita ecclesiale. Questo tipo di collaborazione, a cui -parlo di
noi presbiteri- non siamo stati educati nè siamo abituati, ci fa
paura perchè importa il mettersi in discussione, perché
importa l‟abbandonare protagonismi ed autoreferenzialità,
perché importa un dialogo possibile solo se ci si libera da
pretese veritative su persone, programmi e progetti, perché
importa il superamento della diffidenza e del timore del
confronto, perché importa uno sguardo di misericordia su se
stessi e sui propri fratelli nel presbiterato, perché importa
rimboccarsi le maniche in misura maggiore ed in termini
qualitativamente diversi rispetto a quanto alcuni di noi, e
parlo innanzitutto per me, abitualmente fanno.
La fatica di alcuni presbiteri ad accettare laici che non si
limitino ad occuparsi delle strutture e a fare da sacrestani ma
che, forti delle loro esperienze esistenziali, si dispongano a
concorrere nell‟elaborazione ed attuazione di cammini
pastorali capaci di rispondere alle numerose e complesse sfide
della società contemporanea: il contesto secolarizzato e la
rottura della comunicazione fra le generazioni che ha reso
problematica la traditio fidei, la frammentazione che
disorienta e rende difficile il consenso intorno ai valori.
La preoccupazione di alcuni presbiteri di essere non dico
costretti ma caldamente invitati a spostarsi di Parrocchia.
La difficoltà di individuare, soprattutto al di fuori dei soliti
noti, persone disposte ad affrontare l‟impegno di corsi di
formazione per operatori pastorali, condizione fondamentale
per non continuare ad essere meri esecutori e divenire invece
39
veri e propri coelaboratori o financo referenti pastorali
laddove non c‟è il presbitero residente (come ben sapete, nella
nostra Diocesi esiste ormai da molti anni la figura
dell‟assistente pastorale, geniale intuizione del vescovo Carlo
Cavalla).
Comunione per la missione, missione per la comunione: è questa
l‟ecclesiologia voluta dal Vaticano II, è questa l‟ecclesiologia che ci
aiuta a crescere come uomini, come cristiani, laici o presbiteri.
Questo spiega perché il nostro Vescovo ama ripetere che se anche
non ci fosse scarsità di clero egli non desisterebbe dal cercare di
realizzarla. Ecco, è di questa ecclesiologia che le UP intendono essere
strumento, uno strumento sempre da verificare per correggere ciò
che, cammin facendo, si rivelerà errato o quanto meno inadeguato e
comunque tenendo sempre fermo un principio più volte ribadito
sempre dal nostro vescovo: l‟articolazione degli attuali Vicariati in
UP avverrà sola là dove detta articolazione risulterà utile per una più
efficace azione pastorale e cioè a dire per un‟azione pastorale capace
di accompagnare ogni persona in tutti gli ambiti della sua vita e non
solo nei momenti del nascere e del morire. Se, vincendo le molteplici
paure che ci portiamo dentro, ci avventureremo con serenità lungo
questa strada che oggi lo Spirito suggerisce alla Chiesa, scopriremo,
forse con nostra stessa meraviglia, che a volte i sogni possono
diventare realtà. Domando e chiudo: ma noi sogniamo ancora? Spero
di sì, lo spero per voi ma innanzitutto lo spero per me».
I due punti precedenti descrivono un poco l‟impegno della nostra
Diocesi “in cammino” per essere sempre più Chiesa comunione e
Chiesa missionaria. Sempre in questa prospettiva intendo riprendere
ed incrementare la «Consulta diocesana delle aggregazioni laicali».
La Consulta non ha un compito immediatamente organizzativo ma è
fatto comunionale con lo scopo di facilitare il cammino insieme
delle aggregazioni laicali in ascolto ed in proposta al Vescovo ed in
sintonia con il Piano pastorale diocesano. Questo scopo viene
perseguito attraverso la conoscenza, il coordinamento, la
40
collaborazione e la coelaborazione. La Consulta offre alle
Aggregazioni laicali una triplice finalità :
-
condividere il carisma della propria associazione
far conoscere al proprio interno il programma
pastorale diocesano
partecipare attivamente all'attuazione del programma
diocesano.
3.2. L’Iniziazione cristiana: un impegno fondamentale per una
Chiesa che vuole “educare”
Ci limitiamo, per ora, a ricordare tutte le idee e le proposte che in
questi ultimi anni sono state elaborate soprattutto dalla Conferenza
Episcopale Italiana.
3.2.1. La difficile situazione della catechesi dell’iniziazione cristiana
dei ragazzi
Da alcuni anni catechisti e parroci si trovano in difficoltà, perché
costatano ogni giorno che il modo di fare catechesi nelle parrocchie
con i fanciulli e i ragazzi, ma anche i corsi per adulti, non riescono
più a dare risultati significativi: i ragazzi se ne vanno dopo la
Cresima, i genitori non partecipano, ci sono problemi di disciplina, di
coinvolgimento, di orari, ecc. Soprattutto la vita cristiana nelle
famiglie si affievolisce sempre più, riducendo le parrocchie a luoghi i
cui si cercano servizi religiosi generici, chiesti per abitudine o per
motivi estranei alla fede cristiana.
E‟ un problema di catechisti? E‟ un problema di metodologia? E‟ un
problema d‟inefficacia della nostra pastorale? Forse, come si afferma
negli Orientamenti pastorali della CEI per il nuovo millennio
“Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”: è necessaria una
«conversione pastorale»:
«La comunità cristiana dev’essere sempre pronta a offrire itinerari
d’iniziazione e di catecumenato vero e proprio. Nuovi percorsi sono
41
richiesti, infatti, dalla presenza non più rara di adulti che chiedono il
battesimo, di “cristiani della soglia” a cui occorre offrire particolare
attenzione, di persone che hanno bisogno di cammini per “ricominciare”…
Al centro di tale rinnovamento va collocata la scelta di configurare la
pastorale secondo il modello dell‟iniziazione cristiana, che -intessendo tra
loro testimonianza e annuncio, itinerario catecumenale, sostegno
permanente della fede mediante la catechesi, vita sacramentale, mistagogia
e testimonianza della carità- permette di dare unità alla vita della comunità
e di aprirsi alle diverse situazioni spirituali dei non credenti, degli
indifferenti, di quanti si accostano o si riaccostano al Vangelo, di coloro che
cercano alimento per il loro impegno cristiano» (n.59).
Il discorso è ripreso dalla Nota della CEI (2004) Il volto missionario
delle parrocchie in un mondo che cambia al n.7:
«Un ripensamento s‟impone, se si vuole che le nostre parrocchie
mantengano la capacità di offrire a tutti la possibilità di accedere alla
fede… Per questo abbiamo pubblicato tre note pastorali sull‟iniziazione
cristiana, così da introdurre una più sicura prassi per l‟iniziazione cristiana
degli adulti, per quella dei fanciulli in età scolare e per il completamento
dell‟iniziazione e la ripresa della vita cristiana di giovani e adulti già
battezzati. Qui richiamiamo alcuni obiettivi importanti…
Anzitutto riguardo all‟iniziazione cristiana dei fanciulli. Si è finora cercato
di “iniziare ai sacramenti”: è un obiettivo del progetto catechistico “per la
vita cristiana”, cui vanno riconosciuti indubbi meriti e che esige ulteriore
impegno per una piena attuazione. Dobbiamo però anche “iniziare
attraverso i sacramenti”. […] In prospettiva catecumenale, il cammino va
scandito in tappe, con percorsi differenziati e integrati. Occorre promuovere
la maturazione di fede e soprattutto bisogna integrare tra loro le varie
dimensioni della vita cristiana: conoscere, celebrare e vivere la fede,
ricordando che costruisce la sua casa sulla roccia solo chi “ascolta” la
parola di Gesù e la “mette in pratica” (cfr Mt 7,24-27). La fede deve essere
nutrita di parola di Dio e resa capace di mostrarne la credibilità per l‟uomo
d‟oggi».
La Conferenza Episcopale italiana richiama, dunque, l‟urgenza di
riorganizzare la prassi catechistica dell’iniziazione cristiana,
restituendole la dignità di vera “iniziazione cristiana”, cioè di un
42
cammino per diventare cristiani ed entrare nella comunità. Mentre
spesso noi facciamo proposte di “preparazione ai sacramenti” a
carattere scolastico, sia per quanto riguarda i tempi sia per quanto
riguarda la forma e senza coinvolgere le famiglie.
3.2.2. Le nuove proposte della Conferenza Episcopale Italiana
Come dicono i Vescovi nel documento citato, per sostenere la
necessaria «conversione pastorale», il Consiglio Permanente della
CEI ha proposto dal 1997 al 2003 alcune linee concrete sotto il titolo
L’iniziazione cristiana. Sono tre documenti che offrono orientamenti
per il catecumenato degli adulti (gli adulti che chiedono il
Battesimo); per il catecumenato dei ragazzi (i ragazzi da battezzare
che sono inseriti nel cammino catechistico), per il risveglio della fede
nei giovani e negli adulti (verso la Cresima, fidanzati, genitori che
chiedono il Battesimo del figlio,ecc.).
I tre documenti non propongono soltanto vaghe esortazioni, ma
itinerari concreti da sperimentare nelle Diocesi e nelle parrocchie:
per gli adulti che chiedono il Battesimo ormai molte diocesi hanno un
“Servizio diocesano”; per i ragazzi è stata proposta una Guida per
l’itinerario catecumenale (Elledici), elaborata dell‟Ufficio
catechistico nazionale; per il risveglio della fede è stato proposto un
itinerario annuale e l‟istituzione nelle parrocchie di gruppi di ricerca
nella fede. La riflessione sull‟Iniziazione Cristiana promossa dalle
Note ha portato ad un “ripensamento” anche della pastorale di
Iniziazione Cristiana dei ragazzi nella nostra prassi ordinaria, con due
interventi significativi: il Seminario della Commissione Episcopale
per la Dottrina della Fede, l‟annuncio e la catechesi, e le due
Assemblee della Conferenza Episcopale Italiana del 2003 e 2004.
Fermandoci, appunto, ai ragazzi dell‟iniziazione cristiana, la proposta
è di riorganizzare totalmente la pratica attuale della catechesi,
rendendola un cammino vero e proprio per“diventare cristiani”, a
cui la famiglia accetta liberamente di partecipare con i propri figli,
scandito da riti e celebrazioni, fatto anche di esperienze di vita
cristiana (gesti di solidarietà, giornate comunitarie, ecc.),
43
partecipazione progressiva alla vita della parrocchia, celebrazione
unitaria dei sacramenti del Battesimo Cresima ed Eucaristia.
Occorre riattivare la trasmissione della fede nelle famiglie e
sostenerla con gli incontri comunitari: la grande sfida della catechesi
di oggi è imparare a “fare i cristiani”, piccoli o adulti che siano.
Questo compito esige un rinnovamento totale della nostra prassi
catechistica: ma affonda le sue radici già nel documento conciliare Ad
Gentes n.13-14: là dove il Concilio afferma che «l’iniziazione
cristiana è compito di tutta la comunità cristiana»; e nel Documento
di Base (1970), quando si dice che lo scopo della catechesi è «creare
la mentalità di fede, cioè educare a pensare, a vivere, ad amare come
Gesù» (n.38). Già allora si sottolineava l‟importanza dell‟inserimento
nella parrocchia (n.200), affermando anche che i destinatari propri
della catechesi sono gli adulti (n.124). E nella lettera di riconsegna
(1988) al n. 7 si ricorda che «punto di riferimento per gli itinerari di
catechesi di tipo catecumenale è il Rito per l’Iniziazione Cristiana
degli adulti»; inoltre, propone itinerari differenziati: per l‟iniziazione
cristiana, per la crescita e maturazione della fede; per la formazione
permanente e sistematica… Tutte cose che sono state riprese anche
nel Direttorio Generale per la catechesi (1997): nei nn. 60-68 si
definisce la catechesi dell‟iniziazione cristiana come esperienza
globale in cui coinvolgere ragazzi e famiglie; nei nn. 88-91 si
dichiara apertamente che il modello a cui riferirsi è il «catecumenato
battesimale».
La novità di questi ultimi anni sta semplicemente nella proposta
concreta di un itinerario percorribile per attuare queste intuizioni.
La prospettiva catecumenale -proposta così ampiamente e così
autorevolmente- non è un‟alternativa al progetto catechistico italiano
o un rinnegamento di esso: anzi, se mai ne è uno sviluppo puntuale.
Infatti, i criteri su cui si fonda il rinnovamento proposto, nascono
proprio dal Documento di Base, dal Direttorio catechistico generale
e li attuano in maniera concreta e articolata. Occorre poi sfatare l‟idea
che la riscoperta dello stile catecumenale sia una semplice operazione
archeologica per ripristinare l‟antico catecumenato: certo, i termini
44
usati a volte possono apparire superati… ma più che i termini o la
tradizione si tratta di dare una risposta alla situazione attuale per
molti versi paragonabile alla situazione di allora. Ci troviamo oggi,
infatti, in un mondo pagano (più ancora che ateo), in cui deve
risuonare nuovamente l‟annuncio di Gesù e la coerenza tra
l‟annuncio e la vita quotidiana, basata su criteri evangelici. Né il
rinnovamento va pensato come una pura preoccupazione di ridare
completezza ai contenuti a scapito dell‟attenzione alle persone: anzi,
è proprio l‟accompagnamento alle persone, nella loro situazione
concreta di lontananza da Cristo e dalla Chiesa, a scandire le tappe
del cammino. I catechismi sono uno strumento indispensabile per
l‟iniziazione cristiana, senza essere la risoluzione definitiva dei
problemi della nostra catechesi. Non basta fare un bel testo di
catechismo -come quelli che abbiamo in Italia- per iniziare alla fede
(RdC n.200).
Ritengo necessario ed urgente riprendere, con pazienza e con
profonda passione pastorale, quanto sopra esposto così da giungere a
scelte concrete e condivise.
3.3. La nostra Chiesa è chiamata ad esprimere collaboratori
corresponsabili
Una conversione pastorale qual è quella verso cui intende avviarsi la
nostra Diocesi “in cammino”, necessita di una collaborazione
responsabile ed integrata tra sacerdoti – diaconi – laici. Non ci sarà
alcun futuro per i nostri progetti pastorali senza un patto di
comunione missionaria con i laici.
Bisogna, allora, fare in modo che i laici diventino nelle nostre
comunità non soltanto dei generosi collaboratori, ma dei veri
corresponsabili. E‟ questo un elemento fondamentale della
“conversione pastorale”. L‟importanza del sacerdozio battesimale dei
laici non deve essere soltanto dichiarata. La stima e l‟appello
all‟impegno dei battezzati non può soltanto essere ridotto a princìpi.
Per questo dobbiamo accettare, anzi scegliere con tutta la forza del
nostro zelo pastorale la via della formazione seria ed esigente.
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Anche per questo argomento ci limitiamo, per ora, a ricordare i
progetti offerti alla Chiesa da parte del magistero.
Il magistero della Chiesa insiste sempre di più nel ricordare che il
popolo di Dio non è tale nella sua interezza se la condizione di
cristiani laici non è vissuta come fatto costitutivo della Chiesa stessa.
La pastorale, di conseguenza, non è concepibile secondo
un‟impostazione che non faccia emergere il carisma della laicità
cristiana come energia originale, protagonista, insostituibile.
3.3.1. Superare una “ecclesialità incompiuta”
Soprattutto dalla Costituzione conciliare Lumen Gentium (LG) sulla
natura della Chiesa e dalla Esortazione apostolica Christifideles laici
(ChL), di Giovanni Paolo II sulla vocazione e missione dei laici nella
Chiesa e nel mondo, possiamo cogliere alcuni punti basilari del
magistero che risultano di assoluta attualità sia per la riflessione
teologica, sia per l‟orientamento formativo e pastorale in tema di
laicato cristiano.
a) tutti i cristiani sono ugualmente chiamati alla missione della
Chiesa, e un nuovo stile di collaborazione tra sacerdoti,
diaconi, religiosi e fedeli laici -di cui tutti riconoscono la
necessità- potrà derivare solo da una rinnovata coscienza
sulla realtà del sacerdozio comune che sta alla base della
condizione di battezzati (cfr 1Pt 2,4-5.9; LG nn. 10 e 15), per
il superamento di una ecclesialità altrimenti incompiuta.
b) «I ministeri e i servizi ecclesiali affidati o da affidarsi ai fedeli
laici» (ChL 2) non devono risultare un ripiego di emergenza,
ma il riconoscimento di una funzione necessaria ed
equilibratrice, originale dentro il popolo di Dio.«Cercare il
Regno trattando le cose temporali e ordinandole secondo il
Signore» (LG 31); con la consapevolezza «non soltanto di
appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa» (ChL 9).
c) Distinti, quindi, ma non separati da presbiteri e diaconi (il cui
ministero è ordinato), da religiosi e religiose (la cui
consacrazione ha specifico ruolo profetico), i laici esprimono
46
l‟indole secolare «loro propria e peculiare» (LG 31)
considerando «il mondo l‟ambito e il mezzo della loro
vocazione cristiana» (ChL 15). «Sono da Dio chiamati a
contribuire quasi dall‟interno, a modo di fermento, alla
santificazione del mondo» (LG 31).
d) Per questo, tutti i fedeli battezzati, senza distinzione, sono
chiamati «alla santità e alla perfezione del proprio stato» (LG
42). I laici, in particolare, devono evitare una duplice
tentazione: quella dell‟eccesso di coinvolgimento in compiti
ecclesiali fino al disimpegno dalle specifiche responsabilità
familiari e professionali; oppure quella di «legittimare
l‟indebita separazione tra la fede e la vita» (ChL 2).
3.3.2. Il magistero dei Vescovi italiani
Nella nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana Il volto
missionario delle parrocchie in un mondo che cambia pubblicata il
30 maggio 2004, i Vescovi Italiani mettendo al centro della
riflessione il tema della parrocchia ribadiscono con forza ed incisività
il ruolo del laicato nella vita della Chiesa con particolare riferimento
al suo rapporto con i ministeri ordinati nonché la responsabilità della
cura e della formazione di un laicato adulto e motivato al servizio.
a) Il cammino missionario della parrocchia è affidato alla
responsabilità di tutta la comunità parrocchiale. La
parrocchia non è solo una presenza della Chiesa in un
territorio, ma «una determinata comunità di fedeli»,
comunione di persone che si riconoscono nella memoria
cristiana vissuta e trasmessa in quel luogo. Singolarmente
e insieme, ciascuno è lì responsabile del Vangelo e della
sua comunicazione, secondo il dono che Dio gli ha dato e
il servizio che la Chiesa gli ha affidato.
b) In questi decenni i sacerdoti hanno visto moltiplicarsi i
loro impegni. Ciò è spesso avvenuto senza che venisse
ripensato in modo globale e coerente il loro servizio al
Vangelo. Spesso perciò sono affaticati da una molteplicità
di impegni che tolgono loro la pacatezza necessaria per
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svolgere con frutto il proprio ministero e per curare
convenientemente la propria vita spirituale. Il rischio di un
attivismo esasperato non può essere trascurato, anche in
considerazione della diminuzione delle vocazioni
sacerdotali, realtà con cui tutte le diocesi devono fare i
conti.
c) I sacerdoti dovranno vedersi sempre più all‟interno di un
presbiterio e dentro una sinfonia di ministeri e di
iniziative: nella parrocchia, nella diocesi e nelle sue
articolazioni. Il parroco sarà meno l‟uomo del fare e
dell‟intervento diretto e più l‟uomo della comunione; e
perciò avrà cura di promuovere vocazioni, ministeri e
carismi. La sua passione sarà far passare i carismi dalla
collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno
una mano a presenze che pensano insieme e camminano
dentro un comune progetto pastorale. Il suo specifico
ministero di guida della comunità parrocchiale va
esercitato tessendo la trama delle missioni e dei servizi:
non è possibile essere parrocchia missionaria da soli.
d) Ma la missionarietà della parrocchia esige che gli spazi
della pastorale si aprano anche a nuove figure ministeriali,
riconoscendo compiti di responsabilità a tutte le forme di
vita cristiana e a tutti i carismi che lo Spirito suscita.
Figure nuove al servizio della parrocchia missionaria
stanno nascendo e dovranno diffondersi: nell‟ambito
catechistico e in quello liturgico, nell‟animazione
caritativa e nella pastorale familiare, ecc. Non si tratta di
fare supplenza ai ministeri ordinati, ma di promuovere la
molteplicità dei doni che il Signore offre e la varietà dei
servizi di cui la Chiesa ha bisogno. Una comunità con
pochi ministeri non può essere attenta a situazioni tanto
diverse e complesse. Solo con un laicato corresponsabile,
la comunità può diventare effettivamente missionaria.
e) la cura e la formazione del laicato rappresentano un
impegno urgente da attuare nell‟ottica della “pastorale
integrata” e in una duplice direzione. La prima richiede
48
una formazione ampia e disinteressata del laicato, non
indirizzata subito a un incarico pastorale e/o missionario
ma alla crescita della qualità testimoniale della fede
cristiana. La seconda esige di promuovere su questo
sfondo anche una capacità di servizio ecclesiale, sia in
forma occasionale e diffusa sia con impegno a tempo
parziale o pieno. Bisogna peraltro dire con franchezza che
non c‟è ministero nella Chiesa che non debba alimentarsi
a un‟intensa corrente di spiritualità e di oblatività. La
Chiesa non ha bisogno di professionisti della pastorale,
ma di una vasta area di gratuità nella quale chi svolge un
servizio lo accompagna con uno stile di vita evangelico.
La formazione dovrà coprire tutte le dimensioni
necessarie per l‟esercizio del ministero – spirituali,
intellettuali, pastorali –, perché cresca in tutti una vera
coscienza ecclesiale.
L‟intuito pastorale del vescovo Mons. Carlo Cavalla, seppe dare vita
-nel solco del magistero conciliare- alla realtà delle Assistenti
Pastorali; esattamente in questa linea vogliamo incamminarci;
vogliamo lanciare un appello a quanti -uomini e donne- intendono
impegnarsi per una formazione che permetta loro di vivere la
chiamata battesimale a servire l‟edificazione del Regno di Dio, nelle
diverse attività pastorali della Chiesa (cfr XXVII Sinodo Diocesano
Casalese, Orientamenti e Norme, 150).
Conclusione
Carissimi,
con questo messaggio non intendo proporre una trattazione
completa circa il tema dell‟educazione e nemmeno offrire ricette. Più
semplicemente desidero aiutare a riflettere, così che l‟educazione
diventi la passione centrale delle nostre comunità cristiane.
Non si tratta di metterci a ricercare “colpevoli” (la società, la
famiglia, la scuola…); si tratta piuttosto di ritrovare fiducia e
coraggio; si tratta di costruire -in positivo- comunità vere che si
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assumono coscientemente e responsabilmente quel servizio di vero
amore che consiste nel “trasmettere la fede”.
A Maria -modello efficace per ogni impegno educativo- che da Crea
veglia sulla nostra Chiesa, al patrono S. Evasio, testimone fino
all‟effusione del sangue per trasmettere la fede, affidiamo il nostro
cammino pastorale.
Casale Monferrato, 7 settembre 2009 – 1° Anniversario dell‟inizio
del mio ministero pastorale
+ Alceste Catella, vescovo
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