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la giovinezza di vittorio emanuele iii

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la giovinezza di vittorio emanuele iii
Mario Bondioli Osio
LA GIOVINEZZA DI VITTORIO EMANUELE III
Nei documenti dell’Archivio Osio
Con una postfazione di Ludovico Incisa di Camerana
Prima edizione ottobre 1998
Tutti i diritti riservati
© 2000 by Simonelli Editore s.r.l. - via G. Leopardi 2 - 20123 Milano
Direzione Operativa: via G. Verdi 5 - 20121 Milano
tel. 0289010492 e-mail: [email protected]
Internet: http://www.simonel.com
ISBN 88-86792-15-8
Queste sono pagine-saggio che non rispondono completamente all’immagine grafica del volume pubblicato
e di cui è vietata la vendita come la diffusione oltre la persona che le ha “scaricate” on line.
Ogni abuso e violazione sarà perseguito a termini di Legge per t u t e l a re i diritti editoriali e d’autore.
Simonelli Editore
«La giovinezza di Vittorio Emanuele III» di Mario Bondioli Osio © Copyright by Simonelli Editore - All World Rights are reserverd
1
PREMESSA
Sono ben novantasei gli anni che separano la mia nascita da quella, nel 1840, di mio
nonno, il generale Egidio Osio, il quale dal 9 maggio 1881 all’11 novembre 1889 ricoprì la carica di Vice Governatore dell’allora Principe Ereditario, S.M. il Re Vittorio Emanuele III di
Savoia, della cui educazione fu l’unico responsabile.
Tuttavia, il ricordo di mio nonno in casa nostra è rimasto vivissimo: storie ed aneddoti
della sua personalità e del suo carattere sono stati tramandati da mia nonna a mia madre e da lei
a me in modo da farmi sentire vicino a lui ed alla sua epoca - il Risorgimento e l’età umbertina
- molto più della gran maggioranza dei miei coetanei e forse anche di molti della generazione
precedente, nata dopo la fine del Regno di Umberto e di Margherita.
È stato proprio per il sentimento che la tradizione familiare tramandatami mi rendesse,
forse più di altri, idoneo a comprendere, sia pure istintivamente, la mentalità di quell’epoca e,
nel contempo, di dover rendere testimonianza di devozione a Casa Savoia, che mi sono deciso
a curare io stesso un’edizione completa e filologicamente corretta dei due carteggi conservati
nell’archivio di casa, vale a dire le 439 lettere di Vittorio Emanuele e le 36 lettere di Margherita.
Si tratta di testi in gran parte già noti, essendo stati pubblicati in forma giornalistica da
mio padre, Franco Bondioli: le lettere di Vittorio Emanuele su L’Europeo, nel 1950, in collaborazione con Giovanni Ansaldo; su Oggi, nel 1953, quelle di Margherita.
Inoltre, dichiarato nel 1970 l’archivio Osio di interesse storico dalla Sovrintendenza
Archivistica della Lombardia, le lettere di Vittorio Emanuele sono state in parte riportate da
Giovanni Artieri nel primo volume del suo Cronaca del Regno d’Italia 1 e da Lucia Travaini
in Storia di una passione: Vittorio Emanuele III e le monete2.
Ma pur se parzialmente noti i testi sono di difficile reperimento. Inoltre, le fonti documentarie a tutt’oggi disponibili per ricostruire l’atmosfera della Corte di Umberto e di
Margherita e, soprattutto, la vita di Vittorio Emanuele III, sono estremamente scarse.
Mi è stato, pertanto, autorevolmente raccomandato di riportare integralmente non solo
- come è ovvio - i due carteggi in forma filologicamente corretta, ma anche il testo di un dattiloscritto, versione preliminare del volume Il Generale Osio3, che mia nonna, Maria Osio
Scanzi, vedova inconsolabile a soli trentasei anni e tutta dedita alla memoria dell’adorato consorte, fece pubblicare in edizione privata di mille copie, destinate in omaggio agli amici ed
alle biblioteche dei Reggimenti.
«Queste pagine, raccolte col concorso di amici devoti» - scriveva la vedova nell’introduzione - «sono intese ad evocare la limpida ed utile vita dell’amatissimo compagno mio [...].
Ai vecchi amici ravviveranno preziose memorie, ai giovani potranno essere di esempio e forse
di aiuto».
È chiaro che, certo sinceramente, mia nonna idealizzava la figura del marito e lo voleva proporre come il prototipo del perfetto ufficiale.
D’altronde, a così pochi anni dalla morte, (il libro fu pubblicato nel 1909), in un clima
politico ancora percorso dalle stesse tensioni dell’epoca in cui i testi erano stati scritti, è comprensibile che la prudenza, la discrezione e la buona educazione consigliassero di applicare
una oculata censura, che indubbiamente vi è stata.
«La giovinezza di Vittorio Emanuele III» di Mario Bondioli Osio © Copyright by Simonelli Editore - All World Rights are reserverd
2
Purtroppo, su consiglio dell’ultimo Capo di Stato Maggiore di Osio, il Generale Carlo
Porro, destinato - come braccio destro di Cadorna - ad un ruolo importante nella prima guerra mondiale4, gli originali dei diari e delle lettere di Osio furono bruciati.
Porro ed Alessandro Riva, diplomatico ed intimo amico di Osio5, furono infatti, i principali consiglieri di Maria Osio nella redazione del volume e ad essi probabilmente si deve la
scelta di quali brani del diario fossero adatti alla pubblicazione e quali da censurare, per sempre.
Il dattiloscritto qui pubblicato segue due diverse numerazioni: da 1 a 1051 pagine dal
1 aprile 1859 al 21 ottobre 1886; nuovamente da 1 (o per meglio dire da 12, le prime 11 pagine di questo secondo blocco sono mancanti) a 1075 dal 12 gennaio 1887 al 6 settembre 1901,
data dell’ultima annotazione nel diario di Osio, che morì il 27 marzo 1902. In entrambi i blocchi sono presenti pagine inserite successivamente, tutte tratte dal diario, che recano lo stesso
numero della precedente e si distinguono per l’aggiunta di una lettera dell’alfabeto (A,B,C...).
Ciò mi induce a ritenere che il primo progetto di Maria Osio fosse di pubblicare solamente le
lettere scritte da Osio a parenti ed amici e che soltanto in un secondo tempo fossero inseriti
passi del diario accuratamente selezionati, nell’intento di presentare di Osio il ritratto più consono a quanto la vedova ed i suoi collaboratori ritenevano dovessero essere le idee, anche
politiche, di un perfetto ufficiale e gentiluomo: a tal fine sembrano tendere i passi del diario
pubblicati nel volume a stampa, spesso di una ben precisa valenza politica, che mancano nel
dattiloscritto.
Viene qui pubblicata integralmente la parte pertinente del primo blocco del dattiloscritto, integrandola con brani mancanti tratti dal testo pubblicato nel volume a stampa, mentre a partire dal capitolo sei ci si limita ad integrare i carteggi con brani particolarmente significativi ovvero omessi dal volume a stampa, cui si rimanda lo specialista che volesse ulteriormente documentarsi.
Questo perché le pagine mancanti nel primo blocco sono solo trenta e la lacuna concerne il periodo luglio - settembre 1859, in cui il padre di Osio pare subisse un grave rovescio finanziario e quindi probabilmente di questo trattavano.
Nel secondo blocco di pagine del dattiloscritto, ogni tre o quattro ve ne sono di mancanti: delle originali 1075 ne rimangono solo 489, vale a dire solo e solo in parte quelle utilizzate
nel volume a stampa, mentre vennero eliminate quelle che si decise di non pubblicare.
Un esempio, fra i tanti, delle censure apportate ai testi che oggi riterremmo più significativi ed interessanti: la lettera alla moglie da Gerusalemme in data 16 febbraio 1887 si conclude
nel volume a stampa (pag. 426) con: «L’ultima notizia politica è che Depretis sta formando un
nuovo gabinetto...». Il dattiloscritto continua a fine pagina: «Che brutta cosa in certe cir...» e successivamente mancano due pagine, per riprendere con il testo della lettera successiva, datata 18
febbraio.
Come non pensare che le due pagine mancanti contenessero considerazioni politiche?
E per le censure previamente operate prima di trascrivere il diario nel dattiloscritto:
«30 settembre 1898 - è morto il Generale Cosenz, bella figura di asceta-soldato... già
compagno ed amico del Generale Pianell..., e così la generazione dei nostri Maestri scompare,
e purtroppo gli scolari...»
«.............................................................................»
.
«Il Generale Cosenz fu sempre paternamente buono per me».
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Come non pensare che quei puntini e soprattutto quella riga di puntini tra i due paragrafi non sostituiscano giudizi ed aneddoti?
Solo recentemente, grazie alla cortese segnalazione di un colto collega, sono venuto a
conoscenza di una importante testimonianza che conferma la gravità e la pesantezza delle censure apportate agli originali. È quella del Generale dei Bersaglieri Eugenio de Rossi, che, ne
«Il Generale Osio», viene definito «già aiutante di campo della Brigata Bergamo mentre Osio
ne era comandante», cui «la redazione delle note a piè di pagina è in gran parte dovuta».
de Rossi fu dunque incaricato da Maria Osio di redigere le note per il volume a stampa, ed ebbe, quindi, ampia occasione di consultare l’originale del diario.
E così egli ne parla: «Questi album di stretto interesse personale6, erano accompagnati da un diario ove il Generale giorno per giorno, con una schiettezza ed una costanza unica,
riportava le impressioni sui fatti e sulle persone e Dio sa quante cose aveva visto e sentito
nella sua posizione alle ambasciate, a Corte e nei viaggi col Principe. Questo diario preziosissimo è rimasto inedito, salvo qualche pallido cenno comparso nell’epistolario pubblicato
dalla vedova»7.
Possibile che il più autentico ritratto di Osio non esca dalle 670 pagine dell’«epistolario», come lo chiama il de Rossi, ma sia invece quello che questi ne traccia e che viene riportato nel secondo capitolo?
Non è certo, per altro, per una diversa presentazione della figura di mio nonno che ho
curato questo volume. Mi auguro invece di recare un sia pure modestissimo contributo alla
conoscenza del nostro passato da parte delle giovani generazioni, cui la mentalità dell’Italia
risorgimentale e forse gli stessi eventi della seconda metà del secolo scorso sono sostanzialmente estranei, anche perché gli storici dell’Italia liberale, finora, hanno puntato i riflettori
soprattutto sulle vicende del socialismo.
Non altrettanto approfondito è stato invece lo studio di quella destra che traeva le proprie convinzioni politiche da una profonda quanto sincera tensione morale; che, conscia
della separazione tra “paese legale” e “paese reale”, rifiutava, per superarla, la contestazione del paese legale, ma al contrario, dall’interno di questo e con i mezzi suoi propri, sollecitava un impegno riformistico che si esplicitava pragmaticamente e con realismo nell’attenzione alla “questione sociale” sul piano politico e nel senso dello stato sul piano amministrativo e gestionale. Non per niente, «come ha raccontato Croce, Turati, negli ultimi anni,
confessava di aver sbagliato nell’attribuire alla democrazia liberale un contenuto di classe»8.
Se, infatti, pur constatando che quella destra commise molti errori e pur registrandone le ripetute e gravi sconfitte, si ripensasse al travaglio di quegli uomini alla luce della tradizione che avevano ereditato e si ricercasse ciò che essi hanno comunque trasmesso alle
generazioni successive, si potrebbe forse trovare il bandolo di un filo sottile che ancora oggi
mantiene in vita, in molti servitori dello stato o in uomini comunque impegnati nel loro quotidiano lavoro, quel senso del dovere civico e dell’amor di Patria che li conduce ad agire
anche oltre la considerazione del loro “particulare”, e che forse spiega perché tante volte si
possa parlare di “stellone d’Italia” o di miracolo italiano9.
In questa stessa ottica mi pare, altresì, necessario uno sforzo di ripensamento ed
approfondimento nel riesaminare il ruolo essenziale che Casa Savoia ebbe nella storia d’Italia e
comprendere cosa essa abbia significato per i venti lustri che vanno dagli inizi del Risorgimento
al referendum del 2 giugno 1946.
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Questa mia convinzione mi pare, del resto, autorevolmente condivisa da Giuseppe
Galasso che riconosce il ruolo fondamentale della Monarchia quale «punto primario di riferimento nella vita pubblica e nella fisionomia etico-politica del paese», ma nel contempo
lamenta che «ciò che si potrebbe definire (la) base sociale a cui risaliva la forza della
Monarchia non abbia ancora ricevuto tutta l’attenzione storiografica che merita»10.
Interpreto questa affermazione nel senso che, se non si comprende come e perché «il
bene inseparabile del Re e della Patria» fosse per almeno un secolo la stella polare dell’impegno civico e morale di tanti italiani, non ci si potrà mai spiegare come alla fine di una guerra perduta in “diarchia” col Fascismo; con alle spalle la disastrosa esperienza del governo
Badoglio; in un paese distrutto; dopo aver subito per tre anni gli attacchi convergenti dei
“repubblichini” e dei “repubblicani”, forti questi ultimi del cosiddetto “vento del Nord” proclamante “o la Repubblica o il caos”, la Monarchia fosse ancora così profondamente radicata nel cuore e nella coscienza degli italiani da ricevere, il 2 giugno 1946, i ben 10.719.284
voti11 del risultato ufficiale12.
Mediante siffatto sforzo di approfondimento storiografico si dovrebbe poter pervenire, altresì, a presentare agli italiani un ritratto dei sovrani d’Italia più obiettivo di quello finora fornito dalla storiografia dell’ultimo cinquantennio.
Solo quello magistrale di Vittorio Emanuele II da parte dello Chabod mi pare convin13
cente .
Per il resto troppo viziata da preconcetti e da ottiche politiche è, quasi tutta, la pubblicistica - in genere di stampo giornalistico - che li concerne.
Certo non era obiettivo neppure il ritratto che ne aveva fornito quella ottocentesca,
intesa, a partire da Massimo d’Azeglio, a creare il “mito” di Casa Savoia, con caratteri quasi
agiografici.
Ma a tale “agiografia” si contrappose la “demonologia” orchestrata dalla repubblica
di Salò e ripresa poi, con toni e argomenti assai simili, da quella di stampo repubblicano
prima e dopo il referendum del 2 giugno 1946.
Un’ottica distorta e sprezzante prevale poi nella maggior parte delle opere che trattano di Casa Savoia, quando gli autori riconoscono come caposcuola quel Denis Mack Smith
“dissacratore del Risorgimento moderato”14, per un giudizio sul quale - e sul cattivo gusto
dei suoi traduttori italiani - rimando al tagliente commento che Rosario Romeo dà del suo
Vittorio Emanuele II15. Tipico esponente di questa scuola è Ugoberto Alfassio Grimaldi, che
nella sua ampia e dettagliata biografia di Umberto I16 non cita nemmeno una sola volta (se
non nel titolo di un capitolo che di tutt’altro tratta) la “Questione Romana”, vale a dire la
rivendicazione del perduto potere temporale da parte della Chiesa, che è forse la principale
chiave interpretativa per la comprensione di tutta la politica interna ed estera del suo regno.
Si dimentica troppo facilmente che aver assicurato la difesa dell’unità d’Italia, tanto
fortunosamente raggiunta e così fortemente minacciata, oltre che dall’interno, dalla possibile congiunzione tra il legittimismo cattolico della destra francese e la volontà di rivincita
dello Stato Maggiore asburgico, è il gran vanto del regno di Umberto e suo personale.
Rispetto al marito17 e al figlio (su cui l’unico testo che si basi su fatti documentati e
non su illazioni è, a mio modesto avviso, quello di Lucia Travaini, già prima citato),
Margherita è stata fortunata: tra i tanti, vi è almeno un testo che - pur se giudicato “dissacrante” da Spadolini 18 - mi pare non fazioso.
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È la biografia dedicatale da Carlo Casalegno - la vittima, nel 1977, delle Brigate Rosse
- il quale, nella premessa, auspicava implicitamente che le lettere della Regina ad Osio venissero pubblicate con criteri scientifici19. Si tratta di lettere che la prima regina d’Italia scrisse, per
usare un’espressione inglese, letting her hair down (e che non si tratti solo di una metafora lo
dimostra la lettera dell’11 novembre 1890, ventunesimo compleanno del figlio, scritta a matita
mentre i famosi biondi capelli erano nelle mani della pettinatrice!), scritte cioè in assoluta libertà
e fiducia, quasi stesse chiacchierando, come ripete sovente per giustificare il tono disteso e per
nulla formale che le pervade, scritte ad un amico caro che ella stessa aveva definito, nella visita
di congedo al termine dell’incarico, mentre si chinava commosso al bacio della mano: «più che
padre, più che padre» dell’unico suo figlio.
Alle lettere della Regina si aggiungono qui, per la prima volta in modo completo e con la
massima attenzione ad una trascrizione filologicamente corretta, quelle di Vittorio Emanuele.
Infatti lo scopo di questo libro è di fornire un contributo, in primo luogo, a chi voglia finalmente affrontare il problema storico posto dalla figura di S.M. il Re Vittorio Emanuele III.
A me pare che da queste pagine emerga un ritratto del tanto misconosciuto e malgiudicato Sovrano, capro espiatorio degli errori e dei fallimenti di una intera nazione, ben diverso da
quello che appare scontato nella memoria collettiva o, perlomeno, giornalistica.
Mi auguro che esse possano anche essere utili a chi voglia scrivere di Umberto, che qui
compare, sia pure solo in prospettiva, come il perno intorno a cui ruota la vita non solo della
Corte ma anche del paese.
E sarebbe bello se potessero indurre uno studioso a raccogliere l’invito di Carlo
Casalegno, che risale al 1956 ma che è ancora oggi valido, quando affermava: «La vita autentica della Regina Margherita deve ancora essere scritta».
Mario Bondioli Osio
Bocchignano, Pasqua di Resurrezione 1998
PRIMA PARTE
Il periodo di formazione
1.
Margherita di Savoia
(20 novembre 1851 - 4 gennaio 1926)
Questo libro è essenzialmente una raccolta di documenti, che sottopongo all’attenzione del lettore come base per una sua autonoma riflessione e come stimolo ad ulteriori
approfondimenti.
Mi auguro tuttavia che, come introduzione alla lettura dei testi e per restituire a chi
legge l’atmosfera di quei tempi, possano riuscire utili i brevi cenni biografici della Prima
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Regina d’Italia, i richiami alla situazione politica generale e soprattutto i lunghi estratti da
gli Annali d’Italia del Vigo20, che riporto perché tipica espressione dell’opinione benpensante dell’epoca, di cui conservano tutto il sapore.
Margherita Maria Teresa Giovanna, figlia primogenita di Ferdinando di Savoia, Duca di
Genova e di Maria Elisabetta, Principessa Reale di Sassonia, nacque nel Palazzo Reale di Torino
il 20 novembre 1851, nell’ala detta Palazzo Chiablese.
Il padre, fratello minore di Vittorio Emanuele II, morì trentatreenne solo quattro anni
dopo e l’anno successivo, nel 1856, la madre si univa in matrimonio morganatico con il
Maggiore Nicolò Rapallo, già Ufficiale di ordinanza del Duca di Genova:
per aver posto, o misera cadesti a capitombolo
l’incauto piede in fallo da Genova a Rapallo.
Il matrimonio non influì peraltro né sullo stile di vita di Elisabetta, che mantenne la sua
piccola corte, né tantomeno ne diminuì la coscienza del proprio rango: ad una nobile dama, che
aveva lasciato trasparire un accenno critico al ceto del prescelto, rispose tagliente che la distinzione tra aristocratici e borghesi è del tutto irrilevante per i Principi del sangue, tanta è la distanza che li separa da entrambi21.
L’educazione di Margherita fu curata dal Governatore del fratello Tommaso, Marchese
della Rovere, e soprattutto dall’istitutrice, Madamigella Rosa Arbesser, austriaca di buona famiglia, entrata in servizio nel 1861, e fu quella tipica delle fanciulle di sangue reale dell’epoca, pur
se con studi forse più approfonditi di quelli prevalenti alla reggia di Torino, traendo forse
l’Arbesser ispirazione dalla Corte del Re cultore di Dante, Giovanni Nepomucemo di Sassonia,
nonno di Margherita. Peraltro Margherita stessa sapeva di aver avuto “poca base solida di studi
forti”22.
Dal tipo di formazione ricevuta derivano i francesismi, la punteggiatura alla tedesca e gli
errori di ortografia e sintassi, che ricorrono anche nelle lettere ad Osio (e che saranno riportati
grazie alla più attenta lettura della non sempre limpida calligrafia).
Il matrimonio di Margherita con Umberto, il ventitreenne cugino di primo grado, fu deciso sul finire del 1867 da Vittorio Emanuele, che ingiunse al figlio di rientrare a Torino da Milano
(dove aveva già allacciato la notoria relazione con la Duchessa Litta)23 per fidanzarsi: «Ti ho trovato la sposa».
Margherita aveva allora appena compiuto i sedici anni.
L’atto nunziale fu solennemente sottoscritto il 21 aprile 1868 nella sala da ballo del palazzo reale di Torino. All’indomani, nella stessa sala, fu celebrato il rito civile seguito dalla cerimonia religiosa concelebrata in San Giovanni dall’Arcivescovo di Torino, dagli Arcivescovi di
Milano e di Udine, e dai Vescovi di Mantova e di Savona.
Seguirono cinque giorni di celebrazioni e di festeggiamenti chiaramente intesi a lenire il
vulnus subito da Torino per il trasferimento nel 1864 della capitale del quattrenne Regno d’Italia
a Firenze.
La prima residenza degli sposi, oltre alla Villa Reale di Monza per i soggiorni estivi, fu
Firenze, a Palazzo Pitti, dove la diciassettenne Margherita assunse il ruolo di Prima Dama
d’Italia (Vittorio Emanuele era restato vedovo della Regina Maria Adelaide nel 1855), già con«La giovinezza di Vittorio Emanuele III» di Mario Bondioli Osio © Copyright by Simonelli Editore - All World Rights are reserverd
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tornata da una splendida corte di dame e cavalieri rappresentanti della più bella aristocrazia di
tutte le regioni d’Italia24.
A fregiarsi della “M” in diamanti distintiva delle dame, anche la Duchessa Litta. Ma
Margherita colse l’occasione del primo lieve ritardo nell’assumere servizio per dirsene offesa,
ed ottenne così che la Duchessa fosse allontanata dalla Corte senza scandalo25.
A Napoli, per trasparente motivazione politica, intesa a legare le nuove province alla
Monarchia, nasce l’11 novembre 1869 Vittorio Emanuele, l’unico figlio di Margherita e di
Umberto, presenti i “testimoni” prescritti dal cerimoniale di corte, Generali de Sauget e Cialdini,
salutato un’ora dopo la mezzanotte dai rituali 101 colpi di cannone.
Il 23 gennaio 1871, a soli quattro mesi dalla breccia di Porta Pia, Umberto e Margherita
fecero il loro ingresso a Roma.
Così lo descrive il Vigo:
«Vittorio Emanuele II, al quale dalle cure dello Stato non era ancora consentito di fermar
la sua stanza in Roma, aveva promesso al popolo che ve lo avrebbero intanto preceduto Umberto
principe di Piemonte e la principessa Margherita, sposa di lui col pargoletto che era nato dalle
bene auspicate loro nozze. La promessa del Re non tardò molto ad esser mantenuta: perché il
23 di gennaio entrava in Roma, in qualità di comandante del primo corpo d’esercito, dal quale
dipendevano le divisioni di Roma, Firenze, Chieti e Perugia, col generale Morra di Lavriano,
capo dello Stato maggiore, Umberto di Savoia. Il primogenito di re Vittorio aveva condotto seco
la consorte principessa di Piemonte, accompagnata dal marchese e dalla marchesa di
Villamarina. Si recarono alla stazione della via ferrata, per ricevere i Principi Reali, il luogotenente del Re, il prosindaco di Roma colla Giunta municipale, la Deputazione provinciale, le
autorità civili e militari. Lungo le vie percorse dai Principi Reali si vedeva schierata molto
numerosa la Guardia Nazionale; e dalla Guardia Nazionale a cavallo era stata costituita la
Guardia di onore: sulle piazze poi erano state disposte le milizie della guarnigione.
«Il tempo non sorrise a questo primo ingresso solenne dei principi sabaudi in Roma italiana: ma la moltitudine accorsa ad onorarli fu grandissima, e plaudì fragorosamente gli augusti
personaggi: ché il Principe di Piemonte aveva meritata renomanza per il valore e la schiettezza
dell’animo buono, Margherita giovanissima sua consorte, era già popolare e carissima per la
gentilezza e per la sua bontà, irradiate da una soave bellezza.
«Quantunque la stagione fosse piovosa e frigidissima, quale suol portarla il mese di gennaio, pur vollero i Principi Reali entrare in Roma in carrozza scoperta, per appagare la moltitudine che voleva vederli ed acclamarli; e sfilarono così per il tratto non lungo dalla stazione alla
reggia del Quirinale le tre carrozze di corte e quelle delle dame che si erano recate ad ossequiare
la principessa Margherita. Giunto il corteo al Quirinale, i Principi Reali si presentarono per due
volte alla gran loggia del palazzo per accogliere i saluti e le acclamazioni dei cittadini. Le aule
del palazzo stesso accoglievano poi le dame d’onore della futura regina d’Italia, del cui nome portavano sul petto, in un nodo di nastro azzurro, la iniziale, tutta di fulgidissimi diamanti.
«Né mancarono le acclamazioni alla gentile bellezza della principessa Margherita,
quand’essa si recò per la prima volta alla passeggiata del Pincio, e tutte le volte che insieme al
consorte e col piccolo principe di Napoli, si mostrò al popolo di Roma. Quella parte del patriziato romano alla quale il cambiato governo non era stato cagione di cruccio e dispetto, aprì le
dorate sale dei propri palazzi, finché fu consentito dalla stagione, a solenni e ricchissime feste
di ballo.
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«L’ingresso dei Principi Reali in Roma, nuova solenne affermazione dei fatti compiuti, e
preannunzio, diremo così, della venuta di re Vittorio Emanuele e della traslazione del capoluogo, fu nuova cagione di amarezza ai fautori della sovranità temporale del Pontefice. Il cardinale Antonelli, segretario di Stato, credette anzi opportuno far sentire la sua voce di protesta ai rappresentanti delle potenze straniere, non senza studiarsi di attenuare la spontaneità delle acclamazioni e dei festeggiamenti in onore dei primi ospiti reali della Città Eterna:
«Ieri 23 gennaio, a quattr’ore dopo mezzodì - così scriveva quel porporato - il Principe
Umberto e la Sua Sposa, hanno fatto il loro ingresso solenne in Roma e si sono installati nell’appartamento del Santo Padre al Quirinale, interamente trasformato, ed appropriato al nuovo
uso che si vuol farne. Perché il popolo accorresse in folla, e i Principi fossero l’oggetto di una
dimostrazione di gioia, gli avvisi del Municipio, gli articoli dei giornali, i proclami dei circoli,
avevano invitato la popolazione a recarsi in gran numero sul loro passaggio. Gli studenti
dell’Università e quelli del Liceo, installati nel Collegio Romano, donde vennero espulsi i
Gesuiti, dovettero del pari portarvisi colle loro bandiere. Tuttavia l’accoglienza presentò guari
un carattere di festa, e se si eccettua un pugno di popolaccio raccozzato nelle strade al suono
della tromba che aveva alla testa sul luogo medesimo, assordava il corteo ed applaudiva i nuovi
venuti, tutti gli altri curiosi, che sogliono riunirsi da per tutto e per un motivo qualunque, serbavano un silenzio pieno di dignità...
«Quando i due viaggiatori furono saliti al quartiere destinato a divenire loro abitazione,
quelli che durante il tragitto avevano gridato ed applaudito, si fecero a interceder la comparsa
del Principe sul balcone principale del palazzo. Questo desiderio fu prima esaudito che espresso. Si decorò infatti di un tappeto di seta rossa quella stessa loggia, dove si annunziò al mondo
cattolico l’elezione del Pontefice, sovrano di Roma, capo Augusto della Chiesa Cattolica; e il
Principe e la Principessa si mostrarono al popolo. La sera volevasi che le case fossero illuminate, ma gli abitanti non si curarono di rispondere a questa esigenza, di guisa che la città rimase
affatto immersa nelle tenebre...».
Ricordiamoci che nel 1871 l’unica illuminazione notturna delle strade di Roma era fornita dai fanali ad olio o, dal 1854 a gas, accesi davanti alle “Madonnelle”, le immagini della
Vergine sui muri delle case e agli angoli delle strade. L’illuminazione elettrica di tutte le strade
di Roma si avrà solo a partire dal 1897.
«Del rimanente, non colla sola stampa si fece manifesto allora il dissidio fra i liberali e i
loro avversari, ma in molti altri modi altresì, prendendosi occasione da predicazioni, festeggiamenti sì religiosi che civili, adunanze di sodalizii; e gli animi se ne eccitavano e rompevano a
fieri contrasti né ad alcuna delle due parti sembrava mai d’essere uscita dai limiti della moderazione, sì di rispondere a provocazioni proterve»26.
In quest’anno 1871, che può essere considerato il vero inizio del regno di Margherita,
l’Italia aveva, stando ai dati del censimento tenutosi nel dicembre, 26.801.154 abitanti.
Quintino Sella, il presidente del Consiglio, rilevava con orgoglio che nel decennio trascorso
dalla proclamazione del regno le ferrovie erano passate da 2.186 ad oltre 6.200 chilometri
(saranno 15.500 chilometri nel 1900, al termine del regno di Umberto), il telegrafo da 16.000
a 50.000 chilometri di filo; erano stati ampliati o riattivati i porti di Genova, Napoli, Palermo,
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Ancona, Livorno, Brindisi e in quello stesso 1871 era stato traforato il Cenisio “gloria dell’ingegneria italiana”.
Ma quanti sforzi erano costate queste realizzazioni, frutto di tecniche e materiali importati dagli altri paesi europei ben più progrediti e pagate a forza di vini di Puglia, arance di Sicilia
e sete di Lombardia!
E non bastavano a colmare il deficit delle finanze, che era la maggiore preoccupazione
del governo della Destra e il metro in base al quale l’opinione pubblica europea giudicava
l’Italia.
Ben descrive la situazione lo Chabod:
«Mutavan completamente gli obiettivi della politica, e dovevan mutare i mezzi: tesa, fino
al ‘70, nella volontà di completare il Regno con la Venezia e Roma prima, con Roma poi, la classe dirigente doveva ora irrigidire le energie di una tensione nonmeno accentuata e forse ancora
più aspra, ma per altre mete. A quella guisa in cui cambiava totalmente il clima politico europeo, con la caduta del Secondo Impero e l’avvento della potenza germanica, e, in Italia, con
Roma capitale penetrava addentro nella vita nazionale un nuovo, potente germe d’idee e di sentimenti, alla stessa guisa cambiavan motivi e ragioni dell’attività politica: le questioni, nelle
quali aveva a provarsi il valore degli uomini e dei partiti, divenian questioni di ordine interno,
amministrativo ed economico; non erano più - annotava l’organo magno della Destra al potere
- le questioni d’un tempo, capaci di appassionar così vivamente gli animi, non potevano più
risolversi con discorsi enfatici, e né meno con la sola audacia de’ fatti, ma richiedevano studio,
senso pratico, spirito di sacrificio. Solo col senso pratico poteva farsi la nuova Roma, la Roma
della civiltà moderna e della libertà, la Roma insomma vagheggiata dal Cavour, non la Roma
dei Cesari e della retorica tribunizia.
«E se la questione finanziaria costituì in ogni tempo e costituisce sempre un problema
politico, esulando dal ristretto campo tecnico per investire tutta la vita nazionale, in quel particolare momento di vita italiana essa diventava il problema politico per eccellenza, quello dalla
cui risoluzione dipendeva l’essere stesso della nazione. Tutto si riconduceva e si riduceva lì: salvare il bilancio statale, riuscire infine al pareggio, dar la prova, coi fatti, ad un mondo che al
pareggio del bilancio pubblico teneva ancora come ad un assioma incrollabile e non era avvezzo ai colossali deficit dei nostri tempi, dar la prova, dicevamo, che l’Italia anche passata l’euforia delle cosiddette giornate radiose era capace di vivere la vita di ogni giorno, disadorna forse,
dura e faticosa certo, che non presentava gli allettamenti esteriori, i colori e i suoni delle imprese belliche, che da troppa gente tirata su fra la retorica e allattata al “latte di eloquentia”, correva anche il rischio di esser stimata come prosaica, imbelle e da poco, ma che era in verità assai
più difficile da combattere e non meno meritoria da vincere delle stesse battaglie militari. Una
prova, che affollava di incubi certe notti del pur quadrato Sella, condotto a veder in sogno, come
in ridda, centinaia di milioni di titoli.
«Il fallimento finanziario avrebbe significato, in quel periodo storico, la fine dell’Italia
unita; e nessun prodigio in camicia rossa e nessuna abilità diplomatica alla Cavour avrebbero
più potuto rimettere insieme uno Stato che si fosse dimostrato incapace di assicurare la propria
vita finanziaria di ogni giorno»27.
In quegli stessi primi anni così difficili si crea e si consolida la fama straordinaria del
fascino di Margherita, che incanta gli ospiti col suo celebrato inchino circolare, “lento e nobi«La giovinezza di Vittorio Emanuele III» di Mario Bondioli Osio © Copyright by Simonelli Editore - All World Rights are reserverd
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lissimo” (D’Annunzio), che dava a ciascuno l’impressione di essere salutato singolarmente.
A Roma la forza politico-sociale più significativa erano - e lo rimarranno fino alla crisi
edilizia e bancaria degli anni a cavallo del 1890 che ne travolgerà la potenza finanziaria - le grandi famiglie28, di cui si poteva dire che «non c’è in alcuna altra città d’Italia un’aristocrazia che
stia al pari della romana per opulenza, per grandezza d’idee, munificenza e splendore»29. Ma la
grande aristocrazia era incomunicabilmente divisa in “bianca” e “nera”: costituire al Quirinale
una autentica corte, farne il centro della vita mondana della neo-capitale d’Italia era il miglior
mezzo per far breccia nella società “nera” e far sì che si realizzasse l’auspicio così bene espresso dal Gabelli: «Ora resta che essa veda quanto ha di suo nella patria comune e incoroni della
sua fulgida luce un trono, che si regge sulla volontà nazionale e che, senza essere una minaccia per nessuno, è una guarentigia anche per lei»30.
I ricevimenti e i balli servivano inoltre ad integrare in società la nuova burocrazia, anche
di modeste origini, che giungeva a Roma da ogni parte d’Italia e con ciò stesso legarla alla
Monarchia. Ai balli però non venivano invitate le consorti, fintantoché almeno non fossero state
presentate a Corte, ma l’alto onore veniva concesso con estrema difficoltà e ai balli erano i frac
a fare tappezzeria!
Osio così descrive in una lettera ai genitori il Carnevale del 1876 e il ballo a Corte del 20
febbraio:
«Qui continua la gazzarra carnevalesca: berberi, maschere, coriandoli, corsi di gala, moccoletti, balli all’aria aperta, fiere... e Dio sa che altro: io ho studiato una linea strategica d’operazione tra casa mia e il Ministero, per evitare il Corso; ieri sera quando alle sette circa l’attraversai per recarmi a casa, c’era un tal nembo di polvere da non poterne uscire cogli occhi sani.
«Al Quirinale ho visto Donn’Erminia Bram-billa31, la quale m’ha chiesto con premura di
voi e m’ha incaricato di salutarvi. C’era il Re, il Principe, la Prin-cipessa, i Principi ereditari di
Wurtemberg e di Baden. Insomma non si poteva fare un passo senza il pericolo di dar le spalle
- o un urtone - a qualche pesce grosso... non parlo dei Ministri e Ambasciatori, gente piccola.
«C’era una raccolta di signore, come se ne vede raramente - e che toilettes! e che diamanti!»
Il 9 gennaio 1878 moriva, (non al Quirinale, come fu fatto credere e come gli era stato
predetto molti anni prima di Porta Pia, ma a Villa Savoia, per una polmonite contratta cacciando di notte una lontra nel parco)32,Vittorio Emanuele II.
Osio così commentò nel diario:
1878, gennaio 11, Verona.
«Una cosa veramente degna di osservazione - un fenomeno altamente consolante, è lo
scoppio immediato, spontaneo e generale di dolore e di sentimento patriottico che ha seguito
l’annuncio della morte del Re!
«Qui a Verona tutte le botteghe si son chiuse come per incanto, un’imponente manifestazione di popolo si è recata al Municipio ed ha voluto che si esprimesse al nuovo Re il dolore della
Città, i pubblici ritrovi si son chiusi, le signore si vestono a lutto, la tristezza è generale.
«Ugualmente succede, a quanto leggesi sui giornali, nelle altre città - e se le notizie si
confermano e si estendono uguali anche a Napoli e Palermo, si potrà dire davvero che l’Italia
ha felicemente superato una nuova prova e delle più difficili: quella cioè del passaggio della
Corona da Vittorio Emanuele al suo successore!
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«Umberto ascende al trono in momenti assai difficili, non tanto internamente quanto
all’estero.
«All’interno fu veramente provvidenziale che la così detta prova della sinistra al potere33
cominciasse sotto il Regno di V.E.: tanti e tanti che erano giustamente sospetti di tendenze
repubblicane furono costretti, per diventare possibili al potere di fare dichiarazioni in senso
costituzionale, e di compromettersi in modo che un ritorno agli antichi amori deve ora riuscire
impossibile.
«Ma all’estero il nuovo Re sale al Trono in momenti assai difficili nei quali non sarebbero certo stati di troppo né la proverbiale abilità, né l’acume politico, né il buon senso di V.E. S’aggiunga che Umberto sempre tenuto finora all’infuori da qualsiasi centro di movimento politico, dovrà appunto ora, in momenti così difficili, mettersi al corrente di tutto e prepararsi a far
le sue prime armi diplomatiche su di un terreno dove si sentono poco sicuri i più provetti uomini di Stato.
«Frattanto il Re è morto - Viva il Re!
«Come dice Umberto nel suo proclama, i Re passano, le istituzioni restano: e l’Italia
colla sua Casa di Savoia e col suo Statuto continuerà, spero, a progredire sulle gloriose orme
tracciatele dai campioni del suo riscatto in questi ultimi trent’anni.
«Quale immensa figura sarà fra pochi anni nella storia il Re Vittorio Emanuele!
«Quando appena saranno dimenticate le debolezze dell’uomo, non rimarrà più di lui che
la memoria del Grande, il quale, raccolta a Novara una corona caduta su un campo di battaglia
e di sconfitta, l’ha portata di trionfo in trionfo sino al Campidoglio - la memoria di quel Re nel
cui nome si compendierà tutta quanta la gloriosa epopea del nostro riscatto.
«E Umberto saprà esser pari alla fortuna della sua casa? Non c’è da dubitarne.
«Profondamente buono e gentile, dotato di grande buon senso, osservatore, capace di
farsi amare da tutti, stoffa di soldato e d’eroe, italiano sino alle midolla, se anche talvolta potrà
errare, avrà però sempre in cima ai suoi pensieri il suo popolo, il suo Regno, l’Italia!
«Dio lo aiuti e lo conservi!»
Osio partecipò alle solenni esequie di Vittorio Emanuele al Pantheon, quale Ufficiale al
seguito del Principe Imperiale di Germania, che dieci anni dopo, per soli tre mesi, salirà al
trono come Federico III.
Così scrive nel diario il 26 gennaio 1878:
«Lo spettacolo che Roma presentava in questi giorni era veramente grandioso: erano
accorsi per assistere ai funerali di S.M. il Re Vittorio Emanuele il Principe di Germania,
l’Arciduca Ranieri d’Austria, la Regina di Portogallo col Principe Ereditario, il fratello del
Granduca di Baden, il Maresciallo Canrobert, e non so quali altri rappresentanti di Sovrani o
governi esteri: il Ministero della Guerra aveva fatto venire parecchi reggimenti di fanteria, rappresentanze di vari corpi, e le bandiere tutte dell’Esercito: le ferrovie avevano trasportato a
Roma circa 200.000 persone; ed è facile immaginarsi il moto, la folla, l’animazione delle contrade, dei caffè, degli alberghi.
«Pareva d’essere contemporaneamente in ognuna delle cento città d’Italia, giacché ad
ogni passo s’incontravano conoscenti convenuti a Roma d’ogni parte.
«Con tutto questo (se si eccettua qualche disordine alla ferrovia al momento della partenza per il ritorno) tutto procedette colla massima calma, nell’ordine il più perfetto e senza
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inconveniente di sorta. La condotta della popolazione fu veramente ammirabile per dignità, e
per il rispetto che dimostrò alle disposizioni delle autorità: il lungo corteggio del funerale potè
compiere il lungo percorso assegnatogli, senza essere rotto un momento solo dalla folla straordinaria che s’accalcava sul suo passaggio: eppure le truppe non presentavano che un cordone
sottilissimo! Le dimostrazioni di affetto e di dolore non andaron mai disgiunte da quel contegno
serio e dignitoso che s’addice ad un gran popolo - e gli stranieri ne rimasero tutti ammirati.
«La funzione nel Pantheon fu breve, ma commovente: il Principe Amedeo volle assistervi fino alla fine e fu visto piangere profondamente commosso.
«Non meno imponente fu la scena della seduta Reale del 19, ed ancora mi suona all’orecchio la voce vibrata e squillante di Umberto che presta giuramento e dirige le sue prime parole di Re ai rappresentanti della Nazione.
«La visita di congedo che il Principe Imperiale di Germania fece alle LL.MM. subito
dopo la seduta Reale, mi porse occasione di vedere da vicino la Regina Margherita, la Regina
Pia, il Principino di Napoli ed il Re - il quale, anzi, passandomi vicino, mi fece l’onore di stendermi la mano.
«Durante siffatta visita il popolo, accalcato in Piazza di Monte Cavallo, si mise ad acclamare alle LL.MM. le quali furono obbligate di presentarsi al balcone... a quello stesso balcone
da cui una volta si annunciava il Pontefice nuovo eletto!
«Il Principe di Germania aveva seguito il Re e la Regina, ma se ne stava alquanto indietro; invitato a presentarsi al balcone si schermì dapprima gentilmente ma insistendo il Re, egli
ebbe il gentile pensiero di prendere in braccio il Principe di Napoli e presentarsi in tal modo alla
folla.
«Gli urli di gioia e gli applausi frenetici raddoppiarono allora - e tutte quelle teste scoperte, quelle bocche acclamanti, quei fazzoletti agitati presentarono ai miei occhi uno di quei quadri
che non si dimenticano più.»
Appena saliti al trono i Sovrani iniziarono un intenso programma di visite alle maggiori
città d’Italia, durante le quali si verificarono tre di quegli episodi che accrebbero enormemente
la fama di Margherita e ne scolpirono l’immagine che la tradizione ci ha tramandato: la “conquista” del Carducci; il suo comportamento al momento dell’attentato del Passanante; e il famoso “Sempre avanti Savoia!”:
Così ne fa la cronaca il Vigo dopo questa dissertazione sui circoli “repubblicani”:
«Anche le associazioni repubblicane crebbero sotto il Ministero Cairoli-Zanardelli, suddivise in squadre o circoli, come si chiamavano, denominati parecchi di essi dal caporale Pietro
Barsanti, repubblicano lucchese, condannato a morte e fucilato il 27 agosto 1870, per aver eccitato alcuni soldati ad ammutinarsi a scopo rivoluzionario34. Ed a spiegare il significato di quest’intitolazione, bastino queste parole della democrazia repubblicana di Jesi che devota a quell’ideale al quale il Barsanti offriva impavido la vita, e pronta ad affrontar colle armi quella realtà
che esso intendeva e sperava, manifestava a viso aperto la venerazione profonda per tutti i martiri dell’Idea repubblicana.»35
(Bisogna considerare che non sempre il termine “repubblicano” stava a significare un
pericoloso rivoluzionario. Repubblicani erano piuttosto quei borghesi delle classi “professionali” - insegnanti, medici, avvocati - contestatori dell’«ancien régime», quale lo avevano conosciuto sotto i sovrani legittimi dell’Italia preunitaria, nei cui confronti, più che in quelli dell’i«La giovinezza di Vittorio Emanuele III» di Mario Bondioli Osio © Copyright by Simonelli Editore - All World Rights are reserverd
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naspettata monarchia sabauda dell’Italia unita, avevano sposato gli ideali repubblicani, di ispirazione mazziniana o derivanti dall’ammirazione per la Francia che essi fossero, e che, come lo
stesso Crispi, miravano soprattutto a rompere il monopolio sul potere che le classi aristocratiche
e possidenti ancora gestivano tramite un sistema del tutto interno di cooptazione)36.
«Nell’estate di quest’anno (1878) i nuovi Reali d’Italia avevano incominciato il loro viaggio per visitare tutti le principali città del Regno, dove le accoglienze che ebbero e gli omaggi
resi a loro mostrarono come, quantunque la debolezza del Governo avesse lasciato troppo libero il freno alle associazioni sovversive, il principio monarchico fosse radicato nell’animo degli
italiani e, generali, fatta pur ragione della parte ufficiale, la venerazione e l’affetto per il valoroso e buon Re e la gentile consorte sua. L’enumerazione dei luoghi visitati dai Sovrani d’Italia
nell’estate e nell’autunno del 1878 non solo ci porterebbe in lungo, ma darebbe alla narrazione
nostra taccia meritata di inutilmente minuziosa a cagionerebbe tedio ai lettori. Dirò solo come
tutte le principali città onorassero il Re e la Regina con patriottici e rispettosi proclami o indirizzi, con deputazioni, con feste pubbliche e popolari, luminarie, concerti, spettacoli di gala; a
come re Umberto I incominciasse in quell’occasione a rivelar la generosità dell’animo suo,
lasciando in ogni luogo cospicue somme a favore degli indigenti e degli Istituti di beneficenza.
«I Reali d’Italia avevano visitato Bologna il 4 di novembre, in un pomeriggio frigido e
piovoso. La mattina di poi, anche il Carducci si portò ad ossequiarli, e senza nessuna difficoltà,
nonché repugnanza. Sebbene di principii repubblicani, egli non aveva per la Casa di Savoja le
antipatie di altri della sua parte; ed oltreché nell’indole sua, che rifuggiva d’ogni odio basso e
covato, ciò trovava ragione in alcune considerazioni giuste e serene sulla storia del nostro rinnovamento politico. Se il popolo italiano, pensava egli, persuaso che non si potesse unificar la
patria senza la monarchia, chiamò all’impresa i Sovrani della casa di Savoja, qual colpa ne
hanno essi? Se li avesse mossi ambizione storica o politica di dinastia, sembrava all’illustre
uomo che questa avrebbe dovuto limitarsi all’Italia superiore. “Noi, noi stessi, scriveva il
Carducci, Giuseppe Mazzini a capo, li tirammo nell’Italia centrale; il generale Garibaldi le conquistò il mezzogiorno e la conquistò al mezzogiorno”.
«Egli si inchinò perciò di buon grado e senza creder di venir meno alle sue idealità di
repubblicano al Re e la Regina d’Italia. I quali, pieni di altissima reverenza pel Carducci, avevano da qualche tempo desiderato di fregiarlo della Croce di Savoja al merito civile. Ma questa,
che lo avrebbe obbligato a giurar fedeltà al Re e ai suoi successori, ponendo la mano destra sugli
Evangelii, tra due testimonii, dinanzi al ministro dell’Interno, cui spetta firmare il verbale del
giuramento, non fu accettata da lui, che ne mandò rispettosa rinunzia al ministro anzidetto
(luglio 1878). E fece tale rinunzia col dispiacere di dover apparire, non volendo, così egli stesso ci attesta, ingrato a chi lo aveva creduto degno di così nobile onorificenza.
«La regina Margherita, cultissima, gentile ed ancor fulgida di nobile bellezza, teneva in
gran pregio le poesie del Carducci e segnatamente le “Odi barbare”, che sapeva a memoria.
«Giuseppe Zanardelli, incontratosi col poeta a Ravenna, nel giugno di quest’anno, quando fu eretto il monumento a Carlo Luigi Farini, gli raccontò come Essa, ricevendolo ad udienza, lo salutasse coi versi che esaltano Brescia, e poi rifacendosi da capo, gli recitasse l’intera
ode. L’augusta Consorte di Umberto I aveva desiderio di conoscer il Carducci, ed anche questi fu lieto, nel novembre del Settantotto, di conoscere Lei, la cui vista gli suscitò una folla di
ricordi fantastici e d’immagini poetiche. Ella si mostrava, ci sia consentito riportare tal quale
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questo brano di prosa stupenda che è anche documento di storia, “con una rara purezza di linee
e di pose nell’atteggiamento, e con un’eleganza semplice e veramente superiore, sì dell’adornamento gemmato, sì del vestito (color tortora, parmi) largamente cadente. In tutti gli atti, nei
cenni, e nel muover raro dei passi e della persona e nel piegar della testa e nelle inflessioni della
voce e nelle parole mostrava una bontà dignitosa: ma non rideva né sorrideva mai. Riguardava
a lungo, cogli occhi modestamente quieti, ma fissi; e la bionda dolcezza del sangue sassone
pareva temperare non so che, non dirò rigido e non vorrei dire imperioso, che domina alla radice della fronte, e tra ciglio e ciglio un corrusco fulgore di aquiletta balenava su quella pietà di
colomba. Delle soavità di colomba, de’ sorrisi più rosei, ella, la discendente degli Amedei e di
Vitichindo, è cortese al popolo; in palazzo è regina”» (Confessioni e battaglie pag. 329).
Quanto aveva osservato e pensato nella visita dei Reali a Bologna in questi primi giorni
di novembre del Settantotto, le impressioni e ricordi che della Regina d’Italia il Carducci aveva
riportato e conservate da palazzo, le istigazioni di Luigi Lodi, lo mossero a scriver la celebre
«Ode alcaica» alla Regina d’Italia
Onde Venisti? quali a noi secoli
Si mite e bella ti tramandarono?
le cui ultime strofe salutano alla novella Sovrana, come all’inclita
a cui le grazie corona cinsero,
a cui sì soave favella
la pietà nella voce gentile.
Salve, o tu buona, sinché i fantasimi
di Raffaelli nè puri vesperi
trasvolin d’Italia, e fra lauri
la canzon del Petrarca sospiri.
Gli amici stessi del poeta provarono un senso di sorpresa; e se non mancò tra i repubblicani chi non trovò nulla da biasimare in quell’atto del Carducci, come Aurelio Saffi che incontrandolo poi sotto il Pavaglione di Bologna gli disse “Avete fatto cosa degna in tutto della gentilezza italiana”; altri lo biasimarono, lo dileggiarono, gli suscitarono contro una vera tempesta;
e gli studenti repubblicani di Bologna gli fecero una sgarbata dimostrazione ostile. Il Carducci
seppe difendersi da par suo, ed apparve anche in questa occasione la ferrea tempra del suo carattere.
... omissis ...
«I più fedeli ai Sovrani avevano trepidato per il loro viaggio, e si disse in quei giorni che
al Re ed alla Regina fosse stato dato avviso d’insidie e minacce nemiche, e che si scrivessero
anche lettere allo Zanardelli, perché tutelasse la sicurezza dei Reali con misure straordinarie di
precauzione.
«Era la domenica 17 di novembre; i Reali d’Italia, visitate le città di Puglia, erano entrati in Napoli che si era preparata a riceverli con grandissimi onori e festeggiamenti. Alle 10 e 20
un colpo di cannone annunziò alla popolazione l’arrivo del treno reale. Scesi i Sovrani nella stazione splendidamente addobbata vi avevano ricevuto gli omaggi di tutte le autorità, dopodiché
la carrozza reale col corteggio si avviava per la città alla volta del palazzo reale, tra una moltitudine veramente innumerevole che acclamava con entusiasmo non facile a riferirsi, e che stringendosi per veder il Re e la Regina, costringeva la carrozza a camminare a stento e soffermarsi
per via.
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«Giunto il corteggio reale a principio della via Carbonara un giovane di sinistro aspetto
- ci serviamo delle parole colle quali il Governo stesso notificava il nefando attentato - si slanciò sulla carrozza delle Loro Maestà, tentando di colpire il re Umberto al petto, con un’arma
affilata a pugnale di cui teneva coperta l’impugnatura con una banderuola rossa. Egli riuscì a
recare una piccola scalfittura alla parte superiore del braccio sinistro del Re ed a ferire leggermente alla coscia il Cairoli, presidente del Consiglio, in quella che Sua Maestà, colla massima
prontezza e sangue freddo, lo colpiva colla sciabola al capo ed il Cairoli con altrettanta energia e sollecitudine lo afferrava e tratteneva per i capelli, mentre la regina Margherita aveva pronunziato le parole: “Cairoli, salvi il Re!”. L’assassino venne tosto ferito anche dal capitano dei
corazzieri Giovannini, che lo consegnò alle guardie di pubblica sicurezza e municipali. Il fatto
accadde con tanta celerità che le stesse carrozze più vicine a quella reale non poterono avvertirlo. Sua Maestà la Regina e S.A.R. il principe di Napoli mostrarono nell’inevitabile commozione l’imperterrito coraggio della loro Casa. Il passaggio del corteggio reale fu un continuo
trionfo. Appena giunti i Sovrani al palazzo reale furono costretti a presentarsi al balcone per
ricevere le splendidissime ovazioni della folla plaudente e commossa. L’assassino si chiama
Giovanni Passanante, di professione cuoco, d’anni 29 ed è nativo di Salvia, provincia di
Potenza. Sulla impugnatura del coltello col quale aveva ferito l’augusto personaggio, stavano
scritte le parole : “Viva la Repubblica internazionale”.
«La notizia dell’attentato suscitò la maggiore indignazione. Tutte le città e terre della
penisola, le rappresentanze di tutte le associazioni operaie, tutte le autorità civili e militari, tutti
i capi d’ufficio o impiegati, e moltissimi privati telegrafarono al Re le loro congratulazioni, e
così anche molti Capi di nazioni straniere, pur lontanissime. Napoli la città ove si era tentato
sì grave delitto, volle dar prova singolare di affetto e di reverenza ai Sovrani, e nella sera stessa del 17 di novembre, che era giorno festivo, un corteggio di quasi centomila persone si mosse
dal Mercatello o piazza Dante, e percorrendo la via Roma, già chiamata Toledo, si portò dinanzi al palazzo reale, nella piazza detta del Plebiscito, dove protestò contro l’attentato ed acclamò
a re Umberto ed alla regina Margherita, che si mostrarono grati a sì cordiale manifestazioni di
reverenza e di affetto, affacciandosi più volte al balcone, salutando quell’immensa moltitudine
festante. Intanto in tutte le chiese d’Italia si cantava l’inno ambrosiano per ringraziare Iddio di
non aver permesso che la vita del giovine e valoroso Re d’Italia fosse stata troncata dal pugnale d’un assassino.
«Alle parole laconicamente intrepide della regina Margherita “Cairoli salvi il Re”,
profferte appena il Passanante aveva fatto atto d’uccidere il Sovrano, fu dato oltreché un senso
proprio, un significato quasi fatidico di consiglio, anzi d’ammonimento al Presidente del
Consiglio dei ministri, la cui politica, con quella dello Zanardelli, sembrava portar la monarchia sull’orlo della rovina. La storia non potrebbe dire senza offendere la verità, che il Cairoli
operasse con malafede, o che tradisse, come con gran leggerezza od acredine affermavano
alcuni, la monarchia stessa portando nuovi materiali alla costruzione di quel celebre “ponte
verso la Repubblica”, del quale già abbiamo parlato. All’indole di Benedetto Cairoli repugnava ogni atto subdolo od insidioso. Ma è certo che egli e lo Zanardelli seguivano una politica la quale, nonché spengere i moti sovversivi, doveva anzi facilitarli e incoraggiarli per il
sistema di non contrariarli o moderarli in principio, anzi per una indulgenza che non poteva
riuscire ad altro, se non a sfrenare addirittura chi voleva perturbare il paese. Nelle pubbliche
riunioni ed ai loro discorsi s’era concessa libertà soverchia, onde si erano moltiplicate, come
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vedemmo, le società repubblicane; agli agenti di pubblica sicurezza fu tolta forza, perché
dovevano mantenersi lungi da ogni severità nel difendere o nell’applicar la legge: sicché fiacchi e irresoluti si presentavano all’opera, perché, come notava Francesco Crispi, erano persuasi che se fossero stati severi, non sarebbero stati approvati dal Governo»37.
Ed Osio, Addetto militare presso l’Ambasciata a Berlino, commentava nel diario (6 aprile 1879):
«Degli avvenimenti che si sono succeduti (dal marzo 1878) in Italia uno solo è forse meritevole d’essere ricordato: l’attentato alla vita di S.M. il Re Umberto commesso a Napoli il 17
novembre, mentre il Re faceva il suo solenne ingresso in quella città: l’ignobile assassino, condannato a morte pochi mesi dopo, dalla Corte d’Assise di Napoli, è ora stato graziato dal Re, ed
anche questo fatto non ha avuto fortunatamente altra conseguenza che la caduta del Ministero
Cairoli-Zanardelli, succeduto già all’altro Depretis-Crispi ed ora nuovamente seguito da un altro
Ministero Depretis.
«Le cose d’Italia camminano purtroppo zoppe: gli interessi del Paese sono l’ultimo pensiero di Ministri e Deputati, e tutta la politica si risolve in una miseranda guerra di ambizioni
personali, ed in una serie non interrotta di intrighi di partito... Quando cesserà uno stato di cose
tanto funesto e tanto scoraggiante?»
Infine, nel gennaio 1881, il viaggio in Sicilia:
«I Reali d’Italia, avevano già da qualche tempo deliberato di secondare i desideri dei
Siciliani, ma per molte ragioni erano stati costretti a differire il viaggio. Finalmente la mattina del
3 di gennaio essi partirono da Roma alla volta di Napoli, col loro figlio Vittorio Emanuele principe di Napoli, fanciullo poco più che undicenne, col principe Amedeo, duca d’Aosta, e con
numeroso corteggio. Il tempo cattivissimo, quando essi eran partiti da Roma, continuò tale, sicché non sembrava prudenza, arrischiarsi alla traversata da Napoli a Palermo, e lo stesso ammiraglio Acton sconsigliò l’imbarco. Senonché il Re non volle prolungare ancora l’indugio e s’imbarcò sulla “Roma”, colla Consorte, disponendosi alla partenza. La stagione intanto si faceva
sempre peggiore ed alla stazione di Sparanise l’ammiraglio Acton ricevette un dispaccio che gli
annunziò che il mare si era fatto ogni ora più tempestoso, la qual cosa era come un consiglio a
ritardare ancora quel viaggio. La Regina Margherita, avuto il dispaccio lo mostrò al figlio, vi
scrisse con una matita sul margine alcune parole, che fece vedere al Principe di Napoli, indi lo
restituì all’ammiraglio Acton, ch’era ministro della marina, che lo conservò come autografo prezioso. La Regina vi aveva scritto le parole, che furono ripetute poi dall’un capo all’altro della
penisola: “Sempre avanti Savoia”. L’animoso motto fu interpretato come un ordine, ed anche un
buon augurio, e la nave salpò»38.
Ed Osio così scriveva del viaggio in Sicilia in una lettera da Berlino al fratello Pietro,
datata 23 gennaio 1881:
«...Oggi gran festa degli Ordini: il Principe Imperiale venne a darmi la mano, e a dirmi
in buon italiano il gran piacere che provava leggendo della festosa accoglienza fatta ai nostri
Sovrani durante il loro viaggio.
«Io gli risposi ringraziando ed aggiungendo che per parte mia sarò ancora più contento
quando saprò la nostra famiglia Reale ritornata felicemente a Roma. Egli mi rispose che divideva perfettamente questo sentimento.
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«Ti assicuro che tanto il Conte de Launay39 quanto io, mentre ci rallegriamo vivamente
del felice esito del viaggio, non possiamo a meno di ricordarci del Passanante, e di pensare
alla facilità colla quale un mascalzone qualunque potrebbe dalla folla tentare un colpo contro la vita del Re.
«Speriamo che nulla succeda, e che questo viaggio porti buoni frutti.
«Qui frattanto la stampa comincia ad occuparsi di mene irredentiste, a stupirsi che il
Governo lascia fare! Bisogna proprio non conoscere i nostri signori ministri per stupirsi di
certe cose: ma viceversa si ha tutto il diritto di stupirsi di un paese che si lascia governare da
gente simile... »
E certo suonò conferma ai timori dell’Ambascia-ta a Berlino, l’attentato che il 13
marzo di quello stesso 1881 costò la vita all’Imperatore di Russia, lo Zar riformatore
Alessandro II.
Tra le tante difficoltà del nuovo Stato, ancor più grave era la “Questione Romana”.
Continuava, infatti, l’ostilità del Vaticano, anche quando, nel 1878, a Pio IX successe
Leone XIII, tutto teso all’affermazione della suprema autorità della Chiesa e che considerava essenziale, al ruolo ed allo status internazionale della S. Sede, la piena sovranità territoriale su Roma. Già nel 1868 la Sacra Penitenzieria aveva enunciato il “non expedit” per cui
i cattolici non dovevano essere “né eletti, né elettori”; che Pio IX confermava nel 1874 e che
nel 1886 il Santo Uffizio precisava comportare una vera e propria proibizione ad andare alle
urne40.
Veniva tolto così al nuovo stato un apporto essenziale, ed il compito della sua costruzione restava esclusivamente sulle spalle delle forze politiche “liberali”.
Compito di tale gravezza da far dire esser stato simile «a quello proprio d’un gruppo
dirigente giacobino, un gruppo che si disponga cioè a piegare d’autorità la vita profonda di
un paese sulla via che eventi politici improvvisamente precipitati hanno appena fatto intravedere»41.
Nella lotta “senza quartiere” che il Vaticano conduceva contro il nuovo Stato, venivano direttamente coinvolti anche i Sovrani, non fosse che nella “guerra dei cuscini” su cui
inginocchiarsi recandosi a messa o per le chiese che si chiudevano loro in faccia - come S.
Luigi dei Francesi in occasione di un funerale cui avrebbe dovuto assistere Umberto - anche
se, nel 1879, Leone XIII consentiva che la cappella del Quirinale, interdetta alla celebrazione della messa nel 1870, fosse ribenedetta e riaperta al culto, come Margherita gli aveva sollecitato. «La Regina ne fu molto lieta e gratissima al Papa»42.
Ma in Vaticano v’era sempre chi continuava a sperare che un affermarsi in Francia
della destra legittimista ed ultra cattolica, pronta a sostenere la rivendicazione del Papa,
alleandosi alla cattolicissima Duplice Monarchia, portasse ad una riconquista austriaca del
Veneto, (eventualità questa che nel marzo 1888 Leone XIII fece prospettare al Bismarck dal
suo rappresentante ai funerali di Guglielmo I, Mons. Galimberti)43 ed alla restaurazione del
potere temporale.
Pericoli questi che non scomparvero mai del tutto, anche se da parte francese si attenuarono molto dopo il crollo, nel 1889, del fenomeno boulangista ed il “ralliement à la
Republique” che Leone XIII operò nel 1890 e che trovò espressione nell’enciclica diretta nel
1892 al Clero francese “Inter innumeras”. Da parte austriaca invece ancora nel 1911 lo Stato
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Maggiore, appoggiato dall’Arciduca Francesco Ferdinando, Principe Ereditario, preparava
una guerra preventiva contro l’Italia: è il noto episodio che portò alle dimissioni di Conrad,
dal 1906 Capo di Stato Maggiore44, che ne era il più tenace sostenitore.
Nel contempo - pur conclusasi la drammatica fase del brigantaggio - continuavano i
contatti degli intransigenti con Maria Sofia, l’esule regina delle Due Sicilie, passata da Palazzo
Farnese a Parigi, sempre pronta a finanziare anche i più squalificati avventurieri nella speranza
che le aprissero la strada per la riconquista del trono.
Questa è la tela di fondo dell’epoca in cui i Sovrani d’Italia sono chiamati ad operare per
consolidare l’unità del paese, affermare il prestigio della Monarchia e del governo, placare i
sospetti delle potenze straniere.
Se la Questione Romana e quella della finanza rimasero le preoccupazioni principali,
maturavano nel contempo anche le due crisi di politica estera che Umberto si trovò a dover
affrontare salendo al trono: quella di Tunisi con la Francia e la ripresa del movimento irredentista rivendicante Trento e Trieste, che comprometteva i rapporti con l’Austria-Ungheria.
Le fasi di questa duplice crisi possono qui essere solo accennate.
La guerra turco-russa dell’aprile 1877 portò l’anno successivo al Congresso di Berlino,
da cui l’Italia uscì “con le mani nette” vale a dire debole e isolata, mentre la Francia poneva l’ipoteca su Tunisi che le avrebbe consentito l’occupazione nel 1881 e l’Austria Ungheria si estendeva nei Balcani occupando la Bosnia-Herzegovina. La sinistra non nascondeva le sue simpatie irredentiste, anzi Cairoli, Primo Ministro alla morte di Vittorio Emanuele, era stato uno dei
principali promotori di quei moti, cui ben volentieri si associavano i circoli repubblicani, che suscitando l’ostilità di Vienna ed anche di Berlino - facevano sì che l’Italia si trovasse isolata
davanti all’espansionismo francese nel Mediterraneo, visto con benevolenza sia da Londra che
da Berlino.
In questa difficile situazione tutto poteva aiutare e «gli italiani videro con gran compiacimento», scrive il Vigo, il viaggio che nel 1881 portò Umberto e Margherita a Vienna dove furono splendidamente ricevuti, anche se, malgrado la presenza del Presidente del Consiglio,
Depretis, e del Ministro degli Esteri, Mancini, non produsse visibili risultati politici.
Ma esso diede l’impressione di consolidare i rapporti tra le due dinastie e sembrò garantire che gli Asburgo avessero abbandonato qualsiasi sogno di rivincita che li portasse al riacquisto del Veneto e con ciò stesso aprì la strada alla conclusione, l’anno successivo, della
Triplice Alleanza che avrebbe rotto l’isolamento diplomatico del giovane Regno.
Così ne scriveva Osio nel diario:
Monza - 1881 Novembre 1 martedì:
«... alle 8 ci rechiamo alla stazione per andare incontro alle LL.MM. reduci da Vienna.
«L’impressione generale dei reduci è eccellente, e tutti cantano le lodi della corte
austriaca, e magnificano la gentilezza, la cordialità, l’amichevole espansione con cui sono
stati accolti e trattati dai Sovrani e Principi, dai personaggi di Corte e di Stato e da tutta quanta la popolazione.
«Il viaggio è certamente un grande atto politico, e può essere foriero di grandi e felici
avvenimenti per il Paese: ma tutto dipende da ciò che gli farà seguito non solo all’estero ma
anche all’interno.
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«Il viaggio è in poche parole il primo passo su una strada a tappe obbligate: fatto quel
primo passo, bisogna seguitare sulla stessa strada - se non si vuole esporsi a smarrirsi intieramente.
«Alle 2 dopo mezzogiorno ho avuto la grata sorpresa di una visita di Tosi45, ora ministro
a Belgrado, reduce egli pure da Vienna dove ha accompagnato Mancini: egli è stato, col Blanc
e col Robilant, uno dei cooperatori al viaggio di Vienna, ed ha saputo far molto bene, nascondendosi in pari tempo e lasciando credere agli altri ch’eran loro che facevano.
«Giunto alle 2 fece merenda col Principe e con me: poi venne da me a chiacchierare mentre il Principe faceva il suo dovere: poi gli facemmo fare una trottata nel Parco e finalmente lo
accompagnammo alla stazione del Tram per Milano.
«Chissà quando lo rivedrò».
Già dal 9 maggio di quell’anno, infatti, Egidio Osio, promosso l’8 novembre 1880
Tenente Colonnello, aveva assunto servizio al Quirinale, quale Vice Governatore del Principe di
Napoli. Vice perché la tradizione, seguita sia con Vittorio Emanuele che con Umberto, voleva
che Governatore del Principe Ereditario fosse un Tenente Generale, insignito del Collare
dell’Annunziata46.
...il racconto attraverso i documenti
inediti dell’Archivio Osio
continua
in
«La giovinezza di Vittorio Emanuele III»
di
Mario Bondioli Osio
pp.864, con illustrazioni, L.70.000
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