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Sport femminile e abbandono precoce

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Sport femminile e abbandono precoce
Extrascuola
Marisa Colombo
Sport femminile
e abbandono precoce
D
ati recenti fanno coincidere il picco del drop–out
femminile – ovvero l’abbandono della pratica sportiva –
con l’inizio dell’adolescenza, cioè intorno ai 14 anni.
Quando mi decido a scrivere questo
articolo sono appollaiata sugli spalti
del palasport, in attesa di mia figlia
che nella palestra attigua sta svolgendo il corso di karaté. Sul campo
si sta allenando una squadra di pallavolo femminile di alto livello. In
questi momenti posso osservare,
fuori dalle pagine dei mass media, la
macchina squadra: coach, assistenti,
preparatore e dirigente si adoperano
per garantire la massima espressione
del talento. Questa utopia si dissolve subito ricordando che poco prima
sullo stesso campo si è allenata una
squadra di giovani promesse che in
comune con queste atlete ha solo il
cromosoma X. Immediatamente la
riflessione porta all’analisi di quanta strada ogni singola campionessa
abbia dovuto percorrere per arrivare
a quell’eldorado, a quella situazione
apparentemente idilliaca. La fatica è
la costante che accompagna la donna
che esprime il suo talento sportivo.
Questo è ovviamente un fatto in comune con i rappresentanti dell’altra
metà del cielo ma per le donne sembrerebbe esserci una maggior valenza. La motivazione infatti si aggiunge agli aspetti che progressivamente
allontanano, demotivano e fanno abbandonare lo sport a moltissime giovani. Il drop–out è l’abbandono della
42 La Rivista di Educazione Fisica, Scienze Motorie e Sport | Settembre 2011
pratica sportiva – che per le ragazze
è massimo intorno ai 14 anni - basato
soprattutto su ragioni psicologiche:
se non sono presenti infortuni che
generano paure, intervengono gli stereotipi sociali, la moda, la mal sopportazione della fatica, la mancanza/
perdita di divertimento, la stretta
correlazione tra psiche e soma che
condiziona e accompagna tutta la rivoluzione adolescenziale e le paure/
difficoltà dei i nuovi cicli scolastici.
Mi vengono in mente le giovani pallavoliste scese in campo prima delle
campionesse: innanzitutto il numero,
quasi certamente la metà delle ultime, e poi gli atteggiamenti. Le giovani eccellenze ridevano, le ragazzine
erano quasi tristi, costrette a ripetere
innumerevoli volte il gesto tecnico
richiesto dal coach che invece di incoraggiarle utilizzava un linguaggio
non troppo elegante. Ciò nonostante
negli ultimi anni si stia osservando
un progressivo aumento delle pick–
performance al femminile. Viene da
pensare che nonostante la brutta figura del coach delle ragazzine, il lato
rosa dello sport sia molto presente
e si faccia sentire a suon di risultati.
Questo contrasto deve meglio indirizzare la nostra attenzione (perché
l’eccellenza proviene dalla selezione
naturale di pubblico che deve diventare sempre più grande) e migliorare
gli adempimenti verso le delibere che
la politica sociale europea ha fatto in
tema di sport (cinque funzioni: sociale, culturale, ludica, educativa e sanitaria).
Rimane fra le nostre mani la crescita esponenziale del drop-out soprattutto in età adolescenziale perché lo
sport non occupa un posto da protagonista. Nella filosofia dei più lo
sport è associato solo al divertimento
e quindi relegato a una condizione di
attività che può essere superflua e di
cui si può quindi fare a meno. Ma è
realmente così? Chi ha competenze
specifiche sa che l’attività fisico-motoria coadiuva l’omeostasi metabolica del glucosio ed è così protagonista nel mantenimento dell’equilibrio
bio-psichico dell’organismo nella rivoluzione adolescenziale caratterizzata da svariate emozioni. Potrebbe
essere sufficiente richiamare il detto
antico mens sana in corpore sano
ma l’evoluzione culturale che ha
accompagnato gli ultimi trent’anni
non è stata edificante nei confronti
dell’individuo di sesso femminile. Le
banalità che l’attualità ci fornisce abbondantemente non sono altro che il
risultato di anni in cui l’immagine e
il canone di bellezza hanno trovato
sfogo nella filosofia del tutto e subito. Alcune delle motivazioni emerse
nello studio del fenomeno del dropout femminile hanno evidenziato
gli aspetti della necessaria estetica
e della troppa fatica. Il fisico di una
atleta è robusto e il concetto di robustezza non coincide con la taglia
38 delle sfilate di moda e con l’idea
di femminilità legata alla sinuosità
delle canne di uno stagno. Se e qualora si decide di fare sport i risultati
agonistici non sempre collimano con
il grado di fatica (intesa come fisica
e mentale) che l’individuo vuole compiere in un lasso di tempo lungo. E
nella piramide di Maslow applicata
nella nostra società a un adolescente non si trovano mattoni con scritto
bisogno di nutrirsi oppure bisogno
di vestirsi, ma piuttosto parole come
apprezzamento, appartenenza e riconoscimento. Il piacere del gioco non è
più prioritario.
Purtroppo anche il mondo dello
sport sta adottando questo tipo di
comportamento: l’aspetto ludico,
di cui legifera anche l’Europa, non è
contemplato nello sport di quest’età.
La richiesta è di altissima specializzazione con le difficoltà di dover coordinare la taglia 38, il rendimento
scolastico, l’uscita in discoteca e il
gruppo di amiche che non frequenta
la palestra. Probabilmente la soluzione al problema dell’abbandono non
è singola ma passa dalla necessità di
vedere prima l’individuo e solo poi il
futuro campione, e di adottare tutte
le strategie delle nuove scienze sociali - come il marketing - affinché
il potenziale valore positivo dello
sport possa essere cosa di tutti. Sono
estremamente convinta che lo sport
come tutto ciò che deriva dall’uomo
sia per l’uomo e non viceversa e che
sia arrivato il tempo per invertire un
atteggiamento involutivo dell’uomo
stesso.
Settembre 2011 | La Rivista di Educazione Fisica, Scienze Motorie e Sport
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