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(ri)facciamo la pace

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(ri)facciamo la pace
Luca Martinelli
Riconversióne:
(ri)facciamo
la pace
Rìconversione:
(ri) facciamo la pace
Esperienze esemplari e ripetibili
di trasformazione nei modi di
produzione e nelle relazioni
all’interno degli spazi in cui si
svolge la vita delle comunià
di Luca Martinelli
“Riconversione: (ri)facciamo la pace”
© Altra Economia Soc. Coop.
Via Vallarsa 2 - 20139 Milano
Tel. 02-89.91.98.90, e-mail: [email protected]
Autore: Luca Martinelli
Prima edizione maggio 2015
Progetto grafico: Laura Anicio
Il catalogo dei libri di Altreconomia
è sul sito: www.altreconomia.it/libri
Indice
Introduzione pag. 9
Capitolo 1
Ogni animale ha un nome
pag. 13
Capitolo 2
La riconversione delle bollicine
pag. 22
Capitolo 3
Il parco dopo la caserma pag. 28
Capitolo 4
L’etica del muretto pag. 35
Capitolo 5
Il cibo del nostro cibo pag. 41
Capitolo 6
Dal bianco al bianco
pag. 46
Capitolo 7
Come se fossi a casa tua
pag. 53
Capitolo 8
Una tenuta ben custodita pag. 58
Questo libro è dedicato a Sabrina Sganga.
È un omaggio alla giornalista che -tra le altre coseha avuto il merito di immaginare, con Camilla Lattanzi,
una campagna come “Imbrocchiamola!”, il cui messaggio
riunisce l’essenza di ogni iniziativa per ridurre il nostro
impatto sul pianeta: “Chiedi e consuma acqua di rubinetto
sempre e ovunque; sii il cambiamento che vuoi realizzare”.
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L’associazione “Sabrina Sganga” è stata costituita, nel 2013,
dalla famiglia e dagli amici di Sabrina.
Centrale nella vita e nel lavoro di Sabrina Sganga è stata
l’etica come pratica quotidiana; si è occupata, con il suo lavoro di giornalista, lungamente degli stili di vita, con una
attenzione pionieristica alle economie alternative e solidali ed al consumo critico.
L’associazione si occupa degli stili di vita, di consumi,
di giustizia sociale, di tutela dei diritti e di salvaguardia
dell’ambiente.
L’associazione Sabrina Sganga nel 2013 ha istituito un premio giornalistico, che è arrivato alla terza edizione.
Info: www.premiosabrinasganga.it
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Introduzione
Riconversione: (ri)facciamo la pace
È l’enciclopedia Treccani a darci una definizione del concetto di riconversióne: “In economia, adattamento di impianti
o attrezzature esistenti a nuovi tipi di produzione in seguito a mutamenti qualitativi della domanda, a trasformazioni di processi o a innovazioni tecnologiche (r. industriale,
r. dell’industria siderurgica, r. metalmeccanica)”. Il corsivo
è nostro. La voce continua precisando che una riconversióne molto accentuata avviene “in connessione al passaggio dallo stato di guerra a quello di pace, con la trasformazione di industrie per la fabbricazione di armamenti in
produzioni civili”.
Possiamo considerare la crisi -che è al contempo ambientale e sociale, e per ultimo anche economica- come il frutto
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di uno stato di guerra permanente nei confronti del Pianeta (degli ecosistemi e di chi li abita). Per costruire la pace,
cioè per permettere di abitare la Terra rispettandola, risulta allora evidente l’esigenza di una profonda trasformazione relativa ai modi di produzione e alle relazioni all’interno
degli spazi in cui si svolge la vita delle comunità: una vera
e propria riconversióne culturale del nostro Paese.
L’obiettivo di questo lavoro è rendere comuni, condivisibili e riconoscibili a tutti gli “stili di vita ispirati a principi di mutualità, sostenibilità e solidarietà”, cui Sabrina ha
dedicato il proprio lavoro giornalistico, mettendo in luce,
prima di altri, che alle forme d’impegno individuale fosse necessario associare processi di cambiamento collettivo,
finalizzati “al superamento di situazioni di degrado sociale
e ambientale legato al consumo e alla produzione” -come
ricorda il bando di questo Premio giornalistico a lei dedicato-. È per questo che riteniamo importante raccogliere
“storie di riconversióne”, da Nord a Sud del Paese, esperienze esemplari e ripetibili che raccontano come sia possibile valorizzare per davvero l’esistente, superando la visione mercatista della vita e del rapporto tra gli esseri umani,
il Pianeta e le sue risorse.
Una storia di riconversióne -ad esempio- è quella relativa
all’area dell’ex Ospedale psichiatrico di Trieste, un “quartiere” costruito sulle colline che dominano la città nel Parco di San Giovanni: dopo la “rivoluzione” voluta da Franco
Basaglia, l’area è diventata un laboratorio di imprenditoria sociale, di proposte culturali e di formazione, un vero
“parco delle idee” (si va da Radio Fragola al bar-ristorante “Il posto delle fragole”, passando per la cooperativa Lister Sartoria Sociale, che svolge attività di sartoria, maglieria ed arredo) dove i triestini possono oggi anche coltivare
il proprio orto.
Le storie che proponiamo vanno quindi oltre il significato che in Italia è stato attribuito alla parola riconversióne,
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spesso associata alla parola “valorizzazione”, dando così
un’enfasi commerciale al termine. Gli esempi in questo
senso non mancano, basti pensare alla (prossima) “riconversióne” in abitazioni e hotel dell’ex Teatro comunale di
Firenze, ceduto a fine dicembre dall’amministrazione comunale a un fondo d’investimento, o alla “riconversióne” di
vecchi cementifici in impianti di co-incenerimento di rifiuti, come accade in Puglia dove il gruppo Cementir riceve finanziamenti pubblici (fondi europei, stanziati da Regione Puglia) per farlo.
Al contrario, come dimostrano le storie che racconteremo
nei reportage del progetto “Riconversióne”, è possibile riutilizzare i beni pubblici dismessi per fini sociali e culturali
d’interesse collettivo, o ri-pensare un territorio, favorendo
-grazie all’agricoltura biologica- l’occupazione giovanile per
evitare lo spopolamento delle vallate alpine o appenniniche.
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luca martinelli
Due dei cavalli che vivono in libertà.
Nel 2013 i volontari che hanno dato una mano
alla Fattoria della pace “Ippoasi” sono stati 59.
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Capitolo 1
Ogni animale ha un nome
I cavalli sono entrati nella vita di Christian quando lui aveva quindici anni. Trinadoro era il nome della prima trottatrice acquistata dal padre, che da lì a poco avrebbe comprato
una intera scuderia di cavalli da corsa, a Montecatini Terme (PT). Oggi, a 33 anni, Christian mi accoglie a San Piero
a Grado, alle porte di Pisa, nella “Fattoria della pace”, dove
alcuni cavalli, insieme ad oltre ottanta animali, sono accolti e vivono in libertà: è negli ultimi anni, gestendo due maneggi, prima a Collesalvetti (LI) e poi a Marina di Pisa (PI),
che Christian Luciani -livornese di nascita- ha realizzato la
sua personale “riconversione”. “Mi avevano insegnato che i
cavalli erano oggetti a nostro servizio, e che fin dal momento dell’addestramento i puledri avrebbero dovuto capire che
dovevano sottomettersi al volere dell’uomo” racconta Christian. Soma, addestramento, allenamento e attività agonistica sarebbero violenze nei confronti del cavallo, “perché geneticamente e biologicamente” non sono preparati a questo.
“Credevo che fossero animali solitari, perché ero stato abituato a vedere ogni cavallo nel proprio box”. Quelli che corrono nel recinto della “Fattoria della pace”, che occupa circa
tre ettari all’interno del Parco regionale Migliarino San Rossore Massaciuccoli, invece, giocano insieme e si buttano per
terra, strusciando i fianchi sulla terra. “È un gesto innato dei
cavalli, quando sono allo stato brado; nel farlo dentro i box,
che sono stretti, rischiano però di morire, restando bloccati”.
La “Fattoria della pace” è un progetto dell’associazione Ippoasi (www.ippoasi.org), che è nata nel febbraio del 2010.
Nei primi anni, il rifugio per animali era a Marina di Pisa,
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all’interno dell’area che ospitava l’ultimo centro ippico gestito da Christian insieme alla ex moglie, co-fondatrice dell’associazione. “Quando abbiamo deciso di chiudere con il maneggio avevamo 20 allievi e 20 cavalli a pensione. Abbiamo
fatto una scelta anti-economica, dettata da una spinta etica” spiega Christian.
Aggiunge che i genitori di molti allievi non ne compresero i
motivi, anche perché l’attività dell’associazione equestre Ippoasi (“il nome dell’ultimo centro ippico portava già in seno
il nuovo progetto, vedi” racconta Christian) li aveva illusi che
esistesse un’equitazione sostenibile: i cavalli, intanto, erano
“scalzi”, cioè non venivano ferrati, e Christian aveva svolto diversi corsi fino a diventare “pareggiatore naturale”. Poi
era stata eliminata anche l’“imboccatura”, e infine la selle: “I
cavalli venivano montati con una fascia”, spiega Christian.
A fine 2008, quando Christian e la sua ex moglie decisero
di porre fine al maneggio a Marina di Pisa possedevano 7
cavalli, un asino, galline e 3 capre. “I cavalli, che erano stati
innanzitutto una fonte di reddito, diventarono improvvisamente un costo, e per noi fu molto duro -spiega Christian-:
per tutto il 2009 -aggiunge- si è retto, senza mai pensare di
dar via gli animali”.
È stato a quel punto che è nata Ippoasi, seguendo l’esempio di altre strutture simili che nel frattempo Christian e la
ex moglie avevano conosciuto in Italia, come “Vallevegan”,
a Rocca Santo Stefano (Roma), ovvero “l’A-fattoria degli
animali liberi” (www.vallevegan.org), o Vitadacani, di Arese, nell’hinterland di Milano (www.vitadacani.org). Entrambe le realtà seguono la cultura del veganismo, una filosofia
di vita basata sul rifiuto di ogni forma di sfruttamento degli animali. “Ero già diventato vegano -racconta Chrstian
Luciani-, ma lo avevo fatto con un percorso esperenziale,
togliendo dalla mia dieta un animale dopo l’altro, a partire
dalle galline, dopo aver instaurato una relazione di affetto
e rispetto con quelle che ospitavo presso il centro ippico di
Collesalvetti”. Fu poi la volta delle mucche, infine dei ma14
iali. Dopo i terrestri, Christian passa ai pesci. Quindi, toglie
tutti i derivati animali.
“All’inizio di questo percorso -aggiunge- non riuscivo a capire che il problema non era solo la mia dieta, ma anche lo
sfruttamento degli animali”. Questa riconversione, il cui simbolo è l’attività di Ippoasi, ruota intorno a due parole, “da
reddito”, appiccicate in coda agli animali, come a qualificarli oggetti a disposizione dell’uomo, e non soggetti. Nella
“Fattoria della pace” convivono mucche, cavalli, asini, capre,
galli e galline, maiali, pecore, oche, pony. “Si tolgono tutte
le esigenze specie-specifiche” traduce in un linguaggio più
tecnico Christian. Che precisa, però, come Ippoasi non sia
un’associazione animalista, ma un progetto culturale e politico, con zampe ben piantate anche nel mondo dell’economia solidale: le t-shirt sono quelle di Raggio Verde, da filiera equo solidale e in cotone biologico, stampate ad acqua.
Le assicurazioni del rifugio, invece, sono quelle “etiche” del
Consorzio CAES (www.consorziocaes.org), e le donazioni -che sono in realtà “adozioni”, reali, dei singoli ospiti- si
raccolgono su un conto corrente aperto presso Banca Etica
(“Ippoasi è socia”, puntualizza Christian). “Abbiamo anche
fondato il primo Gas vegano di Pisa, e siamo attivi all’interno del Distretto di economia solidale Alt(r)o Tirreno, dove
abbiamo promosso una riflessione sul rapporto tra umani e
non umani, un ambito cui il mondo dell’economia solidale
a nostro avviso dovrebbe guardare con maggiore attenzione” sottolinea Christian.
Un antidoto naturale “è dare un nome ad ogni altro animale”, mi spiega Silvia Sacilotto, che da Pordenone è arrivata a
Pisa un anno e mezzo fa, e oggi segue il progetto di Ippoasi a tempo pieno ed è la presidente dell’associazione: “Tutti
quelli ‘da reddito’ -spiega- sono un riconoscibili attraverso un
numero, quello della marca o del microchip che ognuno di
loro deve avere sempre con sé”. Per ovviare a questa spersonalizzazione, tutti gli ospiti del rifugio di San Piero a Grado
hanno un nome, e una piccola biografia sul sito di Ippoasi.
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Mentre camminiamo all’interno del recinto, Christian e
Silvia mi raccontano la storia di ogni ingresso. Luna e Terra, ad esempio, sono due mucche che arrivano dall’Abruzzo, dove sono state salvate dalla Lav di Chieti. Hanno 18
anni, e quando sono arrivate ad Ippoasi -poco dopo l’apertura- avevano paura di vivere in uno spazio aperto, con altri
animali. Ci hanno messo due anni a recuperare il proprio
equilibrio mentale. “Una mucca a 18 anni è nel pieno della
propria vita -spiega Christian-, mentre i bovini da carne vivono al massimo 2 anni, e quelle usate per la produzione di
latte non più di 5 o sei. Quello dell’età, per noi, rappresenta un problema, perché non esistono rimedi né medicine in
grado di curarli. Nessuna Facoltà di veterinaria si è mai occupata di studiare gli effetti degenerativi della vecchiaia sugli animali, si occupano solo del loro utilizzo” sottolinea il
fondatore di Ippoasi.
Un’altra storia che mi racconta è quella di Sogno e Pierino, due capre letteralmente buttate via da un allevamento
di Como perché rachitiche. Pierino è morto, dopo 5 mesi
di degenerazione della malattia, mentre Sogno è davanti a
noi e Christian lo indica: “È magro, e ha gambe lunghissime, per questo era stata scartato”.
Intorno a noi, durante tutta l’intervista, ci sono una decina
di volontari che puliscono il rifugio e riempiono di fieno le
mangiatoie. È fine agosto, e approfittando delle ferie molti
hanno passato una settimana qui ad Ippoasi. L’associazione fa parte anche della rete Wwoof, il movimento mondiale che mette in relazione volontari e progetti rurali naturali
(www.wwoof.it). Secondo il bilancio sociale di Ippoasi, elaborato in collaborazione con il Centro servizi per il volontariato toscano, nel 2013 sono stati ben 59 quelli che hanno
dedicato tempo alla gestione della Fattoria della pace. L’ospitalità è garantita a “Casa Ippoasi”, che è poi l’abitazione
di Christian e Silvia, la cui porta è sempre aperta. “Ai volontari garantiamo vitto e alloggio” racconta Silvia. Per pagare queste spese, Christian lavora per tre giorni a settimana, come potatore e giardiniere.
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I costi del rifugio, invece, sono coperti grazie alle visite delle
scuole e alle adozioni, che sono reali e dipendono dalla “misura” degli ospiti. Si va dai 10 euro al mese per le galline e le
oche, ai 50 per gli animali di medie dimensioni fino ai 100
euro al mese per le mucche. “Le spese complessive sono di
circa 3mila euro al mese -spiega Silvia-. Solo il fieno ne costa
circa duemila”. Per accogliere le scuole, l’associazione Ippoasi ha elaborato del materiale didattico apposito, per favorire “una conoscenza degli animali basata sulle loro caratteristiche emotive, cosa gli piace e ciò che non sopportano, e
sulle relazioni. Impariamo a considerare gli ospiti come ‘altri animali’, al pari dell’uomo”. Nei primi 7 mesi del 2014, il
rifugio ha accolto 600 bambini di 30 classi, su un totale di
2mila visitatori. “All’inizio arrivano principalmente persone
sensibili, legati all’ambito vegano, oggi invece c’è un contatto importante con il territorio”.
In vista dell’anno scolastico appena iniziato, Ippoasi ha inviato un’offerta didattica che prevede 4 incontri, con tre visite al rifugio in tre stagioni diverse. Alla fine, le classi potranno adottare un ospite.
Ad aiutare la costruzione delle relazioni contribuisce anche
la via Livornese, dove ha sede la Fattoria della pace: è una
zona di passaggio, specie in estate, per tutti quelli che vanno
al mare a Marina di Pisa e Tirrenia: chi vede gli animali alle
mangiatoie ferma la macchina e si avvicina, e così può conoscere il progetto. Alla relazione con la città di Pisa hanno
contribuito anche iniziative come le cene a lume di candela
al rifugio, con menù biologico, vegano e a “Km zero”, promosse in collaborazione con Animali in Cucina.
Il sostegno della città è stato evidente quando, a fine 2012,
la Fattoria della pace ha dovuto lasciare Marina di Pisa, e si
è trasferita nella sede attuale, “un terreno in abbandono da
15 anni, di proprietà della Regione Toscana e in gestione al
Parco di San Rossore -spiega Christian-: quando lo abbiamo
visto, lo abbiamo scelto. La Terza commissione del Comune
di Pisa è rimasta impressionata dal mail bombing che abbia17
mo lanciato quando sembrava ci fossero problemi a rilasciare l’autorizzazione. Avevamo anche ventilato la possibilità
di un’occupazione”. Era il tempo a non lasciar loro altra opportunità: a fine dicembre 2012 Ippoasi ha dovuto abbandonare l’area di Marina di Pisa, e gli animali non potevano
restare per strada. “Quando si è trovato l’accordo, in 6 giorni abbiamo pulito tutta l’area e tirato su ottocento metri di
recinzione”. Oggi Ippoasi è in attesa di conoscere il risultato della gara bandita ad agosto 2013 dalla Regione Toscana per l’affidamento dell’area per 4 anni, dopo averla occupata in virtù di un permesso provvisorio in attesa del bando.
Nel frattempo l’attività dell’associazione -che nel 2012 e
2013 ha raccolto donazioni per poco più di 50mila eurocresce guardando al mare dell’Arcipelago toscano. Tra i volontari di Ippoasi, infatti, un “ruolo” speciale ce l’ha Marco
Verdone, il medico veterinario omeopata che per Altreconomia edizioni ha scritto nel 2012 il libro a più voci “Ogni
specie di libertà”, una Carta dei diritti degli animali dell’Isola di Gorgona, dove opera come veterinario responsabile
della Casa di reclusione dal 1989.
Oltre a curare gli ospiti del rifugio, Verdone ha redatto con
l’associazione Ippoasi un progetto per la riconversione dell’ultima isola-carcere d’Italia, seguendo l’esempio della Fattoria della pace. “Il primo passo è chiudere il macello -spiega
ad Ae Carlo Mazzerbo, direttore di Gorgona e autore della
prefazione al libro di Verdone-. La relazione con l’animale, non più finalizzata alla produzione, diventerà così per il
detenuto una forma di trattamento. Inoltre, la presa in cura
della vita degli animali è senz’altro più in linea con l’idea di
recupero e la rieducazione che la Costituzione riconosce al
periodo di detenzione. È importante, inoltre, l’eliminazione
di gesti violenti”. Ad oggi, a Gorgona ci sono circa 50 bovini, un centinaio di ovicaprini e un numero importante di
maiali. Secondo Mazzerbo si tratta di “un numero eccessivo
per le nostre capacità economiche, specie nell’ottica di una
riconversione dell’attività”. Per questo, recentemente sono
stati pubblicati dei bandi di gara, con l’obiettivo di alienare
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alcuni animali, che sono di proprietà dello Stato.
Il direttore, che in più occasioni ha parlato di Gorgona come
“isola dei diritti estesi a tutti”, si è dato un’obiettivo: avviare il
progetto entro fine 2015. “Noi vorremmo inserire la riconversione in un discorso più ampio -aggiunge-, individuando
una realtà del territorio cui cedere alcuni servizi o attività, dal
forno al bar, fino alla zona ortiva, garantendo anche la possibilità di aprire un piccolo ristorante. Queste realtà potrebbero assumere i detenuti. Sono servizi di cui fruirebbero i turisti”. L’obiettivo vero, infatti, è quello di creare un movimento
turistico, trasformando l’azienda agricola in rifugio e fattoria didattica, in una visione di sostenibilità etica, rieducativa ed economica. Il primo passaggio, necessario, è collegare
Gorgona (che dal punto di vista amministrativo fa parte del
Comune di Livorno, e si trova a 37 chilometri dalla costa)
alla terraferma. La riconversione ha i piedi piantati per terra.
L’APPELLO PER GORGONA
L’isola-carcere di Gorgona è teatro da oltre vent’anni di una delle più avanzate sperimentazioni d’interazione tra uomo e esseri
animali, tanto che una mozione votata in Senato il 5 maggio ha
impegnato il governo “a valorizzare e promuovere buone pratiche come l’esperienza di reinserimento e recupero dei detenuti del carcere dell’isola di Gorgona attraverso attività con animali domestici”. Un’esperienza -condotta anche grazie all’impegno
del dottor Marco Verdone, medico-veterinario sull’isola, e autore
per Ae di “Ogni specie di libertà”- a rischio, perché l’amministrazione penitenziaria avrebbe intenzione di bandire una gara per affidare all’esterno le attività produttive, compresi gli animali presenti sull’isola. Essere Animali e Lav hanno lanciato un appello.
Si può sottoscrivere su essereanimali.org
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luca martinelli
A sinistra alcuni vendemmiatori delle Cantine Ferrari
tra i filari di Maso Ben, nel comune di Drena (TN).
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Capitolo 2
La riconversione delle bollicine
Tra i filari di Maso Ben, nel territorio del comune di Drena
(TN), si vendemmiano uve chardonnay e pinot nero. Sono
vitigni fondamentali per produrre uno spumante “metodo
classico” Trento Doc. Questo vigneto, di proprietà delle
Cantine Ferrari, è anche in conversione al biologico. Una
scelta che per l’azienda trentina, fondata nel 1902, risponde alla presenza di “criticità sociali nel territorio”, come le
chiama Luca Pedron, agronomo e responsabile del Gruppo tecnico viticolo delle Cantine Ferrari.
Pedron fa riferimento alle coltivazioni di melo e vite che,
come tute le monocolture, hanno una forte pressione di alcuni parassiti. La difesa convenzionale fa uso di pesticidi,
che anche a causa dell’urbanizzazione delle aree rurali sono
fonte di criticità per la popolazione residente.
Meli e filari di vite convivono, anche lungo la strada tra
Trento e Arco che porta a Maso Ben, dove le vigne si arrampicano oltre i 700 metri sul livello del mare. È una caratteristica di questo territorio, dove la proprietà si è ridotta
spesso a fazzoletti, anche di 5mila metri quadrati.
“Ogni vigneto è inserito nel territorio, e non possiamo trattare le piante con pesticidi ed erbicidi, e poi limitarci ad assicurare il consumatore perché i residui presenti nel vino
stanno entro i limiti di legge stabiliti nei protocolli. C’è un
mondo vivente sotto i nostri piedi, da salvaguardare”. Luca
Pedron riassume così la filosofia sostenibile dell’azienda
per cui lavora da quasi 30 anni, che dal 2010 ha avviato un
importante progetto di riconversione. L’obiettivo di questo
percorso -frutto anche di una collaborazione con l’Istituto
superiore di sanità (ISS), per quanto riguarda i dati relati22
vi alla presenza di residui in bottiglia- per Marcello Lunelli, amministratore delegato delle Cantine Ferrari, è “rivolto alla rigenerazione di un ambiente violentato da decenni
di comportamento stressante”.
La riconversione in corso è importante perché investe il
6% della superficie vitata dell’intero Trentino, 600 ettari
su 10mila. Oltre alle terre di proprietà di Cantine Ferrari, cento ettari tutti in conversione al biologico, l’introduzione di pratiche sostenibili in vigna riguarda anche i 500
fornitori, che coltivano circa 1.400 appezzamenti, per un
totale di altri 500 ettari.
Luca Pedron ha curato la redazione del “Protocollo Ferrari
di viticoltura di montagna salubre e sostenibile”, e oggi ne
coordina l’implementazione, che si avvale del lavoro di un
gruppo di agronomi che -per conto delle Cantine Ferrarisegue l’attività in campagna dei conferitori diretti, alcune
centinaia di ettari, e dei soci di cantine sociali.
I controlli rispetto al Protocollo -che è volontario e fa riferimento alla norma UNI 11233, “Sistemi di produzione integrata nelle filiere agroalimentari”- sono garantiti
dall’ente di certificazione CSQA, che ogni anno analizza il 20 per cento dei fornitori. “Nel 2014, il 70 per cento
degli appezzamenti è stato condotto con un metodo che
potrebbe essere definito ‘simil bio’, perché gli unici trattamenti ammessi sono lo zolfo e il rame” spiega Pedron. Nel
2013, il Protocollo aveva riguardato il 38% dell’uva conferita e trasformata dalle Cantine Ferrari.
Solo il 5% dei terreni di proprietà dei conferitori diretti
viene ancora diserbato. Nelle proprietà della famiglia Lunelli, che controlla le Cantine Ferrari, invece, tutti i diserbi sono stati eliminati dal 2010, e oggi l’80 per cento delle
vigne viene “gestito” con il sovescio, seminando graminacee e cereali, che garantiscono un vigneto vigoroso e -spiega Pedron- “hanno risolto anche i problemi di erosione,
che riguardano i vigneti fortemente compattati, dove gli
apparati radicali delle piante non si sviluppano, e il terre23
no non è in grado di assorbire temporali da 40 o 50 millimetri di pioggia in un’ora, sempre più frequenti”. Il terreno, spiega Pedron, “non è un supporto inerte”, perciò è
importante ripristinarne la struttura e un adeguato contenuto di humus, fondamentale per trattenere l’acqua e gli
elementi nutritivi, per essere meno dipendenti dagli apporti esterni e avere l’imprinting del teritorio sul prodotto
finale”. Il supporto viene garantito dalle Cantine Ferrari
anche a tutti i conferitori, cui è stata consegnata una copia
del Protocollo, che sono invitati a seguire ogni anno otto
ore di formazione, ma soprattutto “ricevono” durante l’anno almeno cinque volte una visita degli agronomi dell’equipe coordinata da Pedron. “Una avviene prima del germogliamento, per dare indicazioni in merito al numero di
gemme per ettaro. Viene poi calcolata la fertilità, in base
al numero di germogli e grappoli. Torniamo a verificare
la produttività attesa dopo la fioritura, calcolando il numero di grappoli per vite, e quindi c’è una visita pre-vendemmiale, per controllare lo stato dell’uva” spiega Pedron.
L’ultimo passaggio riguarda una campionatura, per determinare il giorno di vendemmia. Fondamentale è la selezione dei grappoli, in quanto l’uva deve arrivare sana allo
stabilimento delle Cantine Ferrari.
Sul computer di Luca Pedron c’è una mappa di tutto il territorio trentino, e notizie su ogni singolo appezzamento “legato” all’azienda. È un database che rende possibile informare
ogni singolo conferitore tramite un servizio di messaggistica istantanea, ad esempio in caso di piogge improvvise,
e permette anche di calcolare -in modo statistico- la resa
di ogni singolo vigneto. “Questo percorso si accompagna
ad un cambio generazionale all’interno dei consorzi, e anche nei campi. Uno dei passaggi più importanti, in questi
anni, è stato quello che ha portato i viticoltori a ‘cambiare’
il proprio modo di stare nel campo -racconta Pedron-. Un
vero percorso di sensibilizzazione, svolto anche all’interno
del Consorzio di tutela vini del Trentino”.
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Lo stabilimento di Cantine Ferrari è alle porte di Trento,
ben visibile dall’autostrada A22. Sottoterra si sviluppa per
circa 4 ettari, occupate da ben 20 milioni di bottiglie che
maturano sui lieviti prima di diventare Ferrari.
L’azienda della famiglia Lunelli nel 2013 ha fatturato 48,7
milioni di euro, ed è una delle realtà vitivinicole più grandi del trentino, e Giulio Ferrari -il fondatore, ai primi del
Novecento- è considerato uno dei perfezionatori del metodo classico.
“Non sappiamo se il mercato riconoscerà questo impegno nel biologico” spiega Marcello Lunelli, anche perché
l’azienda ha scelto di tenere, almeno per il momento, un
profilo basso nella divulgazione: “Non avrebbe nemmeno
senso, a livello di marketing -aggiunge Lunelli-, perché il
nostro vino base invecchia 3 anni, e le grandi riserve tra gli
8 e i 10 anni. Il biologico non è un’esigenza commerciale,
ma un credo aziendale”. Ai produttori che hanno adottato il Protocollo, però, viene già riconosciuto un pagamento differenziato, un premio che può superare il 10 per cento al quintale per chi sceglie di fare biologico. “Ogni ettaro
di vigna garantisce un reddito di circa 13mila euro” calcola
Pedron. Il vero successo, racconta Lunelli, è “aver portato
in cantina uva sana, anche in un’annata complicata come il
2014”. E aggiunge: “Ci vogliono circa cinque anni perché
un vignetto si metta in un nuovo equilibrio con l’ambiente che lo ospita, un tempo lungo che presuppone un modo
di fare impresa che è rivolto al futuro e alle nuove generazioni”. Il tempo della riconversione. ---
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luca martinelli
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Capitolo 3
Il parco dopo la caserma
A Milano c’è un parco nascosto, che nemmeno i suoi cittadini conoscono. È in periferia, e il suo perimetro è delimitato da un muro di cinta che avvisa: “Zona militare, limite invalicabile”.
In fondo a via delle Forze Armate, a Nord-ovest della città, l’ex Piazza d’Armi è oggi un’immensa area wild, dove
la natura selvaggia ha ripreso possesso degli spazi che per
decenni hanno ospitato la scuola guida per carri armati.
Attraverso un varco, “le Giardiniere” mi accompagnano
all’interno. Camminando lungo i sentieri e le carrabili, in
mezzo a quello che è ormai un bosco, raccolgo il progetto di questo gruppo di donne, che hanno scelto di darsi lo
stesso nome di un gruppo di Carbonare attive a Milano
nei primi decenni dell’800: vogliono che qui nasca un parco agro-silvo-pastorale, che preveda anche un risvolto didattico, culturale e scientifico. Il Consiglio di Zona 7, referente politico della circoscrizione in cui ricade l’ex Piazza
d’Armi, si è detto favorevole al progetto, con una delibera
consiliare del marzo 2014 in cui incoraggia le Giardiniere
invitandole ad “andare avanti”. Fabrizio Tellini, il presidente, firma una lettera in cui scrive di condividere il progetto
per le “finalità che esso persegue nell’indirizzo ‘agro-produttivo’ di una vasta area”.
Per il Comune di Milano, invece, l’area della ex Piazza
d’Armi è un ATU, un Ambito di trasformazione urbana
che insiste su una superficie complessiva di oltre 600mila
metri quadrati, che oltre all’area verde -che ne occupa quasi la metà- comprende due zone edificate limitrofe, gli ex
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Magazzini militari di Baggio e la Caserma “Santa Barbara” di piazzale Perrucchetti.
Secondo il Piano di governo del territorio (PGT) della Città di Milano, il 50 per cento dell’area è destinata a restare “verde”, mentre l’altra metà potrà essere edificata, realizzando immobili per una superficie massima di 430mila
m2. Ciò significa che per ogni metro quadrato, si potranno costruire edifici per 0,7 metri quadrati, che facilmente non andranno ad occupare ogni spazio disponibile, ma
saranno “accorpati” in condomini o mini-grattacieli a più
piani, com’è possibile vedere in alcune simulazioni elaborate dagli studenti del Politecnico di Milano, impegnati
in workshop sulla riqualificazione delle areee militari dismesse della città.
Durante il mese di agosto, il Comune di Milano ha siglato
un Protocollo d’intesa con il ministero della Difesa e l’Agenzia del Demanio, con l’obiettivo di una “razionalizzazione” e “valorizzazione” di alcuni immobili militari presenti
nel territorio comunale. Tra i beni oggetto del Protocollo
ci sono anche la Piazza d’Armi e i Magazzini di Baggio, e
le parti si sono impegnate a raggiungere entro dodici mesi
un Accordo di programma che miri alla dismissione e valorizzazione dei beni, secondo quando indicato dal PGT
o -anche- in variante. Sul processo in corso s’inserisce anche il decreto Sblocca-Italia, che all’articolo 26, dedicato
a “Misure urgenti per la valorizzazione degli immobili demaniali inutilizzati”, prevede per gli immobili della Difesa
la possibilità che Demanio e ministero “possono proporre all’amministrazione comunale un progetto di recupero
dell’immobile a diversa destinazione urbanistica”.
Ciò che accadrà alla Piazza d’Armi di Milano, così, può
essere visto come un prequel di un film destinato a girarsi
in tutta Italia nei prossimi anni.
Il progetto delle Giardiniere, cioè, stride con gli atti del Comune di Milano, che s’è impegnato formalmente a “porre
in essere le attività di propria competenza per la valoriz29
zazione dei beni di proprietà dello Stato”. Se il presupposto dell’intervento è la dismissione, infatti, la riconversione della ex area militare (e pubblica) per fini produttivi in
ambito agricolo e sociali non potrà (mai) avvenire. Eppure il gruppo de “Le Giardiniere” nasce all’interno dell’apparato comunale, come articolazione del Tavolo di lavoro
Salute istituito dalla Commissione Pari Opportunità, presieduta dalla consigliera Anita Sonego. “Abbiamo inteso
fin da subito il termine ‘salute’ in senso lato, come condizione di benessere -racconta Maria Castiglioni, parte delle Giardiniere-. Accanto al gruppo di lavoro sui consultori
(vedi Ae 163), il cui lavoro era centrato sui servizi sanitari,
noi abbiamo allargato lo sguardo alla buona gestione dei
beni comuni. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità
(OMS) la ‘salute’ va intesa come promozione del benessere, piuttosto che cura della malattia. In questa accezione, la salute è allora da collegarsi strettamente alle nostre
condizioni di vita che a loro volta dipendono da come si
gestiscono aria, acqua, terra e cibo”.
Il lavoro del Tavolo è partito nel novembre del 2011, e per
il primo anno è stato finalizzato a identificare che cosa
voglia dire, oggi, vivere in una città salutare. “Per questo
-racconta Maria- abbiamo contattato delle amministratrici perché ci raccontassero pratiche virtuose sulla gestione
dei beni. Tra le persone più significative, senz’altro, c’è stata Lucrezia Ricchiuti, che allora era vice-sindaca di Desio
(MB) e oggi è senatrice PD, che ci ha raccontato la revisione del PGT del Comune brianzolo, con la cancellazione di previsioni urbanistiche per 1,5 milioni di metri quadrati. È stato allora che abbiamo immaginato un progetto
che legasse città e attività agricola, e pensando a un grande lotto di terreno non antropizzato a Milano abbiamo individuato quello di Piazza d’Armi”.
Dopo aver chiarito un obiettivo, il Tavolo di lavoro ha avviato un processo di consultazione, “e di relazione” aggiunge
Maria, coinvolgendo “testimoni significativi attivi in am30
biti liminari rispetto al nostro progetto, e cioè le agricoltrici delle ‘Donne in campo’ della CIA e di Coldiretti, alcune contadine delle cascine del Parco agricolo Sud, ma
anche paesaggisti, territorialisti, il Distretto di economia
solidale rurale del Parco agricolo Sud, Slow Food, Legambiente, Claudia Sorlini, che presiede il Comitato scientifico per Expo, le mamme della refezione scolastica milanese.
Abbiamo passato più di un anno a parlare, ad incontrare”.
Il nome de “Le Giardiniere” è “evocativo dell’amore per i
giardini, che c’inserisce nella genealogia delle donne coraggiose e lungimiranti che fin dall’Ottocento desiderarono una Milano libera e giusta” spiega Maria.
Che aggiunge: “Abbiamo scelto di chiamarci così anche
per creare uno scarto simbolico: non siamo solo una realtà all’interno del Comune ma anche altro, ‘le Giardiniere’
del Tavolo salute”.
Con il Comune, allo stato, il rapporto è dialettico, e non
sempre le posizioni sono vicine. “Nel luglio del 2013 abbiamo sentito l’esigenza di rendere pubblico il nostro progetto. La vice-sindaca e assessore all’Urbanistica del Comune, Ada Lucia De Cesaris, all’inizio non ha preso in
considerazione la nostra proposta. ‘Se volete uno spazio,
posso darvelo altrove’ -racconta Evi Parissenti, esperta di
comunicazione, un’altra Giardiniera-. Dopo aver ricevuto
il sostegno del Consiglio di Zona, però, abbiamo fatto un
altro tentativo: l’11 marzo 2014 abbiamo potuto incontrare nuovamente la vice-sindaca, che si è detta disponibile
a scrivere una lettera al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, per chiedere l’area”.
Nella lettera indirizzata a Pinotti, De Cesaris parla di “affidamento provvisorio” di una porzione dell’area, per permettere la realizzazione di un’iniziativa per la città e il quartiere, che permetta di fruire di un’area “sino ad ora interclusa”,
con “un progetto di cura, con interventi d’orto e coltivazione leggera”. Il realismo, però, rimane, dato che -specifica la vice-sindaca del Comune di Milano -una eventuale
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convenzione potrebbe prevedere l’obbligo di restituzione
dell’area “nell’eventualità dell’acquisizione da parte di terzi della stessa”.
La lettera è datata 17 marzo 2014. Cinque mesi dopo, Pinotti e De Cesaris hanno firmato il protocollo con l’Agenzia del Demanio, dove l’orizzonte resta quello della valorizzazione prevista dal PGT.
Per questo, dopo l’estate, le Giardiniere hanno avviato un
tavolo di lavoro per definire il master plan, che verrà presentato nel corso di un incontro pubblico in programma a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, il 12 novembre.
Per loro, il parco agro-silvo-pastorale non è transitorio: “Abbiamo una nostra visione di cosa significhi sviluppo urbano
-dice Maria-, e anche noi abbiamo il nostro PGT, inteso
come Progetto Generativo di Trasformazioni”.
A grandi linee, si tratta di lasciare un’alternanza di zone
coltivate e aree umide, quelle naturali dei due laghetti che
si formano in inverno all’interno della ex Piazza d’Armi.
“Per quanto riguarda l’acqua, pensiamo di poter canalizzare
quella piovana, usando queste aree come bacini di raccolta, senza pensare per il momento a portare acqua dai fontanili del parco delle cave” racconta Maria.
La zona coltivabile, invece, dovrebbe essere quella lungo
via delle Forze Armate, che attraverso un cancello sarebbe
facilmente fruibile da tutto il quartiere.
“Intanto, la Protezione Civile di A2a ci ha promesso un
aiuto per pulire l’area. Potrebbe diventare anche una buona
occasione per farne un sito di Expo diffusa, dal momento
che il nostro progetto ha ottenuto il patrocinio del Comitato Scientifico Expo”.
Daniele Colla è un giovane garden designer, e insieme ai
colleghi (architetti, agronomi, dottori in Scienze forestali)
dello studio di progettazione architettonica e paesaggistica
GreenArk (greenarkstudio.it), sta aiutando le Giardiniere a
redarre il master plan. Ha 32 anni, ed è entrato in contat32
to con il gruppo grazie a un post su Facebook. “Vorremmo
fare in modo che si crei una sorta di riserva naturale, che
possa diventare anche un ambito di studio per capire le dinamiche che hanno portato a quel tipo di rinaturalizzazione in un’area urbanizzata. All’interno dell’ex Piazza d’Armi ci sono aree in cui nidificano fagiani, conigli e anatre
selvatiche, nonché anfibi tutelati dalle leggi faunistiche”.
Daniele spiega che nel loro lavoro si stanno attenendo alle
indicazioni delle Giardiniere, che hanno chiesto di immaginare interventi che “traccino nel terreno il minor numero possibile di segni, anche per quanto riguarda le vie di
comunicazione interne, l’area agricola e quella adibita ad
orti urbani, dove sarà possibile inserire strutture non fisse
ma temporanee, in legno”.
“Costruire l’ennesimo quartiere non serve” ha ricordato
Maria durante la visita all’ex Piazza d’Armi. E basta girarsi intorno, a 360 gradi per capire il perché: oltre ad alcuni edifici pubblici, ovunque si volga lo sguardo, ci sono
appartamenti. “Il ‘verde’ che è scritto nel Piano di governo del territorio del Comune sarebbe un parco di servizio,
fruito solo da chi abiterà nelle case che verrebbero costruite. Difficilmente aperto all’esterno, non sarebbe un parco
‘permeabile’, com’è scritto nelle carte” conclude Daniele.
L’unica valorizzazione reale, così, è quella proposta dalle
Giardiniere. Che a Milano vogliono regalare un altro polmone verde, un vero parco, come quello -vicino all’ex Piazza d’Armi- delle Cave. ---
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luca martinelli
Sul crinale che scende verso il borgo di Monasteroli,
presso Biassa (SP), si vedono ancora gli “scalini” dei terrazzamenti che stanno svanendo ---
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Capitolo 4
L’etica del muretto
I muretti a secco non rendono belle le Cinque Terre, ma
solo vivibili: quello tra Monterosso a Mare e Portovenere è un paesaggio costruito, dove i crinali hanno lasciato
il posto ai terrazzamenti coltivati, ed è questo che ha permesso all’uomo di insediarsi in quest’angolo remoto di Liguria, in provincia della Spezia, dove le montagne sono a
ridosso del mare.
I muretti a secco, però, non sono tutti uguali, a meno che a
guardarli -di sfuggita- non sia il turista: ma le Cinque Terre
non sono una cartolina, e l’occhio esperto di Luca Zucconi,
un artigiano che vive a Castelnuovo Magra (SP) e lavora a
costruire (e ricostruire) muretti a secco, pietra su pietra senza usare né malta né cemento, m’invita a osservarne meglio
alcuni, lungo i tornanti della strada tra Monterosso e Levanto: ovunque io veda degli sfogatoi per l’acqua, che siano canalette o tubi di plastica, mi spiega, c’è del cemento.
“Il muro a secco drena tutto” aggiunge, mostrando anche
altri difetti in lavori eseguiti con sufficienza: le pietre non
dovrebbero essere mai impilate, perché così vanno a creare delle “linee di frattura”, punti in cui la terra, spingendo,
può portare il muretto a collassare. “I muretti lavorano sulla gravità, e più alto è il numero dei punti di contatto tra le
diverse pietre, maggiore è la stabilità dell’artefatto” racconta Luca Zucconi, che oltre a lavorare forma giovani futuri
artigiani nei corsi ad hoc organizzati in Liguria e non solo.
Non è un approccio estetico a guidare “l’arte di costruire
muretti a secco”, ma l’etica della manutenzione del territorio. Il muretto a secco, cioè, non dev’essere bello, ma utile.
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E una parte importante della struttura è quella che non si
vede, perché il manufatto dev’essere profondo (il rapporto
con l’altezza è uno a tre, 70 centrimetri per un muro alto
due metri) e realizzato utilizzando pietre di diverse misure, grandi, medie e piccole. Il costo varia tra i 150 e i 250
euro al metro cubo. “Purtroppo, la maggior parte delle richieste arrivano quando ormai i muretti sono caduti -dice
Luca-. Mi chiamano per ricostruire”. È successo anche
mentre eravamo insieme: era una persona di Genova, che
lo chiamava “con urgenza”. Termine che fa rima con emergenza, ormai una parola d’ordine: a oltre tre anni dall’alluvione alle Cinque Terre, quella del 25 ottobre 2011 che ha
colpito in particolare il borgo di Vernazza, è evidente che
quell’evento era un campanello d’allarme, per tutto il Paese: l’equilibrio è venuto meno, e il territorio non è più visto come “alleato da rispettare per essere salvi”.
Questa definizione, bellissima, è scritta nel manifesto elaborato dal Collettivo Parisse, che per tutto il 2014 ha promosso un “laboratorio per la costruzione e la tutela dei muri
a secco”, coinvolgendo il Centro per l’arte moderna e contemporanea (CAMEC) della Spezia.
Il Collettivo ha sede a Manarola, un altro dei borghi delle Cinque Terre, e s’incontra presso l’Archivio della Memoria, cioè l’abitazione-studio di Anselmo Corvara, che
da quasi quarant’anni, lui ne ha 79, raccoglie testimonianze (oggetti, attrezzi, foto) di vita contadina su questi terrazzamenti. Il Collettivo lavora insieme dal 2011, per valorizzare il lavoro di Anselmo, e la tenacia dei contadini
di Manarola. Il laboratorio ha avuto inizio raccogliendo
sulla spiaggia “nuova” di Vernazza i sassi “alluvionali”, poi
utilizzati per realizzare un muretto a secco che campeggia all’ingresso del CAMEC, a La Spezia. “Potrebbe restare lì per sempre” mi racconta Francesca Cattai, consulente artistico presso il Centro espositivo spezzino. E nel
2015, spiegano i membri del Collettivo Parisse, verrà promosso un nuovo laboratorio, che non vuole però sostituirsi alle associazioni che operano per la tutela del paesag36
gio. “La nostra azione ha un valore simbolico” raccontano
Alessio, Alessandro e Daniela. Sono di Anselmo le parole
che guidano l’azione del Collettivo: “Muretto a secco, mai
stato cemento ai tempi”; “mia mamma fa muro, e io fatto
uguale come mia mamma”.
“I Parisse”, che hanno scelto il nome di un’antica famiglia
insediata a Manarola dal Duecento, da cui discende anche
Corvara, dialogano con chi, sul territorio, sta avviando la riconversione, a partire dal recupero dei muretti a secco, come
l’associazione “Tu Quoque” di Vernazza o “Per Tramonti”,
attiva a Schiara dal 1991. Se provate a digitare i nomi su
Google Maps,però, non scoprirete né Schiara né Tramonti. L’unico modo per conoscere questi “borghi” è arrivare a
piedi lungo i sentieri che scendono da Campiglia o dalla
panoramica che da La Spezia raggiunge (da Sud) Riomaggiore e le Cinque Terre. “La nostra è un’associazione di volontariato” racconta il presidente, Gianni Paxia. Lo Statuto
indica chiaramente l’oggetto sociale: “Salvaguardare il suo
[di Schiara, ndr] patrimonio naturale e paesaggistico operando affinché terrazzamenti, viottoli, muri a secco e l’ambiente in genere siano conservati attraverso una azione di
continua manutenzione e cura”.
Per realizzarlo, da qualche anno Per Tramonti porta avanti il progetto T.R.A.MONTI, che significa terre restituite all’agricoltura.
“Abbiamo la gestione in comodato di 1.500 metri quadrati di ‘piane’. Qui abbiamo messo a dimora piccole vigne di
vermentino, albarola e bosco, che sono i tre vitigni con cui
si produce lo Sciachetrà, il vino passito delle Cinque Terre, che qua però chiamano Rinforzato”. Il vigneto dovrebbe entrare in produzione tra un paio d’anni.
La manutenzione del territorio realizzata dai soci di “Per
Tramonti” ha superato la diffidenza iniziale di parte degli anziani spezzini proprietari dei terreni (e dei muretti) abbandonati, che oggi offrono loro altre piane. Il vino
non verrà commercializzato, ma distribuito tra i soci di Per
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Tramonti, che sono un centinaio, praticamente tutti coloro che possiedono una delle vecchie “cantine” di Schiara,
molte delle quali riadattate ad abitazione rustica, perché
qua non ha mai vissuto nessuno e l’energia elettrica è solo
quella dei pannelli solari. “I soci attivi sono almeno una decina” dice Paxia, che per attivi intende “cantonieri” lungo i
sentieri che portano a Schiara attraversando le “piane” dei
vigneti. “Abbiamo firmato una convenzione con il Parco
nazionale delle Cinque Terre e il Comune di La Spezia,
che è in vigore ormai da 7 anni: programmiamo insieme
gli interventi, che vengono finanziati per metà dagli enti,
a fondo perduto, mentre il 50% del valore è dato dalla ‘valorizzazione’ del lavoro volontario”. In base al “Protocollo
2014-2016”, gli enti s’impegnano a garantire un contributo
ordinario di 90mila in tre anni, oltre a un contributo straordinario di 23.037 euro per il 2014. “Chi vuole ricostruire
i muretti a secco, però, può contare anche su un contributo
pubblico di 96 euro al metro quadrato” mi racconta Marco Cerliani, presidente dell’associazione Campiglia, co-firmataria della Convenzione. Nata nel 2000, ha -in mediatra i 130 e i 150 iscritti. “In questi anni abbiamo svolto per
conto degli associati l’azione di un Caf, seguendo le pratiche istruttorie per ottenere il contributo per ricostruire i
muretti a secco franati. Abbiamo anche recuperato il trenino a cremagliera che scende verso il mare per 1.500 metri, coprendo un dislivello di 400 metri. Campiglia, infatti,
è una frazione collinare del Comune di La Spezia, e domina le vigne di Tramonti dall’alto. Per raggiungere il mare c’è
un’altra possibilità: una discesa fatta di mille scalini. A una
parete della Lampara, l’unico ristorante del bordo, gestito
da Cerliani con la madre, c’è un ritaglio di giornale: “Parte da Campiglia la valorizzazione della costiera delle Cinque Terre” è il titolo di un articolo del 1963.
Secondo Cerliani, non c’è bisogno di nessun piano straordinario e nemmeno di grandi opere, ma né lui -né Luca
Zucconi- sono in grado di quantificare “quanto lavoro” po38
trebbe creare un piano di piccole opere di manutenzione.
Quegli interventi necessari a tutelare il paesaggio ligure,
come spiega Vittorio Centenaro, sindaco di Leivi. Questo
piccolo Comune dell’entroterra genovese, 2.840 abitanti,
è alle spalle di Chiavari, ed è “responsabile” dell’alluvione
che ha colpito il centro rivierasco, 30mila abitanti, nel novembre scorso. “L’allagamento è stato causato quasi tutto
dall’esondazione delle acque del torrente Rupinaro, che è
quello che passa per Leivi” racconta Centenaro, come ad
indicare che il dissesto idrogeologico non può -e non deveessere affrontato a valle, dove sono possibili solo interventi
di mitigazione e adattamento.
Secondo l’analisi di Centenaro, il problema principale
dell’entroterra ligure non è il cemento, ma l’abbandono.
Sono i terrazzamenti, creati già nel Settecento per piantare ulivi e poi noccioli al posto dei boschi di castagno e
oggi lasciati a se stessi a presentarsi come “ferite” nel territorio. “I contadini erano tutti ingegneri idraulici, perché
impedire le frane era un loro interesse economico”. Per questo, ad Altreconomia racconta l’intenzione di un’ordinanza
per obbligare tutti i cittadini a creare schemi di regimentazione delle acque piovane, tanto nei pressi delle abitazioni
quando nei terreni agricoli”. Sono interventi di ingegneria
naturalistica, e Luca Zucconi me ne ha mostrati alle Cinque Terre. Servono a canalizzare l’acqua, per far sì -come
avveniva in passato- che questa arrivi nel primo “valletto”
(come vengono chiamati i corsi d’acqua che attraversano
i borghi liguri) e da lì nei fiumi e infine al mare. Si tratta
però di investimenti gravosi per soggetti che oggi vivono
la campagna come un hobby, e non ne fanno una fonte di
reddito. Ma il governo, invece di “incentivare” questo tipo
di intervento (ad esempio mediante meccanismi di defiscalizzazione, come quelli previsti per le grandi opere) ha
scelto di applicare l’IMU (imposta municipale unica) anche per i terreni agricoli montani. Dovrebbe sapere che la
natura presenterà il conto.
39
luca martinelli
Silvio Abello nel suo mangimificio di Verzuolo, in provincia di Cuneo. Dal 2000 tutti i prodotti dell’azienda piemontese sono certificati biologici
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Capitolo 5
Il cibo del nostro cibo
Se nel vostro piatto entrano uova, latticini o carne, quest’articolo vi riguarda. Alla base della catena alimentare di galline, suini e vacche, c’è del mangime, e così siamo entrati in
un mangimificio, per capire come lavora -e le possibili scelte industriali- di chi alimenta, ogni anno, oltre 630 milioni
di animali (vedi box). In Italia, gli impianti che producono
mangimi sono 503, anche se i primi venti valgono quasi il
60 per cento di un mercato che nel triennio 2011-2013 si è
mantenuto sempre sopra i 7,3 miliardi di euro di fatturato,
distribuendo oltre 14 milioni di tonnellate di prodotto. Leader del settore è il Gruppo Veronesi (www.gruppoveronesi.
it), che è l’esempio di un’azienda “integrata”: oltre all’omonimo mangimificio, possiede i marchi Aia (che produce carni
avicole, di coniglio, di suino e bovine, oltre a uova) e Negroni (che produce salumi). Nell’autunno del 2014, lo stabilimento padovano del gruppo è stato oggetto di due manifestazioni di attivisti “No OGM”: la produzione dell’intero
settore, infatti, sarebbe “per oltre il 90 per cento basata su ingredienti OGM (in particolare soia OGM)”. Il virgolettato
è tratto dalla relazione conclusiva di un’indagine conoscitiva
realizzata tra il 2008 e il 2010 dal Senato della Repubblica,
e riporta informazioni fornite dai vertici dell’Associazione
nazionale tra i produttori di alimenti zootecnici (Assalzoo,
www.assalzoo.it). Secondo il rapporto 2014 della stessa associazione, l’Italia nel 2013 ha prodotto 736.300 tonnellate di panelli o farine di soia utilizzando materie prime importate, pari al 48% del totale di panelli o farine estratte da
semi oleosi (oltre alla soia, in questa categoria rientrano anche il girasole, o la colza) in quell’anno.
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L’altro “ingrediente” fondamentale nelle “ricette” dei mangimi sono i cereali (mais, orzo e frumento), ma si possono
utilizzare anche farine animali, o le penne delle galline. Silvio Abello, che ci ha aperto le porte del suo stabilimento, a
Verzuolo, in provincia di Cuneo, ha scelto di non usare nella
composizione delle ricette alcun prodotto di origine animale.
L’azienda piemontese dal 2000 produce solo mangimi certificati biologici: quella di Verzuolo Biomangimi (www.verzuolobiomangimi.it) è una storia di riconversione, perché fino
per quarant’anni l’azienda aveva lavorato come tutti gli altri:
“Avevamo in catalogo 10 diverse ‘ricette’, per tutte le tipologie di animali, e almeno sei tra queste contenevano prodotti medicali, sostanze antibiotiche” racconta oggi Abello.
“Per chi produceva mangimi da distribuire ad allevatori che
operano in regime ‘convenzionale’, e non biologico, era quasi impossibile farne a meno -aggiunge-: tra gli anni Ottanta
e Novanta, chi voleva restare sul mercato doveva produrre
di più, almeno il 20 per cento. Così è aumentatà la densità
media degli animali negli allevamenti, e con questa anche il
rischio di contrarre malattie”. Anche Abello è un allevatore, di suini, ed è socio di una cooperativa -che si chiama “La
sorgente” ed ha sede a Saluzzo, sempre nel cuneese- che riunisce allevatori e cerealicoltori.
“L’80% della materia prima trasformata dal mangimificio
arriva dai soci della cooperativa: quindici anni fa era molto difficile reperire materie prime certificate e ci rendemmo conto che era importante auto-produrre” spiega Abello.
La soia utilizzata, ad esempio, è tutta italiana. “Oltre all’assenza di contaminazione OGM, per quanto riguarda la soia
abbiamo l’obbligo di ritirare prodotti che non siano estratti chimicamente, ma utilizzando presse meccaniche -spiega
Abello-: in questo modo, il seme non viene ‘sfruttato’ completamente, e c’è un residuo maggiore d’olio nel panello, ma
è totalmente naturale”.
Secondo Assalzoo, il biologico vale circa l’1,5% del mercato, circa 210mila tonnellate.
42
L’impianto di Verzuolo, che nel 2014 ha prodotte 170 tonnellate di mangimi, è altamente automatizzato: i silos e i
contenitori che vengono utilizzati per stoccare i cereali e le
altre materie prime sono gestiti attraverso una “sala di controllo”. Il prodotto finito -che esce dalle macchine in farine o pellet- viene poi stoccato, per essere poi venduto quasi
integralmente sfuso. “Verzuolo biomangimi” è certificata da
Bios (www.certbios.it), e agli allevatori i suoi prodotti costano circa il 30 per cento in più del convenzionale. I mangimi per le galline ovaiole hanno un prezzo di circa 50 euro al
quintale, mentre l’alimento destinato a suini e vacche ne costa
circa quaranta. “Per alimentare un maiale, e portarlo da 25 a
160 chili, servono cinque quintali di mangime, per un valore di circa 200 euro” racconta, come esempio, il titolare della
Verzuolo Biomangimi. Nella sua azienda agricola oggi alleva
400 suini, che erano 720 -nello stesso spazio- quando faceva
agricoltura tradizionale. “A una densità ridotta, corrisponde
uno stato di salute migliore”. Per quanto riguarda l’alimentazione, Abello racconta che con i suini preferisce evitare la
soia, “perché cambia il sapore delle carni. Come proteico per
i maiali uso il favino -spiega, e poi svela alcuni segretti del
ciclo produttivo-: per le pecore, utilizzo un panello di girasole che trasferisce un gusto particolare anche allo yogurt;
per le galline ovaiole, invece, abbiamo individuato un trito
di erbe mediche, con un alto contenuto di caroteni e xantofille, che colora un po’ il guscio dell’uovo”. Questo mangime
permette di ottenere un prodotto finito (l’uovo) con caratteristiche adeguate agli standard della grande distribuzione
organizzata (Gdo). “Nell’ambito dei mangimi prodotti per
allevamenti ‘convenzionali’, è possibile aggiungere dei coloranti che permettono di ottenere guscio e tuorlo del colore
desiderato. Ma se il tuorlo è di un rosso acceso, quell’uovo
non potrà mai essere biologico” scherza Abello.
Le formule di tutte le razioni alimentari, sia per il biologico
che nel convenzionale, sono comunque elaborate da un veterinario: “Nell’area mediterranea, gli allevatori hanno spesso
un problema nella produzione di alimenti proteici. Per que43
sto, molti comprano mangimi che sono definiti come ‘nuclei
proteici’ o ‘integratori’ -spiega Andrea Martini, veterinario
del Dipartimento di Scienze Produzioni Agroalimentari e
dell’Ambiente dell’Università di Firenze, dove insegna Zootecnia biologica-: l’esigenza principale che impone l’utilizzo
di mangimi è l’esigenza di garantire una dieta equilibrata”.
L’importanza nella composizione dei mangimi è legata alle
“certificazioni di filiera”. Verzuolo Biomangimi, ad esempio,
è “autorizzata a produrre” per la Granarolo, o per Carrefour.
Questo significa, che l’azienda di Silvio Abello può distribuire in proprio mangimi ad allevamenti che, a valle, vendono il prodotto a questi gruppi.
“Il capitolato latte e uova ‘bio’ di Granarolo, ad esempio, comporta che il prodotto sia interamente nazionale, compresa
la soia utilizzata, e che nella formulazione non vengano utilizzati prodotto di origine animale -spiega Abello-. Carrefour, invece, impone analisi sulle contaminazioni da diossina e anche sulla presenza di PCB, i policlorobifenili”, di cui
negli ultimi anni sono state trovate tracce -ad esempio- in
campioni di latte del bresciano, “trasferito” nel prodotto finito dallo stomaco delle vacche, colpevoli di ruminare foraggi prodotti sui terreni inquinati dalla industria Caffaro.
“La differenza più grande, tra chi produce mangimi ‘bio’ e
chi fa convenzionale, è che noi siamo tenuti a una ‘certezza agricola’, dobbiamo sapere che cosa e dove si è seminato.
Chi fa convenzionale, compra le materie prime sul mercato, guidato da una logica di ottimizzazione dei costi. Questo
comporta anche la possibilità di variare le formule, costantemente, a seconda del livello dell’offerta di questa o quella materia prima proteica. Qui invece diamo continuità al
prodotto” racconta Abello.
L’azienda di Verzuolo ha chiuso il 2014 con un fatturato di 9 milioni di euro, in crescita del 12 per cento rispetto
all’anno precedente. Nel 2001, dopo la conversione al biologico, i ricavi erano appena 800mila euro. Il 98 per cento
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del prodotto viene venduto sfuso, e solo una minima parte in sacchi. I dipendenti sono quattro, racconta Abello, e
nessuno di loro si occupa della parte commerciale. Eppure, l’azienda distribuisce i propri mangimi anche fuori dal
Piemonte, a Udine, Terni e Viterbo, dove -ad esempioha come cliente la Fattoria Cupidi di Gallese (VT), un’azienda che produce 8.500 uova biologiche al giorno e che
fa parte del “Bio-distretto della via Amerina e delle Forre”
(vedi Ae 155). È un’economia delle relazioni, anche se nascosta agli occhi del cittadino-consumatore.
I mangimi in numeri
Nel 2013, in Italia sono stati allevati 517 milioni di polli da carne,
54 milioni di galline ovaiole, 31 milioni di tacchini e -ancora- 8,5
milioni di suini, oltre 4 milioni di bovini da carne e più di due
milioni di vacche da latte. Nello stesso anno, secondo l’annuario di Assalzoo, nel nostro Paese sono stati prodotti quasi 5 milioni di tonnellate di carne, mentre il consumo pro-capite di carne fresca è stato di 83,4 chili a testa.
Tra i 28 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è il quinto produttore
di mangimi, con 14,04 milioni di tonnellate nel 2013, dietro Germania, Francia, Spagna e Regno Unito. L’industria mangimistica
ha utilizzato (nel 2012) oltre 12 milioni di tonnellate di cereali, e in
particolare granoturco (8,5 milioni di tonnellate), orzo (1,3 milioni
di tonnellate) e frumento tenero (1,29 milioni di tonnellate).
45
luca martinelli
Uno dei 36 dipendenti della Dismeco alle prese con una lavatrice, dalla quale è possibile recuperare fino al 98% dei materiali che
la compongono
46
Capitolo 6
Dal bianco dal bianco
Gli operai con interventi metodici “smontano” lavatrici, una
dopo l’altra. Separano i metalli dal vetro degli oblò, i circuiti elettrici dai cestelli. Alla fine della catena di montaggio i
materiali vengono smistati: tutti verranno avviati a riciclo.
I dipendenti della Dismeco lavorano in un capannone di
Marzabotto (BO), lungo il corso del fiume Reno: da qui, un
tempo uscivano le bobine su cui veniva stampato il Corriere
della Sera. “Questa è stata la cartiera Rizzoli, poi passata alla
Burgo” racconta ad Altreconomia Claudio Tedeschi, amministratore delegato della società. Quando nel 2010 Dismeco
ha rilevato una parte del il complesso industriale per trasformarlo in un centro per il recupero dei RAEE, i rifiuti
da apparecchi elettrici ed elettronici (dai “grandi bianchi”,
come i frigoriferi, alle lampadine a basso consumo), l’attività
era ferma, dal 2006: 600 i dipendenti licenziati. “La Direttiva RAEE apriva a nuove opportunità, e quando abbiamo
avuto l’opportunità Abbiamo scelto di ristrutturare gli spazi
recuperando la struttura in modo filologico, cioè rispettando
l’architettura originale e le successive stratificazioni, e non
abbiamo consumato suolo -spiega Tedeschi-.
La riconversione della ex cartiera ha anche un nome, anzi un
marchio registrato: si chiama “Borgo Ecologico” il progetto
Dismeco che prevede di “declinare ad ampio spettro il tema
della sostenibilità”, come racconta Tedechi, a cominciare
dalla copertura fotovoltaica dei tetti degli edifici presenti nei
42mila metri quadrati acquisti da Burgo. “Abbiamo anche
acquistato villa Rizzoli, che si trova a fianco dello stabilimento, e quando sarà completato il restauro mi auguro di47
venga diverrà un centro didattico, al servizio del territorio”
spiega l’ad della società.
A far da corona allo stabilimento c’è il Monte Sole, con il
Parco storico che ricorda l’eccidio nazista di Marzabotto
(www.parcostoricomontesole.it), una strage che nell’autunno del 1944 vide morire oltre 700 civili. È uno dei simboli
dell’identità emiliana, al pari della “meccanica applicata” cui
-secondo Tedeschi- si deve la nascita di un’azienda come
Dismeco, fondata nel 1977: è la prima in Italia a trattare i
RAEE, gestita dal padre dell’attuale amministratore delegato, che è anche componente della Commissione ambiente
di Confindustria Emilia-Romagna e dell’Osservatorio sulla
Green Economy IEFE dell’Università “Bocconi” di Milano.
“Avevo 19 anni, allora era tutto diverso: ogni cosa era aggiustabile; smontando selettivamente recuperavamo migliaia di
pezzi di ricambio” racconta oggi Tedeschi.
L’attuale Dismeco è figlia di due norme del 2004 e del
2005, i decreti legislativi 49/2014 e 151/2015, che hanno
introdotto nell’ordinamento italiano quattro Direttive UE
relative “alla riduzione dell’uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nonché allo
smaltimento dei rifiuti”.
La sigla RAEE fa parte, da allora, del nostro quotidiano,
perché ogni volta che cambiamo un elettrodomestico il
vecchio dev’essere “gestito” in modo appropriato. I rifiuti da
apparecchi elettrici ed elettronici sono suddivisi in cinque
categorie (vedi box), mentre la raccolta è gestita attraverso
consorzi (Dismeco lavora con APIRAEE, Ecodom, ECOEM, Ecolamp, Ecolight, Ecoped, ecoR’it, ERP, EsaGerAEE, PVCycle, RAEcycle, ReMedia), che nel 2014 hanno
recuperato in tutto il territorio nazionale 231.717.031 chilogrammi, in media 3,8 per ogni italiano. In Emilia-Romagna,
la regione dove opera Dismeco, sono stati raccolti RAEE
per 21.918.935 chilogrammi, anche se -spiega Tedeschi- “si
ipotizza che ogni anno si vendano 60mila tonnellate di apparecchi elettrici ed elettronici”, e ciò significa che una parte
spariscono, e non vengono trattati in modo adeguato. Che
48
significa, nel caso di una lavatrice, ad esempio, “il recupero
del 98 per cento dei materiali che la compongono”, come si
fa a Marzabotto. “La nostra azienda tratta circa 10mila tonnellate di RAEE ogni anno -racconta Tedeschi-, e questo
significa che abbiamo un grande potenziale di crescita, di
quasi sei volte”.
In fondo al piazzale dove i camion scaricano i rifiuti che
verranno avviati a trattamento c’è un terzo capannone dell’ex
cartiera, che ancora non è stato recuperato da Dismeco. L’azienda -spiega Tedeschi- cresce e investe “senza aver ricevuto un euro di contributo pubblico, occupando 36 persone e
arrivando a fatturare quasi 4 milioni di euro”. È orgoglioso
nel raccontarmi di aver “re-inventato concettualmente un
metodo per il trattamento dei ‘grandi bianchi’, che permette di non prendere gli elettrodomestici e buttarli tal quali
nei trituratori”, come fanno quasi tutti, ma di realizzare uno
“smontaggio selettivo”, come definisce Tedeschi la catena di
montaggio che abbiamo visto all’inizio di questo racconto.
Recuperare i materiali, per poi rivenderli, è essenziale per chi
si occupa di RAEE. Lavatrici, televisori, personal computer,
lampadine, infatti, vengono quasi sempre acquistate. “Fino
al 2011, ricevevamo un corrispettivo per il trattamento ambientale. Ma la verità è che tali guadagni, vista la cronica
scarsità di materiale si sono ridotti del 200%, e oggi in larga
parte compriamo ‘rifiuti’ e rivendiamo materie prime, spesso
agli impianti posti alla fine della filiera, come le acciaierie. Le
categorie con maggiore valore aggiunto sono i piccoli elettrodomestici” aggiunge Tedeschi. Ogni anno, Dismeco ne
“tratta” 3mila tonnellate.
Le lavatrici, invece sono 25mila al mese, e almeno 35mila
invece le lampadine a basso consumo, che pure vengono
lavorate con una macchina innovativa, frutto del progetto
europeo “Relight”, che permette anche la separazione delle
basi che contengono i circuiti elettrici.
Secondo l’imprenditore bolognese, tuttavia, questi sforzi potrebbero non rivelarsi sufficienti: il Piano regionale di gestio49
ne dei rifiuti, adottato dalla giunta regionale nel febbraio del
2014, non interviene con la dovuta attenzione in merito ai
rifiuti da apparecchiatura elettriche ed elettroniche, secondo
Tedeschi perché i RAEE intercettati dal sistema equivalgono ad appena 25mila tonnellate su 2 milioni di tonnellate di
raccolta indifferenziata, e non sono un business interessante
per HERA ed IREN, le due multi-utility quotate in Borsa che gestiscono il ciclo dei rifiuti praticamente in tutti i
Comuni dell’Emilia-Romagna. Dove esistono solo due impianti che trattano RAEE, quello di Dismeco a Marzabotto
e quello di Tred Carpi, una società mista costituita da AIMAG e UNIECO. “In altre regioni, come la Lombardia o il
Veneto gli impianti sono 8, o 10 -spiega Tedeschi-. E questo
fa sì che i RAEE ‘regionali’ vengano trattati in loco, mentre i rifiuti elettrici ed elettronici emiliani spesso ‘superano’ i
confini”, cancellando così quel principio di territorialità del
ciclo dei rifiuti che è alla base del “decreto Ronchi”, il testo
di legge del 1997 che ha introdotto in Italia una gestione di
tipo aziendale nell’igiene urbana.
“A mio avviso, il bacino ottimale per la gestione del RAEE,
considerando in molti casi l’esigenza di recuperare con propri mezzi il rifiuto da trattare, è di 200 chilometri dall’impianto di selezione” spiega Claudio Tedeschi. C’è poi, a suo
avviso, un approccio etico, che possa salvaguardare, a parità
di condizioni economiche, il principio di “prossimità” nella
gestione, per “evitare costi sociali ed ambientali inutili”.
Anche se Tedeschi è diventato Consulente (gratuito) per
la pianificazione strategica dei rifiuti delle aziende ASA di
Tivoli e MessinAmbiente di Messina, dove ha collaborato
alla realizzazione del progetto “Messina miniera urbana”,
con cui è stata introdotta nella città siciliana la raccolta dei
rifiuti elettrici, a Marzabotto non verranno mai trattati rifiuti provenienti da Tivoli né da Messina. “Vorrei evitare ogni
possibile strumentalizzazione” dice Tedeschi, che preferisce
che a parlare siano i numeri di Dismeco. Nell’ultimo anno,
pur chiuso in utile, la sostenibilità economica delle attività
ha scontato problemi di carattere strutturale, che dipendono
50
dal mercato e che potrebbero essere affrontati con interventi
legislativi: “I contratti che sigliamo con i consorzi che si occupano della gestione dei RAEE domestici (in tutto sono
17, ndr) hanno spesso durata annuale, e quando -com’è successo nel 2014- il prezzo delle materie prime crolla, questo
riduce in modo esponenziale la nostra marginalità”.
C’è poi un’altra variabile, con un impatto diretto sull’attività di azienda come Dismeco: “Il nostro successo dipende
dai flussi” sintetizza Tedeschi. E il dato su base nazionale
dimostra che in Italia non è ancora chiara l’importanza di
recuperare le materie prime contenute nei RAEE: vengono
avviati a trattamento appena il 36% dei frigoriferi, ma solo
il 20% di lavatrici, lavastoviglie e cappe, ad esempio. Per le
lampade, poi, il rapporto tra raccolto e immesso sul mercato
risulta pari appena al 14%.
Nel mondo del RAEE
Nell’aprile del 2014 è stata adottata nell’ordinamento italiano la
nuova Direttiva europea sui rifiuti da apparecchi elettrici ed elettronici, la 2012/19/EU. Tra le novità introdotte vi è anche una percentuale minima di raccolta differenziata (a partire dal 2016 pari
almeno al 45% delle apparecchiature immesse sul mercato, per
poi salire al 65% a partire dal 2019), e la possibilità per i consumatori di consegnare gratuitamente i RAEE di piccole dimensioni
-cioè quelli inferiori a 25 centimetri- presso i grandi punti vendita,
quelli di oltre 400 metri quadrati, senza alcun obbligo di acquisto. Sono 7.289 i produttori italiani e 176 produttori quelli esteri
che partecipano al “sistema RAEE”, e annualmente comunicano
la quantità di apparecchiature immesse sul mercato.
È in base a questi dati, e immaginando un tasso di sostituzione
di uno a uno, che è possibile calcolare a quanto dovrebbero ammontare i rifiuti, che sono suddivisi in cinque categorie, da R1,
freddo e clima, a R5, sorgenti luminose, passando per R2 (Grandi
Bianchi), R3 (TV e Monitor), R4 (tutte le altre apparecchiature al di
fuori degli altri raggruppamenti).
51
luca martinelli
A sinistra e a lato due cantieri della società Edilcasa di Biella
52
Capitolo 7
Come se fossi a casa tua
Andrea Mondin e Pacifico Dal Molin sono due imprenditori edili. Entrambi sono abbonati ad Altreconomia, e credono che il capitale della relazioni e la filiera corta a “Km
0” non siano un’esclusiva dell’agricoltura biologica e del
rapporto diretto tra produttore e consumatore di un Gas.
“Nel nostro settore, quando costruisci ti riferisci a un cantiere come a una ‘casa da vendere’ -spiega Pacifico-, mentre
noi costruiamo ‘case da abitare’, come se fossero le nostre”.
“Per quanto è possibile, ci serviamo di fornitori in un raggio
di cento chilometri” aggiunge Andrea. Da Biella, la cittadina piemontese sotto le Alpi dove ha sede Edilcasa (www.
edilcasabiella.it), questo raggio abbraccia centinaia di migliaia di ettari di foreste e boschi: robinia, castagno e rovere sono le essenze autoctone utilizzate per costruire case di
legno, o per ristrutturare abitazioni già esistenti per isolarle
meglio e renderle energeticamente più efficienti. La canapa
utilizzata per l’isolamento arriva invece dal Centro Italia.
L’essenza di Edilcasa emerge visitando il cantiere di Pralungo -a una quindicina di chilometri dal capoluogo, in Valle
Elvo-: non c’è impianto di riscaldamento, ma la temperatura all’interno dell’immobile è di quasi 16 gradi, in una mattina coperta di inizio gennaio quando fuori ce ne sono tre.
La casa ha un “cappotto” di 80 centimetri. Anche gli infissi
sono in legno locale. Uno dei criteri utilizzati nel costruire,
racconta Andrea, è quello della “facile sostituibilità: questa robinia, ad esempio, che subisce un unico trattamento,
quello del sole, dura 50 anni. Ma se dovesse marcire ogni
singolo asse può essere sostituito”.
53
Nei due cantieri che visito noto due grandi assenti: le buste di cemento da 25 chili e una betoniera per impastarlo.
“Lavorare in questo modo cambia tutto: non c’è sporco,
non c’è polvere” racconta Beppe, che incontro sul cantiere di Pralungo: per ora, è uno dei dipendenti di Andrea e
Pacifico, ma presto potrebbe essere loro socio.
È un esempio da manuale del capitale delle relazioni quello che Andrea mi racconta nell’ufficio di Edilcasa, un appartamento a pochi metri dalla stazione Fs di Biella: da
tre anni, ogni giovedì pomeriggio, lui e Pacifico riuniscono intorno al tavolo cui sediamo tutto lo staff, per una riunione settimanale durante la quale con Tiziana, Mirco,
Prospero, Beppe e Damiano analizzano i conti di Edilcasa, valutano le strategie e analizzano “risultati, e difficoltà, anche quelle personali, perché -spiega- siamo convinti che una buona qualità della comunicazione sia una base
fondamentale nel nostro lavoro”.
Sulle pagine di Ae hanno conosciuto la decrescita, e due
anni fa, partecipando alla “domenica in cascina” promossa
dalla cooperativa agricola biologica Iris a Calvatone (Cr)
hanno scoperto “L’economia del bene comune” (www.gemeinwohl-oekonomie.org/it): il movimento fondato in
Austria da Christian Felber ha immaginato uno strumento
utile a ripensare l’economia d’impresa, il “bilancio del bene
comune”. “Un bilancio non giuridico (il modello è scaricabile dal sito, ndr) -specifica Andrea-, che mette al centro
dati non contabili, come il soddisfacimento dei bisogni, la
creazione di un valore d’uso, l’equità distributiva, la partecipazione estesa a tutti, la cogestione, la democrazia di genere, l’ecosostenibilità, la qualità della vita”.
Nel maggio 2013, un pullman di 50 persone è partito da
Biella alla volta di Calvatone, per conoscere l’esperienza di
Iris, quella di un’impresa mutualistica a proprietà indivisa,
nata nel 1978 ed oggi impegnata in un investimento importante, per la costruzione di un pastificio (vedi Ae 149):
“Crediamo nella cooperazione, in un’organizzazione dell’at54
tività capace di garantire a tutti una vita dignitosa” spiega Andrea, che insieme al socio Pacifico e ai collaboratori
di Edilcasa ha deciso che i titolari dell’impresa, i manager,
non possano guadagnare più di tre volte i propri dipendenti. “Ci siamo rivolti a numerosi consulenti del lavoro, nel
biellese, e tutti hanno cercato di frenare il nostro percorso
volto a dar vita a una cooperativa per far entrare in società
tutti i dipendenti. Alla fine ci siamo dovuti rivolgere a un
professionista di Genova”. La cooperativa che nascerà riceverà in affitto, per alcuni anni, il ramo d’azienda dell’attuale Edilcasa, che è una società in nome collettivo (Snc).
Nel frattempo, insieme ad altre realtà del biellese- Esa System, Landscape e Primat srl- Edilcasa ha dato vita a un’idea e a un marchio, Build Different (www.builddifferent.
it), che tiene insieme competenze nei settori edile, della
formazione e della comunicazione: gli spazi si progettano, coinvolgendo professionisti, insieme a coloro che andranno ad occuparli. “Ai nostri clienti proponiamo sempre
un contratto trasparente -spiega Andrea-: discutiamo l’investimento complessivo, a partire dalla loro disponibilità,
coinvolgendo professionisti nella progettazione, architetti
e ingegneri. E in 15 anni non abbiamo mai ‘sballato’ i conti”. “Non è vero che in un cantiere edile i costi siano sempre fuori controllo” fa eco Pacifico. Quando elaborano un
budget, inseriscono anche una voce imprevisti, “ma nel momento in cui finiscono le attività ‘a rischio’, come possono
essere quelle legate all’abbattimento di un muro portante
nel caso di una ristrutturazione, proponiamo di utilizzare
la somma ‘accantonata’ per migliorare ulteriormente l’efficienza energetica dell’edificio” aggiunge Andrea.
Dopo aver studiato entrambi per diventare tecnici meccanici per l’industria tessile, i due amici -figli di famiglie
emigrate negli anni Sessanta dal Veneto nel biellese- hanno “ereditato”, dal padre di Andrea, un’impresa artigiana.
Il fatturato dell’azienda è pari a circa un milione di euro,
legato per il 90% a ristrutturazioni, ma se sub-appaltasse55
ro le attività che Edilcasa non realizza direttamente potrebbero arrivare a 4. “Questo, però, non è il nostro modo
di fare imprese” racconta Andrea. Edilcasa lavora su cinque cantieri e solo uno, la casa passiva in legno di Pralungo, riguarda una nuova costruzione.
Nei prossimi mesi, quando il cantiere -dove Andrea mi
accompagna per conoscere Prospero, Beppe e Mirco- sarà
terminato, la casa sarà costata 280mila euro, tra l’8 e il 12%
in più rispetto al valore medio di scambio della zona, che
è di 1.800 euro al metro quadrato. “Fin dall’inizio sapevamo che alla Edilcasa sarebbe rimasto un utile di 10mila
euro -spiega Andrea-, ma l’utile sociale di quest’azione è
altro: per nove mesi, il cantiere ha occupato 10 persone”.
E il risultato finale è una casa che non consuma energia
da fonti fossili.
Lavorando con trasparenza Edilcasa non ha problemi di
insoluto, e non dipende dai prestiti delle banche. “Anzi abbiamo una liquidità di circa 150mila euro -spiega Andrea-.
Da 7 anni i nostri bilanci sono in costante crescita, e questo per me significa una cosa: che la nostra attività ha sostenuto 25 famiglie”.
Dalla parte dell’orto
Un altro cantiere aperto per Andrea Mondin è quello del “Progetto Anam”, in sanscrito “senza nome”. Un terreno di qualche
ettaro in cui Edilcasa ha scelto di non costruire è diventato la
base di una nuova attività agricola, che vede 4 famiglie impegnate insieme nella gestione di un orto -con il metodo della permacultura- e nel recupero del bosco, da cui in futuro potrà essere
ricavato anche legname da utilizzare nei cantieri edili. “Crediamo
che la crisi sia un’opportunità, a patto di saper cogliere l’importanza della sinergie tra attività diverse: quella agricola per il momento non è economica, ma rivolta al benessere delle famiglie”.
Un progetto che Andrea ha portato in azienda, consapevole che
non tutti debbano venire a lavorare l’orto -impegno fisso, una
56
volta a settimana, mentre il sabato sera è dedicato a riunioni e
riflessioni di gruppo- ma che il successo dell’iniziativa dipenda
dalla capacità di mettere in comune maestranze e competenze”.
Tra i sogni, anche l’apertura di un agri-asilo.
57
luca martinelli
???
Capitolo 8
Una tenuta ben custodita
A Caicocci c’è l’Umbria come se la immagina ogni italiano. Chi si affaccia dal belvedere della proprietà, circa 190
ettari nel territorio del Comune di Umbertide (PG), vede
colline, boschi e pascoli, e qualche casale sparso. TripAdvisor, invece, riporta i commenti entusiasti di chi ha dormito
nella “tenuta”, ospite della società I Casali, cui la Regione
Umbria, che è la proprietaria di Caicocci, ne aveva affidato la gestione: “Il contesto paesaggistico è meraviglioso,
gli appartamenti sono caratteristici e confortevoli, la piscina è davvero bella e sempre molto pulita, il ristorante (in
una stupenda torre) è ottimo, il personale è molto gentile... insomma un posto da consigliare!”. L’ultima recensione sul social network dedicato alle attività ricettive, però,
è di gennaio 2012.
Oggi chi arriva all’ingresso della tenuta, a una decina di
chilometri da Umbertide, lungo una strada di montagna
che collega l’Umbria a Cortona, in Toscana, trova un lenzuolo con su scritto “Caicocci terra sociale”. È appeso lì da
febbraio 2014: in mezzo c’è una storia di abbandono, che
ha fatto seguito alla decisione della Regione di mettere in
vendita l’intera proprietà e all’allontanamento del concessionario. “Eravamo in nove, a settembre del 2013, quando facemmo la prima passeggiata a Caicocci. Siamo tornati ogni settimana, ed erano sempre di più le persone che
partecipavano alle nostre ‘gite’ quassù. Con il numero delle persone cresceva anche il senso d’indignazione” racconta Fabio Santori, contadino e tra i referenti di “Terra fuori
mercato”, il nodo umbro della rete Genuino Clandestino
59
(http://genuinoclandestino.noblogs.org), che in tutta Italia riunisce comunità in lotta per l’autodeterminazione alimentare, e porta avanti campagne per l’accesso alla terra
e contro le colture geneticamente modificate. Fabio, che
ha scelto di fare il contadino dopo una laurea in Scienze
della comunicazione all’Università di Perugia e numerose
esperienze nelle comunità indigene zapatiste del Chiapas,
vive con la famiglia e altre due coppie in una colonica, e
coltiva e alleva animali da latte e da carne in una proprietà presa in affitto. Sa bene, così, quanto sia difficile avviare un’azienda agricola in una condizione d’incertezza rispetto all’unica risorsa fondamentale, che è la terra: “Con
alcuni amici avevamo fondato una cooperativa, nella zona
del Monte Subasio, e avremmo voluto avviare un percorso
per ottenere in concessione terre demaniali”.
Quell’esperienza è franata, ma non il desiderio di rendere
produttive le terra della Regione Umbria. Da fine febbraio, anche Fabio -insieme al gruppo “Caicocci terra sociale”- partecipa alla custodia di Caicocci. “Non abbiamo occupato, non siamo entrati nei casali, anche perché quassù
non c’è né acqua né corrente elettrica” racconta Massimo
Montinaro, che è il presidente dell’associazione Colibrì, che
gestisce la piccola bottega del commercio equo e solidale
di Umbertide e ospita il locale gruppo d’acquisto solidale.
È Massimo che ci accompagna a visitare la tenuta: i casali
sparsi nell’immensa proprietà, una dozzina, erano affittati ai turisti, che avevano a disposizione anche un’area con
attrezzature sportive -la piscina, i campi da tennis e quello da calcetto- e un ristorante. La strada interna, che unisce tutti gli immobili della proprietà è asfaltata: qui nessuno ha mai pensato alla terra, ma solo ai guadagni del
turismo. Allo stesso tempo, oggi la Regione Umbria punta a “valorizzare” l’area. “Ma questa terra è di prima qualità” racconta Massimo, che mostra un piccolo appezzamento dove crescono, rigogliosi, dei ceci. È sotto la piscina e
l’area degli spogliatoi, che è recintata: “Qualcuno ha cam60
biato il lucchetto. Negli ultimi mesi, la Regione s’è accorta
di Caicocci”. Quando è iniziata la custodia sociale, invece, la proprietà era in stato di degrado: le porte d’ingresso
ai casali erano state forzate, e rubata tutta la mobilia. “Abbiamo raccolto centinaia di firme per chiedere di non privatizzare Caicocci. Abbiamo portato qua, a metà aprile,
oltre 350 persone, aprendo la tenuta a tutti, ma stiamo ancora cercando una interlocuzione con le istituzioni” spiega
Massimo, che fa parte del direttivo di Umbria Equosolidale, l’associazione che ogni anno organizza Altrocioccolato (www.altrocioccolato.it).
“La nostra idea è trasformare Caicocci in un’azienda agricola sociale, collaborando anche con le Asl. Questa terra
potrebbe dar da vivere almeno a 10 famiglie, che avrebbero a disposizioni anche i casali -aggiunge-. C’è una stalla
per 150 bovini e box pronti ad ospitare fino a 20 cavalli. È
perfetta per diventare un’azienda agricola sociale”. Ecco il
progetto di riconversione.
Altreconomia è stata a Caicocci in un sabato mattina di
maggio. Un “volontario” stava tagliando l’erba con il frullino. Fabio Santori e altre tre persone stavano invece lavorando nell’orto, biologico: “È solo a partire dai prodotti che
potremmo costruire un ‘rapporto’ con Umbertide, facendo
vedere ai nostri concittadini che dall’abbandono può nascere una ricchezza per tutto il territorio” racconta Fabio.
“Il sindaco di Umbertide è già venuto quassù, e appoggia
il nostro percorso” sottolinea Massimo Montinaro.
C’è l’idea di portare in paese ortaggi e verdure, e chiedere
uno spazio per distribuirle in cambio di offerte, per ricavare risorse a favore del progetto “Caicocci terra sociale”. Le
spese da affrontare sono molte, dai serbatoi per l’acqua (al
momento Massimo ne ha portato uno da mille litri) alle
sementi, ma aumenteranno se il comitato -che si è dotato
di una carta dei principi in 10 punti, frutto di un percorso partecipativo- riuscisse ad ottenere quanto richiesto alla
Regione Umbria, organizzando -il 20 maggio 2014- anche
61
un presidio sotto gli uffici dell’amministrazione regionale:
l’assemblea del Comitato vuole l’affidamento della custodia sociale della tenuta di Caicocci. L’assessore regionale
(uscente) al Patrimonio -e all’Urbanistica- Fabio Paparelli ha un’altra prospettiva, e punta “ad operazioni di alienazione che si rivolgano anche al mercato internazionale”, aprendo una vetrina immobiliare tramite la società in
house Sviluppumbria: l’obiettivo è quello di “vendere nel
prossimo triennio almeno il 10% del patrimonio regionale”. Nel frattempo, però, il consiglio regionale ha approvato -a fine marzo- delle “Norme per favorire l’insediamento
produttivo ed occupazionale in agricoltura, per promuovere
l’agricoltura sostenibile”, una legge regionale per l’accesso
alla terra che prevede la creazione di un “Banco della terra”, che -come è descritto nell’articolato- “consiste nell’elenco dei terreni agricoli e a vocazione agricola, dei terreni
agro-forestali, delle aziende agricole e dei fabbricati rurali, di proprietà pubblica o privata, idonei e disponibili per
operazioni di locazione o di concessione”. “Nell’ipotesi di
beni di proprietà pubblica -aggiunge il comma 4 dell’articolo 7-, la locazione o la concessione dei beni del Banco
della Terra ha una durata non inferiore, di norma, a venti
anni e comunque non superiore a cinquanta anni”.
Il testo del provvedimento è frutto dei laboratori di progettazione partecipata promosso dalla Rete “Umbria terra
sociale”, che ha coinvolto -tra gli altri- Legambiente Umbria, Slow Food, Umbria equosolidale, i gruppi di acquisto solidale e biologici, piccoli agricoltori e contadini del
movimento Genuino Clandestino e cittadini. “Il provvedimento pare pennellato sulle opportunità che offre Caicocci -commenta Massimo Montinaro-, perché prevede
che il demanio agricolo regionale sia destinato ai giovani
che vogliono fare i contadini”. “Restiamo però in attesa dei
decreti attuativi” spiega Fabio Santori, perché “è da quelli che dipende l’efficacia della legge”. E anche il futuro di
Caicocci, che nel frattempo è terra da raccolto, non incolta.
62
I libri di Altreconomia
L’analisi dettagliata del
provvedimento legislativo più
“impattante” (dal punto di vista
ambientale) del governo Renzi
“Rottama Italia. Perché lo
Sblocca-Italia è una minaccia
per la democrazie e per il
nostro futuro”, a cura di Tomaso
Montanari, 144 pagine, 12 euro
25 storie di comitati e tutte le
risorse -pratiche e giuridiche- per
fare valore i diritti del paesaggio
“Salviamo il paesaggio. Manuale
per cittadini e comitati: come
difendere il nostro territorio da
cemento e grandi opere inutili”, di
Luca Martinelli, 96 pp., 5,90 euro
In vendita in libreria, nelle botteghe
del commercio equo e su www.altreconomia.it
Info: [email protected] - Tel. 02 89919890
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