Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa
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Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa
BERNARD GBIKPI Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa: quali possibili continuità? La ricerca di modelli di governo più partecipativi è sicuramente una caratteristica fondamentale delle attuali democrazie moderne. La prima parte di questo articolo esporrà una breve valutazione empirica di alcune esperienze di partecipazione dei cittadini in determinate fasi del processo politico decisionale a livello locale, condotte in diversi paesi europei. Come queste esperienze si rapportino alle strutture del governo rappresentativo e agli stessi fondamenti dell’idea di rappresentatività, è la domanda di partenza di questo articolo. Perciò vi dedicheremo la nostra attenzione subito dopo la valutazione empirica. Tuttavia, il nostro maggior interesse risiede nella teoria della democrazia partecipativa e in quella della democrazia deliberativa, in quanto sono le principali teorie con cui le esperienze innovative di partecipazione sono più comunemente collegate. Dovremmo definire queste nuove esperienze come partecipative? O come deliberative? Ciò che proponiamo in questa sede è un esercizio teorico. Consideriamo le teorie partecipativa e deliberativa della democrazia – avendo in mente alcune delle seguenti opere: sulla democrazia partecipativa (Pateman 1970; Polletta 2002), sulla democrazia forte (Barber 1984), sulla democrazia discorsiva (Dryzek 2000a), sulla democrazia comunicativa (Young 1996), sulla empowered deliberative democracy (Fung e Wright 2003), sulla democrazia associativa (Hirst 1994; Perczynski 2000)1 – e sosteniamo che in larga misura la teoria deliberativa Questo articolo è stato scritto quando l’autore era incaricato alla ricerca all’Istituto Universitario Europeo (San Domenico di Fiesole). Ringrazio Alessandro Pizzorno e Donatella della Porta per i loro commenti. 1 Con questo non si intende che queste diverse etichette indichino tutte le stesse identiche teorie, bensì che tutte contengano gli stessi principi fondamentali. STATO E MERCATO / n. 73, aprile 2005 98 Bernard Gbikpi della democrazia può essere considerata come la continuazione e il compimento della teoria partecipativa della democrazia. Gli elementi distintivi della teoria partecipativa della democrazia sono: 1) l’accento posto sulla capacità della partecipazione di affinare le facoltà umane, e 2) la potenziale estensione dell’ambito della politica che questa teoria rende possibile. Per quanto riguarda la teoria della democrazia deliberativa – che si riferisce a un processo comunicativo il quale, basandosi sulla ragione, e in condizioni di uguaglianza, inclusione e trasparenza, è in grado di trasformare le preferenze individuali e di giungere a decisioni orientate al bene pubblico – ci focalizziamo in particolare sulla deliberazione quale strumento tecnico per prendere una decisione, e quale mezzo per allargare il dominio della partecipazione politica. Quest’articolo, quindi: 1) fornirà una breve valutazione di varie esperienze partecipative e deliberative del processo decisionale politico in diversi paesi europei; 2) offrirà una breve riflessione su come queste esperienze si rapportino rispetto agli attuali fondamenti e alle strutture del governo rappresentativo; 3) analizzerà due ponti che conducono dalle teorie della democrazia partecipativa a quelle della democrazia deliberativa: il primo di questi ponti è l’importanza che queste teorie attribuiscono a chi partecipa al processo decisionale; il secondo ponte è il modo in cui ciascuna teoria allarga l’ambito di ciò che è politico, in modo tale da rendere la partecipazione dei cittadini politicamente significativa; 4) identificherà i fondamenti di questi ponti in opere dedicate esclusivamente alla partecipazione. 1. Le nuove esperienze partecipative nelle democrazie moderne Il Libro Bianco sul Sistema di Governo Europeo (Commissione della Comunità Europea 2001) riconosce il principio della partecipazione attraverso la consultazione aperta ai cittadini e alle loro associazioni come uno dei pilastri fondamentali nel governo dell’Unione Europea. Inoltre, le organizzazioni non governative hanno ottenuto un riconoscimento a livello sovranazionale come interlocutori informali riguardo alle consultazioni sulle decisioni politiche e nella partecipazione alla realizzazione di tali politiche. L’esperienza della Convenzione nella stesura della Carta dei diritti fondamentali e del Libro Bianco Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 99 sul Sistema di Governo Europeo ha così fornito un esempio per un maggior coinvolgimento della «società civile» nel sistema dell’Unione Europea (Schutter 2002). Sulla stessa linea, nel luglio del 2001 il Consiglio d’Europa ha pubblicato la «Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli stati membri sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica a livello locale» (Consiglio d’Europa 2001)2; vi si afferma che la sfida cruciale per una partecipazione sostenuta alle politiche locali consiste nell’adattare i processi decisionali in modo da soddisfare le mutevoli aspettative dei cittadini. Riconoscendo ed esaminando i già numerosi esperimenti e le iniziative in corso in vari stati membri, il documento cita «quelle (forme di partecipazione) che si ispirano alla politica della presenza ed enfatizzano la necessità di assicurare il coinvolgimento dei cittadini che sono spesso assenti dal processo decisionale». Con ciò si fa riferimento ai parlamenti dei giovani, ai forum di quartiere e degli anziani, alle procedure di codecisione (co-option procedures), agli schemi di partnership e di sviluppo di comunità, oltre che a numerosi altri meccanismi. La raccomandazione identifica anche i siti web interattivi, le giurie di cittadini (Citizens’ juries) e le Consensus conferences come altre possibili forme di partecipazione diretta, che cercano di creare le condizioni per una democrazia più deliberativa (§ 41). La raccomandazione fornisce perfino un glossario con la definizione di procedure partecipative quali i forum e le giurie di cittadini, i citizen panels, i focus group, i sondaggi di opinione ecc. Coerentemente con questa ricerca di rinnovamento della governance democratica, vi sono crescenti casi di adozione dei cosiddetti processi deliberativi nelle decisioni politiche in quasi tutte le democrazie moderne, specialmente a livello locale. A questo riguardo, il Parlamento tedesco ha istituito nel 1999 una commissione di studio su «Il futuro dell’impegno civile»; nel 2002 la commissione ha pubblicato un rapporto (Enquete-Kommission 2002)3 in cui si sostiene che 2 Il documento è stato adottato in seguito dalla Commissione Permanente, per conto dell’Assemblea, il giorno 8 novembre 2001, Opinione n. 232 (2001). 3 Un estratto del rapporto è consultabile in inglese al sito: http://www.bundestag.de/parlament/kommissionen/archiv/enga/02Zsf_en.pdf. Vedi anche: http://www.bundestag.de/parlament/kommissionen/archiv/enga/enga_stu.htm per una descrizione dei compiti affidati alla commissione. 100 Bernard Gbikpi le attività civiche – definite come quelle attività che sorgono quando «i cittadini si assumono delle responsabilità per il bene comune» – stanno dando un contributo per una società coesa dal punto di vista sociale, e raccomanda misure volte a rafforzare queste attività. La commissione di studio ha rivolto particolare attenzione a quelle forme di politica che incoraggiano lo stato e l’individuo ad assumersi incarichi volontari e a impegnarsi in nuove forme di cooperazione e gestione dei conflitti, come le partnership, le unioni, le reti e i contratti che collegano i diversi attori, i processi decisionali e i centri di attività. La commissione, inoltre, raccomandava che il diritto di partecipare all’azione amministrativa orientata al cittadino venisse rafforzato, che si fornissero nuove e migliori opportunità di partecipazione alle iniziative non istituzionali, ai comitati di quartiere e ai gruppi sociali. Infine, a parere della commissione di studio, le forme di democrazia diretta come le iniziative popolari, le petizioni per i referendum e i referendum stessi, dovevano essere integrate da forme innovative di partecipazione quali tavole rotonde, cellule di pianificazione (Planning Cells/citizens’expertise), forum e workshop di cittadini per sviluppare modelli avanzati per la comunità locale. In Francia, Cécile Blatrix (Blatrix 2003) ha fatto un inventario delle nuove modalità di partecipazione dei cittadini alla democrazia e al processo decisionale, in particolare a livello locale, citando una legge del 1992 che accentua il decentramento e istituisce il referendum municipale, mentre alcune altre tecniche partecipative sono emerse nell’ultimo decennio nel settore delle politiche ambientali. Nel 1995 vi è stato un rilevante progresso con la creazione di una Commission Nationale du Débat Public (CNDP, Commissione Nazionale sul Dibattito Pubblico), una struttura indipendente responsabile dell’organizzazione di dibattici pubblici sull’opportunità, sugli obiettivi e sulle caratteristiche principali dei maggiori piani di sviluppo. Il processo decisionale di tali piani di sviluppo prevede quindi una sequenza di procedure di consultazione pubblica, intese a conciliare interessi pubblici vari e divergenti quali la progettazione, la salute, o la conservazione di risorse naturali4. La stessa legge ha reso obbligatoria l’istituzione dei consigli di quartiere nelle città con 4 Dalla sua creazione nel 1995, la CNDP ha organizzato più di venti dibattiti pubblici. Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 101 più di 80.000 abitanti, rendendo questi consigli la principale realizzazione istituzionale della democrazia partecipativa a livello locale in Francia. Cécile Blatrix cita infine due Conférences de citoyens tenutesi in Francia nel 1998 e nel 2001 sugli OGM (Organismi Geneticamente Modificati) e sui cambiamenti climatici (Conférence de citoyens 2002), altri tipi di forum dei cittadini come ad esempio gli Etats Généraux (sui cibi e l’alimentazione, sulla salute) o la Evaluation participative des technologies5, e alcune esperienze di bilanci partecipativi (vedi anche Sintomer e de Maillard 2004; Boy, Donnet-Kamel e Roqueplo 2000; Marris e Joly 1999). In Spagna, in una ricerca effettuata per la Scuola della Pubblica Amministrazione del Governo Regionale Catalano, Joan Font ha esaminato cinquanta esperienze di partecipazione dei cittadini che rappresentano un’innovazione rispetto ai consueti meccanismi di consultazione municipale. Fra le nuove modalità partecipative a disposizione dei cittadini figurano i forum partecipativi dell’Agenda Locale 21, i consigli consultivi rinnovati nella loro struttura (ad esempio, nelle modalità di selezione dei partecipanti tramite sorteggio, o con l’inclusione di nuovi gruppi – come i bambini), i forum partecipativi per i progetti strategici, le giurie di cittadini (Nucleos de Intervencion Participativa o Consejos ciudadanos), i comitati di quartiere e i bilanci partecipativi, i referendum, i progetti integrati e i progetti strategici settoriali (Font 2003; Font e Blanco 2001). In Italia, una ricerca commissionata nel 2001 dall’Ufficio Speciale per la Partecipazione dei Cittadini e dei Laboratori di Quartiere (USPEL) della Municipalità di Roma (Ecosfera e Uspel 2001; Commissione Urbanistica Partecipata e Comunicativa dell’Istituto Nazionale di Urbanistica 2002) rivela che le pratiche partecipative affondano le loro radici direttamente nella progettazione urbana, attraverso specifiche esperienze locali. Tali sono i vari forum che comportano la partecipazione dei cittadini, come i focus group, i laboratori di quartiere ed altri. Nel 1997 un decreto ministeriale ha lanciato i Contratti di Quartiere, nelle cui disposizioni si richiede esplicitamente che siano create strutture per la partecipazione dei cittadini alle azioni urbane, tendendo così a trasformare gli strumenti partecipativi in strutture permanenti e organiche dell’amministrazione ordinaria. Luigi Bobbio 5 Progetto Vigne dell’Institut National de la recherche agronomique nel 2001/2003. 102 Bernard Gbikpi (2002) cita le conferenze dei servizi, gli accordi di programma, gli strumenti della programmazione negoziata, e i PRUSST (Programmi di Riqualificazione Urbana e Sviluppo Sostenibile del Territorio) come alcuni esempi dell’ampia gamma di strumenti inclusivi e consensuali che l’attuale legislazione italiana offre ai processi decisionali della pubblica amministrazione. Sebbene il nostro studio della letteratura sull’argomento non abbia rivelato l’esistenza di eventi quali le Consensus conferences, Conférences de citoyens, Planning Cells o Nucleos de Intervencion Participativa6, anche l’Italia ha esperienze partecipative come ad esempio alcuni bilanci partecipativi (Sclavi et al. 2002). In termini numerici, secondo Joan Font, i suddetti processi decisionali partecipativi «continuano a essere più l’eccezione che la regola [poiché] la maggior parte delle decisioni a tutti i livelli di governo sono nelle mani di diverse combinazioni di politici, burocrati e esperti, con un possibile ruolo complementare per le consultazioni informali con gruppi di cittadini» (Font 2003a, p. 14; vedi anche Akkerman, Hajer, e Grin 2004). Essi tendono tuttavia ad essere utilizzati in modo crescente per aumentare la partecipazione pubblica. In un censimento delle attività del governo locale volte ad incrementare la partecipazione pubblica – censimento condotto attraverso un questionario spedito nel 1998 ai capi esecutivi di tutte le principali autorità locali in Inghilterra (district, county, new unitary, London Borough, Met Dist) al quale rispose l’85% degli interpellati, pari a 332 autorità locali – Vivien Lowndes, Lawrence Pratchett, e Gerry Stoker (2001a) riscontrarono che negli anni precedenti quasi la metà delle autorità locali esaminate dallo studio (il 47%) aveva usato i focus group; circa il 45% aveva intrapreso varie forme di progettazione comunitaria o di analisi dei bisogni che implicavano una partecipazione pubblica, mentre più di un quarto stava impiegando tecniche di progettazione; soltanto il 5% delle autorità aveva fatto ricorso a giurie di cittadini, benché gli autori avvertano che questa cifra è in parte approssimativa, viste le diverse denominazioni che le varie organizzazioni attribuiscono a questa attività (circa il 18% usava citizens’ panel, cioè un campione di cittadini rappresentativo dal punto di vista statistico, periodicamente consultati su varie questioni) (Lowndes et 6 In realtà vi sono delle Conferenze di consenso in Italia, ma sono limitate al campo medico e si rivolgono agli operatori sanitari, a dottori e infermieri, a direttori, amministratori e impiegati delle strutture ospedaliere. Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 103 al. 2001a, p. 208). L’articolo non riporta il numero di decisioni prese con l’ausilio di tali procedure. Comunque, soltanto un terzo dei rispondenti aveva riscontrato un effetto interamente positivo in termini di decisioni prese sulla base di una migliore informazione (16%) e di una forte influenza sulle scelte finali (20%). I restanti due terzi avevano notato: un effetto molto scarso (20%), una conferma delle decisioni (20%), che l’effetto stava diventando più significativo (13%) e altri effetti (11%) (id., p. 222). Come indicazione riguardo al tipo di classificazione delle suddette esperienze, Lowndes, Pratchett e Stoker hanno organizzato le forme di partecipazione esaminate in cinque categorie: 1) metodi per tutelare i consumatori (consumerism methods) (sistemi per presentare reclami, indagini sulla soddisfazione del cliente, altri sondaggi di opinione); 2) modalità tradizionali (incontri pubblici, verbali di riunioni, elezione di un membro di comitato in una commissione, sessioni a domanda e risposta); 3) forum (di utenti di servizi, di quartiere o di zona, su varie tematiche o su interessi condivisi); 4) innovazioni a carattere consultivo (siti web interattivi, giurie di cittadini, referendum); 5) innovazioni a carattere deliberativo (focus group, piano comunitario, progettazione, gestione degli utenti, giurie di cittadini). Questa classificazione organizza le forme di partecipazione, ma non presta attenzione al ruolo che tali forme rivestono nel processo politico decisionale. La OECD attua una classificazione seguendo non tanto la modalità della partecipazione, quanto piuttosto la sua rilevanza nelle decisioni. Distingue principalmente tra le procedure di informazione, di consultazione, e di partecipazione attiva. L’informazione va dal governo al cittadino, e consiste nel fornire ai cittadini le informazioni sugli indirizzi politici. La consultazione avviene tramite sondaggi di opinione e indagini o, con un maggior livello di interazione, tramite commissioni e organismi consultivi permanenti o ad hoc, che comprendono organizzazioni della società civile come udienze pubbliche, focus group, citizen panels, workshop. La partecipazione attiva, che tende a generare proposte politiche in modo congiunto (da parte di autorità pubbliche e cittadini insieme), avviene tramite i forum dei cittadini, le Consensus conferences, e Citizens’ juries (OECD 2001a; vedi anche Bishop e Davis 2002). Un altro tipo di classificazione potrebbe consistere nell’analizzare in modo più esauriente la connessione fra ciascuna delle nuove modalità menzionate e il loro effetto sulle decisioni prese nel processo politico. Una simile analisi ci 104 Bernard Gbikpi permetterebbe di apprezzare meglio quale sia la portata di queste nuove esperienze nel modello decisionale attualmente vigente nelle democrazie moderne. Comunque, con l’introduzione dei cittadini all’interno del decision-making, si possono considerare queste esperienze allo stesso tempo come una sfida e come un completamento rispetto alle procedure decisionali delle democrazie rappresentative. 2. Partecipazione e rappresentanza In effetti questi resoconti, benché sommari, valutano in modi diversi la preoccupazione dello stato democratico moderno di coinvolgere i cittadini nei processi decisionali, sia a livello nazionale che locale. Ma perché un simile interesse nel coinvolgere i cittadini nel decision-making? E ancora: come si rapporta un tale interesse con le strutture del governo rappresentativo e con il principio di rappresentanza? Ad esempio Peter Dienel (2002), l’inventore delle cellule di pianificazione (Planning cells) in Germania, le concepì come un modo per organizzare una partecipazione pubblica che fosse compatibile con le forme istituzionalizzate del sistema politico e amministrativo delle democrazie moderne. In particolare, era preoccupato dal fatto che il processo politico decisionale fosse sempre più controllato da una classe politica professionista, e che stesse crescendo una spaccatura sociale fra i decision-makers e la maggioranza della popolazione. Ned Crosby (1986), il creatore delle giurie di cittadini negli USA, le concepì in risposta a quelli che riteneva problemi fondamentali della democrazia negli Stati Uniti: la manipolazione del pubblico da parte dei partiti politici; la corruzione dei processi decisionali governativi attuata da interessi particolari; il fallimento del voto nell’assicurare ai cittadini una qualsiasi influenza politica significativa. I cosiddetti consensus conferences e scenario workshop (Andersen e Jaeger 1999) sono stati sviluppati in Danimarca entro una prospettiva democratica che considera allo stesso tempo possibile e necessario stabilire con i cittadini un dialogo riguardo alle politiche tecnologiche. I vari laboratori di quartiere, comitati, consigli, Commissioni per il dibattito pubblico, gli strumenti di programmazione negoziata, le tavole di mediazione ecc. hanno tutti in comune un desiderio, da parte delle autorità politiche e amministrative, di associare i cittadini e i vari interessati Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 105 (stakeholders) al processo decisionale di una politica, o all’adozione di un progetto – dalla sua creazione fino alla decisione finale. Questa ricerca del consenso tramite procedure politiche decisionali è parte di un’evoluzione – osservabile durante tutto il corso del ventesimo secolo – delle modalità di governare le società moderne; evoluzione che ha visto lo spostamento costante della formazione del consenso dal centro parlamentare verso l’amministrazione, mentre quest’ultima diveniva il vero fulcro delle decisioni (Pizzorno 2003). Tale evoluzione si è verificata lungo tre assi funzionali delle democrazie moderne: 1) la trasformazione della pubblica amministrazione stessa; 2) la trasformazione delle strutture del governo rappresentativo; 3) la trasformazione dell’organizzazione degli interessi nella società civile. La trasformazione dell’amministrazione pubblica è stata causata da una crescente specializzazione dei suoi vari campi di competenza e di azione, e da un’altrettanto crescente dispersione delle decisioni. Queste tendenze hanno condotto a quella che potrebbe essere definita una crisi cognitiva dell’amministrazione (Callon 2003; Pellizzoni 2003), alla quale quest’ultima ha risposto mediante un crescente ricorso alla consultazione degli stakeholders e delle varie competenze della società civile (Forester 1999; Fischer 2001). Allo stesso tempo, a livello delle strutture del governo rappresentativo, i membri del parlamento tendono a rappresentare meno l’interesse generale e sempre più gli interessi particolari. Contemporaneamente, i gruppi di interesse privato della società civile sono divenuti sempre più forti e numerosi, fino a diventare – per quanto riguarda la trasmissione delle richieste dei privati – più efficienti degli stessi partiti politici, i canali tradizionali della rappresentanza politica. La progressiva apparizione di una partecipazione sempre più diretta di numerosi cittadini e stakeholders nei processi politici decisionali fa quindi parte di un’evoluzione generale dei modelli di governance delle democrazie rappresentative moderne. Queste pratiche decisionali sono cioè penetrate facilmente entro le strutture della rappresentanza, che non sono state messe in discussione. Il governo rappresentativo a livello di politica nazionale non è assolutamente ripudiato, anche perché è interessato raramente in modo diretto da queste nuove esperienze. E a livello locale, dove avviene la maggior parte di esse, neppure la rappresentanza politica tradizionale viene sconfessata, bensì è completata dalla presenza di altre «rappresentanze». Fino a 106 Bernard Gbikpi questo punto, non soltanto non si mettono in discussione le strutture del governo rappresentativo, ma neppure il principio della rappresentanza stessa. Come dato di fatto, queste pratiche partecipative indicano che il personale politico eletto – benché ancora presente e attivo in alcune di queste esperienze – non basta più nei processi decisionali pubblici, perché rappresenta i cittadini nella loro generalità e per tutte le questioni, anziché rappresentarli nella loro specificità e per la particolare questione in gioco. In effetti, i forum partecipativi, i consigli consultivi, i comitati di quartiere, i bilanci partecipativi, i progetti integrati, le giurie di cittadini, le consensus conference ecc., non riguardano tanto il fatto che «ognuno» partecipi in modo rilevante ai processi decisionali, quanto che ogni stakeholder interessato dal problema sia rappresentato attivamente (Gbikpi e Grote 2002). Certamente, la logica di avere all’interno del processo decisionale tutte le persone interessate dalla decisione trova talvolta delle espressioni genuine. Tali sono, ad esempio, le esperienze come il bilancio partecipativo di Porto Alegre, dove ogni cittadino ha la possibilità di partecipare alle assemblee di quartiere e di parlare (Harnecker 1999). Tuttavia, eccetto questa esperienza, il principio della rappresentanza è ancora premiato e i meccanismi rappresentativi operano anche all’interno delle nuove pratiche partecipative, per la ben nota ragione che una democrazia diretta – intesa come assemblee che radunano l’intera comunità – è in genere materialmente impossibile. Perfino nella struttura del bilancio partecipativo di Porto Alegre, l’assemblea generale dei cittadini è soltanto una prima fase, poi il processo continua attraverso una catena di rappresentanza e delega – anche se i delegati sono ritenuti responsabili in modo specifico nei confronti della loro base (Harnecker 1999). Così, l’idea contenuta in queste esperienze innovative di avere ogni persona interessata da una decisione – cioè, ogni cittadino che potrebbe esserne toccato – presente e attiva nel processo decisionale, viene soddisfatta mediante la presenza di attori i quali, de facto o de jure, sono ritenuti essere rappresentativi dei vari holders. Nelle parole di Barnes (2000), «i funzionari di stato che organizzano iniziative partecipative si tormentano su come assicurare che i partecipanti da loro impegnati siano rappresentativi del gruppo particolare o degli elettori che costituiscono il loro target» (Barnes 2000, p. 325). Coloro che prendono parte alle nuove procedure di partecipazione ai processi decisionali sono rappresentativi de facto quando, con la loro mera presenza, rappre- Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 107 sentano quelli che sono interessati e toccati dalla questione, ma non intendono partecipare o mostrarsi nei processi politici ai quali è stato loro nondimeno offerta una possibilità di prender parte – sebbene, come riportato da Marian Barnes, «i membri del gruppo riconoscevano che molti di coloro che essi sostenevano di rappresentare avrebbero saputo poco o nulla delle loro attività» (Barnes 2003, p. 397). I partecipanti a queste nuove pratiche sono anche rappresentativi de jure, cioè sono persone esplicitamente e formalmente scelte da una comunità o da un gruppo di cittadini o stakeholders, oppure dagli organizzatori della procedura per partecipare nelle nuove procedure. Tali sono i delegati nel bilancio partecipativo di Porto Alegre, o i rappresentanti dei vari stakeholders in varie commissioni per i lavori pubblici (Bobbio 2000; Fourniau 2001; Boy et al. 2000). «In tutti i casi [di questo tipo] sono i rappresentanti delle diverse constituencies ad essere direttamente coinvolti nel processo decisionale» (Smith 2001, p. 81). I cittadini scelti a caso da una lista di volontari per le giurie di cittadini, oppure i deliberative pollings, per esempio, sono qualcosa di diverso. Secondo Smith, «nessun gruppo di cittadini selezionati tramite qualche procedimento di estrazione a sorte prima che i cittadini selezionati accettino o meno di partecipare – come sono i componenti delle giurie di cittadini – può rispecchiare accuratamente tutti i punti di vista e le opinioni presenti nella comunità più ampia» (Smith 2001, p. 85; vedi anche Smith e Wales 2000; e, più in generale, Barnes et al. 2003). Essi possono non essere sensibili ai diversi pubblici interessati e coinvolti nella questione, ma fornire comunque una rappresentazione statistica del pubblico generale (Fourniau 2001, p. 449). In ogni caso, sembra che queste nuove esperienze partecipative siano del tutto compatibili con i fondamenti della rappresentanza e con le pratiche di governo rappresentativo presenti nelle democrazie moderne, nel cui contesto esse fioriscono. Dato che non mettono in discussione le istituzioni della democrazia rappresentativa, e che fanno anch’esse ricorso al meccanismo della rappresentanza, queste esperienze innovative integrano le attuali strutture di governance democratica, piuttosto che contrapporsi ad esse. Si può comunque avere un’idea della sfida che queste esperienze lanciano alle democrazie rappresentative se si considera il fatto che esse sono sempre più comunemente riconosciute e analizzate per mezzo delle teorie della democrazia partecipativa e/o deliberativa (Callon et al. 2001; Fourniau 2001; 108 Bernard Gbikpi Papadopoulos 2002; Fischer 2003; Font 2003c; Fung e Wright 2003; Hajer e Wagenaar 2003) – che a loro volta procedono per contrasto rispetto alle teorie della democrazia rappresentativa. Tijske Akkerman (2001), ad esempio, distingue queste pratiche di «policy-making interattivo» – «che implicano la consultazione, la negoziazione e/o la deliberazione fra governo, associazioni della società civile e singoli cittadini» (Akkerman et al. 2004, p. 83) – dalle precedenti forme di coinvolgimento pubblico, quali la consultazione neo-corporativa e il modello di influenza politica basato sui movimenti sociali. Le differenzia in tre aspetti: 1) «in contrasto con le consultazioni neo-corporative, la politica interattiva è una modalità informale e ad hoc del processo decisionale»; 2) «in contrasto con il modello dei movimenti sociali di influenza politica, il policy-making interattivo è principalmente una iniziativa dall’alto verso il basso»; e 3) «in contrasto sia con le forme neo-corporative che con il modello dei movimenti sociali, il policy-making interattivo non restringe la partecipazione ai rappresentanti dei gruppi, ma implica anche la partecipazione su base individuale» (Akkerman 2001, p. 73). Similmente, queste pratiche sono state anche definite «processi politici decisionali collaborativi», e come tali distinti dal modello tecnico burocratico, da quello di influenza politica/porkbarrel, dal modello di movimento sociale di decisionmaking (Innes e Booher 2003), dalla «democrazia cooperativa» (Bogumil 2001), ecc. Lucio Baccaro e Konstantinos Papadakis (2004), per citare un altro esempio, rivolgono uno sguardo critico verso questi casi di «pubblica amministrazione deliberativa» che sono supposti dare a «tutti i gruppi potenzialmente condizionati (...) uguale opportunità di prendere parte al processo ed uguale diritto di proporre questioni, formulare soluzioni, o discutere in modo critico approcci dati per scontati, [solo] perché il processo politico decisionale avviene mediante lo scambio di argomentazioni». Questo ricorso a nuovi strumenti interpretativi per dare un significato a esperienze che, sebbene innovative, non contraddicono radicalmente le attuali pratiche politiche, risveglia un interesse per il nuovo strumento teorico in sé. Di questo si tratta in questo articolo. Più esattamente, ci interessa il fatto che le nuove esperienze qui esaminate sono di solito definite – talvolta in modo indifferenziato – sia partecipative che deliberative. In questa esitazione nella denominazione dei nuovi casi, sembra essere insito un mix complementare nel quale la dimensione Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 109 partecipativa si riferisce alla quantità di partecipanti al processo politico decisionale, e la deliberazione alla qualità della partecipazione. Jacob Aars e Audun Offerdal (2000), per esempio, considerando queste nuove pratiche, affermano che da un lato vi è la questione di quale sia la loro portata, dove è ragionevole domandarsi quante persone siano coinvolte, magari in modo marginale, in una qualche forma di attività politica. Dall’altro lato, ci si può interrogare sulla profondità di questa partecipazione. Le teorie della democrazia deliberativa sottolineano questa sfida qualitativa della partecipazione. Lo scopo è quello di creare le condizioni per una partecipazione più «profonda» (p. 69). Anche Perczynski si basa sulla distinzione tra forme di partecipazione quantitative e qualitative, e ci ricorda che «la democrazia deliberativa aveva già presente la richiesta per una maggior partecipazione (qualitativa) nelle sue radici» (Perczynski 2001, p. 73), vale a dire nell’articolo originario di Joseph Bessette sui democratici partecipativi ed elitisti negli Stati Uniti (Bessette 1980). Vorremmo perciò approfondire l’eventuale integrazione fra le teorie partecipative e deliberative della democrazia, e vorremmo farlo attraverso un esame di queste teorie. Quindi, non tenteremo un’osservazione empirica delle suddette esperienze con l’obiettivo di scoprire se esse siano più partecipative o deliberative, ma cercheremo dei ponti fra i due nuclei teorici. 3. Come la teoria della democrazia deliberativa e quella della democrazia partecipativa si completano Considerando due importanti rivendicazioni e obiettivi della teoria della democrazia partecipativa si scopre che questi stessi punti sono richiamati a loro volta dalla teoria della democrazia deliberativa e sono cruciali anche per il suo sviluppo. I due punti cruciali della teoria della democrazia partecipativa sono: 1) il fatto che i partecipanti ad una decisione dovrebbero avere pari peso nella decisione stessa, e 2) il fatto che la partecipazione attiva è una virtù istruttiva; per questo è importante che gli individui sfruttino tutte le possibili opportunità per partecipare. A questo proposito sosteniamo che la teoria della democrazia deliberativa si riferisce al primo dei due punti attraverso il concetto di deliberazione inteso come strumento per esercitare il potere decisionale, mentre richiama il secondo punto attraverso il concetto di deliberazione pubblica tramite una sfera 110 Bernard Gbikpi pubblica. Questi due temi rientrano nei due principali tipi di questioni affrontate dalla letteratura contemporanea sulla teoria della democrazia deliberativa, ovvero 1) quello dei dispositivi pratici raccomandati da una concezione di democrazia deliberativa, e 2) quello della legittimazione e della critica dei sistemi democratici contemporanei. La prima serie di quesiti include questioni relative al processo decisionale, al miglioramento delle condizioni di uguaglianza politica (o alla riduzione delle disuguaglianze politiche) e ai processi di trasformazione delle preferenze. Considereremo in successione la questione dell’uguale peso dei partecipanti al processo decisionale, che è cara alla teoria della democrazia partecipativa, e il modo con il quale la teoria della democrazia deliberativa si è confrontata con quest’aspetto, mentre in un secondo momento considereremo la questione, anch’essa cara alla teoria della democrazia partecipativa, della virtù della partecipazione, e il modo con il quale la teoria della democrazia deliberativa si è rapportata ad essa. 3.1. Decidere attraverso la deliberazione piuttosto che con il voto Un punto di rilievo per la teoria della democrazia partecipativa è l’intensità della partecipazione nelle decisioni, ovvero il peso dei partecipanti nella decisione. Si consideri quest’aspetto attraverso due importanti lavori di questo corpus teorico: A Ladder of Citizen Participation di Sherry Arnstein, pubblicato nel 1969 (Arnstein 1969), e Theory of Partecipative Democracy di Carole Pateman, pubblicato nel 1970 (Pateman 1970). La scala della partecipazione di Arnstein guarda alla partecipazione nelle scelte governative come ad un continuum lungo una scala di potere. Secondo Arnstein (1969, p. 216), «la partecipazione del cittadino è una condizione categorica per il potere del cittadino». Ciò significa che «esiste una sostanziale differenza tra il vuoto rituale partecipativo e l’avere il reale potere necessario per influire sull’esito del processo» (id.). Ogni processo che non trasferisca potere è una manipolazione dell’opinione pubblica; non si è raggiunta alcuna partecipazione significativa finché non entra in gioco la democrazia diretta. La scala della partecipazione teorizzata da Arnstein conta otto gradini che corrispondono ad otto gradi di potere. Partendo dal basso verso l’alto, questi otto gradini sono: manipolazione, terapia, processo informativo, Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 111 consultazione, conciliazione, partnership, potere delegato e controllo da parte del cittadino. I primi due gradini in basso equivalgono alla non-partecipazione; i tre successivi sono livelli di concessione puramente formale, mentre i tre gradini superiori sono a tutti gli effetti livelli di potere dei cittadini. Similmente alla scala della partecipazione di Arnstein, la teoria della democrazia partecipativa di Carole Pateman identifica una pseudo, una parziale e una piena partecipazione e le distingue in base al grado di influenza che i partecipanti possono esercitare sull’esito dell’evento al quale hanno preso parte. Tanto maggiore è l’influenza, quanto più significativa è la partecipazione. In questo senso, in una situazione di partecipazione parziale, «il potere decisionale finale rimane a livello dirigenziale, i lavoratori, se anche in grado di partecipare, riescono soltanto a influenzare quella decisione» (Pateman 1970, p. 70). Il caso della partecipazione piena è diverso. Riferendosi ad esempi tratti dai contratti collettivi dei comparti minerari e dell’industria automobilistica, Pateman scrive: «In questi ambiti gruppi di lavoratori agivano in modo virtualmente autonomo, senza il controllo della dirigenza, come gruppi autogestiti che prendevano le proprie decisioni riguardo al processo lavorativo quotidiano. In questo tipo di situazione (nello specifico solo al livello più basso [dell’organizzazione gerarchica della fabbrica]) non esistono due “parti” che abbiano poteri decisionali ineguali, bensì un gruppo di individui uguali che devono prendere le loro decisioni su come si debba distribuire o portare avanti il lavoro». Situazioni di questo tipo, continua Pateman, possono essere definite di piena partecipazione, cioè questa forma di partecipazione è «un processo dove ogni singolo individuo membro di un corpo decisionale detiene uguali poteri per determinare l’esito delle decisioni» (Pateman 1970, pp. 70-71). Pertanto, secondo Carole Pateman, una situazione di partecipazione parziale è tale quando i partecipanti sono ineguali, nel senso che non hanno un potere uguale nel determinare una decisione: alcuni partecipanti potrebbero influenzarla, mentre altri possono prenderla. Al contrario, la piena partecipazione si sviluppa in una situazione nella quale i cittadini hanno uguale potere sulla decisione da prendere all’interno di un’arena in cui partecipano. Ora, a che cosa si riferisce esattamente un’uguaglianza nel potere decisionale? Come si esercita l’influenza? E in cosa consiste un uguale potere in materia? Effettivamente, a parte i contributi di Rousseau, Bentham e dei due Mill sull’idea della 112 Bernard Gbikpi partecipazione (riportati da Pateman 1970; e anche Webler e Renn 1995), il voto sembra essere l’unico test accurato per il meccanismo della partecipazione. L’approccio adottato nella scala presenta il voto come il massimo che può essere fatto per assicurare un peso al contributo dei cittadini. Così per Carole Pateman, ad esempio, una fabbrica sarà pienamente democratizzata quando i lavoratori potranno scegliere con un voto il manager che vogliono (Pateman 1970, p. 70). L’alternativa è rappresentata dalla democrazia diretta, sebbene con scarse qualificazioni anche quando è avanzata nell’ambito della letteratura partecipativa (Arnstein 1969), o con riferimento alle forme classiche della democrazia diretta (referendum, iniziative), il che ci porta fuori da quanto trattato in questo articolo (Lupia e Matsusaka 2004). Così, nell’ambito della teoria partecipativa, il modo più accreditato per dare un peso alla partecipazione individuale nel processo decisionale passa attraverso la pratica del voto. Tra l’altro, si nota che la teoria della democrazia partecipativa sembra trovare qui un ulteriore punto di contatto con i meccanismi e gli strumenti della democrazia rappresentativa: oltre al fondamento della rappresentanza, condivide con essa quello del voto. È esattamente questo il limite che la teoria del potere decisionale su base deliberativa contribuisce a superare. Infatti, è proprio dei teorici della democrazia deliberativa sostenere che questa proceda mediante una trasformazione delle preferenze tramite l’argomentazione, piuttosto che attraverso la votazione come succede nella democrazia rappresentativa. La trasformazione delle preferenze è in effetti il meccanismo che dovrebbe permettere di prendere una decisione senza ricorrere alla votazione. «Piuttosto che aggregare le preferenze (create in modo esogeno) o filtrarle, la democrazia deliberativa procede attraverso una trasformazione delle preferenze durante la discussione» (Elster 1997; e anche Manin e Blondiaux 2002). La deliberazione è tipicamente «un processo attraverso il quale le preferenze iniziali vengono trasformate in modo da prendere in considerazione i punti di vista degli altri» (Miller 1993, p. 75). Nelle parole di Dryzek, «la democrazia deliberativa richiede la trasformazione delle preferenze in una interazione» (Dryzek 2000b, p. 79). Questo avviene con un processo argomentativo in cui vengono scambiate ragioni a supporto delle diverse posizioni. La qualità essenziale della teoria della democrazia deliberativa consiste in questo: è attraverso l’argomentazione che Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 113 i partecipanti al processo deliberativo si convincono a vicenda e raggiungono le decisioni. Seguendo questa linea, la democrazia deliberativa si basa sulla ragione: le persone vengono convinte dalla forza dell’argomento migliore. Il dibattito si concentra nel trovare ragioni sostenibili (Ferejohn 2000). Nello specifico, la deliberazione si fonda su flussi comunicativi orizzontali, su produttori molteplici di contenuti, su ampie opportunità di interazione, sul confronto in base ad argomentazioni razionali e sull’ascolto reciproco (Habermas 1996a). Quando la democrazia deliberativa valuta in tal modo il discorso come una fonte autonoma di potere, essa diventa piuttosto una democrazia discorsiva. In questo modo, se nella democrazia partecipativa il maggior peso dato a coloro che decidono è il loro voto, nell’arena deliberativa il maggior peso è dato alla considerazione delle loro argomentazioni. Quando la decisione è il risultato diretto di un processo deliberativo, quella decisione assume un valore aggiunto rispetto a quella presa per votazione perché attraverso la deliberazione gli individui hanno fatto ricorso alla loro ragione. Ed è infatti un’ulteriore affermazione dei teorici della deliberazione che quando le decisioni vengono raggiunte convincendo gli altri dei propri buoni argomenti, queste sono approvabili da tutti i partecipanti (all’unanimità). In questo senso, la democrazia deliberativa è consensuale. Secondo Joshua Cohen (1989), una deliberazione ideale mira a raggiungere un consenso motivato in modo razionale grazie a ragioni che sono persuasive per tutti. In ultima analisi, la deliberazione mette gli individui nella condizione di sottrarsi al semplice appello all’interesse, in modo tale che la soluzione riveli e soddisfi ciò che è l’interesse generale sulla questione in discussione (Cohen 1989, pp. 23-24; Elster 1998). Secondo questo modello, «il dibattito politico viene organizzato intorno a concezioni alternative del bene pubblico» e, soprattutto, esso «attira le identità e gli interessi dei cittadini in modi che contribuiscono alla costruzione pubblica del bene pubblico» (Cohen 1989, pp. 18-19). Regole di autocontrollo democratico dovrebbero impedire agli individui di perseguire il proprio interesse personale (Miller 2003, p. 195). Un contesto deliberativo facilita la ricerca del bene comune o il raggiungimento di un fine comune (Elster 1998). In ogni caso, secondo Cohen (1989), «nel momento in cui non si trovassero ragioni consensuali la deliberazione può finire con una votazione». Certamente, sostiene Przeworsky (1998), «la 114 Bernard Gbikpi deliberazione (...) può mettere in luce le ragioni per le quali la decisione viene presa [per votazione] e chiarire le ragioni per le quali non dovrebbe essere presa» (p. 142). Votare alla fine di un processo deliberativo può comunque essere interpretato in qualche modo come un suo fallimento. La votazione può addirittura annullare i vantaggi della deliberazione rispetto alla votazione, che Fearon (1998) ha descritto come la prima buona ragione per la quale gli individui dovrebbero discutere una questione piuttosto che semplicemente votarla: Si può sostenere che un gruppo di persone che voglia prendere una decisione collettiva possa voler discutere la questione anziché semplicemente votare se a) la procedura di votazione non permettesse la rivelazione di informazioni private in modo altrettanto sottile e libero come nella discussione, e b) le preferenze individuali sui possibili esiti non fossero così divergenti da rendere una discussione «chiacchiere» disinformative e inutili (p. 49). Inoltre, la consapevolezza del fatto che è possibile (o necessario) un voto (segreto) alla fine del processo deliberativo può costituire un disincentivo per coloro che vi partecipano a farlo in modo sincero, o a resistere a ragioni che li avrebbero convinti, ma che non approvano perché non servono il loro interesse. La segretezza del voto permette questo tipo di brecce nell’ideale della deliberazione. Come sostiene Henry Richardson (1997), il problema di «caratterizzare [come fa Habermas] la deliberazione democratica come una ricerca della verità, e il voto maggioritario come un processo secondo il quale questa ricerca è sospesa al fine di giungere ad una decisione» (p. 356) è allo stesso tempo motivazionale e normativo. Motivazionale in quanto «se la decisione è interpretata come una semplice votazione elettorale di individui per le loro preferenze private, ci saranno minori incentivi nel portare fino in fondo la spinta verso un compromesso ragionevole» (pp. 356-357). Normativo in quanto «la mancanza di connessione tra i due stadi non riesce a fornire un modo per cui il risultato del voto sia esplicitamente e mutuamente riconosciuto come un compromesso ragionevole» (p. 357). Nonostante quanto detto, non tutti sottolineano questa tensione; al contrario, alcuni autori mostrano quanto deliberazione e votazione siano compatibili e, persino, quanto l’una possa servire l’altra. Secondo David Miller (2003), la deliberazione è utile per rispondere alle sfide che la scelta sociale pone alla teoria democratica. Queste sfide sono: Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 115 non esiste una regola per riunire le preferenze individuali che sia ovviamente giusta e razionale e, perciò, superiore alle altre possibili regole; e (...) ogni regola è virtualmente soggetta a manipolazioni strategiche, così che anche qualora producesse un esito plausibile per un dato insieme di preferenze, se tutti votassero sinceramente, l’effettivo esito sarebbe comunque soggetto a distorsioni dalla votazione strategica (p. 187). Miller mostra che la democrazia deliberativa possiede le risorse per attenuare i problemi di scelta sociale affrontati dalla comunità politica (...). La prima risorsa riguarda il modo con il quale la deliberazione può limitare lo spettro delle preferenze che devono essere amalgamate nel giudizio conclusivo. La seconda riguarda il modo in cui la conoscenza della struttura di opinione nel corpo deliberante possa influenzare la scelta della regola decisionale (p. 188). Infatti, «la [democrazia] deliberativa, proprio perché il contenuto delle preferenze delle persone emerge nel corso della deliberazione, può, teoricamente, selezionare la procedura decisionale più appropriata per il caso in questione» (p. 195). Tuttavia, nelle nuove procedure non è il solo ricorso alla deliberazione, nel senso attenuato di un dibattito ragionato prima di ogni decisione, che dà sostanza alla distinzione tra teoria partecipativa e teoria deliberativa della democrazia, ma proprio l’esito della deliberazione. Infatti, dal momento che non si può immaginare che in una situazione partecipativa vengano escluse tali discussioni, occorre che il tratto specifico della teoria deliberativa stia non nella sola discussione ma anche nel suo risultato, cioè in una decisione consensuale (unanime). L’interesse che c’è a mettere in evidenza questa differenza tra la teoria partecipativa e quella deliberativa della democrazia sta nel fatto che è tramite questa differenza che la seconda porta a un suo compimento la prima. Lo fa nella misura in cui la deliberazione, in quanto tecnica di decisione, garantisce in modo diverso dal voto, la qualità della partecipazione alla decisione, e l’efficacia delle decisioni nella fase dell’implementazione. Si può pensare che la partecipazione sia stata di qualità maggiore quando ha portato ad un consenso e non ha necessitato un voto. Inoltre, si trova rafforzata la legittimità del sistema politico che organizza tale procedura decisionale. 116 Bernard Gbikpi 3.2. Ampliare l’ambito politico L’altro punto di cruciale importanza per la teoria della democrazia partecipativa è che ai cittadini siano offerte tante opportunità di partecipazione quante sono le sfere di decisione (Pateman 1970). Tutte le opportunità di partecipazione sono esempi di crescita nei sistemi democratici in quanto producono cittadini migliori e più informati. Così, Pateman non è in disaccordo con la definizione di democrazia rappresentativa, come l’elezione di coloro che prendono decisioni a livello nazionale, né contesta che il cittadino medio raramente sarà interessato a tutte le decisioni prese a livello nazionale come lo sarebbe a quelle prese nei luoghi dove abita. Tuttavia, l’autrice sostiene che uno degli effetti del prendere parte al processo decisionale nelle aree dove gli individui passano la loro vita quotidiana, consisterebbe anche in un miglioramento del loro uso del voto a livello del sistema politico centrale. In altre parole, la pratica partecipativa rende l’individuo maggiormente preparato per valutare e apprezzare l’operato dei rappresentanti a livello nazionale e per soppesare l’impatto delle decisioni prese a quel livello sull’ambiente immediatamente circostante. Tuttavia, in questo modo, la teoria di Pateman mantiene separata ogni sfera di partecipazione. Per contrasto, il concetto di sfera/e pubblica abbatte ogni tipo di partizione o muro tra le differenti sfere della vita e porta l’ideale di democrazia partecipativa di Pateman al suo pieno compimento. Consideriamo che il principale sforzo dell’approccio della legittimità alla democrazia deliberativa consiste nel ricostruire e «delucidare» la già deliberativa «razionalità intrinseca nelle regole, procedure e pratiche, anonime sebbene intelligibili, delle democrazie esistenti» (Benhabib 1996, p. 69). La posta in gioco di questo sforzo è di rinforzare la legittimità di questi sistemi democratici. Poiché sembra non esista garanzia di legittimità migliore per un’autorità politica che il fatto che nasca da una deliberazione tra cittadini liberi e uguali, il miglior modo per conferire una rinnovata legittimità alle democrazie attuali è il riconoscimento che le istituzioni democratiche sono già fondate sulla deliberazione. Fino a questo punto, ciò che è in gioco in questa corrente sembra un esercizio puramente ideologico. Tuttavia, il gravoso compito di spiegare la razionalità di quelle pratiche muta l’esercizio in uno teoretico. Come afferma Bohman (1998), per svelare la trama deliberativa che sottostà alle Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 117 pratiche delle moderne democrazie contemporanee, devono essere costruiti dei ponti teorici tra le istituzioni rappresentative (o le teorie che le supportano) e i principi e le pratiche deliberative. Questo sforzo contiene una forzatura e un limite, ben identificati da Michelman (1997) come il passaggio attraverso «un infinito regresso di imperativi, così che non solo è un’idea che non potrebbe, letteralmente e in modo assoluto, mai essere realizzata, ma sarebbe un’idea per raggiungere la quale nessun programma potrebbe mai essere studiato, né potremmo addirittura avviarne un primo passo» (p. 151). Nello stesso filone, i teorici della deliberazione usano il concetto di sfera pubblica per unire le pratiche deliberative nella società civile al processo politico decisionale fino al punto di sostenere, alla fine, che le decisioni politiche sono il risultato di una deliberazione avvenuta in uno spazio pubblico. «Il concetto di politica deliberativa, dice Habermas, acquista un riferimento empirico soltanto quando si consideri la molteplicità delle forme comunicative della formazione della volontà politica razionale» (1996, p. 25). Habermas sostiene un modello di politica deliberativa a doppio binario, secondo il quale le procedure deliberative che operano nei campi dei processi decisionali formali dell’attività legislativa e giudiziaria sono integrate dai processi informali di formazione delle opinioni che hanno luogo nella sfera pubblica. Le procedure deliberative negli ambiti di processi decisionali formali modellano i processi di formazione della volontà collettiva con uno sguardo alla soluzione cooperativa di questioni pratiche, mentre i processi informali di formazione delle opinioni sono adeguate all’identificazione, all’articolazione e alla tematizzazione di problemi che emergono dall’esperienza della vita e del mondo. Così, mentre il pubblico delle istituzioni parlamentari è «strutturato prevalentemente come un contesto di giustificazione» (context of justification), il pubblico generale dei cittadini che si trova nelle reti associative della società civile è strutturato primariamente come un «contesto di scoperta» (context of discovery) reso possibile da una sfera pubblica non regolata dal punto di vista procedurale (Passerin D’Entrèves 2002, p. 47). Con riferimento al contesto di scoperta, le associazioni di volontariato rappresentano i nodi in una rete di comunicazioni che emerge dall’interazione di sfere pubbliche autonome. Queste associazioni si specializzano nella generazione e nella diffusione di convinzioni pratiche. Si specializzano, cioè, nella scoperta di questioni rilevanti per tutta la società, contribuendo con possibili soluzioni ai problemi, interpretando valori, producendo buone ragioni e invalidandone altre (1997, pp. 57-58). 118 Bernard Gbikpi Allora, la domanda centrale con cui si confronta Habermas è: «Come può la forza normativa delle ragioni generate dalla deliberazione pubblica dei cittadini avere un effetto sulle amministrazioni governative che rispondono solo al potere?» (Bohman 1997, XV). Habermas ha sviluppato successivamente due risposte diverse a questa domanda. Sulla scia della sua teoria discorsiva, egli ha proposto che le ragioni normative scaturite dalla deliberazione pubblica dei cittadini «diventassero effettive solo indirettamente, ovvero mediante l’alterazione dei parametri della formazione di volontà istituzionalizzata ottenuta cambiando su vasta scala atteggiamenti e valori» (id.). In questo modo, nei regimi costituzionali, i funzionari del governo sono quanto meno vincolati dagli argomenti e dalle ragioni che hanno sostenuto nella sfera pubblica. Fino a quando una «comunicazione senza oggetto» (subjectless communication) largamente diffusa tra i cittadini riesce a svilupparsi in sfere pubbliche autonome e a entrare nelle istituzioni rappresentative ricettive con un potere decisionale formale, la nozione di sovranità popolare – una società autoorganizzata in modo democratico – non è oltre il confine della fattibilità (id.). Recentemente, comunque, «mentre mantiene un’enfasi sulla sfera pubblica quale luogo principale per la formazione dell’opinione pubblica» (Dryzek 2000, p. 82), Habermas pensa ad un modello di democrazia deliberativa piuttosto coerente con le istituzioni rappresentative liberali. Così, la formazione informale dell’opinione pubblica genera «influenza»; l’influenza si trasforma in «potere comunicativo» attraverso i canali delle elezioni politiche; infine, il potere comunicativo viene a sua volta trasformato in «potere amministrativo» attraverso la legislazione (1996, p. 28). A questo punto, la teoria deliberativa della democrazia potrebbe essere vista come complementare a quella partecipativa per il fatto che tende, in ultima analisi, a considerare le deliberazioni dei cittadini nella sfera pubblica come una partecipazione «diretta» al processo politico decisionale. La visione di Pateman delle società moderne che impedisce alla sua concezione di partecipazione di avere un reale effetto sul centro politico è infranta, e chiunque partecipi, cioè prenda parte alla deliberazione nella sfera pubblica, partecipa a livello politico. Attraverso la deliberazione nella sfera pubblica, i cittadini esercitano un’influenza sulla politica decisionale al centro del sistema. Pertanto, sembra essere insito nella logica della teoria Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 119 della democrazia partecipativa il trovare la sua piena realizzazione nella teoria della democrazia deliberativa. Le nuove pratiche che abbiamo descritto all’inizio di questo articolo non hanno bisogno, però, di quest’aspetto della teoria deliberativa per essere interpretate. Di fatto, il ricorso alla teoria deliberativa per definire le nuove procedure operative nei processi decisionali dipende dalla misura in cui queste procedure incidono sulle decisioni dei responsabili politici. Qui, una descrizione e una classificazione più precisa di queste procedure sarebbe necessaria. Tuttavia, alcune di queste procedure renderebbero irrilevante questa parte della teoria deliberativa. Si prendano ad esempio procedure in cui, come nel caso della commissione NRDS (Non Rifiutarti Di Scegliere) (Bobbio 2002)7, partecipano i diversi stakeholders insieme all’amministrazione, e che si concludono con decisione quasi finali. Tali procedure aprono i processi decisionali ad attori diversi dai classici rappresentanti eletti, ma la discussione tra gli stakeholders/cittadini e gli amministratori/politici che decidono formalmente, è diretta/immediata, si svolge in un ambiente chiuso, e finisce con una decisione o quasi-decisione finale. Nessuna sfera pubblica è stata aperta qui che giustificherebbe l’uso di tutta la teoria deliberativa della democrazia. Questa teoria, nella sua parte in cui fa riferimento alla sfera pubblica, sarebbe più rilevante quando si considerano procedure come i deliberative pollings o le consensus conferences, per esempio, che sono aperte a un certo numero di cittadini ordinari, che sono mediatizzate, e che non prendono nessuna decisione politica/amministrativa, ma che mirano ad influire sui responsabili politici/amministrativi che decidono. D’altra parte, per quanto riguarda la deliberazione pubblica attraverso la sfera pubblica, questo aspetto della teoria deliberativa è ancora in fase di definizione e, in effetti, necessita di molti miglioramenti. Per John Parkinson (2003) la questione dell’entità numerica è fatale alla teoria deliberativa. L’attuale 7 La commissione NRDS (Non Rifiutarti Di Scegliere) è stata istituita da Luigi Bobbio nel 2000, per conto della Provincia di Torino, per la scelta dei siti dove insidiare due impianti per lo smaltimento dei rifiuti: un inceneritore e una discarica. Formata da amministratori locali e semplici cittadini questa commissione, ritenuta essere un’esperienza di democrazia deliberativa, ha discusso e definito i criteri per la localizzazione dei due impianti, ha discusso rapporti tecnici, ha impostato la richiesta di garanzie e compensazioni, fino ad essere in grado di proporre i due siti alla Provincia. 120 Bernard Gbikpi panorama dei lavori dedicati alla teoria deliberativa è effettivamente costituito da studi che rintracciano il processo deliberativo in ogni tipo di ambiente: deliberation within (deliberazione tra sé/deliberazione personale) (Goodin e Niemeyer 2003), la deliberazione all’interno di un partito politico (Teorell 1999), la deliberazione nelle fabbriche (Baccaro 2001), la deliberazione in parlamento (Steiner et al. 2004), la deliberazione al Congresso (Bessette 1980), la deliberazione attraverso il giornalismo pubblico (Dzur 2002), la deliberazione attraverso il cyberspazio (Dahlberg 2001, Gimmler 2001), la deliberazione nella sfera pubblica europea (Schutter 2002; Chalmers 2003), nelle giurie di cittadini (Smith e Wales 2000), nei sondaggi deliberativi (Fishkin 2003), attraverso il referendum (Uhr 2000), ecc. È quindi facile aspettarsi che più il sistema al quale si applica la decisione è grande, più arduo diventa il compito di osservare l’attuazione di una vera deliberazione; quindi, più grande è il sistema, maggiori gli stimoli teorici e minore il consenso nei fatti che lo sostengono. «Oltrepassato un numero molto ristretto di partecipanti (di sicuro minore di 20) – spiega Parkinson – la deliberazione si infrange “con l’oratoria che sostituisce la conversazione, e richiami retorici che sostituiscono gli argomenti ben ragionati”» (Parkinson 2003, p. 181). Secondo Parkinson vi è «molto poco nella comunicazione pubblica di massa, compreso gran parte del dibattito mediatico, i processi referendari su larga scala, o addirittura gli incontri pubblici, che meriti l’etichetta di “deliberativo”» (id.). Ciò che è, in ultima analisi, necessario per rendere la deliberazione coerente con i grandi numeri è (nuovamente!) la rappresentanza. Tra le scettiche riflessioni che James Johnson (1998) esprime sull’ideale di deliberazione, egli enfatizza il fatto che «una considerazione plausibile di deliberazione democratica richiede una comprensione più chiara di come le disposizioni deliberative si rapportano alle (...) istituzioni formali» che gestiscono la rappresentanza lungo linee territoriali (p. 175), e di «come le stesse procedure deliberative potrebbero operare all’interno sia di associazioni secondarie che di istituzioni politiche più formali» (pp. 175-176). Altri critici sono addirittura più radicali e trovano molti difetti o, semplicemente, non danno alcun credito all’idea della democrazia deliberativa (Sanders 1997; Walzer 1999). Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 121 4. Dalla partecipazione alla deliberazione Avendo sostenuto che il conseguimento ideale e logico della democrazia partecipativa è effettivamente raggiunto in quella che oggi definiamo come democrazia deliberativa, asseriamo infine che sarebbe stato possibile vedere apparire quest’ultima all’interno della teoria partecipativa alcuni decenni fa, ben prima che il concetto di deliberazione fosse volgarizzato. In alcune parti della teoria partecipativa infatti è possibile già rintracciare l’idea di deliberazione come qualcosa che può andare oltre il voto e sancire il consenso. Per esempio, Peter Bachrach scriveva nel 1975 che la partecipazione democratica era un processo in cui gli individui formulano, discutono e decidono le questioni pubbliche che sono importanti per loro, e che vanno ad incidere sulle loro vite. Si tratta di un processo più o meno continuo, condotto faccia-a-faccia, in cui i partecipanti hanno indicativamente uguale voce in capitolo in tutte le fasi, dalla formulazione dei temi alla determinazione delle politiche (Bachrach 1975, p. 41). Oltre a questo, la partecipazione ha valore come modo per capire la propria posizione. Bachrach aveva già visto che un punto importante per la partecipazione era il contributo che può dare, nel corso della discussione, al buon andamento del sistema di governo. Per Bachrach, possono già esserci cambiamenti di interesse non solo per la forza degli argomenti presentati nel forum, ma anche per il coinvolgimento personale nel processo partecipativo, che può mutare significativamente l’atteggiamento, la prospettiva e i valori preferenziali dell’individuo (Bachrach 1975, p. 50). Così, seppur senza usare la parola deliberazione, l’idea di quella che dovrebbe essere una partecipazione genuina corrispondeva già a quella che sarà poi chiamata, più di un decennio dopo, deliberazione, cioè una questione di contribuire al bene comune inteso come il corso d’azione preferito, individuato attraverso un dibattito con argomenti ragionevoli. Si possono trovare altri esempi notevoli di percorsi che conducono dalle teorie della partecipazione a quelle della deliberazione, senza usare in modo esplicito la parola «deliberazione». Così, per esempio, nella ricerca di Renn, Webler e Wiedemann (1995) di modelli di valutazione della partecipazione, oppure in quella di Cheryl Simrell King, Kathryn M. Feltey e Bridget O’Neill Susel (King et al. 1998) sulla questione della partecipazione pubblica autentica. 122 Bernard Gbikpi Infine, seguendo un’analisi di David Braybrooke (1975) sulle questioni concettuali coinvolte nel significato di partecipazione, è come se, una volta che ciò che è stato definito come deliberazione è apparso come la migliore forma di partecipazione raggiunta, il passo successivo sia stato quello di sostituire la parola partecipazione con la parola deliberazione. Quando esiste una parola speciale per il ruolo riconosciuto appena ottenuto, scrive Braybrooke, la parola sostituisce «partecipa»; così, una volta che la domanda è stata soddisfatta, non si parla più prontamente di partecipare, forse perché farlo suggerisce qualcosa di riduttivo rispetto ai fatti dei ruoli e della loro istituzionalizzazione. E sebbene «la domanda di partecipare sia spesso portata avanti a livello generico,» una volta che la domanda sia stata soddisfatta, essa tende a sostituire la parola partecipazione con l’esperienza che l’ha concretizzata (Braybrooke 1975, p. 57). In effetti, nel caso in discussione, da lì a un decennio, non si sarebbe più parlato di partecipare ma di deliberare. Allo stesso modo, nel suo resoconto sul cambiamento di enfasi dalla partecipazione alla deliberazione come di un cambio significativo nel progetto critico della teoria democratica, Emily Haupmann (2001) ci ricorda quella che «la maggior parte dei teorici della democrazia deliberativa, nonostante alcune critiche fondamentali della visione partecipativa, insistono ancora che la deliberazione è un tipo di partecipazione o è comunque essenziale ad essa» (2001, p. 408). Per Amy Gutmann e Dennis Thompson, la deliberazione è un tipo di partecipazione civica che richiede solo riforme istituzionali modeste piuttosto che una trasformazione fondamentale (in id., p. 408). James Bohman (1996, p. 241), da parte sua, arriva addirittura a chiamare il suo approccio deliberativo una «visione di democrazia partecipativa». Che la parola «deliberazione» dovesse prima o poi sostituire quella di «partecipazione», una volta ben chiaro che ciò che viene descritto nella deliberazione è la forma ottima di partecipazione, non vuole dire, tuttavia, che queste due parole siano intercambiabili. Vuole dire che il termine ideale della teoria partecipativa della democrazia sta in quella deliberativa. È sicuramente di questo che ci avvertono Fung and Wright quando esitano – non nel titolo ma nel testo – tra l’uso di Empowered Deliberative Democracy (Fung e Wright 2001) e Empowered Participatory Governance (Fung e Wright 2003) prima di scegliere quest’ultimo per render conto in modo approfondito delle Dalla teoria della democrazia partecipativa a quella deliberativa 123 esperienze a cui, in questa sede, abbiamo fatto riferimento solo in modo generico. [Traduzione di Claudia Costa] RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aars, J., Offerdal, A. (2000), Representativeness and Deliberative Politics, in N. Rao (a cura di), Representation and Community in Western Democracies, Basingstoke: Macmillan, pp. 68-92. Abelson, J., Forest, P.-G., Eyles, J., Smith, P., Martin, E., Gauvin, F.P. (2003), Deliberations about Deliberative Methods. Issues in the Design and Evaluation of Public Participation Processes, in Social Science and Medecine, 57, pp. 239-251. Akkerman, T. 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It explores specifically two bridges leading from participatory to deliberative theories of democracy: the first of these bridges is the weight that these theories pretend to give to the participants to a decision-taking process; the second of them is the way in which each theory widens the realm of what is political. What this paper proposes is thus a theoretical exercise. It contains four part: it first (1) provides a short assessment of the current various participatory and deliberative practices of policy-making in various European countries; then (2) it roughly considers the way in which they fit in the current rationale and structures of representative government; in a third step (3) it fully dedicates itself to the links between participatory and deliberative theories of democracy; and it finally identify foundations of such bridges in some early writtings on participation.