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Vittorio Marangon IL MOVIMENTO CATTOLICO PADOVANO I
Vittorio Marangon IL MOVIMENTO CATTOLICO PADOVANO Parte I (1875-1945) Centro Studi Ettore Luccini Padova - 1997 INTRODUZIONE Essendovi modi diversi di intendere l’espressione “movimento cattolico”, si ritiene opportuno esplicitare come qui viene intesa. Il termine “movimento” viene recepito nella sua accezione più ampia per cui lo si definisce come “un processo di natura economica, sociale, politica, talvolta comprendente tutti questi aspetti con prevalenza dell’uno o dell’altro, di rilevante durata e importanza storica, che si ispira a un patrimonio comune (anche se internamente non del tutto coerente) di bisogni consapevoli, aspirazioni, valori, ideologie e obiettivi, e che coinvolge (o tende a coinvolgere) gruppi sociali molto ampi (classi o aree culturali o altre categorie di persone che abbiano in comune qualche caratteristica sociale considerata importante) dando luogo a una molteplicità di gruppi organizzati di vario tipo (partiti, sindacati, associazioni) spesso in antagonismo o comunque in tensione dialettica fra loro, senza però identificarsi in nessuno di essi e neppure esaurirsi in essi, tendendo a produrre cambiamenti socioculturali profondi e permanenti” (1). Conseguentemente l’espressione “movimento cattolico” sta ad indicare l’insieme di idee, di programmi, di fatti associativi che connotano l’impegno dei cattolici nella vita sociale e politica (nella cultura, nell’educazione, nel sindacato, nelle istituzioni) e che, facendo riferimento all’ispirazione cristiana, muta a seconda dei tempi, dei luoghi e delle circostanze, quindi non univoco, come, del resto, è avvenuto per gli ordini religiosi (2). Nella storia del movimento cattolico, così definito, si possono fino ad oggi distinguere tre grandi fasi. La prima abbraccia il periodo che intercorre tra le origini e la fine delle seconda guerra mondiale; la seconda va dal 1945 al dissolvimento della DC e la terza, ancora magmatica, è quella attuale. Mentre nella prima fase il movimento cattolico, inizialmente condizionato dal “non expedit”, è prevalso l’impegno sociale, la seconda è stata caratterizzata dalla partecipazione politica. Questo lavoro si limita alla prima fase nei suoi tre momenti essenziali: la nascita e lo sviluppo del movimento cattolico, il difficile periodo del ventennio fascista, la partecipazione alla lotta resistenziale. Si cerca di mettere in luce come rimanga determinante in tutti e tre i momenti, almeno nella diocesi di Padova, il ruolo dell’Azione Cattolica, cioè sostanzialmente della Chiesa dal momento che, secondo la definizione allora corrente, essa era “la partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico della Chiesa” con tutte le implicanze e conseguenze positive e negative. Conseguenze positive perchè, mentre il fascismo ha demolito tutte le opere sociali cattoliche dalle casse rurali alle cooperative, dalle leghe alle assicurazioni, non riuscì a farlo con l’Azione Cattolica, difesa con fermezza e tenacia da Pio XI che, invece, ha abbandonato a se stesso il Partito Popolare e rinunciato alle opere sociali. Negative per il fatto innegabile che la subordinazione gerarchica ha fatto sì che al laicato cattolico fosse concessa una autonomia limitata. Ciò ha condizionato la sua crescita, pagata con una presenza debole e insufficiente nei successivi processi di modernizzazione e secolarizzazione. Sarà questo uno dei temi principali sviluppati nella seconda parte della ricerca. Inoltre si affronta, ancora non esaustivamente e limitatamente al livello locale, il contestato nodo dei rapporti tra Chiesa e dittatura fascista, cercando di dimostrare che il consenso era di facciata e che sostanzialmente il popolo delle nostre parrocchie non diede al 4 fascismo altro che una adesione esteriore, come del resto è avvenuto in tutte le dittature, secondo la prassi millenaria del “primum vivere”. Infine, e non da ultimo, si intende dimostrare, contro una indifferenza generalizzata o frequenti deformazioni storiografiche, che quella dei cattolici, anche a livello locale, è stata una grande storia la quale non sfigura affatto nel confronto con altre altrettanto importanti. Note: (1) Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Volume XI, p.27. (2) Cfr. Francesco Malgeri in Dizionario delle idee politiche, Editrice Ave 1993, p.516. 5 6 Capitolo I IL VENETO POVERO E ARRETRATO CHE ENTRA NEL REGNO D’ITALIA Il territorio padovano, che nel 1866 entrava a far parte del Regno d’Italia, era un’area economicamente e socialmente arretrata. Si reggeva infatti su un’economia essenzialmente agricola, cui corrispondeva una fragile struttura del mercato, una lenta circolazione del danaro, assai limitati investimenti fondiari. La proprietà era per lo più concentrata nelle mani dei grandi proprietari terrieri, in genere retrogradi e sordi ad ogni istanza sociale, arroccati nei propri privilegi; secondo l’inveterata tradizione dell’aristocrazia veneziana. Essi, come scrive Cozzi(1), ritenevano che il cattolicesimo veneto costituisse “un elemento fondamentale per la società dei patrizi” in quanto “garantiva il rispetto per la gerarchia, per l’autorità, ispirava ai popoli le norme morali indispensabili per una buona convivenza nell’ambito statuale, era per loro un freno, un invito all’ordine, all’accettazione rassegnata e serena della loro sorte di sudditi”. Amministravano per interposta persona, i tanto malvisti e malfamati “fattori”. Preferivano la conduzione mezzadrile all’affitto, poiché così si garantivano un reddito senza rischi e senza investimenti e, per di più, potevano fruire di servitù personali a titolo gratuito, prestate di solito nella “corte” annessa alla villa padronale (dove dovevano subito accorrere al suono dell’apposita campanella) e di regalie (le “onoranze”). La campagna era (come ora) fittamente popolata e intensamente coltivata: l’81 per cento della superficie agraria era a “seminativo arborato” contro il 65 per cento nella provincia di Rovigo e il 63 per cento nelle province di Treviso e Verona. La nostra provincia con il 66,2 per cento della popolazione residente nelle case sparse, disseminate tra i campi (si tratta della tipica abitatività diffusa) è seconda in assoluto in Italia dopo Modena. Mentre nella Bassa è consistente la dimensione dei fondi per la cui coltivazione i proprietari si servono delle diverse figure bracciantili (accordati, obbligati, disobbligati, bovai, avventizi), nell’Alta prevalgono le “cesure” (2-10 campi) e le “campagnole” (10-28 campi) condotte direttamente; abbastanza diffusa è anche la mezzadria. Il lavoro è duro perché la natura è prodiga ed avara allo stesso tempo. La produzione è strettamente legata all’andamento stagionale. Per i fittavoli e i mezzadri i contratti sono quasi sempre verbali e di durata annuale: il “fare San Martino”, cioè il traslocare alla fine dell’annata agraria, è quindi frequente e considerato un evento ineluttabile come le calamità naturali (la grandine, la siccità, le gelate primaverili, la moria del bestiame...). Si diceva: “San Martin, San Martineo, poco vin nel careteo, pochi schei nel tacuin, riva, riva San Martin”. Così i contadini, data la precarietà dei contratti, si guardavano bene dal procedere ad investimenti ed i proprietari facevano altrettanto perché ricercavano una rendita immediata. Continua è la lotta per la sopravvivenza. L’alimentazione è povera; l’alimento base è la polenta perché il frumento bisognava venderlo per pagare l’affitto o darlo al padrone. Oltre alla polenta (da cui l’attributo di “polentoni” dato ai veneti e di “civiltà della polenta” alla nostra cultura) l’alimento principe sono i fagioli e le 8 patate unitamente alle carni insaccate del maiale, il “salvadanaio” delle famiglie contadine. Le donne allevano il pollame che serve per le loro piccole spese: periodicamente passa il “polastraro” in bicicletta con le gabbie e le sporte o col carrettino per raccogliere polli e uova. La bevanda usuale è il vino, ma anche (specie nei periodi di magra) il vinello e la “graspia” ottenuta facendo fermentare le vinacce con acqua. La concimazione è esclusivamente animale fatta con il letame o stallatico. La rotazione agraria rimane immutata nel tempo: granoturco, frumento, erbaio. La casa rurale ha un’architettura molto semplice ma funzionale con stalle portico e fienile. I più poveri abitano nei “casoni”, monolocali con il pavimento in terra battuta e il tetto di paglia. Per l’illuminazione ci si serve di lumi ad olio e poi a petrolio. Suggestivo e unico nel suo genere è il paesaggio rurale con la caratteristica “piantata veneta”, cioè il seminativo arborato, in cui gli spazi coltivati a cereali o ad erbaio si alternano con filari di viti, sostenute da gelsi, noci o altre piante. Sotto il profilo sociale si avverte una consistente frattura tra gli abitanti dei centri (i ”paesi”) e i contadini; sono in pratica due mondi che vivono separati con due distinte culture, come del resto avviene tra città e campagna, il “contado”. Padova, dalla Patavium di Tito Livio e di Augusto, è stata per due millenni un centro agricolo e commerciale in cui, di conseguenza, hanno sempre esercitato un ruolo egemone la proprietà fondiaria e i commercianti. Di qui una classe politica cittadina istintivamente e tradizionalmente conservatrice, che privilegia l’immobilismo sociale fino all’inerzia. Nei paesi c’è l’artigianato funzionale ai bisogni di un’economia agricola povera ed una popolazione contadina con assai limitate capacità di acquisto (fabbri, maniscalchi, calzolai, sarti). C’è il 9 mercato, occasione di incontro; ci sono osti e bottegai. L’osteria, di solito, preclusa al prete che la vede come un pericolo (vi si bestemmia), ha una funzione sociale assieme ai “filò” nelle stalle durante le lunghe serate invernali che sono scuola di socializzazione, di manualità e di immaginazione. Non c’era stato alcun sviluppo industriale. Era stato sì inaugurato, ancora il 12 dicembre 1842, il tronco ferroviario (il terzo in Italia), Marghera-Padova della “Imperial Regia privilegiata strada ferrata lombardo-veneta” con tre corse al giorno, seguito nel 1849 dal tratto Padova-Vicenza. La ferrovia favorirà diversi anni dopo la nascita di quella che può essere considerata la prima zona industriale padovana nelle vicinanze della stazione. Ma per decenni le uniche attività industriali rimangono le filande, le fabbriche di laterizi e i forni di calce, i mulini, le cave. Non si può dire che le filande avessero effettiva valenza industriale, però per buona parte del secolo scorso, costituirono una rete di presenza manifatturiera nella campagna padovana e veneta capillarmente diffusa e collegata all’allevamento del baco da seta che ai primi di giugno dava il primo reddito dell’annata agraria. Una delle prime ed importanti filande fu quella fondata a Monselice nel 1846 da Maso e Giacobbe Trieste, con macchinari d’avanguardia (le bacinelle a vapore). In città, nei primi anni dopo l’annessione, ci sono solo due aziende moderne, la fabbrica di panni Marcon con una settantina di dipendenti e la fonderia Benech e Rocchetti con un centinaio. Per l’annessione non c’è alcuna partecipazione popolare e la spiegazione del “sì” pressoché unanime al plebiscito di annessione si spiega in buona parte con l’atteggiamento favorevole del Vescovo, desideroso di stabilire buoni rapporti con il nuovo assetto istituzionale. I preti obbediscono alle direttive del Vescovo (era Manfredini, noto per i suoi sentimenti filo-austriaci) ma c’è qualcuno che dà sfogo ai propri sentimenti. Il parroco di Monselice, 10 quando nell’estate del 1866 transita per il paese Vittorio Emanuele II diretto a Padova, scrive nel registro dei battezzati: “In questo giorno infausto in cui entrò in Monselice il Re massone Vittorio Emanuele II, io sottoscritto ho battezzato...”. La gente ha l’impressione che a volere l’annessione al Regno d’Italia fossero i “siori” per il loro tornaconto. In realtà l’unificazione mette il contadino veneto in condizioni di svantaggio rispetto al grano emiliano, ai bozzoli lombardi, ai vini meridionali. Lo svantaggio viene accentuato tra il 1882 e il 1883 dal deprezzamento dei cereali sui mercati internazionali. Così le condizioni di vita delle popolazioni rurali peggiorano in concomitanza anche con eccezionali calamità meteorologiche, malattie della vite e del baco da seta. Inoltre, per una serie di concause, immediatamente dopo l’Unità il livello di vita delle popolazioni rurali peggiora e tocca il culmine nel corso degli anni ‘80 con la crisi dell’agricoltura: deprezzamento dei cereali sui mercati internazionali; eccezionali calamità meteorologiche, malattie della vite e del baco da seta. Aumenta la pressione fiscale, scaricata sui fitti, in conseguenza dei dazi sui consumi: è del 1869 la tristemente nota “tassa sul macinato” definita la “tassa sulla fame”. Si diffondono epidemie; tra il 1884 e il 1886 le nostre popolazioni sono colpite dal vaiolo e dal colera. A causa dell’insufficiente alimentazione, si diffonde enormemente la pellagra definita “malattia della povertà” (morbus miseriae) il cui esito è talvolta la pazzia. Di qui le espressioni, rimaste per decenni nel linguaggio locale: “gheto el colera?” e “te salta la pelagra?”. Secondo i dati del Ministero dell’Interno (1890) nella provincia i casi di pellagra erano 22.000; in certe zone si arrivava a percentuali di pellagrosi tra il 15 e il 20 per cento della popolazione, tanto che si arrivò a distribuire gratuitamente il sale. 11 Accanto alla miseria c’era l’analfabetismo. Nel camposampierese (1871) gli analfabeti maschi sono il 73,5 per cento della popolazione e le femmine l’88,4. Per tutto l’800 le classi sono numerosissime (mediamente 70-80 alunni) con un profitto assai basso. Ancora nel 1901 il 62 per cento dei residenti nel Comune di Padova è analfabeta e su una popolazione provinciale di 459-930 abitanti ci sono solo 674 insegnanti nel rapporto di un insegnante ogni 682 persone. I numerosi poveri (c’erano i mendicanti, i “poareti”, che giravano di casa in casa e chiedevano la carità “per amor di Dio” ricevendo spesso una scodella di farina che mettevano nel sacchetto portato sulla spalla) venivano assistiti dalla Congregazione di Carità, funzionante obbligatoriamente in ogni Comune, sostituita nel 1937 dagli Enti Comunali di Assistenza (E.C.A.) ora soppressi. La commissione comunale predisponeva e aggiornava di anno in anno “l’elenco dei poveri” ai quali venivano date gratis le medicine, buoni alimentari e sussidi. Fino alla seconda guerra mondiale, in molti comuni rurali della provincia in tali elenchi figurava fino al 20 per cento della popolazione. Per quanto riguarda l’aspetto religioso, l’annessione al Regno d’Italia portò molte novità di non poco conto. Mentre con l’Austria il parroco era direttore delle scuole elementari, responsabile dell’assistenza, della beneficenza e della tenuta dei registri di stato civile, ora i parroci, abituati a predicare il rispetto e l’obbedienza all’autorità costituita, si trovano a dover fare i conti non più con uno stato confessionale, uno “stato cristiano” quale si definiva l’impero asburgico, ma con uno stato liberale laico con forti venature laiciste e anticlericali. Anche il nuovo Regno d’Italia continuò la politica delle soppressioni di ordini religiosi e di conventi iniziata da Napoleone per cui di fatto, con esiti impreveduti e certo non voluti, si accrebbe la concentrazione della “cura d’anime” nelle parrocchie e nelle 12 mani del clero secolare invece che nei conventi e negli ordini religiosi. Lo Stato italiano affida ai Comuni compiti in precedenza assolti dal clero che però ne assume di nuovi su sua iniziativa con gli asili che affida alle suore, gli orfanotrofi, le case di ricovero... Al laicismo diffuso e in una atmosfera complessiva poco favorevole alla Chiesa (a Padova sono state frequenti le manifestazioni di ostilità nei confronti del clero) le nostre parrocchie moltiplicano le confraternite, le congregazioni, le pie unioni. Di solito in ogni parrocchia si trova la Confraternita del Santissimo Sacramento (i “capati”), la Confraternita (detta anche Scuola o Congregazione) della Dottrina Cristiana, la Pia Unione delle Figlie di Maria, l’Unione delle Madri Cristiane, il Terz’Ordine di San Francesco, la Confraternita del Rosario, la Pia Associazione Sacra Famiglia. A queste associazioni religiose si aggiungerà poi l’Azione Cattolica, inizialmente limitata ai gruppi giovanili. La religiosità popolare fa da collante perché con i suoi riti e le sue liturgie, con l’efficace linguaggio dei simboli e dei segni, risponde alla domanda di sacro proveniente dalla società rurale; ed ecco quindi le rogazioni, la benedizione delle stalle, i tridui per chiedere la pioggia... Rimangono un ricordo le tante e suggestive processioni che si snodavano per le vie dei nostri paesi. Gli “inconfessi” sono pochi e, di solito, appartengono al ceto medio o alla borghesia. La vita sociale si svolge attorno al campanile, il centro è la parrocchia che si pone come elemento di continuità nel mutare dei regimi e svolge azione di supplenza nei confronti di uno Stato spesso latitante, di socializzazione primaria, di aggregazione, allora come ora. La parrocchia rurale è economicamente povera, come la maggioranza della gente che vi fa riferimento ma che la sostiene come può. Dicevano i vecchi parroci che le loro parrocchie vivevano della “ciacole dei siori e dei schei dei poareti”. Le entrate 13 provengono in parte dalle decime e dai livelli e in parte dalle questue e dalla “cassa delle anime”; all’amministrazione collaborano i fabbricieri. I contadini, sottomessi da secoli, ritengono inutili lotte e ribellioni (“tanto no ghe xe gnente da fare”); diffidano delle istituzioni pubbliche - che significano per loro tasse, servizio militare, carabinieri - e del nuovo comprese, le novità sociali. Così finiscono per vedere nei loro preti le uniche persone in grado di capirli e di aiutarli. Quei preti, che sono di estrazione popolare e che rimangono per lunghi anni nella stessa parrocchia, sono i rappresentanti naturali della comunità, i moderatori nei rapporti tra le classi sociali, gli intermediari con l’autorità. Occorre rilevare, infine, che non è l’influenza della religione a rendere le masse contadine docili, rassegnate, obbedienti (almeno in apparenza): è il peso della storia. Lo dimostreranno nel secondo dopoguerra quando tenteranno di scrollarselo di dosso. Note: (1) G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, Venezia-Roma 1958, p.4. 14 Capitolo II NASCE L’IMPEGNO SOCIALE DEI CATTOLICI La prima risposta allo Stato liberale, per molti versi laicista ed anticlericale, viene ancora prima dell’insorgere della “questione romana”. E’ infatti il 29 giugno 1867 che Mario Fani e Giovanni Acquaderni stendono il programma di una società giovanile cattolica che si proponeva la difesa della Chiesa e del tessuto cristiano del nostro popolo attraverso l’uso dei mezzi religiosi della preghiera, dell’azione e del sacrificio, un trinomio nel quale sono riassunte le finalità costanti dell’Azione Cattolica. La seconda consistente risposta viene nel 1875 con la costituzione dell’Opera dei Congressi. Il primo Congresso cattolico aveva avuto luogo l’anno prima a Venezia nella chiesa di Santa Maria dell’Orto. Nell’Opera prevalse l’intransigentismo che trovava il suo riferimento nell’enciclica di Pio IX “Quanta Cura” con l’annesso Sillabo (1864). Particolarmente forte è l’intransigentismo veneto che si riconosce in Giovanni Battista Paganuzzi, nei fratelli Scotton, in Giuseppe Sacchetti. Esistono voluminose pubblicazioni sugli scontri tra intransigenti e moderati; in esse prevale l’opinione che l’ideologia dell’intransigentismo sia diventata quella delle popolazioni rurali subalterne. Vista dalla parte della gente e dei suoi preti, cioè dal basso, la storia del movimento cattolico del secolo scorso acquista invece un sapore diverso. E’ provato che ai parroci poco interessavano le interminabili diatribe tra intransigenti e moderati. Mentre i vertici polemizzano e si lacerano, i parroci operano. Creano opere sociali poiché, in coerenza col precetto evangelico della carità e sentendosi responsabilmente parte viva del loro ambiente, si fanno carico, oltre che delle anime di cui devono aver cura, anche dei problemi pressanti della loro gente aiutandola ad organizzarsi per difendersi. Da qualche tempo è venuto di moda parlare di società civile; ebbene, il movimento cattolico degli inizi crea fra parrocchia e società civile un rapporto stretto che passa attraverso le casse rurali, le società di mutuo soccorso, le assicurazioni, le cooperative le quali sono forme concrete di solidarietà che permeano capillarmente la società rurale. Pertanto non si può attribuire alle nostre parrocchie quello che è stato definito lo “scandalo del silenzio”. Può essere stato solidarismo paternalistico, può essere vero che ci sono state forti difficoltà ad uscire da una tradizionale visione clerico-assistenziale ed a cogliere la questione sociale nei suoi termini reali, ma quelle opere da un lato hanno innescato processi partecipativi irreversibili e dall’altro hanno favorito la persistenza di tanti valori. La limitata partecipazione politica A complicare le cose, ci si mise di mezzo la questione romana con il divieto per i cattolici di partecipare alle competizioni politiche (proibizione riassunta nella formula del “non expedit”) in virtù di una visione angusta e di una distinzione equivoca tra amministrazione e politica. Così l’atteggiamento dei parroci, contrario al governo, fu di collaborazione con le amministrazioni comunali e favorevole alla partecipazione dei cattolici alle competizioni amministrative. Esponenti cattolici divennero sindaci, come l’avvocato Pietro Tono, presidente della Banca Popolare, ad Este nel 1895. 16 Le masse popolari cattoliche sono così doppiamente escluse dalla vita politica: escluse perché la partecipazione al voto era determinata dal censo e dall’istruzione (e le masse popolari non avevano né l’uno né l’altra) e perché c’era il divieto papale. Alle prime elezioni politiche del Regno d’Italia (27 gennaio 1861) il corpo elettorale comprendeva l’1,9 per cento della popolazione e votò solo il 57 per cento degli aventi diritto. Nel Comune di Padova per le prime elezioni dopo l’annessione, su 60.984 abitanti gli elettori erano 660: votarono 506. Nel 1876 ci sono 774 elettori a Piove-Conselve; 963 a Este-Monselice. I votanti non superarono il 60 per cento. Con la riforma del 1882 gli elettori salirono al 6,9 per cento della popolazione. Solo nel 1913 Giolitti introdusse il suffragio universale maschile: erano ammessi al voto i maschi che avessero prestato servizio militare e avessero compiuto i trent’anni. Un esempio della lenta evoluzione lo si ha considerando l’elettorato politico nel Comune di Camposampiero dal 1868 al 1913: TAB.1 - ELETTORATO POLITICO NEL COMUNE DI CAMPOSAMPIERO (1) Anno 1868 1871 1881 1891 1903 1913 Elettori 63 87 85 262 318 554 % sulla popolazione 2,0 2,3 2,3 7,0 7,1 10,1 17 L’astensionismo cattolico pesa sulla media dei votanti (che va dal 40 al 60 per cento degli elettori) e sulla composizione delle amministrazioni comunali che rimangono saldamente nelle mani dei ceti benestanti liberali. Può essere utile esaminare i dati del 1889 relativi alla provincia di Padova: TAB.2 - ELETTORI ED ELETTI ALLA PROVINCIA DI PADOVA NEL 1889(2) Elettori: Per censo Per titoli 4.348 24.385 ------------------------Totale 28.733 Eletti per condizione sociale: Avvocati Proprietari Professori Ingegneri Fattori Commercianti Impiegati pubblici Impiegati privati Medici 32,5 per cento 27,5 per cento 17,5 per cento 7,5 per cento 5,0 per cento 2,5 per cento 2,5 per cento 2,5 per cento 2,5 per cento --------------------------TOTALE 100,0 18 Alle amministrative del 28 gennaio 1900 sugli 80.000 abitanti del Comune di Padova, votarono poco più di settemila elettori e l’amministrazione passa al “Blocco popolare”, in realtà espressione della Padova borghese. Durò fino al 1912 e realizzò alcune opere importanti, in primo luogo il Corso del Popolo: Piazza Garibaldi era chiusa a nord e per andare alla stazione si passava da via San Fermo. E’ opportuno ricordare che nell’agosto del 1919 l’età per l’ammissione al voto viene abbassata a 21 anni e viene introdotto il sistema della rappresentanza proporzionale. Sarà solo dopo il ventennio fascista, durante il quale il Parlamento è stato messo in mora, che nel 1946, con il riconoscimento del voto alle donne, si arriva al suffragio veramente universale. La lenta industrializzazione L’unità cambiò poco nel tessuto produttivo padovano. Un primo quadro complessivo dell’industria nel primo periodo post-unitario si ha nel 1889: la provincia conta 805 opifici con 5.119 occupati su circa 400.000 abitanti: l’1,28 per cento! Nell’area cittadina operavano 70 imprese industriali che davano lavoro a 1.031 persone. E’ qui e in questo periodo che si sono sviluppate quelle che rimarranno per decenni le uniche industrie padovane di rilievo. Era stato Vincenzo Stefano Breda, nato a Limena nel 1825, uno dei protagonisti del primo sviluppo industriale italiano, antesignano della Grassetto, a fondare nel 1872, con un capitale di 10 milioni di lire, la “Società Veneta per l’esercizio delle Ferrovie secondarie 19 italiane”! Furono lo stesso Breda e la Veneta i principali promotori della “Società altiforni di Terni”, il primo esempio di una lunga serie di intrecci - spesso poco chiari - tra industria privata ed apparati dello Stato. Allo stesso Breda si deve il nucleo originario di quell’industria che agli inizi del Novecento fu denominata “Officine Meccaniche Stanga”. Tra l’altro ideò un tunnel sotto lo Stretto di Messina. Nell’area di via Trieste, ora adibita a parcheggio, dove è rimasta fino al 1966, sorgeva l’Officina del gas che, alimentata dal carbone trasportato per via d’acqua sui tipici barconi, forniva il gas per 115 fanali pubblici e 13.645 utenze private. Con la solita enfasi (anche adesso talora si parla di Padova come della Milano veneta) la stampa di allora parlò di Manchester padovana a proposito delle industrie sorte sul terreno, fino ad allora coltivato, davanti alla stazione ferroviaria. Ivi operavano la fabbrica di bottoni “Zuccherman e Diena”, la fabbrica di occhielli Agraffi, le Distillerie Italiane (dove è ora piazza De Gasperi) e, a nord della ferrovia, le distillerie Alberti e la Pezziol, oltre a diversi altri opifici minori. 370 erano i mulini con 804 addetti (dei quali 109 donne e 89 ragazzi); la maggior parte di essi (246) funzionava ad acqua, 117 usavano forza animale e soltanto 7 energia a vapore. Dal paesaggio cittadino i mulini vengono cancellati quando nel 1882 le acque del Bacchiglione in piena travolsero le decine di mulini galleggianti ormeggiati a Ponte Molino. Non deve sembrare eccessivo il gran numero di mulini che, diffusi nel territorio, assicuravano la trasformazione in farina dei cereali necessari all’alimentazione. Si contavano anche 27 pastifici. Altra lavorazione molto diffusa era quella dei laterizi, della calce e delle stoviglie in terracotta; se ne contavano ben 69 con 1043 addetti di cui 62 ragazzi e ragazze. La fornace per laterizi più consistente era la Voltan e C. di Albignasego che occupava 182 20 operai e produceva 8 milioni di mattoni; altri 2 milioni ne producevano le fornaci di Mestrino; pure importanti erano le Aghito di San Giorgio delle Pertiche e le Forti di Monselice. Gli addetti lavoravano dall’alba al tramonto per 10-12 ore al giorno ed in genere erano retribuiti a cottimo. Nelle numerose cave dei Colli (le “priare”) lavoravano 508 persone tra cavatori e scalpellini. Oltre alle filande (alla già citata “Filanda Trieste” di Monselice si erano aggiunti l’opificio Vaccari di Piazzola con 167 addetti e la “Società per la filatura del lino e della canapa” di Montagnana con 2.116 fusi e 326 addetti) il tessile già allora era caratterizzato da una diffusa lavorazione a domicilio che poteva contare su 4.698 telai a mano. Qualcuno è ancora funzionante. A Carmignano sul Brenta una società svizzera aveva avviato la cartiera che occupava 76 operai. Poco prima della fine del secolo (1898) Giovanni Luigi Voltan fondava la prima fabbrica di scarpe della Riviera del Brenta: sei anni dopo ne produceva mille paia al giorno con 400 addetti. Agli inizi del secolo (1902) nascono le “Officine di Battaglia” per la costruzione di macchine agricole; le Officine diventano poi la “Galileo” e nel 1913 passano alla Sade. Anche ad Este, nello stesso periodo, sorgono importanti industrie quali la fabbrica di fiammiferi con 300 operai, quella dei busti da donna con 200 e le “Officine” divenute poi l’Utita (3). A Padova nel 1910 ha luogo la prima “Fiera dei Campioni” su iniziativa del cav. Fiorazzo, industriale del legno. Tutto ciò mette in evidenza alcune caratteristiche della industrializzazione padovana che hanno pesato a lungo e le cui conseguenze sociali ed economiche si avvertono ancor oggi. Anzitutto occorre spiegare, sia pure brevemente, i motivi del ritardato sviluppo industriale e dei suoi limiti. Di solito si dice che a Padova sono mancati liberali illuminati come Rossi e Marzotto. La 21 verità è che la classe dirigente padovana ha allora (e anche dopo) preferito un modello di sviluppo agrario, “padano”, piuttosto che uno sviluppo industriale di tipo “milanese”. Quando il comitato elettorale moderato propose la candidatura a sindaco della città di Vincenzo Stefano Breda, la candidatura fu bocciata perché, scrisse il “Giornale di Padova” in data 14 luglio 1871, si aveva ragione di temere che egli intendesse dare maggiore impulso a grandi lavori edilizi provocando l’arrivo “di una numerosa colonia di operai, i quali dopo alcuni anni, scemati necessariamente i lavori, ne chiederebbero di nuovi e potrebbero tornare di non lieve imbarazzo alla nostra città”. E’ la stessa mentalità dell’ingegnere capo del Comune di Padova che nel 1881 riteneva non si dovessero costruire quartieri operai anche perché questi concentramenti di popolazione avrebbero offerto un campo “dove facilmente potrebbero allignare e crescere rigogliose le teorie sovversive”. Bisogna attendere l’avvento dell’amministrazione popolare perché questa visione cambi. Era conservatorismo bello e buono, segno di una mentalità che aveva profonde radici e che non scomparirà tanto presto. La “consorteria moderata” aveva costruito un “solido sistema di potere che controllava capillarmente tutti i gangli della società civile e le istituzioni pubbliche”(4) quasi una prefigurazione del doroteismo veneto e della logica clientelare, della compenetrazione tra sfera politica e sfera economica. Aggiungasi che su questa linea si è sostanzialmente ritrovato anche il tradizionale ceto commerciale bottegaio padovano “moderato” e poco incline alla novità che l’impianto di grandi industrie avrebbe inevitabilmente comportato. In sostanza, Breda preferì investire massicciamente altrove e Bernardi, che aveva progettato e costruito la prima auto italiana adattando a un triciclo un motore a benzina da 500 cc che poteva sviluppare una velocità di 35 chilometri all’ora, fu obbligato a chiudere la prima fabbrica italiana di automobili (1899), la “Società 22 Italiana Bernardi”, che aveva aperto in città. Lo spazio venne immediatamente occupato dalla FIAT. Ritardi e gracilità non furono quindi occasionali, ma frutto di scelte. In secondo luogo le industrie che nascono, sono opera di imprenditori di estrazione liberale, preoccupati unicamente di accumulare profitti a spese di una manodopera poco qualificata e peggio retribuita. Nel 1878 nella già menzionata “Filanda Trieste” di Monselice risultavano occupate 130 persone: 10 uomini, 65 donne e 55 ragazze. Si lavorava 14 ore al giorno con un salario giornaliero che per le operaie comuni andava dai 60 ai 70 centesimi e superava una lira per le “filandiere maggiori”: un chilo di pane costava poco meno di mezza lira(5). Nella Chiesa e nel movimento cattolico non ci fu solo il rifiuto netto degli “immortali principi” della Rivoluzione Francese, ma anche uno storico ritardo nella comprensione dei problemi sottesi ai processi di industrializzazione e quasi nessun tentativo di interpretare le condizioni e le esigenze dei lavoratori delle fabbriche che, anche per questo, in particolare nella città e nella Bassa, riposero le loro speranze di riscatto nel socialismo, aprendo un solco profondo fra operai “rossi” e contadini “bianchi”. Per di più nelle campagne si creò una frattura tra braccianti, molto numerosi nella “Bassa” e coltivatori diretti (fittavoli e piccoli proprietari) prevalenti nell’”Alta”. Questo spiega anche perché nell’Alta abbia prevalso prima il Partito popolare e poi la Democrazia Cristiana, mentre nella Bassa hanno avuto una forte presenza, in ordine di tempo, gli anarchici, i socialisti e i comunisti. Le poche industrie create da imprenditori cattolici, nei rapporti con i lavoratori dipendenti, furono viziate da un controproducente formalistico clericalismo. Nella fabbrica estense di busti per 23 signora, si usavano le suore per la sorveglianza e la catechizzazione delle operaie. Era obbligatoria la preghiera e la presenza alle funzioni religiose. Nel 1910 furono addirittura resi obbligatori gli esercizi spirituali in clausura nel Collegio del Sacro Cuore. Così il movimento operaio padovano nasce collocandosi subito a sinistra e la frattura è rimasta in buona parte fino ai giorni nostri. All’inizio del secolo, il quadro occupazionale è il seguente: TAB.3 - L’OCCUPAZIONE NELLA PROVINCIA DI PADOVA NEL 1901(6) Attivi: m f tot % agricoltura 97.283 43.334 140.617 85,8 industria 10.717 3.577 14.294 8,7 industria alimentare 4.010 192 4.202 2,6 arti e professioni 2.992 1.714 4.706 2,9 ------------------------------------------------------TOTALI 115.002 48.817 163.819 56,9 Non attivi: 18.809 105.381 124.190 43,1 ------------------------------------------------------- TOTALI Popolazione presente 24 133.811 154.198 288.009 221.681 221.546 443.227 100,0 Il dato che maggiormente colpisce è quello degli occupati in agricoltura che arrivano all’85,8 del totale. Va anche rilevato che la popolazione attiva arrivava all’altissima percentuale del 56,9 per cento, mentre nel 1996 il tasso di attività non arriva al 41 per cento e gli attivi in agricoltura sono scesi al 7,45 per cento. Un altro elemento da non sottovalutare è quel 2,9 per cento delle “arti e professioni” (notai, medici, insegnanti). L’emigrazione Il lento processo di industrializzazione si accompagna all’aggravamento delle già misere condizioni del mondo contadino. Furono gli “anni neri” di una crisi che sarebbe durata fino al 1897 e che causò una miseria contadina di massa dalle dimensioni di vera e propria calamità sociale. L’inchiesta Jacini, affidata per la parte concernente il territorio padovano e veneto ad Emilio Morpurgo, professore dell’Ateneo patavino e analizzatore lucido ed acuto delle condizioni di vita e di lavoro della gente dei campi, mise in evidenza una situazione paurosa, aggravata dal crollo dei prezzi agricoli. Il quadro complessivo presentato era veramente desolante. Ristagnava la produzione, non si facevano investimenti, la mezzadria era in crisi e le condizioni di vita dei braccianti risultavano subumane, perché sempre alle prese con salari irrisori e la disoccupazione o sottoccupazione stagionale. Si legge nella relazione: “In complesso il salario discende a 60 centesimi ed anche a meno nella cattiva stagione e non si può dire che in tutto l’anno, computati solamente i giorni di lavoro, la media 25 delle mercedi oltrepassi una lira (...). Le condizioni dei lavoratori sono tristi a Noventa, sono squallide a Saccolongo, misere a Maserà, cattivissime a Carrara San Giorgio, infelicissime a Veggiano, peggiorano sempre più a Vigodarzere, con miseria sotto ogni rapporto a Saonara, miserabili ad Abano”(7). Così ha inizio la prima grande emigrazione di massa. Scriveva con grande lucidità l’allora parroco di Mestrino, don Angelo Candeo: “Il nostro colono (...) ricorre, se può, all’emigrazione di cui non misura i pericoli e le incertezze, fermo nell’idea che le tristi condizioni del presente sono peggiori di qualsiasi incerto avvenire”(8). Era quindi la forza della disperazione quella che spingeva i contadini veneti verso la “Merica”: Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio andar. Sapevano bene che avrebbero dovuto affrontare una vita intessuta di stenti e di fatiche: in Merica siamo rivati; abiam trovato né palia né fieno; abiam dormito sul duro terreno, come le bestie che va a reposar... C’era almeno una speranza di riscatto che qui era venuta meno e che, purtroppo, nelle piantagioni di caffè o nelle distese di canna da zucchero brasiliane, come pure nella sconfinata pampa argentina, rimase molto spesso solo un miraggio. Sono quattro milioni i veneti sparsi per il mondo: un altro Veneto diffuso. 26 Tra il 1888 e il 1897 da Camposampiero emigrò il 20 per cento della popolazione e da Campodarsego in un solo anno, il 1891, il 12,9 per cento. Si spopola anche la zona a ridosso dell’Adige: Stanghella, Boara Pisani, l’Estense... La classe dirigente non seppe trovare rimedi forti al di là dell’indagine Jacini: anche allora si facevano indagini invece di dare risposte assai più costose e impegnative. I parroci temono per la fede degli “emigranti di ritorno” che molto spesso tornavano socialisti. Il ruolo del vescovo Callegari In questo quadro sconfortante (miseria contadina ed emigrazione, ritardata industrializzazione, divieto vaticano di partecipare alla vita politica) nasce l’impegno sociale dei cattolici che in pochi anni nel nostro territorio registra una eccezionale e irripetibile fioritura di opere. Nella nostra diocesi la nascita e il rapido moltiplicarsi delle iniziative sociali cattoliche trovò un convinto protagonista nel vescovo Giuseppe Callegari che resse la diocesi tra il 1882 e il 1906. Lo troviamo vescovo di Treviso (27 febbraio 1880) a soli 39 anni. E’ lui che nomina rettore del seminario trevigiano Giuseppe Sarto, il futuro Pio X; di qui una profonda amicizia e reciproca stima. Il Callegari condivide l’idea di un movimento cattolico intransigente. E’ amico di Giuseppe Sacchetti e, prima di essere nominato vescovo collabora al giornale “Veneto Cattolico” e partecipa ai lavori della commissione preparatoria del primo Congresso cattolico (Venezia, 12-16 giugno 1874). E’ membro del comitato permanente della prima sezione dell’Opera dei Congressi. 27 Quando il 19 maggio 1883 il Callegari ne prende possesso, la Diocesi patavina conta 318 parrocchie (ripartite in 37 vicariati), 24 curazie, 12 chiese sussidiarie(9). Nella prima lettera pastorale indirizzata al clero e al popolo della diocesi, mons. Callegari scriveva (1883) che l’annessione al Regno d’Italia coincideva con “l’irrompere del vizio di tutte quelle false massime onde ai dì nostri si mollano le basi della santissima religione e della civile società (10)”. Contro il liberalismo politico e contro l’agnosticismo di stato tuona: “pessimi uomini, che con somma ingiuria fingono la religione cattolica nemica del vero progresso e della coltura degli ingegni”. Lo stesso vescovo Callegari, nel dichiarare la sua lealtà alle istituzioni, non abbassa il tono polemico nei confronti della politica religiosa e sociale: “Quanto maggiori sono i pericoli e i danni che ai dì nostri minacciano la civile società fino alle basi scollate dalle perverse dottrine, che uomini nemici della fede cattolica e del genere umano van propagandando, tanto maggiore sarà il mio studio di predicare e colla voce e coll’esempio, la obbedienza dovuta alle leggi, l’osservanza alle legittime autorità(11)”. Come si vede, è un atteggiamento fermo e chiaro che però si mantiene sul terreno pastorale. Le rampogne sono rivolte al laicismo scristianizzante ed all’anticlericalismo imperante, non alle legittime autorità alle quali è dovuta obbedienza anche se la dominante democrazia liberale ne è ritenuta corresponsabile e le libertà liberali sono accusate di demolire un millenario patrimonio di cultura e di costume che caratterizza la civiltà veneta fortemente impregnata di cattolicesimo. Altrettanto netta è la sua adesione al “non expedit” e la presa di coscienza dell’iniquità della lotta contro la Chiesa e le sue istituzioni. La risposta non può essere che una risposta di fede, però 28 non disincarnata e, di conseguenza, non separabile da alti valori sociali. Perciò mons. Callegari insiste sulla necessità di una catechesi illuminata, accompagnata da opere sociali: “La religione si attua nell’obbedienza ai precetti divini e nelle opere caritative e assistenziali verso i bisognosi”. E’ illuminante la definizione di “opere caritative e assistenziali”, che corrisponde a quella assai nota del Paganuzzi di “azione benefica verso il popolo”, e fornisce una chiave interpretativa di quella che è stata inizialmente l’azione sociale dei parroci in aderenza alle direttive vescovili. Occorre anche aggiungere che la nostra diocesi poteva contare su un clero adeguatamente formato in uno dei seminari più efficienti d’Italia e strettamente unito al suo vescovo. Non ha quindi alcuna ragion d’essere la distinzione, che molto di frequente ricorre nella storiografia laica, di una netta divaricazione tra alto e basso clero, anche se la diversità di funzioni e di responsabilità portarono, per ovvie ragioni, ad atteggiamenti diversi ma mai contrapposti. Alla rilevante realtà ecclesiale padovana (si tratta di una delle maggiori diocesi italiane) propone con chiarezza un programma che fa riferimento al suo motto: “Restaurare omnia in Christo” e quindi il suo impegno è rivolto ad una rigenerazione totale della società in senso cristiano. Le opere sociali rientrano in questa visione e così pure l’associazionismo laicale, di cui sostiene l’importanza nel Sinodo diocesano convocato tra il 3 e il 5 settembre 1890, presenti circa 400 sacerdoti. Sul dovere dell’azione insiste sempre e lo fa in particolare nel suo intervento al Congresso dell’Opera a Milano (sett.1897): “I cattolici devono risolutamente agire con sempre maggiore coraggio; ecco le parole del Santo Padre, ecco l’invito (...): è tempo di agire valorosamente e devono con sempre maggiore coraggio i cattolici 29 muoversi all’azione (...) perché quello che già abbiamo ci è ragione di sicura speranza(12)”. Ben presto però si era accorto che accanto alle opere occorreva una cultura sociale che le supportasse, che desse loro le conoscenze necessarie per operare. Il Callegari lamenta l’insufficiente presenza degli intellettuali cattolici (si tratta della tradizionale povertà culturale) che: “troppo spesso in Italia vivono disconosciuti, isolati ed operanti in angusta cerchia, deficienti del sussidio di mutui lumi e discussioni, e non poco ancora remoti da quella unità di intendimenti finali che sotto la guida della Chiesa risponda alla dignità e alle tradizioni del sapere cristiano”(13). Sono queste le convinzioni sulle quali fonda il suo impegno per la costituzione dell’”Unione Cattolica per gli Studi Sociali” le cui basi furono poste in una riunione tenutasi a Padova in Vescovado il 29 dicembre 1889 (due anni prima della Rerum Novarum) alla quale, oltre a mons. Callegari, erano presenti il vescovo di Mantova, mons. Giuseppe Sarto (divenuto poi patriarca di Venezia e, nel 1903, Papa Pio X), Giuseppe Toniolo, il noto studioso trevigiano di problemi sociali, ed una trentina di laici tra i quali Medolago Albani e il rodigino mons. Giacomo Sichirollo. L’Unione si proponeva di studiare e diffondere tra i cattolici la conoscenza dei problemi economici e sociali(14). Nacquero obiezioni, ma il vescovo Callegari ribadì l’autonomia dell’Unione e la sostenne strenuamente, ritenendo che l’Unione avesse il compito di esaminare scientificamente i problemi economico-sociali, mentre la seconda sezione dell’Opera aveva il compito esclusivo di creare opere sociali. In sostanza la prima era la mente, la seconda il braccio. All’interno del movimento cattolico la posizione del vescovo di Padova era di tutto rilievo. Lo dimostra la lettera che il Paganuzzi, leader dell’”Opera dei Congressi”, gli scrisse il 23 febbraio 1891 al fine di convincerlo dell’opportunità di coagulare tutte le attività 30 attorno all’Opera il cui consiglio direttivo aveva allora sede a Padova. Con molta abilità e tatto mons. Callegari compose il dissidio organizzativo a ciò sollecitato da Papa Leone XIII il quale poi (1893) delimitò le rispettive sfere di influenza di Opera e Unione. All’Unione venne riservata l’azione sociale e politica. Quando pochi anni dopo (1897) i contrasti riaffiorarono, toccò ancora al vescovo di Padova esperire il tentativo di mediazione, che però incontrò resistenze tali da richiedere un ordine esplicito del Papa. Siccome i toni del contrasto tra Paganuzzi e Toniolo, cioè tra Opera ed Unione, invece di placarsi si fecero più aspri, il Papa scrisse proprio a mons. Callegari (24 novembre 1897) riconfermando esplicitamente il suo desiderio di mantenere in vita l’Unione con configurazione autonoma(15). In sostanza mons. Callegari fu dell’Unione per gli studi sociali uno degli animatori e protettori più attivi e influenti e, contemporaneamente, una delle voci più autorevoli nell’Opera. In diocesi stimola la diffusione dei comitati parrocchiali e la costituzione di opere sociali. Aiutato dal conte Fracanzani, insiste perché in tutte le parrocchie vengano costituiti e resi funzionanti tali comitati che dai 17 dell’aprile 1887 salgono a 113 nel giro di poco più di un anno. Si incontrano grosse difficoltà soprattutto per la carenza di risorse umane. Comunque nel periodo 1890-1892 il Comitato diocesano promuove: - la Società cattolica di mutua carità di Piove; - la Società cattolica agricola di Piove di Sacco, Rossano Veneto, Thiene; - la Società euganea di mutuo soccorso di Este. Nella relazione presentata al Congresso di Pavia (1894) si legge che Padova ha 8 sottocommissioni diocesane, 27 sezioni giovani, un comitato interparrocchiale e un rilevante numero di comitati parrocchiali. Rimane scarsa la presenza in città. 31 L’anno successivo al Congresso di Torino (1895) la relazione evidenzia lo sviluppo delle attività economiche. Ci sono 17 società di mutuo soccorso, 15 casse rurali e le attività della Banca Cattolica sono in espansione. Persistono difficoltà di varia natura perché non c’è una tradizione di impegno sociale e perché in varie località è viva l’opposizione. Ad esempio a Camposampiero pesa negativamente l’influenza del sindaco e a Villa del Conte “la prepotenza di alcuni ricchi”. Nel 1895 e nella primavera del 1896 il Callegari collabora all’organizzazione del secondo Congresso dell’Unione che si tiene a Padova (25-28 agosto 1896) in una sala del Vescovado. L’attenzione del vescovo si concentra sempre più sul problema della presenza della Chiesa tra le classi più povere, però senza uscire dalla visione mutualistico-assistenziale. Nel 1897 i comitati parrocchiali sono saliti a 155 e le casse rurali cattoliche a 48. La repressione del 1898 (Governo Di Rudini) colpì duramente tutto l’apparato organizzativo del movimento cattolico. Oltre alla sospensione del quotidiano della Curia, “L’Ancora”, vennero sciolti tutti i 155 comitati parrocchiali, le 87 sezioni giovanili, le 56 casse rurali, le 38 società operaie, una sessantina di altre associazioni(16). Fortunatamente durò pochi mesi. Nell’aprile del 1899 a Ferrara, Callegari torna sul programma e sulla struttura dell’Opera dei Congressi insistendo, di fronte alle tensioni ed ai contrasti, sull’unità senza però drammatizzare: “Ci vediamo additata la via che dobbiamo percorrere, non ci è lecito tentennare o dare addietro il passo (...); noi dobbiamo dare al Papa questa consolazione, di cementare la nostra unità, aprendo l’anima alla fiducia dei capi (...) affinché possa durare sempre la concordia”(17). 32 L’anno successivo al Congresso di Roma (1900) Callegari disegnava le tendenze politiche sorte in seno all’Opera dichiarandosi contrario alle proposte di Murri. Si distingue anche dal Toniolo a proposito dei sindacati cristiani. Rimane sostanzialmente fermo all’idea delle unioni professionali miste: quindi niente sindacato nè lotta di classe e scioperi ma azione filantropica. Egli pensa ad una società che difenda il patrimonio morale cristiano senza sconfinamenti dottrinali e cedimenti al liberalismo. Insiste spesso sulla inconciliabilità tra Chiesa e progresso laico. Non accetta la democrazia parlamentare, frutto della Rivoluzione Francese. Altrettanto drastica è la sua condanna del socialismo: “Il socialismo è teoria contraria alla libertà, alla dignità, al benessere umano perché fa schiavi, macchine, isterilisce (...). E’ dottrina assurda (...), empia, anticristiana perché si oppone ai precetti, perché tali sono quelli che la professano. E’ una mistificazione (...)”(18). Solo nel 1909 il vescovo di Treviso, mons. Andrea Giacinto Longhin, riconoscerà che “l’uomo può unirsi, può federarsi in leghe o sindacati per meglio provvedere ai propri interessi (...) in conformità alla dottrina sociale della Chiesa”. Mons. Callegari è fortemente preoccupato per l’insegnamento religioso nelle scuole elementari comunali di fatto soppresso dalla legge Coppino (1877). Gli insegnanti vengono assunti a prescindere dalla loro moralità. La situazione è particolarmente difficile nella città che rimane laica con manifestazioni di intolleranza. Il 19 gennaio 1898 viene assalito il Circolo universitario e sfregiato lo stemma vescovile. 33 Nel 1904 solo il 49 per cento dei genitori del comune capoluogo chiede l’istruzione religiosa per i figli mentre a Treviso, Verona e Vicenza la chiede la quasi totalità. Nel 1908, dopo un durissimo scontro, la Giunta comunale delibera l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole comunali. Non c’è a Padova una presenza significativa di quel moderatismo cattolico-liberale o clerico-moderatismo che ha a Vicenza personalità di spicco quali Alessandro Rossi, Giacomo Zanella, Giuseppe Fogazzaro, Fedele Lampertico, il quale fu ricercatore originale di un rapporto di interdipendenza tra etica ed economia per costruire una società antitetica a quella “rivoluzionaria del socialismo”. Le opere sociali Come si è già ricordato, alle sollecitazioni del vescovo la risposta fu immediata. I parroci, che nella grande maggioranza provenivano da famiglie contadine e perciò si sentivano parte viva della gente dei campi in mezzo alla quale vivevano e operavano e che non potevano abbandonare a se stessa, recepirono prontamente le indicazioni pastorali del vescovo che arrivavano a proposito e se ne fecero immediatamente carico, dando una risposta logica e coerente che la pubblicistica laica e di sinistra non ha capito. Secondo le direttive vescovili, la risposta fu anzitutto e soprattutto pastorale. i parroci non fanno tante analisi sulle cause socio-politiche dello stato di miseria in cui versa la loro gente. Ritengono, come il loro vescovo, che i mali sociali derivino dal “malgoverno” e dal “malcostume” e, pertanto, rispondono facendo appello anzitutto alla fede che sentono e vivono come patrimonio collettivo. Del resto per i contadini veneti dell’800 il fatto religioso 34 non viene mai ridotto all’ambito strettamente individuale nè a fatto di gruppi elitari. Come si è detto, il contesto psicologico in cui si innesta la religiosità contadina è certamente quello delle stagioni, delle forze della natura, dell’imprevisto, ma quello religioso è un fatto comunitario, come fatti comunitari erano le lunghe veglie invernali nelle stalle, i “filò”, durante i quali le donne filavano e gli uomini si scambiavano le loro esperienze, tramandandosi così oralmente l’antica cultura contadina, eseguivano semplici lavori o giocavano a carte. L’appello si concretizza nella moltiplicazione delle confraternite (che allontanano la tendenza all’individualismo religioso) e nell’intensificazione dell’insegnamento catechistico. Ma anche questo dà fastidio. Il delegato di Pubblica Sicurezza di Piove di Sacco, Giannelli, scrive al Prefetto di Padova in data 14 novembre 1895: “Associazioni sotto titoli diversi che vengono denominate come confraternite, ne esistono in ogni parrocchia e lo scopo di ciascuna ha per base l’obbedienza passiva al prete, e quindi giovano e servono al partito cattolico sotto tutti gli aspetti (...). Il prete diventa assoluto padrone delle opinioni, non solo, ma ha anche il diritto di regolare l’andamento cristiano della famiglia (...)”(19). Poiché, d’altra parte, la gente è pressata da bisogni vitali, rispondono con opere caritative ed assistenziali che nascono e si fermano ai confini della parrocchia. Era inevitabile che, crescendo, quelle opere assumessero sempre più prima una valenza economico-sociale e poi politica; ma sono nate come opere religiosamente motivate che prescindevano da ogni calcolo strettamente economico e che, perciò, si muovevano secondo una logica nettamente opposta all’ideologia liberale e allo spirito capitalistico. C’erano già le società di mutuo soccorso: la Società Cattolica di Mutuo Soccorso era stata fondata nel 1880. Come si sa, queste 35 società avevano per base la moralità e la fratellanza e per scopo il vicendevole aiuto in casi di malattia o di inabilità al lavoro (indennità giornaliera). Vengono successivamente, anche sulla spinta della Rerum Novarum (1891), le casse rurali, le cooperative, le società di assicurazione. La serie di iniziative messe in atto in pochi anni ha dell’incredibile. Tutte queste opere si connotano, almeno inizialmente, come fatti di Chiesa e come sensibilità pastorale per gli strati sociali più deboli, il che del resto era già avvenuto quando, in precedenza, con le stesse caratteristiche e per le stesse motivazioni, erano stati fondati ospedali, orfanotrofi, ospizi, monti di pietà. Sono i preti che si fanno carico di organizzare queste attività non per cupidigia di potere nè per volontà di egemonia, bensì per spirito di servizio in attuazione dei precetti evangelici. Sia le casse rurali che le cooperative non hanno alcun fine di lucro (e lo dichiarano nei loro statuti) nè sono premessa per investimenti. Sono finalizzate all’assistenza solidaristica religiosamente motivata. Le somme depositate presso le casse rurali sono infruttifere. Cerutti, il loro fondatore, voleva che, secondo i principi della mutualità, non si distribuissero dividendi e che eventuali utili andassero ad accrescere il patrimonio comune. Ne era chiarissimo il carattere cristiano. Il primo requisito per farne parte è una comprovata coscienza religiosa che deve trovare riscontro in una “condotta morigerata ed onesta”. Gli statuti precisavano che “occorreva spiegare sentimenti cristiani verso la religione, la Chiesa, il pontefice, l’educazione cristiana dei figli, la santificazione della festa”(20). Quasi sempre la costituzione e le assemblee annuali coincidevano con la festa patronale. 36 Rispondono a bisogni reali perché salvano i contadini dai debiti ricorrenti e dal ricorso agli usurai e agli strozzini; sono un punto di riferimento sicuro cui si può ricorrere per l’acquisto delle sementi e per il mantenimento della famiglia in attesa del raccolto. Salvano spesso dallo sfratto: stringevano il cuore a San Martino le lunghe processioni di carri sui quali erano caricate le povere masserizie dei contadini costretti a sloggiare in virtù di patti mezzadrili e contratti di affitto ferrei. I debiti fanno terrore... e il prete ispira fiducia perché è uno di loro, parla il loro linguaggio e si fa interprete delle loro insopprimibili esigenze vitali. Così le casse rurali si moltiplicano prodigiosamente. Nel 1894, solo due anni dopo la fondazione della prima, erano già diventate 164, di cui 86 nel Veneto; nel 1897 erano salite a 700 di cui ben 490 venete, superando così il numero delle casse rurali promosse da Leone Wollemborg, un illuminato proprietario terriero ebreo, che aveva costituito la sua prima cassa rurale a Loreggia nel 1883, con 32 soci tutti contadini ad eccezione del medico condotto e del segretario comunale. E’ evidente che quelle nate all’ombra del campanile ispirano maggior fiducia. Don Luigi Cerutti, l’attivo prete di Gambarare, è solitamente ricordato come l’organizzatore delle casse rurali cattoliche. In realtà egli, oltre al credito rurale (arrivò a stabilire anche rapporti organici con le banche cattoliche urbane, promosse dalle varie curie vescovili ed egli stesso fu tra i promotori della costituzione del Banco di San Marco), fu soprattutto un instancabile organizzatore di cooperative agricole. Costituì con ammirevole fervore unioni assicurative contro la grandine, l’incendio, la mortalità del bestiame; organizzò centri per l’acquisto collettivo di sementi e macchine agricole; costituì consorzi di irrigazione(21). Favorite dalla presenza di queste strutture, altre ne sorsero: forni, spacci cooperativi, latterie e cantine sociali. 37 L’opera dei parroci non si limita alla realizzazione di queste iniziative. Cercano anche di migliorare le condizioni produttive in campo agricolo. Nella seconda metà dell’800 furono una ventina i parroci della diocesi di Padova premiati dalla Società di incoraggiamento per benemerenze nell’agricoltura. Tra questi don Angelo Candeo, parroco per l’eccezionale durata di 63 anni a Mestrino. Esperto di problemi agricoli, tenne legami in Italia e all’estero sul modo di migliorare le coltivazioni e di combattere i parassiti delle piante. Ideò nuovi attrezzi agricoli e riuscì a convincere il Papa Leone XIII a piantare un vigneto negli “orti” vaticani. Casse rurali e cooperative rompono l’atavica e istintiva diffidenza, destando nei contadini la coscienza delle loro possibilità di riscatto. Così i nostri contadini, definiti “polentoni” remissivi e passivi, dimostrano insospettate capacità di autopromozione: i parroci li fanno, finalmente, sentire persone, invece che semplici strumenti, diversamente dallo Stato che li vuole solo sudditi esclusi da ogni partecipazione reale alla vita amministrativa e politica. L’imprevista e imprevedibile fioritura di opere sociali fa sì che la parrocchia cominci a configurarsi, con questa sua capillare ed operosa presenza come fenomeno sociale di masse popolari; le unifica e, in un certo senso, le “proletarizza” nel periodo classico del liberalismo politico. Ciò non è affatto strano, ma suscita dure reazioni tanto nei liberali che nei socialisti, i quali vedono crescere un pericoloso concorrente. I primi vedono messi in discussione i loro privilegi; i secondi ritengono che queste iniziative siano di ostacolo alla lotta di classe. Il Prefetto di Padova nel 1896 riferiva a Roma: “Nelle chiese, ormai, si tengono tutte le conferenze pubbliche per scopi esclusivamente laicali, cioè per l’organizzazione elettorale amministrativa, per la 38 costituzione di società operaie ed agricole cattoliche, per la formazione di casse rurali, ecc.; e l’altare maggiore viene coperto da tavoloni e convertito i palco tribunizio”(22). La maggioranza dei nostri preti contadini continua a ritenere che la parrocchia non debba uscire dall’ambito dell’attività assistenziale, ma ci sono anche (pochi in verità) preti “moderati” e, agli inizi del secolo, preti “democratici” alla Murri, che ritengono necessario rompere il cerchio dell’isolamento pensando allo sbocco politico e alle elezioni. In realtà casse rurali, cooperative, unioni, fanno crescere una nuova mentalità che a poco a poco si fa sindacale e politica; nascono infatti successivamente anche unioni professionali e le prime “leghe bianche” e, infine, il Partito Popolare. E’ un processo logico ed irreversibile: nascono come strumenti assistenziali e diventano mezzi di liberazione delle masse contadine da un secolare stato di soggezione. Più o meno consapevolmente, l’azione educativa ed assistenziale acquista prima valenza sociale e poi politica. Pertanto è del tutto errata l’accusa di paternalismo: se anche ci fu, non fu solo questo. Si usa ripetere che tali iniziative dei parroci non toccarono la struttura della società contadina e sostanzialmente giovarono a conservare un modello di campagna come depositaria di virtù domestiche, riserva di fede incontaminata, baluardo contro gli errori e la corruzione cittadina. Può anche essere parzialmente vero. Una cosa però è certa ed è questa: mentre i socialisti predicavano violenza e prospettavano rivoluzioni impossibili e i liberali semplicemente ignoravano la povertà contadina di massa, i parroci - sospinti dai loro vescovi rispondevano ai bisogni immediati della gente; ed anche questa è storia, anzi una grande storia del cattolicesimo sociale. 39 Contemporaneamente alle casse rurali nascevano le banche cattoliche. Il 22 giugno 1893, presso il notaio Alberto de Ziller in via Belle Parti, 53 persone sottoscrivevano l’atto costitutivo della Banca Cooperativa Cattolica Padovana. Sono preti (mons. Dal Santo rettore del Seminario e il bibliotecario don Stievano, l’arciprete di Cittadella, il vicario e il prevosto di Santa Sofia, diversi canonici e parroci) e laici (l’avv. Turazza, l’avvocato conte Prospero Radini Tedeschi, l’avvocato senatore Coletti di Este, il conte De Claricini). Lo scopo sociale era la diffusione della piccola proprietà e il credito all’artigianato. La prima sede è in via Bolzonella, ora Santa Lucia. Nel 1906 diventa Banca Antoniana. Un anno dopo la costituzione i soci erano saliti a 958; nel 1897 sono 2.043. Viene fondata poi la Banca Cattolica del Veneto e il Banco di San Marco. Al liberale Luigi Luzzatti, altro ebreo, professore di diritto costituzionale nella nostra università, si deve la fondazione delle banche popolari. Ma banche cattoliche e banche popolari non vanno confuse con le casse rurali. Diversi sono i protagonisti e diverse le finalità. Nell’ottobre del 1893 nasce a Padova, con sede nel palazzo vescovile all’angolo tra via Vandelli e piazza Duomo, un’altra consistente iniziativa che resiste nel tempo, cioè le Cucine popolari di cui lo stesso Vescovo assume la presidenza e che, affidate alle suore elisabettiane, rimangono aperte tutti i giorni feriali dalle 11 alle 15. Vivono di elargizioni della borghesia padovana e delle banche locali: la Cattolica, la Popolare, la Cassa di Risparmio. La stampa cattolica 40 Sul finire dell’800 i cattolici padovani si rendono conto che non sono sufficienti le opere sociali; occorre fare cultura, informare ed influire sulla pubblica opinione. Così si ha una eccezionale fioritura di stampa cattolica. Il 1° gennaio 1882 esce come settimanale “La Specola”, erede di “Padova Cattolica” (1881). Intende essere l’organo ufficiale di tutto il movimento cattolico di cui illustra le direttive; infatti si sottotitola: “A cura del Comitato diocesano per l’Opera dei congressi cattolici in Italia”. Si batte in tre direzioni: municipi, scuole, ospedali con un taglio illuminista, anti liberale, integralista. Nel 1889 entrò in redazione Giuseppe Sacchetti e “La Specola” si sottotitolò: “Lettera popolare del Sabbato”. Era il segnale di una ricerca di laicità. Dopo che il Sacchetti si trasferì a Milano, assunse la direzione don Amedeo Stivanello. Per difficoltà economiche cessò nel dicembre del 1894. Tra il 1892 e il 1896 venne pubblicata “La Sentinella”. Nel periodo 1894-1896 esce anche un altro settimanale: “Il Popolo”, con l’intento di popolarizzare l’idea cattolica. Vi compaiono scritti in dialetto di don Giuseppe Flucco. Dal 1° luglio 1896 diventò “Il Popolo quotidiano” con un supplemento, “Il Popolo della Domenica”. Chiude per contrasti interni il 13 dicembre 1896. Il 1° gennaio 1897, segno di un notevole fermento di interessi ma anche di faciloneria e di improvvisazione, ne prende il posto un nuovo quotidiano, “L’Ancora”, organo degli atti ufficiali del Comitato diocesano, con il supplemento “L’Ancora della Domenica”. Si tratta di un giornale moderno, politicamente impegnato e combattivo; è favorevole alla democrazia cristiana e intendeva preparare i cattolici alla diretta partecipazione politica. Il taglio è antisocialista e antiliberale; si schiera contro i cattolici moderati e, per motivi morali (la tutela del focolare domestico), contro l’attività 41 lavorativa extradomestica delle donne. Accetta lo sciopero. Venne sospeso durante la repressione del 1898. Nell’aprile del 1900, “L’Ancora” chiudeva per i contrasti tra i clerico moderati (sindacalisti e cooperativisti) e intransigenti. Così Padova rimane senza un giornale cattolico, mentre quattro erano quelli avversari: Il Veneto, La Provincia di Padova, L’Eco dei Lavoratori, La Libertà. Nel 1902 nasce il periodico “Per il Popolo” che si proponeva la difesa dottrinale con apertura ai problemi sociali del mondo rurale e artigiano e voleva il riconoscimento dl mondo cattolico. Cessò le pubblicazioni il 22 dicembre 1907, subito rimpiazzato, con continuità anche nelle testate, da “La Difesa del Popolo” (5 gennaio 1908). Chi vuole “leggere” le vicende del mondo cattolico padovano non può prescindere da questo settimanale che, nel corso di questo secolo, ha mantenuto un vincolo profondo con la comunità e il territorio in cui è nato cercando, anche nei periodi difficili e traumatici, di rimanere vicino al “vissuto quotidiano” della gente. La Camera del Lavoro Mentre i parroci organizzano opere sociali tra i contadini, un altro protagonista si presenta sulla scena: si tratta del Partito Socialista. Nel 1891 esce un giornale: “La Sveglia dei Lavoratori” e viene costituito un circolo di studi sociali di orientamento socialista. Nello stesso anno, il 1° maggio, si celebra a Padova per la prima volta la festa del lavoro. Due anni dopo si costituisce la Lega Socialista padovana aderente al Partito Socialista che diventa l’erede della tradizione anarchico-socialista la quale aveva avuto un certo peso tra le masse 42 bracciantili della Bassa. Non si dimentichi che a Monselice nel 1878, era stato effettuato il primo sciopero nel padovano, organizzato dagli anarchico-internazionalisti di Carlo Monticelli. Il 29 marzo 1893 nasce la Camera del Lavoro, dopo che l’idea era stata lanciata nell’ottobre 1892. Alla riunione costitutiva partecipano i rappresentanti di dieci società operaie cittadine e un buon numero di lavoratori. Presidente ne diventa l’avvocato Alessandro Marin, repubblicano, e il programma si ispira a cautela poichè la maggioranza dei promotori appartiene alla democrazia borghese, progressista e radicale. Si riteneva dovesse avere la funzione di un ufficio di collocamento gratuito. In giugno gli aderenti avevano superato i mille e si erano costituite quattro sezioni: fornai, calzolai, muratori e tipografi. Nell’agosto gli scalpellini fondavano la prima lega di resistenza. I cattolici padovani la ignorarono. Nonostante la moderazione, poco più di un anno dopo, il 23 ottobre 1894, il prefetto ne decreta lo scioglimento ritenendo che avesse superato i limiti di “sodalizio benefico” e denuncia all’autorità giudiziaria trenta aderenti. Viene ricostruita solo dopo sei anni, nel marzo del 1900, e ufficialmente inaugurata il 22 ottobre dello stesso anno con 3.009 iscritti. Al primo congresso nazionale della Federterra (1901) sono presenti quattro leghe padovane con 1.450 iscritti. Nei confronti delle aggregazioni “bianche” la Camera del Lavoro assume un atteggiamento nettamente ostile. In occasione del 3° Congresso nazionale della CGIL tenutosi proprio a Padova (Teatro Garibaldi, 24-28 maggio 1911) il segretario generale afferma: “Non è tanto il marchio confessionale quello che ci fa considerare l’organizzazione nemica, quanto che 43 questa organizzazione e per le origini sue, per ciò che rappresenta come fatto, e per i fini cui è indirizzata, è in aperta antitesi col genuino e spontaneo movimento di classe (...). L’organizzazione confessionale, come quella del resto ispirata da tutti i partiti conservatori, non è che del crumiraggio sistematico”. Note: (1) E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966, Signum 1988, p.310. (2) ISTAT, Compendio delle statistiche elettorali italiane dal 1848 al 1934, Roma 1947. (3) Storia dell’industria padovana, Supplemento redazionale da “Il Gazzettino”, 18 dicembre 1989. (4) A. Ventura, Padova, Laterza 1989, p.178. (5) Il Pianeta Veneto. La nostra gente, Editore Quotidiani Veneti, 1989, p.195. (6) Censimento della popolazione al 10 febbraio 1901, Roma 1903. (7) E. Morpurgo, Relazione sulla XI Circoscrizione. Atti della Giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Vol.IV, Roma 1882-83. (8) Notizie riassuntive intorno alle condizioni delle popolazioni agricole in Unione cattolica per gli Studi Sociali in Italia. Atti e documenti del secondo congresso cattolico italiano tenutosi in Padova nei giorni 26, 27, 28 agosto 1896, Padova 1897, p.306. (9) Il vicariato raggruppa più parrocchie di una stessa diocesi e il vicario vi esercita alcuni poteri per delega del vescovo. Si chiamava curazia un territorio con una propria chiesa però non costituito canonicamente in parrocchia. Le chiese sussidiarie si chiamano ora chiese minori dipendenti da una parrocchia. (10) G. Callegari, Lettera Pastorale al clero e al popolo della sua diocesi, Treviso 1883, p.29. 44 (11) G. Callegari, op. cit. p.32. (12) F. Agostini, Gli indirizzi e le iniziative pastorali di mons. Giuseppe Callegari nella diocesi di Padova, in Le scelte pastorali della Chiesa padovana 1883-1982, Gregoriana, Padova 1992, p.48. (13) F. Agostini, op. cit., p. 41. (14) G. Spadolini, L’opposizione cattolica, Vallecchi, Firenze 1954, p.254-256. (15) G. Spadolini, op. cit., pp.311-314. (16) A. Ventura, op. cit. p.211. (17) F. Agostini, op. cit., p.48. (18) F. Agostini, op. cit., p.59. (19) Archivio di Stato di Padova, Prefettura-Gabinetto (1985-1987). (20) A. Gambasin, Parroci e contadini nel Veneto alla fine dell’Ottocento, Roma 1973, pp.62-63. Nello Statuto della Cassa rurale di Piove di Sacco (24 maggio 1896) si specifica che tra i compiti del segretario c’è quello di “sorvegliare che all’apertura e chiusura di ogni adunanza si reciti una breve preghiera invocando la protezione del Signore Iddio”. (21) S. Tramontin, La figura e l’opera sociale di Luigi Cerutti, Brescia 1968. (22) A. Ventura, op. cit., p.204. 45 Capitolo III LA FASE DEL CONSOLIDAMENTO I primi anni del nuovo secolo sono segnati da forti contrasti tra i vertici del movimento cattolico, tanto che Pio X nel 1904 scioglie l’Opera, decretando la fine della prima esperienza unitaria dei cattolici italiani. Era evidente che il papa intendeva riaffermare il dovere della totale obbedienza alle sue direttive. Infatti nella lettere in cui veniva resa nota la decisione pontificia dello scioglimento, si legge: “E’ preferibile che un’opera non si faccia anziché farla contro la volontà del vescovo”. Il vescovo Luigi Pellizzo In questo contesto, a mons. Callegari succede mons. Luigi Pellizzo che reggerà la diocesi fino all’aprile del 1923. Mons. Pellizzo proviene da famiglia contadina friulano-slovena ed è portatore di un nuovo stile di azione sociale. Gli avversari lo chiamano “monsignor osso duro” o “monsignor orso” e tale fu in realtà per il suo carattere deciso e la sua energia. Prende possesso della diocesi (700 mila anime, 322 parrocchie e 31 curazie) il 2 maggio 1907 e non viene accolto bene dai socialisti ma neppure dalle componenti cattoliche moderate. La Padova massonica e anticlericale lo respinge con aperte manifestazioni di protesta quando vuole fare visita di cortesia all’Università e all’Ospedale. In Municipio il Sindaco, Giacomo Levi Civita, espresso dal “blocco popolare” che in realtà era espressione della Padova borghese alla quale conveniva un cattolicesimo sonnolento, lo accolse con un saluto di chiara intonazione anticlericale. Non ne rimane intimorito e la lettera che indirizza alla diocesi il 23 luglio 1908 non è certo di circostanza. Per dare maggior forza al suo progetto si richiama all’enciclica di Pio X “Il fermo proposito” riproducendo il passo che meglio rispondeva ai suoi intendimenti: “Il vero apostolo (...) s’adoperi adunque di migliorare anche, entro i limiti della giustizia e della carità, la condizione economica del popolo favorendo e promuovendo quelle istituzioni che a ciò conducono”. E aggiungeva: “Nessuno, meno casi eccezionali, si tenga estraneo dalla vita pubblica: poichè ogni cittadino ricco o povero, dotto o scarsamente istruito, ha dei diritti e dei doveri verso il Comune, la Provincia e lo Stato, li deve esercitare”(1). Il Corriere della Sera scriveva: “Nel Veneto (...) il vento della ribellione non arriva più dall’osteria o dalla piazza”, arriva invece dalle parrocchie “dove i sacerdoti organizzano i contadini contro i proprietari”. Occorre però dire che il vescovo Pellizzo concepiva l’azione sociale e politica come strumento teso a riconquistare al cristianesimo la società italiana. E’ un progetto che torna nell’immediato secondo dopoguerra con la proposta del “paese cristiano”. 48 In altri termini, l’intento era quello di salvaguardare la fede dagli attacchi della massoneria laicista e del socialismo ateo. Pertanto per lui l’esigenza primaria era quella di un rinnovamento della pastorale e di una piena valorizzazione delle varie forme di apostolato, senza separare l’azione religiosa da quella sociale e politica che riteneva essere un semplice prolungamento della prima. Pellizzo pensava ad una democrazia cristiana confessionale, obbediente alla gerarchia. Era una proposta che si muoveva in senso opposto a quella sturziana dell’aconfessionalità. Così intendeva l’Azione Cattolica come un valido strumento religioso e sociale insieme di modo che l’associazione, nella sua maggioranza, assume posizioni di fiancheggiamento alle iniziative sociali e politiche cattoliche. Ma clero e laicato ne risultarono divisi: ed è una storia che si ripete. Si ha, di fatto, la sovrapposizione dell’azione sociale a quella religiosa. I parroci escono dalle sacrestie, fanno azione sociale e poi anche politica in prima persona facendo delle parrocchie un punto di riferimento non solo ecclesiale e spesso si confondono con gli attivisti politici: fondano comitati elettorali, scelgono i candidati alle elezioni amministrative, convogliano voti con l’aiuto della stampa diocesana. Tutto questo si presta ad equivoci ed a facili interpretazioni di parte. L’opinione pubblica cittadina rimase notevolmente impressionata da una manifestazione di massa che ebbe luogo a Mottinello nei pressi di Galliera dove accorsero centinaia di contadini per impedire lo sfratto di una famiglia di mezzadri. Non c’era ancora un partito organizzato, ma anche nei documenti ufficiali si parla di “partito clericale”. Nel suo rapporto del 6 febbraio 1911 al Ministro degli Interni il Prefetto scrive: 49 “Sento il dovere di informare la prefata eccellenza vostra che l’organizzazione ideata e attuata da mons. Pellizzo, va sempre più estendendosi e rafforzandosi come avevo preveduto e va perciò diventando sempre più pericoloso per l’ordine pubblico in questa provincia. Rigido, tenace, astuto, detto prelato non si fa scrupoli di ricorrere anche a mezzi illeciti e di abusare del suo spirituale ministero pur di farsi strada e di raggiungere il fine propostosi che è quello di impadronirsi delle amministrazioni locali, di imporsi al governo, di sovrapporsi alle autorità civili, di creare quasi - insomma - in questa provincia uno stato nuovo che si muova e agisca a suo piacimento”(2). L’interpretazione è faziosa, ma esprime la preoccupazione diffusa per le conseguenze dell’azione del Vescovo sugli equilibri sociali e politici esistenti. D’altra parte nè i tradizionali comitati elettorali nè l’organizzazione socialista poteva competere con le strutture parrocchiali capillarmente presenti in tutto il territorio e la cui centralità spirituale e civile preoccupava non poco gli avversari. Le conseguenze sono evidenti: nelle elezioni politiche del 1913 nel collegio di Cittadella Leone Wollemborg, il fondatore delle casse rurali, viene battuto dal candidato cattolico. Conclusasi l’immane tragedia della Grande Guerra, che aveva lasciato ferite profonde, la Diocesi non era più quella di prima. Il Vescovo lo percepisce e, coinvolgendo il laicato, accentua l’azione religiosa rivolta alla riconquista delle coscienze, dedicando particolare attenzione all’evangelizzazione, alla catechesi, alla scuola e alla cultura. In questo quadro rientra l’avvio del Collegio Barbarigo che, con l’Antonianum, costituì il punto di partenza per un rinnovamento 50 cristiano facendo leva sulla cultura, e l’apertura della Gregoriana (1922). Nel marzo del 1921 dà inizio alla seconda visita pastorale, anche qui nel tentativo di porre rimedio agli sconvolgimenti morali e religiosi provocati dalla guerra. Vede nel Partito Popolare la saldatura dell’intensa azione sociale con l’aspetto più propriamente politico e scende direttamente in campo con la lettera pastorale del 15 febbraio 1920 nella quale sottolinea, con il suo stile forte, il pericolo dell’estremismo socialista che, a suo giudizio, faceva riferimento all’esperienza dei “Soviet russi”. Rimane però profonda la divaricazione tra la città laica e la campagna cattolica che si riconosce nel popolarismo sturziano: si ha lo scontro tra due blocchi sociali. Meglio sarebbe parlare di tre, perché il proletariato bracciantile e quello operaio fanno riferimento al socialismo. Permane pure vivo lo scontro all’interno del mondo cattolico ed ha sostanzialmente ragione chi afferma il carattere eminentemente rurale del cattolicesimo sociale e politico padovano. Intorno alla figura del vescovo Pellizzo crescono diffidenze e malcontenti, tanto che il Vaticano lo promuove, secondo una nota e collaudata prassi, a segretario economo della Fabbrica di San Pietro e quindi lo trasferisce mascherando una rimozione. E’ molto probabile che sul trasferimento abbia pesato l’ostilità dei fascisti locali che di sicuro non gradivano un vescovo legato al cattolicesimo sociale. Il forte impulso all’azione sociale Onde dare maggior vigore e organicità alla presenza sociale, mons. Pellizzo concentra le attività nella direzione diocesana che 51 crea ex novo in sostituzione del Comitato. Vi pone a capo il ventottenne don Restituito Cecconelli da Civè di Correzzola: di qui il suo interesse per il piovese. Il 29 febbraio 1908 il Vescovo invita nel Collegio Sacro le circa trecento associazioni sociali esistenti nel territorio diocesano. Ne risultano rappresentate 220 in una giornata, scrive la Difesa, che “rimarrà memorabile negli annali del nostro movimento” perché “dopo tanto tempo di sonno e di obbrobrioso letargo, che pareva quasi togliere la speranza di una futura resurrezione, è suonato per le forze cattoliche padovane lo squillo eccitatore della nuova vita”. Sono, in particolare, rappresentate 47 casse rurali, 34 comitati parrocchiali, 38 sezioni giovani, 19 assicurazioni del bestiame, 38 società di mutuo soccorso(3). L’attività di Cecconelli è frenetica. Si circonda di un gruppo eccezionale di giovani che poi avranno un ruolo rilevante: Gavino Sabadin (primo prefetto dopo la Liberazione), Cesare Crescente (per un ventennio Sindaco di Padova), Giuseppe Dalla Torre (per un quarantennio direttore de L’Osservatore Romano), Rinaldo Pietrogrande, Italo Rosa, Sebastiano Schiavon (poi deputato) al quale viene affidato l’Ufficio cattolico del Lavoro, pure di nuova costituzione (1908). L’Ufficio, che corrisponde alla Lega socialista, si occupa di contratti agrari, di patti colonici, di miglioramenti salariali rompendo vecchi equilibri e talora scavalcando a sinistra i socialisti. Ha subito successo tra i fittavoli poichè si batte contro le “onoranze” e per la modifica dei patti agrari. L’Ufficio Cattolico del Lavoro si occupa anche delle operaie tessili del Piovese (a Piove l’Ufficio aveva aperto una agenzia) le quali erano circa duemila e che in dodici ore di lavoro guadagnavano al massimo 60 centesimi e, per di più, il pagamento veniva effettuato non in danaro ma in merce spesso computata ad un prezzo superiore a quello praticato al pubblico. 52 Il 1° agosto(4) si riuniscono nel teatro cattolico di Piove e decidono per lo sciopero, dopo di che si arriva all’accordo che Cecconelli presenta in un’affollata assemblea - erano più di 600 le operaie presenti - svoltasi a Vigorovea. Lo stesso Ufficio promuove nell’aprile del 1909 uno sciopero che coinvolge 200 operai della Sgaravatti di Saonara e dura undici giorni. Occorre rilevare che gli organizzatori di leghe erano una minoranza abbastanza ristretta all’interno del movimento cattolico e nel padovano avevano una presenza assai limitata tra gli operai. Non va trascurato il fatto che contemporaneamente a questa fioritura di attività nasce a livello nazionale l’iniziativa delle Settimane sociali che affrontano temi rilevanti per l’impegno sociale. La prima Settimana sociale (Pistoia, 23-28 settembre 1907) ebbe infatti per tema: “Movimento cattolico e azione sindacale. Contratti di lavoro, cooperazione e organizzazione sindacale. Scuola”. Nel 1908 le settimane sociali furono addirittura due; l’una a Brescia (6-13 settembre) su: “Questione agraria. Condizione operaia ed educazione. Programma sociale ed organizzazioni cattoliche”, l’altra a Padova che discusse di: “Questioni del lavoro e dell’economia. Problemi agricoli”. La quarta si tenne a Firenze ed ebbe a tema: “Cattolicesimo sociale ed economia moderna”. Tra i relatori all’ottava (Milano 30 novembre-6 dicembre 1913) ci fu Giuseppe Dalla Torre. Il quadriennio 1908-1911 fu un periodo esaltante. Don Restituto era ovunque a stimolare e promuovere. Nella sua Bassa, agli operai di Tribano, afferma che “la Chiesa ci proibisce solo di dimenticare i nostri diritti” e scrive che le organizzazioni cristiane di classe “più che mezzo di resistenza sono garanzie di pace”. Nei primi otto mesi del 1909 vengono costituite 193 nuove società: un numero che ha dell’incredibile. 53 Tra le diverse realizzazioni originali può essere citata l’assicurazione dei suini (il salvadaio dei poveri) realizzata a Conselve (15 marzo 1908): costava una lira all’anno e rispondeva ad un bisogno immediato data l’importanza che l’allevamento del maiale aveva per la gente dei campi. Si comincia, in sostanza, ad andare oltre il vecchio solidarismo cattolico scendendo sul terreno sindacale. L’azione rivendicativa turba i vecchi equilibri anche all’interno del mondo cattolico padovano in buona parte chiuso e miope, amante del quieto vivere o meglio del “quieta non movere”. Nell’Alta padovana, che in parte ricade nella diocesi di Treviso, si fa sentire l’influsso di Giuseppe Corazzin. A Cittadella nasce il primo sindacato rurale cattolico il 1° maggio 1909 ad opera di Sebastiano Schiavon. Si denomina “Unione professionale tra i lavoratori della terra” e il 15 maggio 1910 diventa “Sindacato veneto fra i lavoratori della terra” che comprende i contadini cattolici delle diocesi di Padova, Treviso e Vicenza. Si struttura in sezioni su base parrocchiale. L’intento è quello di offrire agli agrari un’alternativa alle trattative con le leghe rosse. Ma durò poco. Il Cecconelli (e non poteva essere diversamente date le connotazioni della sua azione) si schierò con Miglioli, assumendo chiaramente posizioni di sinistra. Lo scontro avvenne al Congresso cattolico di Modena apertosi il 9 novembre 1910. Cecconelli affermò con forza che non accettava le unioni miste caldeggiate da Nicolò Rezzara e difese il diritto di sciopero accusando di eccessiva cautela il programma che veniva proposto. Tra l’altro disse: “Pare a noi di vedere uno studio perché le giovani energie non possano esplicarsi, perché ci si vuole 54 tenere indietro. Guardate i verbi che riempiono questo documento: ordina, vuole, delibera, consiglia (...). Ora questa preoccupazione mi fa paura (...). Restiamo a casa se non possiamo dire quello che abbiamo nell’animo. Nella relazione Rezzara non si parla di scioperi, eppure noi abbiamo dovuto organizzarne e sostenerne parecchi, ma non ci venne mai un consiglio, mai una istruzione della direzione dell’Unione economico-sociale, eppure questi scioperi erano indispensabili a farsi (...). Quanto alle unioni miste noi ci dichiariamo assolutamente contrari ad esse. Coloro che sono pratici di organizzazione, conoscono le difficoltà che vi sono per fare una propaganda. I contadini ci guardano negli occhi, anche noi cattolici e preti per vedere se siamo sinceri; stanno a guardare dove andiamo a finire, quando abbiamo finito la nostra propaganda se dal conte A, se dal barone B. Ma se torniamo a casa sulla nostra povera carrozza, allora soltanto hanno stima di noi”(5). Le speranze del gruppo dei giovani riuniti attorno a Miglioli, trovarono un netto atteggiamento di chiusura nell’intervento conclusivo di Crispolti che, esprimendo il pensiero vaticano, affermò che in Italia non era concepibile un partito cattolico autonomo o un partito cristiano-sociale che prescindesse dalle ragioni altissime della Santa Sede. Nella società le Unioni dovevano mantenere “carattere confessionale e realizzare prevalentemente opere di carità”(6). Ci furono pressioni del Vaticano preoccupato delle iniziative sociali padovane e delle posizioni assunte da Don Restituto che era 55 anche consigliere comunale e provinciale. Dopo le “autorevoli pressioni” fu fatto dimettere dalla presidenza della Direzione diocesana, allontanato dalla Difesa e dal quotidiano La Libertà. Secondo una consolidata tradizione curiale, fu mandato fuori provincia, prima a Thiene nel collegio vescovile e poi curato a Fonzaso. Nonostante l’allontanamento del Cecconelli, l’azione intrapresa, anche se proseguita con minore incisività, diede i suoi frutti anche sul piano politico. Nelle elezioni amministrative del 1912 i cattolici, alleati con i liberali moderati, riconquistarono il Comune di Padova e cominciarono a controllare diversi comuni. Nel 1914 Gavino Sabadin diventa Sindaco di Cittadella e nelle elezioni politiche del 1913, le prime a vedere la presenza di candidati cattolici, era stato eletto deputato con una larghissima maggioranza (10.156 voti contro i 1.079 del candidato socialista) nel collegio di Cittadella-Camposampiero, l’area più bianca d’Italia (allora vigeva il sistema uninominale) il prof. Sebastiano Schiavon, lo “strapazza siori”. Continua contestualmente la costituzione di casse rurali (nel 1914 le casse rurali funzionanti nel territorio padovano raggiungono il numero di 97) di cooperative, di assicurazioni, di società di mutuo soccorso in una situazione sociale ed economica che rimane estremamente pesante, come dimostrano i dati sull’emigrazione: dal Veneto se ne vanno più di centomila persone all’anno con una punta di 123.853 nel 1913. Il Veneto è in gran parte ancora quello dei “buoni villici”, delle serve “ciacolone”, dei carabinieri tonti. Nella città sono molti quelli che vengono chiamati “industrianti”, quelli che si “arrangiano” senza un mestiere definito: battono il baccalà sui paracarri, riordinano i ciottoli sulle strade, pescano nei canali. 56 La “Difesa del Popolo” All’interno di un nitido disegno strategico e nella consapevolezza che per una riconquista della società era necessaria l’informazione, dopo appena otto mesi dal suo ingresso, mons. Pellizzo crea il settimanale “La Difesa del Popolo”. Il primo numero reca la data del 5 gennaio 1908. La redazione è in via Cappelli 10; un numero costava 10 centesimi e l’abbonamento annuo 2 lire e cinquanta centesimi. Significativo il disegno della testata. Sulla sinistra è raffigurata una donna armata di scudo che difende un lavoratore appoggiato ad un’incudine tra fumiganti ciminiere; sulla destra c’è un contadino che ara sotto il sole in un paesaggio campestre dominato da una chiesa. La stessa titolazione era tutto un programma che veniva così spiegato: “Difesa del Popolo sul terreno vero delle rivendicazioni sociali, inquantochè (e lo proclamiamo a voce alta) noi intendiamo che, salvaguardati i diritti e tenuto in doverosa considerazione il prestigio di quelli che sono i reggitori della società, anche ai lavoratori siano garantiti, e anche per essi siano rivendicati, quei diritti che umanità e progresso assolutamente esigono”. Nella presentazione del nuovo “periodico settimanale della Diocesi di Padova”, come si leggeva nel sottotitolo, l’avvocato Umberto Signorini scriveva che la “Difesa del Popolo era contro l’enorme ammasso di errori che, ai danni del proletariato, 57 continuamente vengono divulgati per strappargli dal cuore e dalla mente la fede”. La finalità dichiarata era quindi anzitutto religiosa. Sul piano politico l’orientamento è chiarissimo: si polemizza con le leghe socialiste e le amministrazioni comunali rette dai socialisti e il tono è duro e sarcastico. Se ne ha un’idea rileggendo la rubrica “Macchiette rosse” dove si dice che il capolega socialista mette insieme “l’astuzia della volpe con la viltà del coniglio, la simulazione infedele del gatto con la sciocca burbanza del cane bulldog, la fame del lupo con la sete di sangue del vampiro”. Del resto il programma precisava: “Ammiriamo gli operai che (...) si stringono in lega per istruirsi, civilizzarsi, migliorare le proprie condizioni e per far valere le proprie ragionevoli richieste” nella convinzione che essi debbano rifiutare qualsiasi atto di ribellione e di violenza, nè “giammai e per nessun motivo e in nessuna circostanza” dimenticare “il principio d’autorità, il sentimento religioso, la dignità morale”. Fatto nuovo in quel contesto abbastanza tradizionalista, Cecconelli (Difesa, 9 agosto 1908) scriveva: “Organizziamo le donne lavoratrici”. Fece subito presa il linguaggio facile e la concretezza dei problemi affrontati, l’attualità e la cronaca diocesana. Nel numero del 13 agosto 1911 si poteva leggere: “Il nostro non è un giornale uso Gazzettino; è un giornale di battaglia (...) non fatto per divertire ma per istruire, un giornale di azione, non di chiacchere”. La dimostrazione concreta del consenso dei lettori è data dal fatto che dopo soli tre anni la tiratura dalle 1.500 copie iniziali sale a 12.000. Il settimanale si fece portavoce del movimento sociale cattolico e delle sue iniziative. L’8 marzo 1914 la redazione si trasferì in via Dietro Duomo dove è tuttora. 58 Due anni dopo (15 dicembre 1909) esce il quotidiano “La Libertà” che durerà fino all’ottobre 1921 quando viene sostituito da “Il Popolo Veneto”. Aveva lo stesso titolo dell’omonimo giornale radicale che aveva da pochi mesi cessato le pubblicazioni. Lo dirige il Cecconelli, presto sostituito, per volontà del vescovo, da Giuseppe Dalla Torre. Mentre con la Difesa Pellizzo si proponeva di influire sulle masse contadine per sottrarle all’influenza socialista, con “La Libertà” pensava alla contestuale riconquista della città, ben consapevole che a tal fine occorreva uno strumento diverso da un settimanale. Il Dalla Torre diede notevole impulso a “La Libertà” facendone l’espressione di un cattolicesimo che intendeva superare le sterili posizioni dell’intransigentismo aprendosi all’adesione dei cattolici all’accettazione dell’unità nazionale in un clima di libertà che offrisse alla Chiesa le necessarie garanzie di indipendenza e, ponendo fine al laicismo anticlericale, consentisse alla religione di esperire la sua azione rivolta ad influire sul vivere civile, sulle istituzioni e sulle leggi. Nel 1912 il Dalla Torre, nominato presidente dell’Unione Popolare, ne trasferì la sede da Firenze a Padova. Nel 1915 sarà trasferita a Roma. I casoni e la pellagra Di casoni, tipiche e misere costruzioni emblema della condizione contadina, agli inizi del secolo (1903) ce n’erano nella nostra provincia 12.898 abitati da 80.000 mila persone. Nel 1933 ce n’erano ancora 2.644 e 361 nel 1954, tutti nel piovese. Sulla “Difesa del Popolo” del 16 aprile 1911 ne viene descritto uno di Sandon: un unico locale di 4 metri per 3 e mezzo che serviva da 59 cucina, camera da letto; granaio, legnaia, cantina e pollaio. Il pavimento era di terra battuta e il tetto di paglia. Cecconelli li definisce “delitti di umanità” e tane da “civiltà abissina” e si batte con forza per la loro eliminazione, sia dalle pagine del settimanale diocesano sia con precisi e documentati interventi in Consiglio provinciale. Per obbligare pubbliche autorità e amministrazioni comunali ad intervenire, il Cecconelli organizzava gruppi che mandavano ostentatamente a fuoco i casoni in particolare nella saccisia dove erano più numerosi. Fu questa una delle pagine più esaltanti della lotta per il miglioramento delle condizioni in cui si viveva nella campagna padovana. A questo segno emblematico della condizione contadina, se ne accompagna un altro altrettanto significativo, la pellagra, dovuta ad alimentazione povera di vitamine, in particolare la polenta, alimento base della gente veneta, da cui l’espressione “veneto polenton”. Nel 1909, secondo dati ufficiali, la pellagra colpiva nella nostra provincia 11.670 persone: erano 22.154, pari al 5,6 per cento della popolazione nel 1881 quando Padova deteneva nel Veneto il triste primato, seconda in Italia dopo Brescia. I pellagrosi erano così ripartiti territorialmente: - 1.268 nel camposampierese; - 985 nel cittadellese; - 1.548 nel conselvano; - 762 nell’estense; - 1.024 nel monselicense; - 154 nel montagnanese; - 1.769 nel piovese; - 4.250 nel mandamento di Padova. Oltre 40 erano i casi nella sola parrocchia di Pontelongo. 60 Per decenni sono rimaste tra le espressioni usuali dei nostri vecchi: “gheto la pelagra?” e “pelagroso”. Era il ricordo forte di un evento inevitabile come le avversità atmosferiche: “La pellagra te la trovi addosso come la miseria, quando mangi... solo polenta”. Il solco profondo tra cattolici e socialisti Più volte si è accennato alla totale reciproca incomprensione tra movimento cattolico e movimento socialista: diversa era l’ideologia, diversi i fini e i mezzi. La Chiesa e il movimento cattolico rifiutano il concetto di lotta di classe arrivando con fatica ad accettare l’idea di azione di classe, fermi come sono in buona parte al corporativismo interclassiste. Lo stanno a dimostrare le difficoltà incontrate da Miglioli e dal nostro Cecconelli. La “rivoluzione sociale” è del tutto estranea ed incomprensibile alla cultura della parrocchia veneta; per di più i parroci, che sono di estrazione contadina, non riescono a capire la civiltà industriale che avanza con tutti i diversi fenomeni conseguenti. Gioca in questo senso, oltre all’estrazione sociale, la mentalità e l’educazione ricevuta. Il mondo dei campi è legato all’immutabile fluire delle stagioni, ai misteri di una natura che l’operaio demitizza trasformando la materia e capovolgendo l’esperienza psicologica del contadino il cui ritmo di vita è scandito, oltre che dalle stagioni, dalle feste religiose. Sul versante sociale, i socialisti non si fanno affatto carico delle esigenze dei coltivatori diretti, dei piccoli proprietari e affittuari e degli artigiani. A dividere i “bianchi” dai “rossi” non c’è soltanto il 61 fatto religioso (la “miscredenza” socialista); c’è una concezione del tutto opposta dei rapporti di classe. Date le premesse, è inevitabile che il sindacalismo cattolico delle “leghe bianche” si diffonda tra i contadini e, in particolare, tra la grande massa dei coltivatori diretti, che non sono assimilabili nè agli agrari nè ai braccianti (aspetto non colto dai socialisti) e tra le lavoratrici del settore tessile. Le leghe socialiste sono forti tra i lavoratori della Bassa, dove più numerosi sono i braccianti e più misere le condizioni di vita. Si espandono subito tra gli operai della nascente industria, che dissocia il lavoro dalla religiosità e cambia mentalità e costumi. L’attivismo sociale dei cattolici preoccupa non poco i socialisti. L’”Eco dei Lavoratori” in data 8 gennaio 1907 parla di opera nefasta e partigiana che, sotto il manto della carità, esercita il partito nero, quello dei preti”. Nè meno teneri sono nei confronti dei socialisti i vescovi veneti. Nell’omelia di Natale del 1909 il vescovo di Treviso, Andrea Giacinto Longhin, disse: “Le masse degli operai si sollevano furibonde; il socialismo, diventato anarchia, invade le campagne (...). L’uomo può unirsi, può federarsi in leghe o sindacati per meglio provvedere ai propri interessi (...) in conformità alla dottrina sociale della Chiesa”. L’incomunicabilità ha un riscontro visivo: i “bianchi” si ritrovano sul sagrato della Chiesa, i “rossi” all’osteria (nel territorio padovano nel 1909 ce n’erano 2.955, una ogni 157 abitanti). C’è contrapposizione anche nel celebrare la festa del lavoro. E’ ancora Cecconelli a dire: “Anche quest’anno i cattolici d’azione festeggiano il primo maggio, non con chiasso e con vane parole, ma col forte proposito di una vigorosa ripresa di propaganda e di lavoro in pro del popolo sfruttato dai nemici del cristianesimo”(7). 62 Va pure rilevato che neppure gli agrari accettano l’azione dei cattolici, che a volte preferiscono trattare con i socialisti. Lo rileva il Cecconelli: “L’indirizzo nuovo dato da noi all’azione cattolica padovana non ha destato le simpatie di tutti, ha urtato anzi la suscettibilità di molti (...). Oggi vorremmo vincere le diffidenze e le paure di certi padroni e grandi fittavoli, la mentalità dei quali lascia molto a desiderare (...). Molti borghesi, ammalati di anticlericalismo cronico, considerano le organizzazioni socialiste come un minor male di fronte a quelle democratico cristiane (...). Meglio il Segretario della Camera del Lavoro Piuttosto che il prete”(8). Il quadro è completo se si aggiunge il rifiuto socialista del fatto religioso. L’incomprensione è totale e si fa spesso astiosa e polemica; al radicalismo laico e socialista si risponde con l’integralismo clericale e l’antisocialismo viscerale: i cattolici moderati a Padova, come si è detto, erano scarsamente influenti con la conseguenza inevitabile che si è avuto il predominio incontrastato degli intransigenti, i quali hanno bloccato ogni apertura sia sociale, impedendo altresì la ricerca di conciliazione tra fede cattolica e pensiero moderno. Tutto sommato ciò andava bene anche a socialisti e laici anticlericali ai quali sarebbe stato più difficile combattere un cattolicesimo moderno e illuminato poiché, come è ben noto, spesso è più facile la strada del ricorso alla categoria del nemico da demonizzare e sconfiggere, pur essendosi incaricata di dimostrare che il risultato, anche se c’è, è effimero. Sono molti e assai significativi gli esempi che si possono fare. 63 La posizione socialista nei confronti della religione è espressa con chiarezza da Andrea Costa: “La questione religiosa è parte essenziale della questione sociale. Pregiudizio e privilegio sono strettamente legati l’uno all’altro. Miseria e ignoranza: ecco ciò che sta al di sotto di ogni pregiudizio religioso. Stando così male in questo modo, è naturale che le plebi povere della città e della campagna cerchino il loro rifugio in un mondo migliore, sia pure oltre la vita. Rendete loro cara la terra, mettendole in grado di vivere più umanamente. Più benessere, più libertà, più cultura! Sbarazziamoci dei privilegi: ci sbarazzeremo dei pregiudizi, faremo così guerra efficace al clericalismo”. In sostanza l’esponente socialista, molto noto a Padova, sostiene che la religione è frutto dell’ignoranza e sostegno del privilegio. Perciò l’azione sociale del vescovo Pellizzo viene attaccata a fondo dal laicismo padovano. Se ne trova un esempio significativo ne “L’Asino” di Podrecca che in data 8 agosto 1909 scriveva: “Questo prete che ha un passato non onorevole è ora il capo riconosciuto e temuto delle bande clericali spadroneggianti la Vandea d’Italia. Nel suo pugno si annodano le fila dell’organizzazione operaia cattolica, estesa largamente dal clero su tutte le campagne del Veneto. Pellizzo è il suggeritore di questa triste e turpe commedia delle Leghe di resistenza cristiana, 64 che servono a dominare la massa dei contadini, e permettono di fare ricatti sulla paura zotica della borghesia campagnola, trepidante perfino alle parole organizzazione, lega, associazione. Insomma questo vescovo demagogo ha saputo foggiare un’arma a doppio taglio, con la quale affetta per se la torta borghese da una parte, la polenta proletaria dall’altra”. La durezza dell’attacco costituisce però un involontario riconoscimento dell’azione svolta dal vescovo. Più morbido e tattico era stato Vittorio Gottardi che nella sua relazione al Congresso socialista veneto (Legnago, 3 giugno 1894) aveva esortato a “lasciar stare la religione” concludendo: “In ogni modo, non bisognerà offender Dio. In campagna, più che altrove, sarà bene lasciarlo, insieme agli uccellini, fra le nuvole sue. E non tirargli contro”(9). Evidentemente Gottardi aveva, più di Andrea Costa e di Podrecca, il senso della realtà. A Padova non mancano manifestazioni di anticlericalismo rosso. L’11 febbraio 1919 viene interrotta da una “gazzarra incomposta” la processione serale con le candele in onore della Madonna di Lourdes guidata dal vescovo Pellizzo(10). Si chiude una fase Con la Grande Guerra si chiuse la prima fase del movimento cattolico, una fase esaltante anche se quasi sempre sommessa, 65 discreta ed umile, fatta di tanti piccoli tasselli messi insieme dall’iniziativa tenace e paziente di tanti nostri parroci. Movimento clerico-contadino? Sicuramente l’iniziativa è partita dai parroci e il movimento cattolico, sviluppatosi nella nostra diocesi e nel Veneto, rispecchiava mentalità, stati d’animo e bisogni di un ceto contadino povero i cui problemi più pressanti erano il pane quotidiano, lo sfratto, le ipoteche, le usure, le malattie, le avversità atmosferiche. Populismo cristiano? La risposta è negativa se al termine “populismo” si dà il significato di un atteggiamento generico, velleitario e demagogico, sostanzialmente reazionario. Come si è cercato di dimostrare, il movimento cattolico nella nostra diocesi non fu niente di tutto questo. Fu risposta concreta ed immediata a bisogni concreti ed immediati; una risposta che, seguendo un chiaro processo logico, crescendo prese coscienza di sé e da attività assistenziale e solidaristica si fece attività rivendicativa e poi cominciò a prendere forma politica su una strada tutta in salita poichè a difficoltà oggettive si aggiunsero quelle derivanti dalle posizioni vaticane prima nei confronti dello Stato italiano, poi nei confronti del gruppo di Murri e, infine, nei confronti del popolarismo sturziano lasciato al suo destino. Note: (1) A. Lazzarini, Vita sociale e religiosa nel padovano agli inizi del novecento, Roma 1978, pp.196-204. (2) G. Romanato, Luigi Pellizzo a Padova (1907-1923) in “Le scelte pastorali ...”, op. cit., p.93. (3) Si veda in appendice l’elenco completo. (4) La Difesa del Popolo, 2 agosto 1908. (5) G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia, Laterza 1970, p.321. 66 (6) G. De Rosa, op. cit., pp.316-325. (7) La Difesa del Popolo, 2 maggio 1909. (8) La Difesa del Popolo, 28 giugno 1908. (9) AA.VV., Il sindacalismo agricolo Veneto e l’opera di G. Corazzin, Fondazione Corazzin 1983, p.23. (10) Bollettino diocesano, marzo 1919. 67 Capitolo IV NELLA TEMPESTA DELLA “GRANDE GUERRA” Nel profilarsi di quella che fu chiamata la “Grande Guerra”, una volta tanto cattolici, socialisti e moderati giolittiani si erano trovati sulla stessa posizione: d’accordo contro l’intervento dell’Italia. Sono invece entusiasticamente interventisti forti gruppi universitari padovani le cui posizioni - fatto per niente nuovo della storia della città - sono nettamente contrapposte a quelle della maggioranza della popolazione il cui atteggiamento mentale e i cui interessi non portavano certo verso la guerra. I cattolici padovani nulla concedono al patriottismo nazionalista e il “cattolico deputato” padovano, Sebastiano Schiavon, dirigente della locale Unione cattolica del Lavoro, nella memorabile seduta parlamentare del 20 maggio 1915 vota contro la concessione al Governo dei pieni poteri per la guerra. Scriveva la “Difesa” ancora il 18 ottobre 1914: “La guerra è una tragedia. Oltre alle motivazioni morali ci sono per i cattolici altre ragioni, non ultima quella dei legami con la cattolicissima Austria”. Il vescovo Pellizzo rifiuta la tradizionale concezione della “guerra giusta” sostenendo che in tale categoria “è totalmente assente il senso cristiano”. Egli vede nell’immane conflitto “un castigo della divina giustizia che, abbandonando le traviate passioni degli uomini al loro corso totale, ne faceva sentire ad essi amarissimi frutti”. E invita i fedeli a pratiche di pietà riparatrice. Ma, dopo l’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915), fa scrivere su “La Difesa” del 30 maggio: “Noi fummo sempre contrari ad una guerra come guerra (...). Il sacrificio è grande, ma è grande l’animo dei cattolici italiani, sereni alla luce della nostra fede, forti nell’amore alla nostra Patria (...). Mai come ora fu necessaria la concordia nazionale”. E “La Libertà” scrive: “i cattolici non hanno che un dovere solo, quello di sorreggere nella disciplinata, patriottica unità di intenti il governo nell’opera ardua che si sta svolgendo e che dobbiamo ritenere rispondente agli interessi della Patria”. In realtà preti e laici il loro dovere lo fecero interamente dimostrando con i fatti la loro assoluta fedeltà patriottica. Però una quindicina di preti fu accusata di disfattismo, di austriacantismo, di spionaggio, di incitamento alla diserzione. Il caso più noto è quello di Don Antonio Dalla Valle, arciprete di Este, che il 3 settembre 1917 venne denunciato perché aveva fatto distribuire ai fedeli che uscivano dal Duomo la “nota” nella quale Benedetto XV definiva la guerra “un’inutile strage”. Il 6 febbraio successivo venne arrestato per disfattismo perché durante l’omelia domenicale, parafrasando l’invocazione delle litanie dei santi: “A peste, fame et bello, libera nos Domine” aveva detto: “La guerra ci ha dato sempre peste, fame e immoralità”. Venne processato; lo stesso vescovo andò a testimoniare e Don Antonio venne assolto. Ben 186 sacerdoti diocesani e 210 chierici furono chiamati alle armi; di essi una trentina furono decorati al valore militare; 11 non tornarono. La diocesi di Padova fu la quinta d’Italia per il numero di sacerdoti e chierici chiamati alle armi e la seconda, dopo Milano, per il numero dei decorati. Dato il clima anticlericale prevalente nei comandi militari, essi furono spesso addetti a servizi umilianti. Lo rilevò lo stesso capo di Stato Maggiore preso l’Intendenza generale dell’Esercito: “Un numero ragguardevole di soldati sacerdoti è adibito a servizi, quali pulizia e depurazione dei fossi, sistemazione di concimaie, asportazione di immondizie con carriole (...), lavatura di pavimenti, disinfezione di stalle...”. 70 Molti furono in prima linea e tra essi anche un futuro vescovo, don Vittorio De Zanche, cappellano del VII° Lancieri Milano. Il vescovo, ritenendo giustamente che la figura del prete non andasse confusa con quella del soldato, dispose che in chiesa essi non potessero confessare in divisa. Nonostante il lealismo e il coraggio dimostrato al fronte (non ci fu solo l’esempio fulgido di Guido Negri, il “capitano santo”) i cattolici continuarono ad essere accusati di scarsa fedeltà verso la Patria tanto che intervenne lo stesso vescovo il quale nel giugno 1917 scrive che solo un “settarismo delinquente a fini inconfessabili” poteva spiegare “la malignità a ridire su tutto nel clero” e si chiede cosa sarebbe avvenuto, specialmente nelle campagne, se il clero non avesse interamente compiuto il suo dovere. Il 4 luglio, anticipando la nota espressione di Papa Benedetto XV, definisce il conflitto “orribile e inutile strage”, ma nel contempo continua a mettere in evidenza il comportamento della Chiesa diocesana. Con un legittimo senso di orgoglio, dopo Caporetto, scrive al Papa che tutti erano scappati come lepri e che solo i preti erano rimasti con la loro gente. Dopo la rotta del fronte (ottobre-novembre 1917) Padova divenne “capitale del fronte” poichè vi ebbe sede il Comando Supremo. Parte della diocesi si venne a trovare sulla linea del fuoco; la popolazione di 35 parrocchie dell’altopiano di Asiago e della Valbrenta venne sgomberata e nell’ultimo anno di guerra altre 22 si vennero a trovare al di là delle linee austriache. Il vescovo si prodiga instancabilmente in favore dei militari feriti che affluiscono a Padova, visita sistematicamente i profughi e non manca di recarsi nei campi di internamento dei prigionieri austriaci. Altrettanto fa il vescovo Rodolfi di Vicenza e Longhin di Treviso. Come altre volte era avvenuto nei momenti più gravi della nostra storia nazionale la Chiesa, dimostrando una eccezionale 71 capacità di tenuta, è con la popolazione di cui cerca di alleviare le sofferenze. Prezioso si rivelò il servizio prestato dalle suore nei tre ospedali militari di Padova, nelle loro dodici sezioni staccate e nei tredici ospedali militari esistenti nel territorio diocesano. Verso la fine del 1917 il Seminario diventò ospedale militare della Croce Rossa. Padova, data la vicinanza al fronte e la ancora limitata autonomia degli aerei, subì i primi bombardamenti aerei della storia. Il 2 novembre 1916 era stata bombardata la Rotonda, come ricorda la lapide in Piazza Mazzini. Ma una vera ondata di incursioni sulla città si ebbe tra il 28 dicembre 1917 e il 5 gennaio 1918: vi furono sei incursioni durante le quali vennero sganciate sull’abitato 579 bombe. La sera del 29 dicembre fu colpita la basilica del Carmine (la cupola bruciò come una torcia) e interamente distrutto il teatro Verdi. L’incursione più grave fu quella del 30 dicembre. Fu abbattuto il frontone del Duomo; colpita la basilica del Santo e il Museo. Rimase miracolosamente illesa la Cappella degli Scrovegni (cinque bombe caddero vicinissime) e pure il Seminario nei cui pressi caddero due bombe incendiarie che fortunatamente non esplosero. Complessivamente Padova subì 19 incursioni aeree, vi caddero 912 bombe che causarono 129 morti; 105 edifici rimasero distrutti. Il settimanale diocesano “La Difesa del Popolo” sospese le pubblicazioni dopo il 14 novembre 1917 per riprenderle, a guerra finita, il 10 novembre 1918. Adempiendo ad un voto formulato nel periodo più tragico della guerra dell’associazione universale Sant’Antonio, il 9 maggio 1919, il vescovo poneva la prima pietra del Tempio votivo della Pace. Con la “Grande Guerra” finisce in buona parte l’Ottocento contadino veneto che scompare del tutto con il secondo conflitto mondiale, dopo la non trascurabile appendice del “ruralismo fascista”. 72 Capitolo V DAL PARTITO POPOLARE ALLA DITTATURA FASCISTA Gli avvenimenti che segnano il periodo intercorrente tra la fine della prima guerra mondiale e la seconda sono sufficientemente noti. E’ però una storia molto controversa sulla quale da parte cattolica poco si è fatto per ricondurre i fatti alla loro realtà. Continuano così ad avere larga accoglienza tesi che presentano una visione distorta, se non tendenziosa, concernenti, in particolare, l’atteggiamento della Chiesa e dei cattolici nei confronti del fascismo. Nasce il Partito Popolare Nell’immediato dopoguerra il movimento cattolico assume una nuova fisionomia. Finiscono le Unioni, che ne avevano caratterizzato la prima fase, e nascono quattro nuove organizzazioni: una politica, il Partito Popolare in luogo dell’Unione elettorale; una sindacale, la Confederazione Italiana dei Lavoratori (C.I.L.) in luogo delle Unioni professionali; due economiche, la Confederazione Cooperativa Italiana (associa 2116 casse rurali, 800 unioni agricole, 525 cooperative di ex combattenti) e la Federazione Mutualità e Assicurazioni sociali in luogo dell’Unione economico-sociale. Il Partito Popolare, fondato il 18 gennaio 1919 con l’appello “A tutti gli uomini liberi e forti”, altro non fece che raccogliere nell’arco della sua breve e tormentata vicenda i frutti del lavoro metodico, intenso e diffuso svolto in precedenza dai cattolici in campo sociale. A Padova ci si muove subito. Ai primi di febbraio del 1919 si insedia una commissione provvisoria con il compito di preparare la costituzione formale del Partito Popolare. Ne fanno parte l’avv. Andrea De Besi, il conte avv. Baldino Compostella, l’avv. Cesare Crescente, l’avv. prof. Italo Rosa, l’avv. Gavino Sabadin, l’on. Sebastiano Schiavon, l’avv. Pietro Tono. Alla fine dello stesso mese, nella sede del Circolo Cattolico in via Altinate 20, avviene la costituzione ufficiale. Il programma viene presentato dall’avv. Italo Rosa. La presidenza della Sezione padovana risultò così composta: Conte Antonio Cittadella Vigodarzere; on. prof. Sebastiano Schiavon; prof. avv. Italo Rosa; avv. cav. Cesare Crescente; avv. nob. Andrea De Besi; cav. ing. Agostino Zanovello; cav. Antonio Casale; dott. Roberto Roberti; Luigi Dorio, ferroviere; Giuseppe Cecchinato, agricoltore. A chi osservava che in campo politico esisteva già l’Unione Popolare, la “Difesa” (23 febbraio 1919) spiegò: “... niente soppressioni e niente confusione. L’Unione Popolare seguirà la propria strada sotto la guida dell’autorità ecclesiastica (...). Il PPI si manterrà indipendente nella sua sfera d’azione e mirerà all’applicazione dei principi del cristianesimo alla vita politicolegislativa”. 74 Inizialmente non si guardò al Partito socialista come ad un nemico, anzi nella “Difesa” del 2 febbraio 1919 si leggeva: “... il nostro e il loro partito (quello dei socialisti) sono le forze reali del paese destinate al grande scontro (...). I tempi muteranno anche in Italia (...). I problemi che il dopoguerra ha posti, specialmente nel campo sociale di fronte alle masse lavoratrici, non potranno essere risolti se non da questi due partiti, il cattolico e il socialista”. Quello popolare si caratterizza subito come forza politica di massa che si proclama non confessionale, ma è diretta da un prete, don Luigi Sturzo, oltre che da laici cristianamente motivati, tra i quali Umberto Merlin, rodigino di nascita ma padovano di adozione. Si può ricordare che anche a Padova uno degli animatori più intelligenti, coerenti e costanti fu don Giacomo Gianesini. E’ qui opportuno cogliere alcune connotazioni del Partito Popolare che ne segnano l’intrinseca debolezza politica. In primo luogo l’insanabile rapporto conflittuale con i socialisti che preclude qualsiasi accordo e facilita la scalata al potere della reazione fascista. In secondo luogo pesano le divisioni interne allo stesso mondo cattolico ideologicamente diviso tra cattolicesimo democratico antifascista e clerico-moderatismo timoroso se non ostile ad ogni mutamento dell’assetto sociale e degli esistenti equilibri politici. C’è anche chi (come padre Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica, e don Olgiati) contro l’ipotesi sturziana di riforme correttive e migliorative dello Stato liberale, elabora un diverso progetto storico avanzando l’ipotesi di “stato cristiano” e sogna di servirsi del fascismo a tale scopo. Se le masse contadine sono apertamente con Sturzo, l’altra parte del mondo cattolico tende a collocarsi su una posizione intermedia abbastanza ambigua e attendista. Ma non è una novità. In sostanza l’esperienza sturziana pone rilevanti questioni che il cattolicesimo italiano non è mai del tutto riuscito a risolvere e in 75 primo luogo la possibilità di assumere posizioni politiche autonome rispetto agli orientamenti espressi dalla gerarchia, l’accettazione piena della democrazia politica ed economica, un giudizio chiaro sull’uso della violenza e comportamenti coerenti. Inoltre, ed è un aspetto sul quale non si è compiutamente riflettuto, mentre il popolarismo sturziano si definisce non confessionale ma laico, in realtà l’azione del clero locale in favore del Partito Popolare, concepito come partito cattolico di massa, è esplicita e senza riserve, come sarà per la D.C. negli anni dell’immediato dopoguerra. Ma così questa esperienza, dai forti contenuti programmatici, resta segnata dal rapporto con la gerarchia e le articolazioni dell’associazionismo cattolico considerato come l’estendersi della parrocchia in campo politico. A tale lettura porta anche il fatto incontestabile che diversi sacerdoti vi erano direttamente impegnati: tra il 1919 e il 1922 sessantamila tra preti e frati sono stati membri del Partito Popolare. Ma il Vaticano mal sopportava la proclamata aconfessionalità del Partito Popolare, la sua struttura democratica e l’indirizzo riformatore. I Circoli di Azione Cattolica ufficialmente ribadiscono la loro apoliticità e l’opzione educativo-religiosa; in realtà c’è un coinvolgimento reale che in occasione delle elezioni amministrative del 1920 e delle politiche del 1921 diventa appoggio incondizionato. Il settimanale diocesano nel periodo tra il 1919 e il 1922 è in sostanza il bollettino del Partito Popolare padovano. Così l’esperienza politica, caratterizzata da questo stretto rapporto, mostra la sua intrinseca debolezza perché non può contare su una sua autonoma struttura organizzativa: la forza aggregante è la parrocchia ed è questa il limite di fondo. E’ così inevitabile che l’appoggio al P.P. attiri sui parroci prima l’opposizione liberale, numericamente minoritaria, però potente non 76 solo sul piano economico ma anche su quello culturale e politico, e poi quella fascista. Infine l’esperienza del popolarismo è debole perché ha una doppia anima: ha una dirigenza prevalentemente costituita dai ceti medi delle professioni e della finanza (basta rivedere la composizione della prima presidenza della Sezione padovana) ed una base popolare prevalentemente contadina. Le tiene insieme il comune riferimento alla religione e alle parrocchie. Non è quindi un’esperienza laica, aconfessionale, perchè la sua identità è senza ombra di dubbio socio-religiosa. Fedele alla tradizione del movimento cattolico, traduce le istanze sociali in proposte politiche con particolare riguardo per il mondo contadino, proponendosi il rafforzamento della piccola proprietà, chiedendo la riforma agraria e nuovi patti agrari. L’immediato successo e l’azione sociale Il successo è immediato. Nelle elezioni generali del 16 novembre 1919 i popolari ebbero nel Veneto la maggiore percentuale di voti con il 35,8 per cento e 17 eletti. In certe zone del padovano si superò il 50 per cento. Il quadro per la nostra provincia è descritto nella tabella della pagina seguente. Il successo dei popolari destò uno stupore che però era del tutto immotivato. Quel consenso elettorale non nasceva all’improvviso; era il frutto di un’azione sociale seria e capillare che aveva progressivamente coinvolto le masse contadine passando dall’assistenza alle opere sociali; dalle opere sociali alle leghe, dalle leghe all’espressione partitica. Era però un consenso “bloccato” che non riuscì ad espandersi come confermano le elezioni politiche del 1921. 77 Poco prima del Partito Popolare era stata costituita la “Confederazione italiana dei lavoratori” cui aderirono subito tutte le “leghe bianche” esistenti nel territorio padovano. Nel programma della Confederazione, cui collaborò il trevigiano Corazzin, si leggeva che obiettivo era la “progressiva attuazione del triplice principio TAB.4 - ELEZIONI 1919 POLITICHE 16 NOVEMBRE voti percentuali Partito Popolare Partito Socialista Blocco liberale 35.001 29.012 16.418 ---------------TOTALE 80.431 (°) Eletti: Ettore Annigoni degli Oddi, Sebastiano Schiavon Edoardo Piva (°°) Eletti: Gino Panebianco Gian Tristano Carazzolo Felice Pavan (°°°) Eletto: Giulio Alessio 43,5 (°) 34,1 (°°) 20,4 (°°°) voti voti 10.284 9.497 9.442 6.458 5.971 3.641 5.880 della organizzazione, rappresentanza e collaborazione di classe sulla base della giustizia e della solidarietà sociale”. Sul piano pratico prevedeva “incoraggiamento e organizzazione, per opera convergente della legge e dell’attività privata, di tutte le 78 forme di proprietà e di lavoro, in cui questi due elementi, secondo giustizia, si fondono e si associano e si integrano: piccola proprietà lavoratrice, libero artigianato, colonia e partecipazione, piccolo affitto e affittanze collettive, sviluppo della libera cooperazione; compartecipazione effettiva agli utili, alla gestione e alla proprietà delle aziende”; lo sciopero deve essere solo economico. Come si vede, la Confederazione faceva proprie le istanze del movimento cattolico, specialmente della gente dei campi, in una visione di collaborazione tra le classi e di “sproletarizzazione” dei salariati. Le “leghe bianche” della C.I.L., che tra i lavoratori della terra raccoglievano i maggiori consensi, contarono su una forte adesione che portò ad alcune conquiste peraltro effimere. C’era alla base una aperta scelta di classe che, però, rifiutava il principio della lotta di classe in nome di una visione interclassista che era contemporaneamente antisocialista e anticapitalista, cioè perfettamente in linea con l’insegnamento sociale della Chiesa e con la precedente tradizione del movimento cattolico. Si legge in un documento, che ebbe larga diffusione anche nel padovano (autunno 1918): “La classe lavoratrice non ha alcun interesse a favorire e, tanto meno, forzare l’evoluzione sociale nel senso della soluzione collettivistica e della concentrazione capitalistica (...). L’una e l’altra sono ugualmente antidemocratiche antisociali, avendo entrambe per presupposto e per conseguenza l’universale proletarizzazione della classe lavoratrice e la generalizzazione del salariato...”(1). Da parte sua il settimanale diocesano ripeteva: “I socialisti vogliono tutto dare in mano allo Stato, noi vogliamo invece che la terra sia frazionata fra i contadini...” (30 novembre 1919); l’obiettivo era cioè la sproletarizzazione dei braccianti. Avendo il suo punto di forza nelle campagne, il Partito Popolare insistette particolarmente sulla riforma agraria nell’intento di 79 favorire l’accesso alla proprietà della terra frazionando le grandi proprietà, mentre i socialisti ne proponevano la collettivizzazione che spaventava fittavoli e piccoli proprietari. La differenza delle due proposte è sostanziale e divide il mondo contadino: da una parte i braccianti egemonizzati dalle leghe socialiste; dall’altra i fittavoli ed i piccoli proprietari che fanno riferimento all’Unione del lavoro cattolica; da una parte l’intento di realizzare le teorie marxiste, dall’altra l’utopica ricerca del superamento contemporaneo del capitalismo e del marxismo. La divisione si ripeterà nel secondo dopoguerra, sulle stesse motivazioni. Particolarmente intensa fu l’azione per la riforma dei patti agrari. A Padova nel luglio del 1920 tra la Federazione cattolica dei lavoratori della terra e l’Associazione Agraria, alla presenza del Prefetto, veniva sottoscritto un importante concordato con il quale gli agrari si obbligavano a cedere in fitto una parte dei loro terreni alla mano d’opera iscritta alle leghe bianche che, da parte loro, si impegnavano a far lavorare in compartecipazione la parte rimanente dei fondi dei conduttori cedenti. Fu subito chiaro che il patto di frazionamento era mal digerito dagli agrari, molti dei quali ritennero che il “sovversivismo” bianco fosse sì meno violento di quello rosso, ma più pericoloso perchè duraturo nei suoi effetti in quanto metteva in pericolo nelle campagne, oltre ai rapporti economici, la tradizionale subalternità dei contadini nei confronti dei proprietari terrieri. Anche ammesso che il frazionamento dei fondi portasse a mantenere un assetto arretrato dell’agricoltura (economia di sussistenza e non di mercato) era però certo che la diffusione della piccola proprietà diretto-coltivatrice si sarebbe tradotta in una “drastica riduzione della rendita fondiaria in mano alla borghesia cittadina, e quindi in un profondo mutamento dell’assetto economico e sociale”. Tanto meno digerirono il progetto di riforma 80 agraria che i popolari riuscirono a far approvare dalla Camera ma che venne ritirato dopo la “Marcia su Roma”. Corse nei confronti dei popolari l’accusa di “bolscevismo bianco”. Così gli agrari si servirono delle squadracce fasciste. L’azione fascista si connotò così chiaramente come classista (lo dimostrerà poi nel ventennio con la sua politica di “contadinizzazione” che puntava ad una società rurale ordinata e stabile) e fu seminata da una lunga serie di violenze che colpirono ugualmente leghe rosse e leghe bianche. Prevale la violenza fascista C’è, a questo proposito, una grossa lacuna nella storiografia corrente che mette in evidenza la repressione feroce dispiegata nei confronti dei socialisti e dei neonati comunisti, ma minimizza le violenze subite dai popolari e tace sulle violenze che i “rossi” usarono sui “bianchi” che mai risposero alla violenza con la violenza. Sono ampiamente documentate le brutali violenze dello squadrismo fascista contro le istituzioni bracciantili e contadine “rosse” a Correzzola, Bovolenta, Monselice, Piove, Montagnana... Una ad una le leghe socialiste vennero neutralizzate. Il 1° maggio 1922, festa del lavoro, fu una giornata di sangue a Megliadino San Vitale: gli squadristi assalirono l’abitazione dei fratelli Zaglia che, per difendersi, spararono; tre fascisti caddero e 21 persone furono arrestate. Ma scorrendo le pagine della “Difesa” si trovano notizie di bastonature e di violenze sui “bianchi” ad opera dei “rossi”. Il 20 giugno 1920 a Fontanafredda di Cinto Euganeo alcuni leghisti bianchi furono bastonati dai rossi. A Baone viene bastonato Guerrino Dan. Il 26 settembre 1920 ad Arzergrande un leghista 81 “rosso” spara a Luigi Sanavio, neo consigliere popolare, che poi muore, e ad Anselmo Favaron. Il 2 ottobre 1920 a Tresto (Este) viene ucciso, in un’osteria, da socialisti Angelo Rosa da Carceri, iscritto al Circolo giovanile e ferito gravemente Carlo Rosina pure da Carceri. Oltre che delle violenze, i parroci si preoccupano della penetrazione del socialismo anche tra le masse cattoliche. Ad esempio il parroco di Carbonara (Rovolon) nel maggio del 1920 lamenta che perfino le figlie di Maria “si sono lasciate trascinare dall’idolo bolscevico, si sono iscritte alla lega rossa, hanno preso parte a cortei anche fuori parrocchia al grido di “Rivoluzione!” con canti sovversivi, accompagnate da giovinastri e dalla bandiera socialista, dando un miserevole esempio di follia, di degenerazione e di ignoranza”(2). Così quando il 6 aprile 1921, una colonna di fascisti militarmente inquadrata, distrugge la sede della Camera del Lavoro in via del Carmine, la “Difesa” ha un atteggiamento ambiguo. Per quanto riguarda i cattolici, già nel luglio 1921 l’Unione del Lavoro produceva un lungo elenco di attentati e di violenze. La “Difesa del Popolo” in data 10 luglio scriveva: “Ci riesce inesplicabile il mancato intervento dell’autorità politica e di pubblica sicurezza”. Era evidente la collusione poichè non si trattava di fatti isolati ma di azioni organizzate con violenze delittuose che l’autorità fingeva di non vedere. Sono centinaia i bastonati e molti i locali di leghe devastati senza che i “bianchi” possano essere accusati di alcunchè. I Popolari però, nonostante tutto questo, in questa fase non mostrano cedimenti. Attenuano però le loro istanze programmatiche, escludono dalle liste per le elezioni politiche del maggio 1921 Sebastiano Schiavon (che esce dal Partito) perchè 82 ritenuto di idee troppo avanzate e candidano Leopoldo Ferri che si rifaceva a posizioni liberal-conservatrici. Le elezioni del 1921 danno a Padova il seguente risultato: TAB.5 - ELEZIONI POLITICHE DEL MAGGIO 1921 Voti Percentuali Partito Popolare 42.786 Partito Socialista 37.596 Partito Liberale 23.122 Partito Repubblicano 586 ------------------------TOTALE 104.090 41,1 36,1 22,2 0,6 Sul fascismo montante l’Azione Cattolica aveva assunto una posizione chiara fin dall’inizio. Già in data 21 novembre 1920 “Noi giovani” aveva dato un giudizio pesantemente negativo dei fascisti di cui si diceva che erano bestie umane che trionfavano e si definiva il fascismo “controrivoluzione agraria nazional-fascista che cerca di soffocare ogni tentativo del povero ad una rivendicazione”. Lo stesso giornale il 27 marzo 1921 denuncia le sopraffazioni fasciste e le condanna “con tutta l’anima nostra”. Nell’estate (15 agosto 1921) si protesta contro “l’indegna persecuzione” e pochi mesi dopo (13 marzo 1922), in riferimento alla domanda di “stato forte” scrive: “non fascismo ma autorità”. Si 83 pensò anche all’istituzione di “avanguardie cattoliche” per l’autodifesa, ma la proposta venne respinta. Riproposta dopo le intimidazioni del 28 maggio venne nuovamente respinta. Intanto gli agrari accentuano la reazione e la “Difesa” (19 febbraio 1922) denuncia che nella Bassa non c’è più orario di lavoro e che gli agrari, per impedire ai braccianti di scioperare in concomitanza con i lavori primaverili, trattengono un terzo del salario. Nello stesso numero il settimanale diocesano denuncia con forza “Centinaia e centinaia di lavoratori furono bastonati a sangue! I feriti da arma da fuoco furono oltre trenta. Gli incendi di case e di masserie di lavoratori furono innumerevoli (...). Locali di leghe e di organizzazioni furono invasi, bruciati e venne imposta la loro chiusura (...). Una vita d’inferno che chi non la trascorse non può neppure lontanamente immaginare quanto dolorosa per violenze inaudite perpetrate di giorno e di notte sotto gli occhi delle autorità locali quasi sempre insufficienti e qualche volta partigiane della parte agraria e fascista...”. Nell’estate del 1922 intimidazioni e violenze si accentuano ulteriormente. il 22 giugno a Conselve una quindicina di fascisti bastona l’organizzatore dell’Unione del Lavoro, Andreose, il capolega Silvio Sette e il contadino Antonio Bertin. Il 23 giugno a Ponso una quarantina di fascisti incendia la casa di Antonio Magarotto, che era già stato duramente percosso nella notte del 2 giugno. Nella stessa nottata penetrano nell’abitazione di Antonio De Stefani, gettano in cortile il letto matrimoniale e lo bruciano, poi appiccano il fuoco pure alla barchessa e alla stalla. A Carceri, nella notte del 26 giugno una cinquantina di fascisti brucia la stalla di Marcello Allegri, bastona il contadino Guerrino Zeminian e il fratello Augusto, poi Luigi Buttarello, il fratello Giuseppe e il figlio Ferruccio e dà fuoco al barco con gli attrezzi. Nella stessa notte in città era stata gravemente danneggiata la 84 tipografia del “Popolo Veneto”, il quotidiano dei popolari, e bastonati in via San Pietro l’avvocato Orlandini e Anacleto Gamba. Non furono risparmiati nemmeno i preti. A diversi fu fatto bere l’usuale bicchierone di olio di ricino: tra gli altri toccò al parroco di Codevigo don Luigi Corradin. A Bovolenta i fascisti prelevano l’arciprete don Giuseppe Sgarbossa che, prima di salire sul camion, indossa cotta e stola: ma il camion fascista non parte. Ancora una volta il settimanale diocesano interviene (10 settembre 1922) riprendendo un articolo dell’on. Meda “Il fascismo e i cattolici” ne assume le conclusioni riassumibili nell’affermazione che i cattolici “non possono essere fascisti perchè non è accettabile il metodo della violenza e il fine non giustifica i mezzi”. Invece l’Azione Cattolica (i Circoli giovanili erano una forza consistente e in crescita: da 222 nel 1921 a 262 nel 1922) adotta la linea del silenzio ripiegando esclusivamente su questioni religiose senza più alcuna apertura socio-politica. La ribadita apoliticità evita spaccature interne tra filofascisti e antifascisti, tra moderati e intransigenti, ma non ferma i fascisti che paralizzano l’attività a Saletto di Montagnana, Sant’Elena, Rosara, Barbona, Megliadino San Vitale. Il 27 agosto 1922 (siamo a due mesi dalla “marcia su Roma”), il direttore della “Difesa, don Riccardo Ruffatti, in un articolo titolato “Per il popolo sempre”, scriveva, quasi presagio degli eventi: “Corrono tempi brutti, difficili per la democrazia, per il movimento d’ascesa delle classi lavoratrici (...). Il movimento di violenza che sta desolando l’Italia (...) è pieno di uno spirito antipopolare (...); si vorrebbe ricacciare indietro il popolo (...). Attenti alle conseguenze. Una reazione chiama l’altra (...). Chi sa quale sarà il domani d’Italia (...), la violenza distrugge. Proseguiamo il nostro lavoro. E’ il nostro dovere”. Ciò mentre Pio XI proprio il giorno della “Marcia su 85 Roma” in una lettera ai vescovi richiamava “i principi cristiani dell’ordine”. Subito dopo l’ascesa al potere del fascismo (5 novembre 1922) sul settimanale si poteva leggere che non ci si illudeva “su ciò che potrà fare in avvenire lo stato fascista che non ha certo direttive cristiane nel proprio programma”. Con amarezza, pochi mesi dopo, (15 aprile 1923) lo stesso settimanale rilevava: “Le nostre cooperative se ne vanno ad una, ad una, esse lasciano il campo...”. Mentre la piccola borghesia e il ceto medio abbandonano il Partito Popolare, non lo abbandona quel mondo contadino che, con i suoi preti in testa, rifiutava la violenza fascista, dissentiva profondamente in materia politico-sociale e sentiva il fascismo come estraneo perchè prescindeva dalla religione e dalle parrocchie. Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 (si votò con la nuova legge maggioritaria, nota come “legge Acerbo”), dopo una campagna elettorale caratterizzata da violenze e da brogli, confermano inequivocabilmente che sul listone del blocco nazionale c’è la convergenza di tutta la destra e di buona parte del ceto medio. Le masse popolari operaie in buona parte rinnovano il loro voto a sinistra (socialisti massimalisti, socialisti unitari, comunisti, repubblicani) e quelle contadine al Partito Popolare. Questo il risultato nella nostra provincia: TAB.6 - ELEZIONI POLITICHE 6 APRILE 1924 Lista nazionale 86 Voti Percentuali 57.814 52,7 Partito Popolare Socialisti massimalisti Socialisti unitari Comunisti Repubblicani Democrazia sociale (°) Altoatesini TOTALE 24.078 12.462 5.955 6.043 1.547 1.446 298 ---------------109.643 21,9 11,5 5,4 5,5 1,4 1,3 0,3 ---------------100.0 (°) Prevalentemente ex radicali Tra gli otto popolari eletti nella circoscrizione veneta figurano De Gasperi, Merlin, Uberti. L’esito del voto è una riprova del dissenso popolare e dimostra che, almeno fino ad allora, non ci fu da parte delle masse popolari cattoliche quella convergenza sul fascismo che molti danno come dato certo. Sono gli stessi fascisti a dire che a Piombino l’arciprete, mons. Dal Colle, era in grado di determinare la sconfitta del “listone” alle elezioni del 1924. Gli ultimi conati di resistenza da parte dei popolari si esaurirono dopo l’assassinio di Matteotti e l’adesione alla secessione parlamentare dell’Aventino, cui parteciparono unitamente agli altri parlamentari antifascisti. Ma ancora nel 1926 il segretario del Fascio di Casale Scodosia accusava l’arciprete, don Pietro Trombetta, di svolgere attività in favore del Partito popolare. Circa l’atteggiamento del clero padovano in generale, Prefettura e Questura ritenevano che i sacerdoti simpatizzanti per il fascismo fossero in tutto una cinquantina, cioè una ristretta minoranza. La maggioranza del clero locale, prima schierata con il Partito 87 Popolare, dopo il suo scioglimento e in obbedienza alle direttive del Vescovo, mostrò in pubblico un atteggiamento ossequioso. Chiesa padovana e fascismo Il Partito si dissolse e, in tutta la diocesi, non rimase nè una lega, nè una cassa rurale, nè una cooperativa cattolica. Rimase solo l’Azione Cattolica che, in base alle direttive vaticane, accettò tacitamente il nuovo stato di cose, potenziando però la propria organizzazione. A Padova gli iscritti balzarono dai 15.392 del 1925 ai 61.174 del 1931. E’ dimostrato che gli ex popolari godettero di piena cittadinanza nell’Azione Cattolica padovana e mantennero posizioni di rilievo nel cattolicesimo locale, tenendo vivi quei germi di democrazia che facilitarono la formazione e la maturazione dei giovani della generazione successiva, quella che partecipò attivamente alla Resistenza e che costituì l’ossatura della classe dirigente della Repubblica. Lo intuirono subito Prefetto e Questore i quali continuarono a ritenere che l’Azione Cattolica fosse divenuta, con la copertura dei preti, un covo di ex popolari. Tra i segnalati si possono citare l’avvocato Italo Rosa, ex deputato ed ex segretario del Partito Popolare (poi nuovamente segnalato perchè mai aveva dimostrato alcuna simpatia per il regime); il prof. Giovanni Soranzo dell’Università Cattolica e presidente diocesano degli uomini di Azione Cattolica; il prof. Agostino Faggiotto, ex consigliere comunale per il P.P.; gli estensi ing. Antonio Guariento e l’avvocato Rinaldo Pietrogrande, di cui prima fu distrutto lo studio a Lendinara e poi fu egli stesso aggredito e bastonato in strada ad Este. I fascisti estensi lamentavano che il fascismo si era fermato alle porte della città entro le quali tutto era rimasto nelle mani dei cattolici. 88 Nè mai venne meno la sorveglianza sui preti che erano stati l’anima del Partito Popolare. Il direttore de “La Difesa del Popolo”, don Riccardo Ruffatti, continuò ad essere ritenuto “elemento alquanto sospetto” nonostante si mostrasse “riservato e ligio al regime”. Anche se “apparentemente” si occupasse solo di religione, fu sempre ritenuto “elemento avverso al regime” don Giacomo Gianesini, già segretario del Partito Popolare. Si noti che, sia il vescovo Dalla Costa che Agostini, lasciando entrambi al loro posto smentirono nei fatti il loro presunto filo-fascismo. Altrettanto sospetto fu sempre considerato don Cesare Michelotto, antifascista dichiarato, anche se si professava fedele al governo. Tornando all’Azione Cattolica si può affermare che essa si pose sulla linea della difesa degli interessi cattolici secondo la linea adottata dalla Chiesa ufficiale che non cessò di rivendicare con forza la propria autonomia e il proprio ruolo etico-educativo. Per questo abbandonò al suo destino il Partito Popolare e obbligò don Sturzo all’esilio. A Padova il Vescovo Elia Dalla Costa, succeduto al Pellizzo (7 ottobre 1923), compì una scelta obbligata, l’unica possibile, di fronte alla dittatura, abbandonando la linea dell’impegno sociopolitico e puntando tutto sull’azione religiosa e pastorale. Pertanto intensificò l’evangelizzazione, la catechesi e l’azione educativa. Nella lettera pastorale per la Quaresima del 1925 chiariva che l’A.C. non era azione politica e neppure economica, cancellando così anche formalmente (il fascismo l’aveva già fatto nella sostanza) tutte le opere sociali realizzate dal movimento cattolico: “L’Azione cattolica non può dividere gli animi e i cuori come la politica e l’economia”. Si configurava una linea di cautela e di prudenza; non si voleva lo scontro e si cercava di non lasciare adito alle accuse dei fascisti secondo i quali l’Azione Cattolica continuava ad aiutare quel che 89 rimaneva del Partito Popolare. Ma l’Azione Cattolica dovette rinunciare anche ad organizzare nuove associazioni professionali: quelle già esistenti dovevano avere finalità esclusivamente spirituali e religiose e contribuire “a che il sindacato giuridicamente riconosciuto (quello fascista) rispondesse sempre meglio a principi di collaborazione fra le classi...”. Nell’accordo fra la Santa Sede e il Governo italiano del 2 settembre 1931 si confermò: “L’Azione Cattolica non ha nel suo programma la costituzione di associazioni professionali e sindacali, non si propone quindi compiti di ordine sindacale. Le sue sezioni interne professionali, attualmente esistenti, sono formate a fini esclusivamente spirituali e religiosi”(3). D’altra parte la scelta religiosa poneva l’associazione sotto la diretta protezione del vescovo e chiunque l’avesse colpita avrebbe colpito lui. Così quando nella notte tra il 22 e il 23 maggio 1925 i fascisti incendiarono la sede della Giunta diocesana (nell’attuale cinema Concordi) dopo aver gettato dalle finestre tavoli, armadi, sedie, registri e documenti e averli dati alle fiamme, Dalla Costa tornò immediatamente dalla visita pastorale che stava effettuando a Sant’Angelo di Piove. Spedì al Prefetto un telegramma nel quale deplorava “come cittadino la violenza impunita di tutte le leggi e come vescovo gli oltraggi recati ad una azione dal Papa voluta ed imperata”(4) ed espresse con parole forti la sua solidarietà al presidente della Giunta diocesana: “Nessuna condoglianza si deve a chi soffre nella persecuzione. La violazione del diritto è miseria e vergogna per chi la opera, non per chi la subisce. Più alta delle fiamme vili e indisturbate del rogo, si leva umile ma immacolata la nostra bandiera(5)”. I fascisti non risposero direttamente; lo fecero attraverso il loro quotidiano locale “La Provincia di Padova” sostenendo, falsamente, che la sede della Giunta diocesana ospitava la sede del partito 90 popolare e che perciò l’Azione Cattolica conduceva una politica antigovernativa. La smentita del vescovo arrivò puntuale e precisa e la conclusione suonò come una condanna esplicita della violenza fascista: “Se ad un partito concederemo la violenza come un diritto dovremo concludere, sebbene mestissimamente, che la nostra decadenza morale è perfetta, e mi auguro che questo non sia per l’onore e per la vita dell’Italia e degli italiani(6)”. Successivamente il Vescovo richiamò i suoi preti al dovere di non cedere mai quando venisse offesa la legge di Dio o contraddette le disposizioni dell’autorità ecclesiastica: “Oggi è un sindaco che accampa i diritti di tutela per non dire di proprietà sulla sala delle associazioni cattoliche; ieri era la presidenza di un partito che pretendeva di rendere obbligatorie le iscrizioni al partito stesso; domani sarà un commissario che imporrà al parroco di fondere con un’altra, sorta appena in paese, la vecchia e gloriosa banda cattolica. O un podestà che invaderà addirittura una porzione di terreno appartenente alla fabbriceria. Raccomandiamo di essere calmi e prudenti ma di non cedere sui propri diritti, quando questo non sia un dovere(7)”. Poco dopo (settembre e ottobre 1925), oltre alla calma ed alla prudenza, ricordò ai sacerdoti, in linea con una secolare tradizione, il dovere della deferenza verso l’autorità costituita. Lo prese alla lettera il parroco di Rubbio che, accusato di anti italianità e di antifascismo, rispose di essere stato nelle trincee del Carso e dell’Altopiano e che aveva sempre ispirato il suo comportamento al 91 biblico: “Obbedite a coloro che vi governano anche se sono delle canaglie”(8). La serie delle violenze però non cessò e nella notte tra il 2 e il 3 novembre 1926 gli squadristi devastarono e incendiarono la sede de “La Difesa del Popolo”. La responsabilità fu attribuita ai soliti ignoti. Il vescovo non parlò, ma venne aperta una sottoscrizione che consentì al giornale di riprendere subito le pubblicazioni. Risulta così provato non essere affatto vero che la Chiesa abbia favorito l’ascesa del fascismo. Certo, ci furono i clerico-fascisti e anche nella nostra diocesi, in particolare in quelle zone della Bassa dove più consistente e decisa era stata l’azione delle leghe socialiste, alcuni preti non nascondono la loro soddisfazione per la sconfitta dei “rossi” ad opera del fascismo e per il ristabilimento della legalità e dell’ordine. Si possono citare i parroci di Castelbaldo, Masi e Merlara. Afferma il parroco di Castelbaldo che “non si può negare che (il fascismo) abbia avuto qui dei meriti”. Anche nella Bassa però ci sono parroci che intravedono subito il pericolo fascista. Il parroco di Urbana, ad esempio, scrive che il partito fascista “oggi combatte accanitamente l’opera e l’influenza del sacerdote, che vorrebbe distruggere completamente e denigra continuamente”. Quello di Bagnoli dice del fascismo che “più che per l’ordine, ha carattere egoistico e vendicativo” e il parroco di Piacenza d’Adige, don Ivo Bruttomesso, nel 1928 viene confinato per un anno a Valdobbiadene(9). Il parroco di Urbana, don Giuseppe Saccardo, fu costretto ad accettare il trasferimento a San Pietro Montagnon (ora Montegrotto Terme). Per “attività dannosissima al Partito Nazionale Fascista” fu denunciato al Prefetto don Felice Velluti, parroco a Villafranca. Al vescovo il prefetto chiese di richiamare il parroco di Masi, don Angelo Segato, e l’arciprete di Montagnana, don Riccardo 92 Bergamo, definito “restio ad ogni collaborazione” con i fascisti locali. Don Egidio Romanato, parroco di Arsego, continuò a criticare spesso e pubblicamente il regime fascista. Il parroco di Arquà Petrarca, don Giuseppe Dalla Longa, fu accusato di creare problemi al locale Partito fascista e don Adolfo Sabbadin, della parrocchia dell’Immacolata, di non collaborare. Particolarmente accesi furono i contrasti sull’Altopiano: ad Asiago, Enego, Roana, Foza, Cesuna, Rotzo. Si verificarono anche episodi singolari che, sussurrati di bocca in bocca, fecero il giro della diocesi. A don Giuseppe Meggiorin, parroco di Vigonza, in precedenza organizzatore di leghe bianche a Saonara, le autorità richiesero di apporre il fascio littorio sulla facciata dell’asilo. Egli obbedì... apponendo un fascio di dimensioni talmente ridotte che era impossibile vederlo dalla strada. Don Domenico Barbiero, parroco di Montà, accusato di antifascismo, prima in una predica, secondo un rapporto inviato dal questore al prefetto, ebbe a dire: “La carne dei sacerdoti è indigesta e non passerà nè con l’olio di ricino nè con altra specialità chimica; è una carne che fa morire”. Poi, la sera del Venerdì santo del 1932, per non passare davanti alla Casa del Fascio, cambiò il tradizionale percorso della processione. Sull’atteggiamento della Chiesa nel periodo della dittatura fascista i giudizi sono ancora molto controversi. Prevale la tesi della storiografia laica, secondo cui “l’atteggiamento della gerarchia e del clero era improntato a collaborazione e sostegno nei confronti del fascismo”, aggiungendo che tale atteggiamento collaborativo era riferibile ad una tradizione conservatrice ed autoritaria. Questo giudizio viene avvalorato dalla documentazione disponibile che è quasi esclusivamente quella ufficiale. Si usa affermare che molta documentazione è andata distrutta. 93 In realtà, dopo il 1925, ad affidare il loro pensiero a documenti scritti erano solo i preti filofascisti. Solo degli sprovveduti potevano affidare allo scritto quello che realmente pensavano del fascismo conoscendo l’onnipotenza della polizia fascista con la moltitudine di confidenti più o meno prezzolati. Se ne parlava nelle canoniche ma, si sa, “verba volant”. Chi ricostruisce la storia del mondo cattolico in quel periodo facendo riferimento ai bollettini e ai settimanali diocesani, alle lettere pastorali e ai discorsi dei vescovi, alle circolari dell’Azione Cattolica, ai bollettini parrocchiali dovrebbe sapere bene che quello era solo il parere ufficiale, di facciata. Ben altre erano le considerazioni sul fascismo che si facevano negli ambiti parrocchiali di quelle zone nelle quali il movimento cattolico prima e il Partito Popolare poi si erano più profondamente radicati e avevano dovuto subire la violenza fascista, quasi sempre finanziata dagli agrari, con la distruzione totale di tutte quelle opere che con tanta fatica erano state pazientemente promosse. Non si nega affatto che parte del mondo cattolico sia stata favorevole al fascismo, in cui vedeva il restauratore della legalità e dell’ordine contro il sovversivismo anticlericale “rosso”; nè si nasconde che la Chiesa ufficiale abbia salutato la Conciliazione come un grande evento “provvidenziale” usando toni trionfalistici. Ne è un tipico esempio il Bollettino diocesano veronese che nel numero 16 (febbraio-marzo) dell’anno 1929 scriveva: “L’ora di Dio è suonata. L’Italia, la Patria nostra carissima (...) saluta riconoscente la Conciliazione come l’inizio di un’età nuova di pace e di restaurazione religiosa”. Analoghe espressioni si trovano nei bollettini delle altre diocesi venete, anche se più tiepide in quelli di Padova, Venezia e Chioggia. Non si dimentichi che vescovo di Padova era Elia Dalla Costa che non mancò di mettere in evidenza le difficoltà anche gravi che l’attuazione del Concordato avrebbe comportato e, con notevole 94 preveggenza puntò molto sulla riorganizzazione dell’Azione Cattolica rivalutandone i compiti. Con l’usuale franchezza, don Primo Mazzolari definì la Conciliazione un “matrimonio senza amore”. Una prima spia del fatto che l’entusiastico consenso ufficiale era solo in parte condiviso nelle parrocchie la si ha esaminando i bollettini parrocchiali che all’avvenimento dedicano poco spazio e usano toni assai meno entusiastici. Un secondo sintomo lo si ha scorrendo le “cronache” delle parrocchie: poche ne fanno cenno; la maggioranza dei parroci rimane fedele al detto che “un bel tacer non fu mai scritto”. Fa eccezione il parroco di Zelarino, notoriamente antifascista. Non si può certo negare che ad un certo momento il Vaticano abbia privilegiato gli accordi di vertice con lo Stato fascista anche in virtù di una persistente ostilità nei confronti dello Stato laico liberale. In questa ottica vanno collocati la Conciliazione e il Concordato dell’11 febbraio 1929 che portano diversi parroci a cambiare, almeno ufficialmente, il loro atteggiamento. Però, grattando sotto la vernice di una pressoché unanime adesione esteriore (come avviene in tutti i regimi totalitari), si scopre che negli anni tra il 1925 e il 1938 l’atteggiamento dei cattolici è molto variegato poichè va dall’adesione e dalla sottomissione alla differenziazione ed alla critica; si nota una pluralità di opinioni e di atteggiamenti, una compresenza di anime diverse. Si scrive che: “L’appoggio più valido e convinto al regime fascista veniva ancora dalla Chiesa, che in particolare a Padova svolgeva un’opera efficace e insostituibile tra le masse e il regime”(10). In realtà non era per niente appoggio valido e convinto. Lo si vide bene in occasione dei fatti del 1931 e del 1933. Nel 1931, dopo aver dichiarata l’incompatibilità tra l’appartenenza alla FUCI e ai GUF, con l’ordinanza del 30 maggio 95 il Governo fascista scioglieva tutte le associazioni cattoliche. Ci furono invasioni di sedi, sequestri di bandiere e verbali, manomissioni. A Padova ciò avvenne in concomitanza con il centenario antoniano. Nell’ultima parte dell’omelia del 13 giugno 1931, Dalla Costa, senza alcun timore dei fascisti presenti in massa nella Basilica del Santo, pronunciò parole di cui la censura fascista proibì la pubblicazione: “Noi educheremo fin che morremo, ricordando e facendo ricordare le parole celebri di Silvio Pellico: chi grida, patria, e poi la patria disonora egli stesso con indegne azioni, è un trafficante del patriottismo (...). Il Santo di Padova assista la Santa Madre Chiesa (...). Ogni giorno mette dinanzi alla Chiesa nuovi nemici; per lei vivere è combattere e quando non combatte non vi è pace, ma semplice armistizio per la Chiesa di Dio”(11). Non pare proprio che da queste parole traspaia una convergenza di fondo tra Chiesa e fascismo. Si rispetta l’autorità costituita; si era rinunciato alla presenza in campo sociale e politico ritenuta di importanza non primaria per la missione della Chiesa, ma non si cede di un palmo sul problema essenziale dell’educazione della gioventù. I parroci difesero con tenacia e senza cedimenti il loro spazio educativo (Azione Cattolica, asili, patronati, filodrammatiche, bande musicali) poco o nulla concedendo alle organizzazioni fasciste. Di ostacolare tali organizzazioni venne accusato il cappellano di Agna, don Angelo Zanchetta, che una Domenica fece uscire dalla chiesa una Piccola Italiana in divisa, molto probabilmente in accordo con il parroco, don Cristiano Codemo, notoriamente ostile al fascismo. Il parroco di Correzzola, don 96 Giuseppe Bertuzzo, continuò a criticare i fascisti locali perchè alla domenica organizzavano attività che impedivano ai giovani la partecipazione alla messa festiva. Da parte sua, Pio XI il 21 giugno denunciò con fermezza la devastatrice prevaricazione fascista sull’Azione Cattolica con l’enciclica “Non abbiamo bisogno” in cui si legge che quella concezione dello Stato era “non conciliabile con la dottrina della Chiesa”. Si osservò anche che la formula del giuramento, così come stava, non era lecita. Il 9 luglio il PNF revocò l’incompatibilità tra l’iscrizione al partito e l’appartenenza all’AC. In base all’accordo, annunciato il 2 settembre, l’Azione Cattolica diveniva strettamente diocesana alle dirette dipendenze del Vescovo e con finalità rigidamente limitate all’ambito religioso: venivano escluse anche le attività sportive. L’Azione Cattolica gode di attenzioni particolari da parte della gerarchia ecclesiastica e registra continui incrementi; i parroci continuano ad essere i rappresentanti riconosciuti del “potere reale” in particolare nelle campagne. A ben riflettere, il fascismo spinge le masse contadine, che non potevano essere fasciste perchè collegavano il giudizio sul regime con il comportamento degli agrari, a stringersi maggiormente attorno alle parrocchie e il clero ad intensificare l’opera di formazione religiosa ancorata ai sacramenti, alla religiosità popolare, ad una catechesi sistematica. Ci sono situazioni differenziate anche perchè continua a prevalere una relativa autonomia delle parrocchie. Solo una lettura non approfondita può portare all’affermazione che: “L’atteggiamento del Vescovo rifletteva la visione di una Chiesa tutta raccolta in se stessa”, mentre si dovrebbe anche riconoscere che ci fu una difesa tenace, per quanto prudente, della 97 moralità, dei costumi, dei valori anche nel periodo che viene definito come quello del maggiore consenso cattolico al fascismo. Nella cronistoria parrocchiale di Chiesanuova c’è una nota significativa del parroco, don Ettore Silvestri, che alla fine del 1936, dopo aver rilevato come le relazioni tra le autorità fasciste e la parrocchia, “a Chiesanuova come in tanti altri paesi” non fossero affatto quali le presentava la propaganda fascista, anzi si facessero sempre più difficili, scriveva: “Va delineandosi netta la condotta del fascio di allontanare per quanto è possibile le anime dalla Chiesa con tutti i modi in loro mano. Non è una lotta aperta, ma sorda, segreta, subdola, i cui fatti deleteri poi facilmente diventano giorno per giorno sempre più visibili, come sempre più fredde e diplomatiche diventano le relazioni con i fascisti locali. Il contegno del parroco con simili persone è calma, niente sfrecciate fuori di porta, osservare attentamente le cose e al momento opportuno parlare senza animosità, ma con fermezza e senza dimostrare alcuna paura”(12). L’assetto socio-economico Circa l’assetto socio-politico va rilevato che nel periodo fascista permane la separazione netta, anche politica oltre che sociale, tra città e campagna. L’apparato produttivo rimane debole. Nel 1927 venivano censite in provincia 8.966 imprese industriali con 43.738 addetti su 615 mila abitanti. La mappa delle imprese risultava composta come nella tabella di pagina 95. Il “ruralismo” fascista, al di là dell’esaltazione retorica della sana gente dei campi, significò mantenimento di un serbatoio di 98 manodopera a basso costo e le disposizioni contro l’urbanesimo ne sono una riprova. Il fascismo intendeva governare lo sviluppo economico controllando rigidamente il rapporto città-campagna, agricolturaindustria. Di qui le tre scelte: ruralismo, antiurbanesimo, battaglia demografica. L’agricoltura, scriveva uno dei teorici fascisti del ruralismo, “è un modo di vita e la vita rurale contiene i desideri, favorisce le virtù del lavoro e del risparmio”. Detto in termini più brutali, il ruralismo comprimeva i consumi nelle campagne e teneva in parcheggio forza-lavoro che se si fosse liberamente spostata verso le città avrebbe turbato l’equilibrio economico e politico. Su ogni chilometro quadrato di superficie coltivata lavoravano 42 persone (30 uomini e 12 donne) contro le 8 degli Stati Uniti e le 20 di Francia e Germania. TAB.6 - MAPPA DELLE IMPRESE CENSITE NEL 1927 Agricoltura pesca cave legno alimentari pelli e cuoio carta 2,32 0,26 1,94 10,33 13,38 0,55 0,88 99 poligrafici siderurgiche e metalli meccaniche lavorazione minerali costruzioni tessili abbigliamento e arredamento igienici e sanitari chimiche energia, luce ed acqua altre 1,22 0,35 10,50 3,93 8,10 14,14 11,36 2,48 2,38 11,14 4,74 I rapporti di produzione rimasero di tipo pre-capitalistico e, per taluni aspetti, addirittura feudale, come per le “onoranze”. Le dure condizioni di vita rimasero sostanzialmente immutate: nel 1936 solo 27,9 abitazioni rurali su cento hanno la luce elettrica. Il fascismo strumentalizzò la parsimoniosità e la rassegnazione contadina non toccando un rapporto proprietario che, integrato dal controllo sugli istituti di credito agrario, sui consorzi di bonifica, sui consorzi agrari, perpetuava l’egemonia della città sul territorio. D’altra parte la politica demografica, facendo aumentare la popolazione rurale, favoriva gli agrari poichè la pressione consentiva di diminuire i salari agricoli e di ottenere maggiori profitti per la cessione di affitto, a mezzadria e a compartecipazione. La bonifica integrale si proponeva due finalità: una maggiore domanda di beni industriali ed una attenuazione della disoccupazione. La colonizzazione interna mirava anche ad attenuare la pressione della manodopera bracciantile nelle sedici 100 province cruciali della Valle Padana e cioè, oltre alle otto province emiliane, le lombarde Cremona, Mantova, Brescia e le venete Rovigo, Verona, Padova, Vicenza, Venezia. Anche nelle campagne padovane nel periodo fascista, e in particolare nel corso degli anni ‘30, si consolidò l’egemonia del capitale finanziario in simbiosi con la proprietà terriera. Accanto all’affittanza, che riguardava il 40 per cento dei terreni, ed alla piccola proprietà, c’era la mezzadria che era la forma di conduzione preferita dai proprietari di estrazione nobiliare e la conduzione diretta con manodopera bracciantile nella Bassa. Solo i Papafava, di orientamento liberale moderato, preferivano l’affitto. Le attenzioni del Regime si concentrano sulla città. Già nel 1927 si pensa alla “grande Padova” e infatti nel luglio di quest’anno si tiene in Municipio una riunione promossa dal Podestà Francesco Giusti “allo scopo di esaminare l’aggregazione a Padova di 16 Comuni: Abano, Albignasego, Cadoneghe, Legnaro, Limena, Noventa Padovana, Ponte San Nicolò, Rubano, Saonara, Selvazzano, Teolo, Torreglia, Vigodarzere, Vigonza, Villafranca, Polverara e parte del territorio di San Pietro Montagnon (ora Montegrotto). Il progetto, che rispondeva alle disposizioni governative relative alla revisione delle circoscrizioni comunali, ebbe unanime parere favorevole anche se poi non se ne fece nulla. Viene però realizzata una ristrutturazione urbanistica che muta il volto di alcune zone cittadine: viene sventrato il quartiere Santa Lucia e nasce Piazza Spalato (ora Insurrezione) con il palazzo della Previdenza Sociale; in Piazza Capitaniato viene costruito il Liviano; nei campi e negli orti della zona di Santa Maria in Vanzo sorge il quartiere “Città Giardino” e il palazzo Esedra... Molto meno appariscente è l’insediamento industriale (Viscosa, Zedapa, Ingap, Officine Stanga, Itala Pilsen). L’autarchia fascista, dopo le sanzioni inflitte all’Italia per la guerra dell’Etiopia, vede a livello locale 101 alcune interessanti innovazioni: l’Ingap produsse bachelite, la Viscosa il rayon, Albano Pessi ideò l’albanite per sostituire il legno. La Chiesa ufficiale fu favorevole all’impresa etiopica, letta in chiave missionaria e concepita come possibilità migratoria; fu favorevole anche all’intervento nella guerra civile spagnola a fianco dei franchisti contro i “rossi” in nome dell’antisocialismo di sempre e di un anticomunismo altrettanto radicale. Del resto l’enciclica sul comunismo ateo del 1933 era stata ampiamente diffusa in tutte le parrocchie e commentata nelle riunioni di Azione Cattolica. I clerico-fascisti inneggiarono alla “nuova” civiltà romana e cristiana rispolverando l’idea costantiniana del baluardo contro la nuova barbarie dell’ateismo comunista sovversivo. L’idillio venne rotto dalle leggi razziali del 1938 che rimettevano brutalmente in discussione la concezione cristiana dell’uomo e della sua dignità sempre riaffermata e difesa. Non potendo organizzare associazioni professionali, la Chiesa ottiene di poter prestare assistenza religiosa ai lavoratori e viene costituita l’Onarmo tra i cui cappellani merita di essere ricordato il padovano don Vito Sguoti che nel febbraio 1938 viene mandato a Carbonia tra i minatori e scende con essi in miniera; ma i fascisti locali non vedono volentieri la sua opera e lo fanno allontanare: ritornerà nel 1945 e morirà di silicosi, la malattia dei minatori, nel 1946. Con chiara antiveggenza, il vescovo Carlo Agostini, succeduto al Dalla Costa, intuisce il futuro sviluppo della città e decide la costruzione di sette nuove chiese al di fuori della vecchia cinta muraria definendole “come torri per la difesa della fede popolare e per impregnare la vita di costumi cristiani(13)”: Santissimo Nome di Gesù San Giuseppe 102 (1934) (1937) Natività Sacra Famiglia San Carlo San Prosdocimo Santissima Trinità (1939) (1939) (1940) (1941) (1941) La costruzione di una chiesa e il formarsi di una nuova parrocchia non è solo un fatto religioso ma anche sociale perchè la parrocchia era, ed è ancor oggi, oltre la famiglia, una delle poche “agenzie” educative e sociali presenti nel territorio. Inoltre la Chiesa padovana si preoccupò sempre della moralità, talora con interventi di dubbia efficacia. Denunciò con toni apocalittici, quali strumenti di corruzione, il ballo e talvolta anche i filò. Per il ballo furono continui gli interventi sulle autorità locali perchè non rilasciassero le prescritte autorizzazioni. Un decreto vescovile del 1935 escluse dalla benedizione pasquale le abitazioni dei promotori e dei fautori delle feste di ballo, sulle quali ci fu sempre scontro aperto: don Luigi Gastaldello, parroco di Casalserugo, rispose al segretario politico locale di essere disposto a dare la vita piuttosto che il suo consenso all’allestimento della piattaforma. I parroci non furono inizialmente favorevoli neppure al cinema, la nuova forma di spettacolo che si andava diffondendo negli anni ‘30: poi venne la risposta dei cinema parrocchiali. Inoltre in ogni ambito parrocchiale, comprese le associazioni, venne rigidamente mantenuta una “debita separazione” fra i due sessi. Nelle chiese c’era la “parte” riservata agli uomini e la “parte” riservata alle donne. Alcune considerazioni 103 Torna spesso il rilievo: i cattolici non possono negare l’adesione al fascismo poichè le masse accorrevano ad osannare i gerarchi fascisti di turno che venivano a Padova: De Bono, De Marsanich, Starace, Bottai, lo stesso Mussolini. “La massa è sempre pronta ad allinearsi con il più forte. Una lezione sgradevole...”. In realtà le masse popolari non erano affatto allineate. Subivano e, ammaestrate da secoli di dominazione, mostravano un consenso che non c’era. Più che fasciste o antifasciste le masse contadine venete furono afasciste. Le adunate oceaniche (compresa quella in Prato della Valle del 1938 in occasione della venuta di Mussolini) non devono trarre in inganno: l’entusiasmo era comandato e solo di facciata. Così entusiasmo non ci fu il 10 giugno 1940 alle adunate convocate in tutte le piazze per l’annuncio di Mussolini dell’entrata in guerra dell’Italia. Ci fu invece in città un’esplosione spontanea di entusiasmo il 25 luglio all’annuncio della caduta del fascismo. Secondo la versione corrente tra manganello punitivo e aspersorio benedicente si creò una specie di “Santa Alleanza” non messa in discussione neppure dallo scontro sull’Azione Cattolica del 1931. Non si nega che ci siano stati cedimenti e debolezze e, in alcuni casi, anche collusioni di gruppi cattolici e di singoli col fascismo, ma è bene ricordare alcuni elementi di fatto. In primo luogo (lo si è rilevato anche a proposito di Pio X) la Chiesa poneva in primo piano l’aspetto pastorale, come era del tutto logico. In secondo luogo non era ancora arrivata all’accettazione piena della democrazia politica (lo fece Pio XII nel 1942 durante la seconda guerra mondiale) e pertanto ogni governo - anche dittatoriale!- le andava bene purché rispettasse i suoi diritti. Infine, secondo la teoria del “male minore” riteneva che i maggiori pericoli per la fede venissero da sinistra: il complesso dell’antisocialismo era molto accentuato a tutti i livelli e fu tale che, per breve periodo (dalla presa del potere da parte dei fascisti il 28 104 ottobre 1922 al 17 aprile 1923), i cattolici popolari parteciparono al primo governo Mussolini per cooperare “alla rinascita dei valori morali e religiosi, alla pacificazione sociale e alla disciplina nazionale del paese assicurata sulle basi indefettibili di ogni vivere civile: la libertà e la giustizia”. Ma riconoscere obiettivamente questo, non significa affatto dire che il mondo cattolico, e in particolare le masse contadine, abbiano sposato la causa fascista, nè all’inizio nè poi e tanto meno a Padova e nel Veneto. C’è chi ricorda che, quando le processioni uscivano dal centro abitato, ancora all’inizio degli anni ‘30, c’era qualcuno che intonava “O bianco fiore” e che molti - anche preti piansero quando il 29 febbraio 1929 venne firmato il Concordato: non era un pianto di gioia. Allorché, nel 1931, venne attaccata l’Azione Cattolica, la risposta fu unanime dal Vescovo, come si è visto, ai preti e ai laici. Non ci furono nè cedimenti nè defezioni. Le bandiere vennero sequestrate, ma i distintivi non vennero tolti dalle giacche: vennero semplicemente coperti con un piccolo pezzo di stoffa nera in segno di lutto dal momento che era proibito solo ostentarli. Nè sottomissione nè rassegnazione caratterizzarono l’Azione Cattolica padovana dove si continuò a far riferimento alla Rerum Novarum per difendere il patrimonio sociale cristiano. Senza l’Azione Cattolica degli anni ‘30 e il precedente retroterra sociale non si spiegherebbe nè la partecipazione dei cattolici padovani alla Resistenza nè l’immediato decollo della D.C. Però è ambiguo affermare che “nel lungo periodo la Chiesa si rivelava la vera beneficiaria del regime fascista”(14). Note: (1) S. Tramontin, Sinistra cattolica di ieri e di oggi, Torino 1974, pp.44-45. 105 (2) AA.VV., La nostra storia, Edizioni de “Il Gazzettino”, 1987, p.94. (3) G. De Antonellis, Storia dell’Azione Cattolica, Milano 1987, p.371. (4) Bollettino diocesano di Padova, 1925, p.283. (5) Ibidem, p.283. (6) Ibidem, p.283. (7) Pierantonio Gios, Dalla dittatura alla democrazia, in AA.VV., Storia religiosa del Veneto, Diocesi di Padova, Gregoriana Editrice 1996, pp.424-425. (8) Pierantonio Gios, op. cit., pp.424-425. (9) Sull’argomento si veda: L. Billanovich Vitale, Clero e agitazioni contadine nel padovano nel primo dopoguerra, in Il sindacalismo agricolo veneto nel primo dopoguerra e l’opera di G. Corazzin, Fondazione Corazzin 1983, pp.204-205 e P. Gios, Dalla dittatura alla democrazia, in Storia religiosa del Veneto. Diocesi di Padova, Gregoriana ed. 1946, pp.413-418. (10) A. Ventura, op. cit., p.344. (11) Bollettino diocesano di Padova, 1931, pp.369-370. (12) Pierantonio Gios, op. cit., p.439. (13) Bollettino diocesano di Padova, 1938, p.165. (14) A. Ventura, op. cit., p.367. 106 Capitolo VI NELLA RESISTENZA Ad oltre mezzo secolo dalla conclusione della vicenda resistenziale, il cercare di ragionarvi serenamente è fatica improba e rischiosa perchè di quegli eventi si danno ancora interpretazioni diverse più o meno parziali, più o meno ideologizzate e, per di più, le memorie di coloro che li hanno vissuti, come del resto è sempre avvenuto per la memorialista nel corso dei secoli, hanno spesso il tono dell’apologia reducistica. Così è avvenuto anche per quanto riguarda la resistenza padovana. Ad esempio l’interpretazione di Aronne Molinari(1) è opposta a quella di G. E. Fantelli(2) ed entrambi mancano di quella obiettività che si dovrebbe perseguire nella ricostruzione di qualsiasi vicenda storica. Anche gli studiosi che vanno per la maggiore e che fanno da protagonisti nei tanti dibattiti, sono vistosamente parziali in particolare quando trattano dell’apporto dei cattolici. In genere si limitano a mettere in evidenza l’unitarietà delle diverse componenti nei Comitati di Liberazione Nazionale e l’apporto delle sinistre. Le diverse resistenze Occorre dire subito che l’unità resistenziale aveva un solo obiettivo comune: la fine dell’occupazione tedesca e della Repubblica Sociale Italiana che ne aveva supportato le brutali imposizioni. Al di fuori di questo c’erano profonde diversità sia riguardo ai fini che ai mezzi. Nei comunisti erano forti le istanze di classe e la volontà di arrivare anche in Italia ad una “democrazia progressiva”: Togliatti, tornato il 27 marzo del 1944 in Italia da Mosca, incontrò forti difficoltà nell’imporre la sua linea di unità nazionale. I cattolici rifiutavano nettamente il concetto di lotta di classe, arrivando con fatica all’idea di azione di classe. Le formazioni comuniste privilegiavano l’azione militare; i cattolici - di qui l’accusa di “attendismo”- erano sostanzialmente contrari alla violenza contro le persone e si proponevano, per quanto possibile, di evitare rappresaglie sulla popolazione civile. Per i cattolici esisteva il problema morale, di non facile soluzione, del come conciliare l’uso della violenza col principio dell’ordine e della legalità. Da sempre la morale cattolica riconosceva il principio della legittima difesa, ma sulla liceità della lotta armata resistenziale ci furono lunghe discussioni. Si concluse, sulla scorta del “De auctoritate” di San Tommaso, che essendo legittima la ribellione al tiranno e la sua uccisione, era lecita la resistenza anche armata. Non si trattava di accademia, ma della ricerca di motivazioni etiche per l’azione. Le tecniche garibaldine erano apertamente osteggiate dal clero che, in luogo della lotta armata, preferiva forme di resistenza passiva. In luogo di “lotta partigiana” si preferisce parlare di patriottismo e infatti i cattolici impegnati nella Resistenza amano definirsi “patrioti” e le loro formazioni, anche nella nostra provincia, si denominano “Damiano Chiesa” e “Guido Negri”. Più che di un fatto militare si trattò per loro di un processo di coscientizzazione. Si può obiettivamente aggiungere che le “brigate del popolo” cattoliche furono più apartitiche delle formazioni garibaldine (nelle quali il commissario politico era sempre un comunista di provata 108 fede) anche perchè, nonostante si parli di formazioni democristiane, in effetti nella nostra provincia la Democrazia Cristiana esisteva solo in un ristrettissimo gruppo di vertice (Saggin, Sabadin, Zancan e pochissimi altri). E’ certamente vero che vi furono cattolici nelle formazioni garibaldine e comunisti nelle formazioni cattoliche. Ci fu sì il cattolico Luigi Pierobon (“Dante”, comandante della “Brigata Garibaldi Stella”) e il comunista Gino Scalco nella Damiano Chiesa, ma furono casi isolati ad eccezione di quei gruppi autonomi incorporati nella “Brigata Garibaldi Padova” nell’estate 1944, come il gruppo di Conselve che faceva riferimento a Modesto Violato nel quale i cattolici erano più di uno. I partigiani comunisti provenivano prevalentemente dai ceti operai, quelli cattolici dal mondo contadino e studentesco. I primi avevano di frequente alle spalle tradizioni di antifascismo militante; i secondi avevano in generale evitato forme aperte di dissenso al regime tanto che si è diffusa l’opinione di un mondo cattolico padovano filo-fascista. Non si tiene conto che il fascismo padovano si era connotato come fascismo agrario il quale, con le sue intimidazioni e violenze, distrusse sia le organizzazioni bracciantili “rosse” che tutte le opere sociali realizzate dal movimento cattolico tra le masse contadine in particolare nell’Alta padovana. I tanti fittavoli e piccoli proprietari, così come i braccianti, non furono fascisti neppure dopo l’impresa etiopica. I nostri contadini percepivano, seppure inconsciamente, che il “ruralismo” fascista comportava immobilismo sociale ed uso spregiudicato della manodopera contadina eccedente, cui si ricorreva propagandisticamente quando si trattava di coltivare la Maremma, le paludi pontine (Littoria, Sabaudia, Pontinia), il Sulcis (Carbonia) o la “quarta sponda” (Bengasi e Derna). Sentivano estraneo il ceto 109 dirigente fascista in prevalenza espressione della piccola e media borghesia. Il clero rurale si trovava in sintonia con i contadini anche perchè molti parroci erano stati promotori e organizzatori di casse rurali, di leghe e di sezioni del Partito Popolare. Esso accettò di limitare la sua azione alla sfera religiosa, ma la base locale dell’Azione Cattolica, nella quale erano rimasti i popolari, fu sostanzialmente critica nei confronti del regime fascista. C’è una sintomatica relazione del prefetto di Treviso che in data 9 luglio 1935 scrive al ministero: “L’Azione Cattolica, quantunque ostenti insegne ed emblemi religiosi ed affermi di voler conseguire la diffusione e l’attuazione di principi esclusivamente spirituali e culturali dei propri adepti, è senza dubbio il fulcro di una vasta, tenace, larvata azione politica che tende, attraverso la FUCI, a forgiare i quadri che dovranno contenere e guidare le formazioni future adatte e pronte ad ogni eventualità. L’attività finora esplicata, per quanto condotta con molta cautela e circospezione ed ammantata di legalità, trovando nelle leggi stesse dello Stato un fondamento giuridico che ne sanziona la legittimità, si rivela immediatamente non solo come contrastante con le direttive del Partito, bensì anche tendente ad emulare in un primo tempo, per sopraffare poi tutte le istituzioni, organizzazioni ed iniziative fasciste”. Si noti bene che siamo nel 1935, e quindi nel periodo in cui il fascismo, dopo l’impresa etiopica, godeva del massimo consenso. 110 La relazione esprime con chiarezza la situazione che, per quanto risulta, era analoga a Padova e in altre diocesi venete. Era pur sempre un dissenso che si manteneva entro i limiti della legalità, del rispetto per l’autorità costituita e poi, nel periodo 19401943, del compimento del proprio dovere sui vari fronti di guerra. Molto spesso si sottovaluta che a Padova nell’inverno 1944-’45 l’Azione Cattolica propose come testo per la gara di cultura religiosa, cui tutti i circoli erano tenuti a partecipare, quel “Catechismo sociale” che provocò la reazione fascista culminata nel tentativo di arresto del suo autore, don Guido Beltrame, salvato proprio sulla porta del vescovado dal deciso intervento personale del vescovo Agostini(3). Quel testo, nelle sue tre parti (ordinamento sociale, economia sociale, questione sociale) non faceva altro che richiamare i punti essenziali del tradizionale magistero sociale con una dura ed esplicita condanna del liberismo e del comunismo. In linea col magistero ed in particolare con il concetto di collaborazione tra le classi (interclassismo) si dava un giudizio sostanzialmente molto blando del corporativismo fascista. Il giudizio negativo si riduceva alla domanda n.61: “Quale è il difetto fatale che sta alla radice del corporativismo fascista?”. Nell’edizione minore del “Catechismo”, quella distribuita a tutti i soci dell’Azione Cattolica diocesana, la risposta suonava così: “E’ duplice: 1) L’asservimento dell’individuo alle presunte esigenze dello Stato; 2) La sottomissione dell’economia alla politica del partito”. Non poteva sfuggire all’attenzione dei fascisti nè l’espressione “difetto fatale” (cioè di fondo e non sanabile) nè tanto meno quell’”asservismo dell’individuo alle presunte esigenze dello Stato” che, tanto nella forma quanto nella sostanza equivaleva ad una chiara condanna della dittatura. 111 Occorre notare che non si trattava di un documento clandestino, ma di una pubblicazione a stampa che recava l’imprimatur del vescovo Agostini in data 4 ottobre 1944 ed era esposto al pubblico nella vetrina della Gregoriana in via Roma. Del resto, dalla sede di via San Tommaso, l’Azione Cattolica padovana diffondeva ampiamente, per la formazione sociale dei soci, pubblicazioni quali il “Codice sociale” di Malines (Edizioni “La Civiltà Cattolica”, 1944), i “Principi dell’ordine sociale cristiano” di Jacopo Bianchi (Editrice AVE, 1944) e “Il messaggio sociale di S.S. Pio XII” di Carlo Colombo (Editrice “Vita e Pensiero”, 1944). Anche questa era “resistenza” e se sul piano militare sono comprensibili le accuse di attesismo, non si può negare che ci sia stata un’estesa azione sistematica rivolta alla formazione sociale, certamente “pensando al dopo” che era un “dopo” molto diverso, se non opposto, da quello ipotizzato dai comunisti. Ciò emerge con innegabile chiarezza da un opuscolo, predisposto da Luigi Gui e diffuso tra i partigiani delle “brigate del popolo” padovane nel dicembre 1944: “Bisogna dimostrare il dissenso che ci separa sia dai liberali, indifferenti ai bisogni del popolo e attaccati al passato, quanto dai socialisti e specialmente dai comunisti che predicano la lotta di classe e la violenza armata. Anche in questo essi si rivelano parenti stretti dei fascisti (...)”. Particolarmente pesante è l’ultima frase riportata, che è un sintomo di ciò che si sarebbe poi verificato. Senza il retroterra dell’antifascismo militante e dell’intensa e continua azione formativa, non si capirebbe l’adesione dei cattolici al movimento resistenziale. 112 Da più parti si afferma che la Resistenza ha coinvolto un assai ristretto numero di persone, il che non è affatto vero per una serie di fatti inoppugnabili. Si trascura il fatto degli oltre 600 mila militari italiani catturati dai tedeschi e deportati in Germania che rifiutarono in massa l’adesione alla Repubblica Sociale di Salò preferendo la dura scelta della “resistenza del filo spinato”. Si dimentica l’altrettanto corale aiuto dato dalla nostra gente dopo l’8 settembre non solo agli sbandati (ed era perfettamente comprensibile) ma anche ai prigionieri fuggiti dal campo di concentramento di Chiesanuova di solito genericamente definiti inglesi mentre in realtà si trattava di militari alleati in prevalenza sudafricani e neozelandesi (i tedeschi avevano “messo al sicuro” in Germania i prigionieri inglesi e americani) e di un numero considerevole di jugoslavi. Risposta di massa vi fu anche da parte dei contadini delle nostre campagne che istintivamente si sentono in sintonia con i partigiani, quanto meno coprendoli con la loro tacita omertà. Non fu affatto un atteggiamento di comodo perchè essere sorpresi con un prigioniero alleato o un partigiano in casa significava quanto meno il saccheggio dell’abitazione e spesso l’incendio e la deportazione. Una partecipazione di tali dimensioni non si improvvisa: doveva avere profonde radici e venire da lontano. In sostanza ci furono più Resistenze di segno diverso che avevano in comune l’obiettivo della Liberazione e ognuna pagò il suo prezzo nella riconquista della libertà. Certo, la Resistenza dei cattolici fu meno appariscente, ma non per questo meno importante. Se le differenze non fossero state profonde non si spiegherebbero gli eventi successivi sui quali hanno pesato in misura determinante gli effetti degli accordi di Yalta e di Potsdam. Sono quindi infondate le accuse rivolte ai cattolici: “Il movimento cattolico veneto ebbe sempre una forte carica 113 conservatrice”(4) e “L’azione dei democratici cristiani fu quasi nulla”(5) . In realtà parteciparono attivamente alla Resistenza, con modalità e finalità diverse, preti e laici. Il vescovo Agostini Anzitutto va considerato l’atteggiamento del Vescovo, mons. Carlo Agostini, che fu diplomaticamente prudente a livello ufficiale ma coerente nell’operatività. In qualche caso il suo comportamento venne interpretato come appoggio diretto alla Repubblica Sociale, come è avvenuto per il discorso pronunciato in Cattedrale in occasione del funerale cittadino delle vittime del bombardamento dell’11 marzo 1944 che provocò 400 morti e semidistrusse la Chiesa degli Eremitani, rovinando irreparabilmente gli affreschi del Mantegna, e quella di San Benedetto, il cui restauro si era concluso appena tre mesi prima: tra le rovine in quelle ore si aggirò il parroco con la veste macchiata di sangue e coperta di calcinacci. Davanti alle bare, il Vescovo tra l’altro disse: “Sappia il mondo che la chiesa degli Eremitani non esiste più, che gli inestimabili tesori d’arte, l’undici marzo furono letteralmente polverizzati. Basta con simili bombardamenti (...). Non è lecito nè a chi comanda nè a chi esegue colpire così. Io invoco il senso di umanità comune a tutti gli uomini e ricordo che sopra ad ogni uomo è la giustizia di Dio e che presto o tardi questa giustizia vendica il sangue innocente”. I fascisti, interpretandolo strumentalmente, subito stamparono e diffusero il discorso in tutta la provincia, datandolo 15 marzo 1944 114 XXII. Sono superflui i commenti su quel “XXII” che si riferiva all’era fascista. Gli storici generalmente attribuiscono al vescovo Carlo Agostini simpatie filofasciste. Anche ammesso che vi fossero state prima del 25 luglio, non è affatto dimostrato nè dimostrabile che egli abbia manifestato simpatia per la Repubblica Sociale. Tra l’altro, mai il settimanale diocesano “La Difesa del Popolo” ospitò un bando tedesco o fascista. Non solo, ma mons. Agostini, subito dopo l’8 settembre, quando fu informato dal parroco di Chiesanuova del passaggio allo scalo merci di Campo di Marte di un convoglio carico di soldati italiani deportati, accorse immediatamente. Si accostò ai carri e, sotto lo sguardo stupefatto dei militari tedeschi che non osarono sparare, aprì con un coltello i carri, mandando contemporaneamente alla ricerca di cibo e di bevande. Poi, nei venti mesi successivi, si occupò personalmente di tutti i suoi preti arrestati o minacciati di arresto per attività contrarie all’occupante e ai collaborazionisti di Salò. Come già ricordato, salvò dall’arresto sulla porta del vescovado don Guido Beltrame, autore del “Catechismo sociale”. Accorse in Piazza Castello, impedendo che don Piero Costa, allora assistente dei giovani di Azione Cattolica, fosse fatto salire sul camion che l’avrebbe deportato in Germania. Si recò personalmente al comando tedesco per chiedere il rilascio dei due cappellani di Cittadella, don Augusto Rancan e don Francesco Bertoncello. E’ anche documentato il suo intervento rivolto a salvare la vita di partigiani detenuti. In definitiva il Vescovo si mantenne sulla linea dell’episcopato Triveneto che, analogamente all’episcopato piemontese e lombardo, prese posizione con un documento che sostanzialmente faceva proprie le tesi dell’attesismo se non di un dosato equilibrismo. Infatti nella notifica del 20 aprile 1944, dopo aver ripetuto che i 115 vescovi giudicavano la guerra “se non come uno dei più tremendi flagelli”, si affermava di non poter entrare nel merito perchè essa “nella continuazione come nel principio è un fatto strettamente politico” ed essendo tale non investiva le responsabilità della Chiesa che erano esclusivamente religiose: così si evitava ogni scelta di fondo e si motivavano gli interventi in favore dei perseguitati come azione umanitaria. I vescovi però non potevano evitare di esprimersi, senza mezzi termini e diplomatici dosaggi, su un episodio che ritenevano particolarmente grave sul piano religioso e cioè sull’appoggio dato da esponenti della Repubblica Sociale a don Tullio Calcagno, un prete fanaticamente fascista, propugnatore di una chiesa nazionale. Egli, tra l’altro sosteneva che “dalle premesse bibliche si deduce apoditticamente che gli italiani devono odiare tutti i nemici in quanto tali e finché tali dell’Italia e dell’Asse e del Tripartito e di tutti gli aderenti a questo, come nemici della giustizia e quindi di Dio. Odio non solo lecito, ma comandato”. Partendo da simili premesse, teologicamente aberranti, si ventilava l’ipotesi di una chiesa nazionale. Dal 10 gennaio 1944, don Calcagno stampa, con il finanziamento del ministero fascista della Cultura popolare, un suo settimanale, “Crociata Italica”, che si poneva in linea con “Action Francaise” di Maurras e Daudet. Il settimanale ebbe una tiratura iniziale di centomila copie che vennero largamente diffuse in ambienti cattolici del territorio controllato dalla Repubblica Sociale. Fortemente irritato e preoccupato, il cardinale patriarca di Venezia, Piazza, (analogamente ai vescovi di Torino, Milano, Bologna oltre a quello di Cremona, Cassani, che l’aveva fatto immediatamente) dichiara che avrebbe immediatamente sospeso “a divinis” tutti i preti della regione che in qualche modo avessero collaborato al giornale. 116 Anche questo fatto allargò il solco tra la Chiesa e la Repubblica Sociale. Il coinvolgimento del clero I preti diocesani e i religiosi sistematicamente aiutarono i perseguitati senza distinzione di parte. Esemplari in quest’opera furono don Giovanni Fortin, padre Placido Cortese dei conventuali del Santo, padre Cornelio Biondi e padre Germano Lustrissimi, entrambi benedettini del convento di Santa Giustina. I primi due furono infaticabili nel mettere in salvo prigionieri alleati e internati jugoslavi fuggiti dal campo di concentramento di Chiesanuova, nonché ebrei. Don Fortin, arrestato in sacrestia e inviato al lager di Dachau dopo settanta giorni passati in carcere, al giudice che lo accusava di essere un traditore della Patria, rispose fermo: “Io ho obbedito al Vangelo”. Padre Cortese, per fabbricare documenti di identità falsi, usava le foto degli ex voto che avevano qualche rassomiglianza con le persone da aiutare. Non si è mai saputo che fine abbia fatto dopo l’arresto probabilmente dovuto al fatto che, essendo nativo di Cherso, si riteneva fosse venuto a conoscenza di notizie importanti nei suoi contatti con gli internati jugoslavi. Più controverse, per evidenti motivi, sono le figure di padre Cornelio e di padre Germano, entrambi cappellani delle Brigate Nere padovane. Ci sono prove certe che con la loro opera intelligente, ma estremamente pericolosa, misero al sicuro molti resistenti. Salvarono Castelbaldo dalla distruzione per rappresaglia 117 e, a dimostrazione che la loro opera si rivolgeva a tutti senza distinzione di parte, si può ricordare che padre Biondi procurò a padre Angelo, pure lui del convento di Santa Giustina, un’auto fascista con la quale poté portare in salvo a Milano Giuseppe Doralice, il noto capo partigiano comunista, attivamente ricercato dopo i fatti di Castelbaldo. Assai rilevante fu il ruolo attivo giocato nella Resistenza padovana da alcuni sacerdoti e da alcuni istituti religiosi della città. Anche qui alcuni nomi: don Giovanni Apolloni, padre Mariano Girotto, don Egidio Bertollo, don Antonio Pegoraro, don Guerrino Gastaldello, l’Antonianum, il convento di Santa Giustina, diverse canoniche. Esemplare è la figura di don Giovanni Apolloni del collegio Barbarigo, amico e consigliere di Otello Pighin (“Renato”) che entra attivamente nella Resistenza e con don Francesco Frasson stampa innumerevoli documenti falsi: dalle carte d’identità agli esoneri. Nello stesso giorno (quel nero 7 gennaio 1945) della grande retata dei membri del Comitato di Liberazione Nazionale alla Casa di Cura Palmieri al Torresino e dell’uccisione di Pighin, viene arrestato dagli uomini di Carità e portato a Palazzo Giusti. Torturato non parla; uscirà solo alla Liberazione. Don Egidio Bertollo accoglie per diversi mesi nella canonica di San Carlo le sedute del Comitato di Liberazione Nazionale e ne ospita il comandante militare. Arrestato, viene liberato grazie all’intervento del vescovo di Treviso (era stato portato a Montebelluna). Don Antonio Pegoraro è con i partigiani del Grappa nei terribili giorni del rastrellamento. Don Guerrino Gastaldello è cappellano della “Damiano Chiesa”. Padre Mariano Girotto prestava l’ufficio parrocchiale e la saletta della San Vincenzo per le riunioni del Comitato di Liberazione Regionale. Il professor Meneghetti arrivava in tuta da operaio e con 118 il tradizionale pentolino in mano. Ai frati che gli chiedevano chi fossero tutte quelle persone, rispondeva che si trattava di uomini... dell’Azione Cattolica. Nella cripta della chiesa di San Prosdocimo funzionò la tipografia clandestina dalla quale, oltre a migliaia di volantini, vennero stampate con la sovracopertina di Pinocchio, le “Confidenze di Hitler”, che presentavano il dittatore nazista come un pazzo fanatico. Nella canonica di Voltabarozzo ebbe sede il comando della Brigata Trentin e in quella di carceri d’Este tenne le sue riunioni il comando della Pierobon. Non è per fortuita coincidenza che la resa delle forze fasciste sia stata firmata al Santo e quella delle forze tedesche all’Antonianum. Il clero diocesano pagò la sua partecipazione alla Resistenza con dieci sacerdoti uccisi e quarantaquattro incarcerati. Accaddero alcuni fatti mai chiariti, come l’uccisione del parroco di Bertipaglia, don Luigi Bovo, avvenuta nella sua canonica il 25 settembre 1944. Dell’assassinio fu accusato un partigiano della “Brigata Garibaldi Padova”, Artemio Zambolin (“Silla”) da Pontelongo che, dopo essere stato torturato, venne fucilato nella piazza di Bertipaglia dai fascisti della Brigata Nera “Begon”. Non è per niente certo che lo Zambolin sia stato l’uccisore del prete; c’è chi sostiene che egli sia stato solo un capro espiatorio per coprire il vero colpevole. E’ verosimile, anche perchè è provato che don Luigi aiutava i partigiani che si rivolgevano a lui(6). L’impegno del laicato Numericamente consistente fu l’adesione alle formazioni partigiane organizzate dai cattolici padovani. 119 Mentre i comunisti, in coerenza con la loro impostazione ideologica, optarono per una formazione unica estesa a tutta la provincia (la Brigata Garibaldi Padova poi “Franco Sabatucci” inizialmente ripartita in sette battaglioni e poi in undici) i cattolici organizzarono quattro brigate che facevano riferimento a quattro diverse aree del territorio provinciale: - la “Luigi Pierobon” tra Abano ed Este; - la “Guido Negri” tra Padova, Piove e Dolo; - la “Brunello Rutuli” (inizialmente “Adige”) tra Conselve e Cavarzere; - la “Damiano Chiesa”, poi ripartita in tre, nell’Alta padovana. Su due formazioni, la “Silvio Trentin” e la “Corrado Lubian”, contavano gli azionisti di “Giustizia e Libertà”. Al momento della Liberazione al comando della “Pierobon” c’era Giuseppe Bussolin, della “Guido Negri” Antonio Ranzato, della “Rutuli” Marino Munari e delle tre brigate della “Damiano Chiesa” rispettivamente Giuseppe Armano, Sebastiano Bortignon, Graziano Verzotto. Inizialmente all’interno del Comitato di Liberazione si discusse molto vivacemente se le formazioni partigiane dovessero essere unificate sotto un unico comando militare o mantenere la loro caratterizzazione politica. Prevalse la seconda tesi (vi insistettero in particolare i comunisti) e solo nella tarda primavera del 1944 il Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto (CLNRV) dispose l’organizzazione in brigate, battaglioni e compagnie. I termini militari di brigate, battaglioni e compagnie non traggano in inganno perchè in realtà il numero dei partecipanti era assai esiguo rispetto alle omonime formazioni dell’esercito. Quanti erano in realtà i partigiani combattenti? Non sono certo attendibili nè le cifre fornite al Comando Militare Regionale (CMR) nè quelle relative a coloro che hanno ottenuto la qualifica dell’apposita commissione. Per evidenti motivi politici ogni 120 componente cercò di valorizzare la propria partecipazione alla Guerra di Liberazione gonfiando le cifre; e lo fecero tutti, dai comunisti ai cattolici. Ci sono dei riscontri oggettivi. La “Brigata Garibaldi Padova”, sicuramente la più numerosa, ebbe riconosciuti 3.687 partigiani combattenti e 1.689 patrioti. Ma un testimone attendibile, Giorgio Amendola, quando, su incarico della Direzione Nazionale del PCI, fu a Padova tra il 14 e il 24 settembre 1944, cioè nel periodo della grande estate partigiana, accertò che la Brigata garibaldina padovana contava su 2.000 uomini dei quali solo 500 erano armati(7). Se, in sostanza, i partigiani combattenti della formazione comunista erano 500, i partigiani combattenti cattolici erano ancora meno e quelli di “Giustizia e Libertà” non arrivavano al centinaio. Non è da trascurare l’apporto delle donne, talora ignorato o sottovalutato nella sua essenzialità non solo sul morale ma anche in funzioni essenziali quali il servizio di staffetta e di predisposizione di rifugi sicuri. C’è anche un secondo interrogativo: quanto hanno veramente pesato le forze partigiane sul piano militare? Al molto sul piano politico, specie per quanto riguarda la coscientizzazione delle masse popolari, corrisponde un poco sul piano militare. Nella pianura padana con un insediamento abitativo diffuso, fortemente presidiata da forze tedesche ben armate ed addestrate e dalle formazioni fasciste, erano possibili solo le tipiche azioni di guerriglia, del mordi e fuggi in prevalenza atti di sabotaggio alle vitali linee di comunicazione (strade, ponti, linee ferroviarie e telefoniche). Occorre anche aggiungere che la lotta partigiana vera e propria si limitò all’estate e all’inizio dell’autunno 1944, concentrandosi nel periodo che va dalla liberazione di Roma e dallo sbarco in 121 Normandia alla spietata repressione nazi-fascista e al proclama del generale Alexander (13 novembre 1944). I due eventi (l’arrivo degli alleati a Roma e l’apertura del secondo fronte) facevano ritenere, in base ad una valutazione più emotiva che razionale, che la guerra si sarebbe conclusa prima dell’inverno. Non si metteva in conto che l’Italia era per gli alleati un fronte secondario (serviva a tenere immobilizzate consistenti forze nemiche) e che l’esercito tedesco, secondo una consolidata tradizione, avrebbe combattuto fino all’ultimo. La disparità delle forze apparve chiara nella battaglia del Grappa (19-28 settembre 1944) che in soli dieci giorni costò alla Resistenza veneta 171 impiccati, 603 fucilati, 804 deportati, 3212 prigionieri, 285 case incendiate. D’altra parte era pura illusione pensare di potersi contrapporre allo scoperto ai tedeschi. La crisi della lotta partigiana arrivò subito dopo in pianura. Le ondate di arresti (giocarono negativamente spie, delazioni, cedimenti) crearono larghi vuoti nelle formazioni. Agli arresti si accompagnarono feroci esecuzioni rivolte a terrorizzare la popolazione: Pierobon viene fucilato a Chiesanuova con altri sei; Busonera viene impiccato in via Santa Lucia con altri due; quattro vengono impiccati al ponte che ora si chiama “Quattro Martiri”; sette vengono fucilati a Luvigliano e i loro cadaveri impiccati ai platani del viale antistante la Villa dei Vescovi; sette vengono impiccati sul lungargine della Brentella (ora via Sette Martiri); sei della Pierobon vengono uccisi a Piacenza d’Adige e altri sei fucilati a Megliadino San Vitale... A completare la crisi, arrivò il proclama col quale il generale Alexander invitava le formazioni partigiane ad interrompere “le operazioni organizzate su vasta scala” continuando solo a fornire al comando alleato notizie di carattere militare. Le conseguenze furono pesanti poichè molti, sfiduciati, abbandonarono e si ridussero a livello minimo le azioni di guerra 122 anche perchè al proclama seguì una drastica riduzione degli aviolanci di armi e di materiale da parte degli alleati. Molto si è scritto sulle ragioni che indussero Alexander ad emanare il proclama; di sicuro c’è che gli inglesi non amavano i partigiani e in particolare quelli comunisti. Più che per le azioni militari in sé, la Resistenza armata contò perchè lo Stato Maggiore tedesco era fortemente preoccupato dell’azione partigiana, un fenomeno difficilmente comprensibile per una mentalità abituata a ragionare in termini di armate schierate sui campi di battaglia secondo determinati piani strategici. Un risultato certo fu l’immobilizzazione di consistenti forze a salvaguardia delle retrovie e delle possibili direttrici di ritirata verso il territorio tedesco. Le forze fasciste, salvo rare eccezioni, furono impegnate esclusivamente, invece che al fronte, nella lotta antipartigiana e poi, come la Milizia fascista dopo il 25 luglio, anche questa volta si arresero senza combattere. Qui va considerato un ultimo aspetto. Le colonne tedesche in ritirata (ma non in rotta) vennero spesso attaccate senza un piano prestabilito da formazioni non addestrate, scarsamente armate e non adeguatamente comandate. Si voleva colpire il nemico a tutti i costi comunque e dovunque, senza valutare le prevedibili conseguenze. Un conto era attaccare quei piccoli gruppi che, nei mesi dell’occupazione erano stati disseminati nel territorio e che rimasero tagliati fuori dalle grandi direttrici di ritirata, un conto era lo scontro con colonne corazzate ancora efficienti, disciplinate e potentemente armate. L’attaccarle poteva essere un atto eroico, ma equivaleva ad un suicidio e quasi sempre, secondo il costume tedesco, comportava feroci rappresaglie sulla popolazione. Così avvennero gli eccidi di San Benedetto delle Selve (Praglia di Teolo) dove morirono fucilati 3 partigiani ed 11 civili; a Saonara dove vennero trucidati 50 civili; a Santa Giustina in Colle con 23 123 fucilati tra i quali il parroco don Giuseppe Lago e il cappellano don Giuseppe Giacomello; a Sant’Anna Morosina dove 38 cittadini vennero presi in ostaggio e poi freddamente trucidati a Castello di Godego, poco oltre Castelfranco. Per dovere di obiettività occorre precisare che se i primi due eccidi sono stati conseguenza di azioni partigiane garibaldine, la responsabilità degli altri due è stata di formazioni partigiane della “Damiano Chiesa”. Altri eccidi vennero evitati dal coraggio dei parroci che trattarono con i tedeschi la liberazione di gruppi di loro parrocchiani presi in ostaggio. Così fece a Lozzo don Tarcisio Mazzarotto e a Saletto di Vigodarzere don Antonio Moletta, dopo che era stato ucciso il cappellano don Beniamino Guzzo. In positivo va rivelato che quando le truppe alleate arrivarono nel territorio padovano, lo trovarono completamente libero, ma quegli eccidi pesano ancora negativamente nel ricordo della gente convinta che quelle tragedie potevano essere evitate. Note: (1) A. Molinari (a cura di), La Divisione Garibaldina “F. Sabatucci” Padova (19431945), Forcato, Padova 1977. (2) G. E. Fantelli, La Resistenza dei cattolici nel padovano, FVL, Padova 1965. (3) A. Micheli, Ha combattuto con le vittime, in “La Difesa del Popolo”, 2 gennaio 1983. (4) M. Sartori, La Resistenza a Padova, settembre 1943-aprile 1945, Tesi di laurea 1981, appendice p.64. (5) Ibidem p.55. (6) cfr. La Difesa del Popolo, 20 dicembre 1992. (7) G. Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, Roma 1973, p.442. 124 DOCUMENTI DOCUMENTO N.1 La Cassa Rurale di Piove di Sacco (1) A) La Cassa Rurale Che cosa è una Cassa Rurale? La Cassa Rurale è una società di prestiti ordinata a rendere possibile anche al contadino il credito di cui abbisogna, per salvarlo così dall’usura e migliorarne la condizione. Che il contadino abbia bisogno di credito non v’ha alcuno che lo possa negare, ove conosca le condizioni disastrose in cui versa attualmente l’agricoltura e specialmente la piccola cultura. Ora il contadino non possiede ordinariamente che pochi attrezzi rurali, qualche bovina, al più poche pertiche di terreno; e questa garanzia, sebbene superi materialmente in valore la piccola somma di cui egli può abbisognare, pure attesane l’assoluta esiguità che la rende più soggetta all’avversità, e la lontananza del contadino dai centri di credito che lo rendono sconosciuto, non può bastare perchè a lui si aprono gli sportelli delle banche così dette popolari. Senza dire che il contadino è per se stesso restio di ricorrere a questi istituti, e che le norme con cui questi si reggono, non si addicono ai bisogni dell’agricoltura. Che fa adunque il contadino? Se il bisogno non è urgente si adatta a tirare innanzi alla meglio, interdicendosi quelle migliorie e quei modi d’acquisto che non poco lo avvantaggerebbero d’assai, e andrà così sempre alla peggio. Se invece il bisogno di prestito in cui si trova, è urgente, egli dovrà ricorrere ad una delle molte forme di usura più o meno velate che gli si offrono e che finiscono col rovinarlo interamente. Ma ecco come a sovvenirlo e nell’uno e nell’altro caso la Cassa Rurale. Quel contadino, anziché rimanere isolato nel suo bisogno, si associa a molti altri suoi comparrocchiani, tutti onesti e ben intenzionati come lui; con atto notarile stringono un patto di solidarietà illimitata, cioè si obbligano solidariamente, tutti per uno ed uno per tutti, garanzia di quei capitali che la loro Società potesse ottenere dalle Banche o dai privati.... Piove di Sacco il giorno di S. Antonio del 1894. B) L’atto costitutivo N°1232 di Repertorio - N°1582 di Registro ---------------------Atto Costitutivo della Cassa Rurale di Prestiti di Piove di Sacco Società Cooperativa in nome collettivo ---------------------Regnante S. M. Umberto I° per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia. In Piove di Sacco in una sala grande detta il Paradiso di recente costruzione attigua alla Chiesa Parrocchiale, questo giorno - due - del mese di Settembre 1894, mille ottocento novanta quattro. Avanti di me Dottor Bernardo Bonato di Antonio, qui residente (...) si sono personalmente costituiti quali parti stipulanti il presente atto pubblico i Signori: 1. Tedeschi Conte Prospero di Carlo Avvocato nato e domiciliato a Piacenza, residente a Padova. 2. Coin Don Roberto fu Luigi nato ad Arzarello, Arciprete, Parroco domiciliato a Piove di Sacco. 3. Discardi Don Isidoro fu Domenico nato a Pianiga Sacerdote. Beneficiato domiciliato a Piove di Sacco. 4. Salviati D. Rainerio di Giacomo nato a Monselice Sacerdote. Beneficiato domiciliato a Piove di Sacco. 126 5. Roncolato Don Pietro di Matteo nato ad Este Sacerdote. Beneficiato domiciliato a Piove di Sacco. 6. Andreatta don Rocco fu Francesco a Crespano Veneto, Rettore delle Grazie, domiciliato a Piove di Sacco. (Seguono i nomi degli altri 45 fondatori) E le suddette parti dichiarano coll’atto presente costituire fra loro una Società in nome collettivo sotto la denominazione “CASSA RURALE DI PRESTITI di Piove di Sacco Società Cooperativa in nome collettivo”. La società ha per iscopo di migliorare la condizione morale e materiale dei suoi soci, fornendo loro il denaro a ciò necessario nei modi determinati dallo Statuto (...). C) Lo Statuto (...) Art.4. Possono appartenere alla Società soltanto persone giuridicamente capaci, che offrano la guarentigia dell’onestà e moralità individuale; che siano buoni cattolici e non contrari al Governo costituito, che non facciano parte di un’altra Società a responsabilità illimitata, che appartengano alla Parrocchia di Piove di Sacco o abitino nella stessa con frequente dimora avendovi continue relazioni d’affari, e che sappiano scrivere il loro nome e cognome (...). Art.7. I soci sono obbligati: a) di rispondere con tutti i loro averi fra essi in parti eguali e solidarmente rispetto ai terzi dei prestiti passivi contratti dalla Società e per ogni altra sua obbligazione; (...). Art.26. Segretario (...) sorveglierà che all’apertura e chiusura di ogni adunanza si reciti una breve preghiera invocando la protezione del Signore Iddio (...). 127 Art.33. Ogni socio deve indicare ogni cosa colla più scrupolosa verità perchè ove le cose non fossero vere, il Consiglio di Presidenza o gli negherà il prestito, o avendolo già accordato glielo richiederà immediatamente, anche per via di legge. (1) La costituzione e lo statuto della Cassa Rurale di Piove di Sacco seguono criteri comuni a tutte le altre casse rurali cattoliche costituite in quell’esaltante periodo. Promotori e fondatori ne sono i preti locali con persone gravitanti nell’ambito della parrocchia, in larga prevalenza agricoltori, ma anche artigiani e commercianti. La costituzione avviene in un locale della parrocchia e tipiche caratteristiche fondanti, che si ritrovano identiche in tutte le altre casse, sono la confessionalità (articoli 4 e 26) e la responsabilità illimitata (articolo 7). Il conte Prospero Radini Tedeschi (1856-1924), avvocato e agricoltore, era legato all’Opera dei Congressi ed era stato pochi mesi prima (giugno 1893) uno dei fondatori della Banca Cooperativa Cattolica padovana, poi divenuta nel 1906 Banca Antoniana. Ricco possidente, risiedeva a Piove dove nell’agosto del 1909 venne a trovarlo il fratello Giacomo Maria, vescovo di Bergamo, con il giovane segretario don Giovanni Roncalli, divenuto poi Papa Giovanni XXIII. Copia integrale della presentazione, dell’atto costitutivo e dello statuto è riprodotta in G. Borella, D. Borgato, R. Marcato, Un secolo di cooperazione. Cento anni di vita della Cassa Rurale e Artigiana di Piove di Sacco (1894-1994), Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco 1994, p.71-75; 182-202. DOCUMENTO N.2 Il nostro programma (1) ... Il periodico che, sotto veste rammodernata ed elegante, si presenta innanzi a voi, carissimi lettori, riassume nel suo titolo ed esprime chiaramente tutto un programma di lavoro e di restaurazione. 128 Difesa del Popolo contro l’enorme ammasso di errori che, ai danni del proletariato, continuamente vengono divulgati per strappargli dal cuore e dalla mente la Fede, quel prezioso tesoro che i suoi antenati con tanta cura custodirono; contro tutte le calunnie che si vanno propalando per screditare istituzioni sacre e persone ascritte ad ordini religiosi. Difesa del Popolo contro le più subdole insidie in cui si cerca di farlo miseramente cader vittima. Difesa del Popolo contro il dilagare di letture malsane e di insegnamenti perversi, che vanno sempre più diffondendosi sotto la menzognera etichetta di un’istruzione cosiddetta moderna e civile. Difesa del Popolo sul terreno vero delle rivendicazioni sociali, inquantochè (e lo proclamiamo a voce alta) noi intendiamo che, salvaguardati i diritti e tenuto in doverosa considerazione il prestigio di quelli che sono i reggitori della società, anche ai lavoratori siano garantiti, ed anche per essi siano rivendicati, quei diritti che umanità e progresso assolutamente esigono. Ed invero noi non invochiamo, anzi neppur immaginiamo, il ritorno della nefasta servitù della gleba, ed il ripristino del nefasto ordinamento feudale. Anzi ammiriamo gli operai che, secondo i diversi generi d’arte o mestiere, si stringono in lega per istruirsi, civilizzarsi, migliorare le proprie condizioni e per far valere le proprie ragionevoli richieste. Ma altrettanto siamo convinti che gli operai debbano abborrire da qualunque ribellione e da qualunque atto di violenza; e che giammai e per nessun motivo ed in nessuna circostanza essi debbano dimenticare il principio di autorità, il sentimento religioso, la dignità morale. Con questi propositi e con questi convincimenti iniziamo le pubblicazioni, dando il saluto dell’armi a tutti gli avversari, esigendo da essi quel rispetto delle persone (pur criticandone 129 eventualmente i principi) che io e i miei amici costantemente professammo.... per la Direzione e Redazione avv. Umberto Signorini (1) Il programma de “LA DIFESA DEL POPOLO” pubblicato nel numero 1 in data 5 gennaio 1908. DOCUMENTO N.3 L’associazionismo sociale diocesano presente in Collegio Sacro il 29 febbraio 1908 (La Difesa del Popolo, 4 marzo 1908) Le casse rurali presenti sono: Arsiè, Borso, Bojon, Brugine, Calaone, Caltrano, Campagna Lupia, Campolongo Maggiore, Campolongo sul Brenta, Candiana, Carceri, Casale Scodosia, Caselle dei Ruffi, Cinto Euganeo, Codevigo, Crespano, 130 Fara Vicentina, Fonzaso, Gallio, Legnaro, Lusiana, Marendole, Maserà, Megliadino San Vitale, Mellamè, Merlara, Mestrino, Monselice, Ospedaletto Euganeo, Pernumia, Pianiga, Piove di Sacco, Piovene, Polverara, Ponte di Brenta, Saccolongo, Saletto di Montagnana, San Giorgio delle Pertiche, San Martino di Monselice, Sant’Elena, Segusino, Selvazzano, Valle San Giorgio, Valsanzibio, Veggiano, Villa del Conte, Villa Estense. 131 Sono presenti i Comitati parrocchiali di: Bertipaglia, Borgoforte, Caltrano, Carceri, Cattedrale (città), Cazzago, Conselve, Fratte, Marendole, Megliadino San Vitale, Monselice (interparrocchiale), Montagnana, Noventa Padovana, Piove, Ponte Casale, Saccolongo, San Benedetto (città), San Gregorio, San Nicolò (città), Santa Giustina, Sant’Andrea, Sant’Angelo di Sala, Sant’Elena (Este), Santa Maria delle Grazie (Este), Santa Giustina in Colle, Sant’Andrea (città), Sant’Angelo di Piove, Sant’Angelo di Sala, Santa Sofia (città), Santa Tecla (Este), Selvazzano, 132 Servi (città), Tencarola, Tribano, Valsanzibio, Vescovana, Voltabarozzo. Sono presenti i rappresentanti delle seguenti assicurazioni del bestiame: Brugine, Caltrano, Campagna Lupia, Campolongo, Cesuna, Foza, Fratte, Liettoli, Lusiana, Pernumia, Piove di Sacco, Polverara, Salboro, San Giorgio delle Pertiche, Santa Giustina in Colle, Saonara, Terranegra, Villa del Conte, Voltabarozzo. Sono rappresentate le seguenti società di mutuo soccorso: Bassanello, Bastia, 133 Borso, Cagnola, Campese, Casale Scodosia, Cassola, Cinto Euganeo, Conselve, Crespano, Gallio, Granze di Vescovana, Grisignano, Legnaro, Megliadino San Vitale, Merlara, Montagnana, Montegalda, Ospedaletto Euganeo, Noventa Padovana, Padova, Pedescala, Piove di Sacco, Piovene, Ponte Casale, Pove, Pozzonovo, Romano, Rovolon, Saletto di Montagnana, Santa Tecla (Este), Schiavonia d’Este, Solesino, Teolo, 134 Thiene, Valstagna, Veggiano, Villa Estense. Cinque sono le Cooperative di consumo presenti: Calvene, Fonzaso, Gallio, Pedescala, Perlena. Sei i circoli operai: Calaone, Carceri, Carmini (città), Santa Maria delle Grazie (Este), Santa Tecla (Este), San Pietro Valdastico. Quattro i circoli democratici cristiani: Megliadino San Vitale, Piove di Sacco, Vigorovea, Villa Estense. Due le società agricole: Cittadella, Piovene. Tre sono i circoli della Gioventù Cattolica presenti: Merlara, 135 Montagnana, Padova. Una la Cooperativa fra braccianti: Merlara; sono presenti anche l’Unione cattolica del Bassanello, il patronato di San Sabino (Monselice) e la cassa parrocchiale dei Carmini (città). DOCUMENTO N.4 La guerra è una tragedia: i cattolici per una neutralità vigilante sui diritti dell’Italia (1) L’energica campagna intrapresa perchè l’Italia abbia a proseguire sul terreno neutrale finora continuato, comincia a dare i suoi frutti. I maniaci, i guerrafondai, gli spacconi, i facilitoni, cominciano ad ammutolire accorgendosi che fuor del chiasso fatto da loro un gelido silenzio li circonda. Ed è il silenzio di tutta l’immensa folla del popolo italiano, il quale pensa con terrore alle terribili ripercussioni della guerra nelle famiglie, nella vita, dovunque. Si fa presto a strombazzare la guerra quando non si hanno conseguenze, ma chi ne ha, va più guardingo; o per vaporose teorie, pallonate retoriche, gonfiature ostentate, non ha nessun entusiasmo che lo spinga a rimetterci la pelle, lui e i suoi e a veder la sua rovina economica. Perchè fino a prova contraria, anche durante la guerra bisogna mangiare; e i dissesti ed arresti negli affari e commerci non sono certo quelli che daranno pane a chi ha fame. ***** 136 Uno dei lati più immorali di questa moribonda campagna guerrafondaia, fatta per tre quarti dagli scarti di truppa o da chi per altra causa è esente da servizio militare, è il vedere come sia sostenuta da coloro che ieri spingevano i soldati all’antimilitarismo; magari fucilando i superiori. E’ un concetto che più volte abbiamo ripetuto e che oggi pure ripetiamo, perchè non lo sarà mai abbastanza, e più di qualunque altra motivazione serve a snebbiare qualcuno il cui cervello fosse stato preso da malinconie guerresche. Due sono i partiti che particolarmente sostengono in Italia la neutralità: i socialisti e i cattolici. I socialisti ufficiali hanno da tempo pubblicato un manifesto in cui bandivano la neutralità assoluta, senza eccezioni; è vero che anche in mezzo a loro ci sono dei dissenzienti. I cattolici hanno invece formulata diversamente la loro neutralità; essi hanno detto: ragioni vere per entrare in guerra oggi non ce ne sono, dunque stiamo fermi con le armi al piede, pronti ad intervenire se un’offesa od una minaccia ci venisse, o se domani non si tenessero nel debito conto i buoni diritti d’Italia. Allora che vi saremo costretti risponderemo. Tra i due è evidente come quelli che veramente vogliono il bene dell’Italia sono solo i cattolici. I socialisti sono sempre stati degli opportunisti senza idealità; ci sarebbe voluta una bella ingenuità a credere che oggi non lo fossero più. ***** La nostra formula di neutralità giova insieme di risposta (posto che lo meriti) a tutta la canea latrante che siamo antipatrioti. 137 Lasciamo adunque che il governo prosegua come ha incominciato, senza aver la solita pretesa di forzarlo con dimostrazioni di esaltati. Chi ha la responsabilità “giudica” più sicuramente di chi non ne ha. E chi è a conoscenza di tutto, “agisce” come può agire, e non come non può. Sono verità così elementari che non ci dovrebbe esser bisogno di dire. Ma oggi pare che certa gente sia divenuta analfabeta in fatto di giudizio; e per essa bisogna proprio ricominciare dall’a. (1) LA DIFESA DEL POPOLO, 18 ottobre 1914. DOCUMENTO N.5 Così lo Stato va al suicidio (1) La nuova direzione del Partito Nazionale Fascista ha lanciato al paese un roboante manifesto, il quale termina con le seguenti parole: “Saremo con lo Stato e per lo Stato tutte le volte che esso si dimostrerà geloso custode difensore e propagatore delle tradizioni nazionali, del sentimento nazionale capace di imporre a tutti i costi la sua autorità. Ci sostituiremo allo Stato tutte le volte che esso si manifesterà incapace di fronteggiare e combattere senza indulgenza la funesta coesione di elementi di disgregazione intima dei principi della società nazionale. “Ci schiereremo contro lo Stato qualora esso dovesse cadere nelle mani di coloro che minacciano e attentano all’avvenire del paese. “L’Italia innanzi tutto. L’Italia sopra tutto: questo è il programma di ieri, questo quello di oggi e di domani”. 138 Domandiamo noi: è intollerabile che in uno Stato esista ancora una organizzazione armata che dichiara senz’altro di volersi “sostituire” allo Stato stesso ogni qualvolta quello si manifesti incapace a fronteggiare ecc. ecc.? E chi può essere giudice di una tale situazione se non lo Stato stesso? Povero... “Stato Sovrano” dei liberali, creatori, fautori e sostenitori del fascismo! E lo stato, permettendo una tale organizzazione armata, non legalizza col suo consenso tacito l’esistenza di fazioni fuori della legge che condurranno inevitabilmente al suicidio della sua autorità, al regime di ritorsione violenta, dell’assassinio politico, all’esercizio arbitrale del potere? Ci pensi, il governo, finché è in tempo! (1) LA DIFESA DEL POPOLO, 4 dicembre 1921 DOCUMENTO N.6 Intanto i fascisti intimidiscono le leghe (1) Quanto sopra per ciò che riguarda i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori(2). Chè, per i rapporti tra lavoratori e... fascisti più o meno agrari... Nella Bassa Padovana (e particolarmente nei distretti di Este e Conselve) gravissime furono le violenze di ogni genere consumate dai fascisti dall’aprile a tutt’oggi. In queste ultime settimane le violenze aumentarono di numero e di gravità. Accenniamo soltanto a quelle consumate contro l’organizzazione bianca e i nostri. Centinaia e centinaia di lavoratori furono bastonati a sangue! I feriti da arma da fuoco furono oltre a trenta. Ci furono alcuni morti tutti di parte operaia. Gli incendi di case e di masserizie di lavoratori furono innumerevoli. Si calcolano a oltre cento i lavoratori che per mesi dovettero dormire nei campi, lasciando 139 indifesi in pericolo d’assalto donne, bambini e vecchi, essendo ricercati continuamente dai fascisti. Immancabilmente, tutte le sere, centinaia e centinaia di colpi di fucile e di rivoltella furono sparati in numerosi paesi. Locali di Leghe e di organizzazioni furono invasi, bruciati e venne imposta la loro chiusura. Diecine e diecine di bandiere furono asportate con la violenza. Le leghe e le organizzazioni di quasi tutti i paesi non poterono funzionare, e non possono ancora funzionare. Organizzatori e dirigenti bastonati e feriti a Este e Conselve, a Ospedaletto e Vighizzolo. Minacce continue: una vita d’inferno che chi non la trascorse non può neppure lontanamente immaginare quanto dolorosa per violenze inaudite perpetrate di giorno e di notte sotto gli occhi delle Autorità locali quasi sempre insufficienti e qualche volta nettamente partigiane della parte agraria e fascista. Ai capilega di alcuni paesi fu intimato non di non commettere violenze, che nessuna violenza fu mai commessa dai nostri nella Bassa, ma di sciogliere le Leghe o dimettersi dalle Leghe stesse e minacciati ripetutamente. Leghisti bastonati, organizzatori e dirigenti aggrediti e diffidati dal recarsi ancora in alcuni paesi. Commenti?... Non ne facciamo. Solo ricordiamo: “La corda troppo tesa si spezza”. (1) LA DIFESA DEL POPOLO, 19 febbraio 1922 (2) Si riferisce all’articolo precedente, titolato: “Nè legge nè orari” DOCUMENTO N.7 Il fascismo e i cattolici (1) Su questo tema: - Il fascismo e i cattolici - ha pubblicato un importante articolo l’on. Meda nella rivista Vita e Pensiero. 140 Possono i cattolici essere fascisti? Ecco la domanda che si pone l’on. Meda. Alla quale risponde negativamente. Perchè? Per queste ragioni. Posto anche che con i metodi fascisti della violenza si ottenga qualche buon effetto, i cattolici non possono tuttavia acconsentirvi. Il fine non giustifica i mezzi - Non possono acconsentirvi per il fatto che l’etica cattolica non tollera, per nessun verso che possa indulgersi al fatto singolo condannevole per deferenza al risultato, magari proficuo, che l’autore del fatto medesimo si proponeva di conseguire. La morale cattolica non ammette il furto perchè se ne ritraggano risorse a soccorrere sventure pietose, nè il falso per rimuovere o prevenire un danno immeritato, nè l’omicidio per ridare la sicurezza ad un onesto o la pace ad una famiglia; ammette solo il diritto alla vita, e scrimina perciò chi rubi, o meglio si procuri sottraendolo ad altri senza averne il consenso, il necessario a sostenersi, o dissimuli e neghi ciò che pur vero, potrebbe, se confessato, ritogliere l’onore e la libertà, o privi altrui dell’esistenza nel cimento di salvare la propria: ma tutto ciò non mai preordinatamente, per calcolo diretto ad un vantaggio, bensì soltanto per riparare ad involontarie, e non ovviabili necessità immediate. Vendetta e rappresaglia sono vietate - Nè, prosegue l’on. Meda, in qualsiasi modo la dottrina cattolica riconosce poi la liceità della vendetta e della rappresaglia; tutto il suo sistema etico, che si identifica cogli assiomi dell’insegnamento evangelico, è anzi una reazione tenace contro lo spirito pagano prima, barbarico poi, che la vendetta e la rappresaglia in certa maniera esaltavano come soddisfazione delle offese patite, come riparazione dell’onore vilipeso e del danno sofferto. Dunque - Dunque in quanto il fascismo si concreti e si esplichi in meditate imprese di reazione, di aggressione o di repressione violenta, in ferite ed uccisioni, in saccheggi ed incendi poco 141 importa se di camere del lavoro o di private abitazioni, in soppressioni della libertà personale o sociale, ai cattolici non è assolutamente lecito nè dare il nome nè tanto meno contribuirvi con l’opera o con il denaro. (1) LA DIFESA DEL POPOLO, 10 settembre 1922 (un mese e mezzo prima della “marcia su Roma” e la presa del potere da parte dei fascisti). DOCUMENTO N.8 Testo dell’accordo tra la Santa Sede e il Governo Italiano per la composizione del conflitto sull’Azione Cattolica (1) In seguito alle conversazioni svoltesi fra la Santa Sede e il Governo Italiano, concernenti l’avvenuto scioglimento dei Circoli Giovanili facenti capo all’Azione Cattolica, e in genere, l’attività della medesima, si è addivenuti ad un accordo nei termini seguenti: 1) L’Azione Cattolica Italiana è essenzialmente diocesana e dipende direttamente dai Vescovi i quali ne scelgono i dirigenti ecclesiastici e laici. Non potranno essere scelti a dirigenti coloro che appartennero a partiti avversi al regime. Conformemente ai suoi fini di ordine religioso e soprannaturale L’Azione Cattolica non si occupa affatto di politica e nelle sue forme esteriori organizzative si astiene da tutto quanto è proprio e tradizionale di partiti politici. La bandiera delle associazioni locali dell’A. C. sarà la nazionale. 2) L’Azione Cattolica non ha nel suo programma la costituzione di associazioni professionali e sindacali di mestiere; non si propone quindi compiti di ordine sindacale. Le sue sezioni interne e professionali attualmente esistenti e contemplate dalla legge 3 aprile 1926, sono formate a fini esclusivamente spirituali e religiosi, e si propongono inoltre di contribuire acchè il sindacato giuridacamente riconosciuto risponda sempre meglio ai principi di 142 collaborazione fra le classi e alle finalità sociali e nazionali che, in paese cattolico, lo Stato coll’attuale ordinamento si propone di raggiungere. 3) I Circoli giovanili facenti capo all’Azione Cattolica si chiameranno Associazioni giovanili di Azione Cattolica. Dette Associazioni potranno avere tessere e distintivi strettamente corrispondenti alla loro finalità religiosa; nè avranno per le diverse Associazioni altra bandiera all’infuori della nazionale e dei propri stendardi religiosi. Le Associazioni locali si asterranno dallo svolgimento di qualsiasi attività di tipo atletico e sportivo limitandosi soltanto a trattenimenti d’indole ricreativa ed educativa con finalità religiose. (1) Da “L’Osservatore Romano”, 2 settembre 1931 DOCUMENTO N.9 Lettera di Antonio Guariento a Raffaele Jervolino in data 24 novembre 1933 (1) Dopo aver espresso il suo “senso di sfiducia e di malcontento, o meglio di delusione” la lettera così prosegue: “Vorrei esserti vicino per dirti tutto il mio pensiero, pieno di tanta amarezza per l’andamento generale delle nostre cose non solo di Gioventù, ma di quelle in genere di tutta l’Azione Cattolica. Ho l’impressione che ci si faccia marciare su di un binario falso, pretendendo che ci si adatti ai sistemi più comodi e meno pericolosi. Tu al centro le vedi meglio di me le cose nostre, ma tu converrai che l’Azione Cattolica non si può fare con gli stessi criteri che può seguire una qualsiasi diplomazia. Così 143 non si formano i caratteri e non si fa dell’Azione Cattolica che ci fu detto essere al di fuori e al di sopra della politica...” (1) In Mario Casella, Per una storia dei rapporti tra Azione Cattolica e fascismo, in Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939) a cura di Paolo Pecorari, Vita e Pensiero, Milano 1979, p.1176. L’estense Antonio Guariento era allora dirigente regionale della Gioventù maschile veneta e Raffaele Jervolino presidente nazionale. Nella lettera sono chiari il suo dissenso e le sue perplessità sulla linea morbida e di adesione - quantomeno formale - al fascismo. DOCUMENTO N.10 Quadro dei rapporti tra PNF e AC tra l’agosto del 1938 e il 22 aprile 1939 (1) Riassunto: Diocesi interpellate Diocesi che hanno risposto Diocesi che non hanno risposto Diocesi che hanno accusato situazione normale Diocesi che hanno segnalato incidenti e difficoltà n. 323 n. 272 n. 51 n. 63 n. 189 Dettaglio N. Diocesi 1. Diocesi con casi di ritiro tessere del PNF 144 17 N. Casi 219* 2. Diocesi che accusano casi di imposte dimissioni da soci dell’A.C.I. 3. Diocesi che accusano casi di imposte dimissioni da dirigenti dell’A.C.I. 20 9 N. Diocesi 4. Diocesi che accusano casi di soci dell’A.C.I. licenziati dal lavoro 5. Diocesi che accusano casi di rimozione dalle cariche del P.N.F. 6. Diocesi che notificano casi di dimissioni spontanee (!) dall’A.C.I. 7. Diocesi che segnalano casi di imposta sospensione di spettacoli o chiusura sale 8. Diocesi che comunicano il divieto di parlare di A.C.I. 9. Diocesi che accusano casi di divieto di portare il basco 10. Diocesi che denunciano casi di divieto di pubblicità delle allocuzioni del S. Padre del 21 luglio 1938 11. Diocesi che accusano intimidazioni o vessazioni di vario genere 12. Diocesi ove si verificarono dichiarazioni di incompatibilità tra P.N.F. e A.C.I. 13. Diocesi ove si verificarono inviti o imposizioni a togliersi il distintivo dell’A.C.I. 38 14. Diocesi che ebbero richieste di elenchi di dirigenti o soci dell’A.C.I. 13 42* 23* N. Casi 1 2 10 10* 5 20 5 5 1 1 1 1 3 3 68 31 * più casi non determinati 145 1) Mario Casella, op. cit. p.1246-1247. Il quadro riassuntivo dei rapporti tra Partito Nazionale Fascista e Azione Cattolica è stato elaborato dalla segreteria generale dell’A.C. in base alle relazioni inviate a Roma dai vescovi o dai responsabili diocesani riguardanti il periodo che va dall’agosto 1938 al 22 aprile 1939. Molto probabilmente il documento, che comprende anche l’elenco dettagliato dei fatti, è servito alla Segreteria di Stato vaticana e a Pio XI per una informazione complessiva sui rapporti tra fascismo e A.C. a livello locale. Esso riveste notevole importanza poichè dimostra che, dietro il consenso di facciata, i rapporti erano difficili. Basti pensare che nella Diocesi di Bergamo, nel periodo considerato dal rapporto, vennero ritirate ben 196 tessere del P.N.F. a membri dell’A.C. DOCUMENTO N. 11 La preghiera del ribelle (1) SIGNORE che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa, a noi oppressi da un giogo numeroso e crudele, che in noi e prima di noi ha calpestato Te Fonte di libera vita, dà la forza della ribellione. DIO che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi: alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della tua armatura. Noi ti preghiamo, Signore. TU che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocifisso, nell’ora delle tenebre ci sostenti la tua vittoria: sii nell’indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nella 146 amarezza. Quanto più si addensa e incupisce l’avversario, facci limpidi e diritti. NELLA tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare. Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e carità. TU che dicesti: “Io sono la resurrezione e la vita”, rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie. SUI monti ventosi e nelle catacombe delle città, dal fondo delle prigioni, noi ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare. DIO della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi “ribelli per amore”. (1) La preghiera, il più alto documento della religiosità resistenziale cattolica, è del bresciano combattente per la libertà Teresio Olivelli. Anche nella nostra provincia veniva spesso letta negli incontri clandestini delle formazioni partigiane cattoliche (Luigi Pierobon, Guido Negri, Damiano Chiesa, Brunello Rutoli). 147 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Il sindacalismo agricolo veneto nel primo dopoguerra e l’opera di G. 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Armano Giuseppe, 115.45n, 47. Barbiero don Domenico, 89. Beltrame don Guido, 106, 111. Benedetto XV, 69. Bergamo don Riccardo, 89. Bernardi Enrico, 24. Bertin Antonio, 81. Bertollo don Egidio, 113. Bertoncello don Francesco, 111. Bertuzzo don Giuseppe, 92. Bianchi Jacopo, 107. Billanovic Vitale Liliana, 101n. Biondi padre Cornelio, 112, 113. Bonato Bernardo, 122. Borgato Daniela, 124. Borella Girolamo, 124. Bortignon Sebastiano, 115. Bottai Giuseppe, 99. Bovo don Luigi, 114. Breda Vincenzo Stefano, 21, 23, 24. Bruttomesso don Ivo, 88. Busonera Flavio, 117. Bussolin Giuseppe, 115. Buttarello Luigi e fratelli, 81. Calcagno don Tullio, 111, 112. Callegari mons.Giuseppe, 25Candeo don Angelo, 27, 38. Carazzolo Gian Tristano, 75. Casale Antonio, 72. Antonio, 72. Casella Mario, 139, 141. Cassani mons.Giovanni, 112. Ceccato Egidio, 42n. Cecchinato Giuseppe, 72. Cecconelli don Restituto, 51-6 Cerutti don Luigi, 37, 38. Cittadella Vigodarzere co. Codemo don Cristiano, 92. Coin don Roberto, 122. Coletti Domenico, 38, 40. Colombo Carlo, 107. Compostella Baldino, 72. Contarini Nicolò, 16n. Coppino Michele, 34. Corazzin Giuseppe, 53, 65n, 76, 101n. Corradini don Luigi, 81. Cortese padre Placido, 112, 113. Costa Andrea, 62, 63. Costa don Piero, 111. Cozzi Gaetano, 7, 16n. Crescente Cesare, 52, 72. Crispolti Filippo, 55. Dal Colle mons. Antonio, 84. Dalla Costa mons. Elia, 85, 88, 90, 91, 97. Dalla Longa don Giuseppe, 89. Dalla Torre Giuseppe, 52, 53, 58. Dalla Valle don Antonio, 68. Dal Santo, monsignore, 40. Daudet Leon, 112. De Antonellis Giacomo, 100. De Besi Andrea, 72. De Bono Emilio, 99. De Claricini, conte, 40. De Gasperi Alcide, 84. De Marsanich Augusto, 99. De Rosa Gabriele, 65n. De Stefani Antonio, 81. De Zanche don Vittorio, 69. Discardi don Isidoro, 122. Doralice Giuseppe, 113. 156 Dorio Luigi, 72. Faggiotto Agostino, 85. Fani Mario, 17. Fantelli Giorgio Erminio, 103, 119n. Favaron Anselmo, 79. Ferri Leopoldo, 80. Fiorazzo cav. Vittorio, 23. Flucco don Giuseppe, 42. Fogazzaro Giuseppe, 35. Fortin don Giovanni, 112. Fracanzani co. Carlo, 30. Frasson don Francesco, 113. Gamba Anacleto, 81. Gambasin mons. Angelo, 45n. Gastaldello don Guerrino, 113, 114. Gastaldello don Luigi, 98. Gemelli frà Agostino, 73. Giacomello don Giuseppe, 118. Gianesini don Giacomo, 73, 85. Giannelli, delegato di P.S., 36. Giolitti Giovanni, 19. Gios don Pierantonio, 101n. Girotto padre Mariano, 113, 114. Giusti Francesco, 96. Gottardi Vittorio, 63. Guariento Antonio, 85, 138, 139. Gui Luigi, 108. Jacini Stefano, 27, 28. Jervolino Raffaele, 139 Lago don Giuseppe, 118. Lampertico Fedele, 35. Lazzarini Antonio, 64n. Leone XIII, 32, 38. Levi Civita Giacomo, 47. Longhin mons. Andrea Giacinto, 34, 61, 69. Lustrissimi padre Germano, 112, 113. Luzzatti Luigi, 41. Magarotto Antonio, 81. Malgeri Francesco, 7n. Manfredini mons. Federico, 12. Marcato Roberto, 124. Marin Alessandro, 43. Marzetto Gaetano, 23. Matteotti Giacomo, 84. Maurras Charles, 112. Mazzarotto don Tarcisio, 119. Mazzolari don Primo, 90. Meda Filippo, 82, 136. Medolago Albani co. Stanislao, 31. Meggiorin don Giuseppe, 89. Meneghetti Egidio, 114. Merlin Umberto, 73, 84. Michelotto don Cesare, 85. Michieli, mons. Antonio, 117n. Miglioli Guido, 54, 55, 60. Moletta don Antonio, 119. Molinari Aronne, 103, 119n. Monticelli Carlo, 43. Morpurgo Emilio, 27, 42n. Munari Marino, 115. Murri Romolo, 34, 39, 64. Mussolini Benito, 99, 100. Napoleone, 14. Negri Guido, 69. Olgiati don Francesco, 73. Olivelli Teresio, 142. Orlandini, avvocato, 81. Paganuzzi Giovanni Battista, 17, 30, 32. Panebianco Gino, 75. Papafava, famiglia, 96. Pavan Felice, 75. Pecorari Mario, 139. Pegoraro don Antonio, 113, 114. Pellizzo mons. Luigi, 47-51, 58, 62, 63, 64n, 67, 85. Piazza mons. Adeodato, 84, 112. Pierobon Luigi, 105, 117. Pietrogrande Rinaldo, 52, 85. Pighin Otello (“Renato”), 113. Pio IX, 17. Pio X, 29, 31, 47, 48, 99. Pio XI, 6, 141. Pio XII, 99. 157 Piva Edoardo, 75. Podrecca Guido, 62, 63. Radini Tedeschi, v. Tedeschi. Rancan don Augusto, 111. Ranzato Antonio, 115. Rezzara Nicolò, 54. Roberti Roberto, 72. Rodolfi mons. Ferdinando, 69. Romanato don Egidio, 98. Romanato Giampaolo, 64n. Roncalli don Giovanni, 124. Roncolato don Pietro, 122. Rosa Angelo, 79. Rosa Italo, 52, 72, 85. Rosina Carlo, 79. Rossi Alessandro, 23, 35. Rudini (marchese di) Antonio, 33. Ruffatti don Riccardo, 82, 85. Sabadin Gavino, 52, 55, 72, 104. Sabbadin don Adolfo, 89. Saccardo don Giuseppe, 88. Sacchetti Giuseppe, 17, 29, 41. Saggin Mario, 105. Salviati don Rainerio, 122. Sanavio Luigi, 79. Sarto mons. Giuseppe, v. Pio X. Sartori Maurizio, 119n. Scalco Gino, 105. 158 Schiavon Sebastiano, 52, 53, 55, 67, 72, 75, 80. Scotton fratelli, 17. Segato don Angelo, 89. Sette Silvio, 81. Sgarbossa don Giuseppe, 82. Sguoti don Vito, 97. Sichirollo mons. Giacomo, 91. Signorini Umberto, 56, 125. Silvestri don Ettore, 93. Soranzo Giovanni, 85. Spadolini Giovanni, 45n. Starace Achille, 99. Stievano, bibliotecario, 40. Stivanello don Amedeo, 41. Sturzo don Luigi, 73, 85. Tedeschi mons. Giacomo Maria, 122. Tedeschi co. Prospero, 40, 122, 124. Tito Livio, 11. Togliatti Palmiro, 104. Toniolo Giuseppe, 31, 32. Tono Pietro, 18, 72. Tramontin mons. Silvio, 45n, 100n, 101n. Trieste Giacobbe e Maso, 12, 22. Trobetta don Pietro, 84. Turazza Enrico, 40. Uberti Giovanni, 84. Umberto I, 182. Zaglia fratelli, 79. Zambolin Artemio (“Silla”), 114. Zancan Lanfranco, 104. Zanchetta don Angelo, 92. Zanella Giacomo, 35. Zanovello Agostino, 72. Zeminian Augusto e Guerrino, 81. Ziller (de) Alberto, 40. INDICE 159 INTRODUZIONE ....................................................................................Pag. 3 CAPITOLO I - IL VENETO POVERO E ARRETRATO CHE ENTRA NEL REGNO D’ITALIA...................................“ “ 7 CAPITOLO II - NASCE L’IMPEGNO SOCIALE DEI CATTOLICI....................................................................“ “ 15 La limitata partecipazione politica - La lenta industrializzazione - L’emigrazione - Il ruolo del vescovo Callegari - Le opere sociali - La stampa cattolica - La Camera del Lavoro. CAPITOLO III - LA FASE DEL CONSOLIDAMENTO............................“ “ Il vescovo Luigi Pellizzo - Il forte impulso all’azione sociale - La “Difesa del Popolo” - I casoni e la pellagra - Il solco tra cattolici e socialisti - Si chiude una fase. CAPITOLO IV - NELLA TEMPESTA DELLA “GRANDE GUERRA”.....................................................................“ “ 45 65 CAPITOLO V - DAL PARTITO POPOLARE ALLA DITTATURA FASCISTA......................................................................“ “ 69 Nasce il Partito Popolare - L’immediato successo e l’azione sociale - Prevale la violenza fascista - Chiesa padovana e fascismo L’assetto socio-economico Alcune considerazioni. CAPITOLO VI - NELLA RESISTENZA.................................................Pag. 101 160 Le diverse Resistenze - Il vescovo Agostini - Il coinvolgimento del clero - L’impegno del laicato. DOCUMENTI..........................................................................................“ “ 119 La Cassa Rurale di Piove di Sacco - Il nostro programma (Difesa del Popolo) L’associazionismo sociale diocesano presente in Collegio Sacro il 19 febbraio 1908 - La guerra è una tragedia: i cattolici per una neutralità vigilante sui diritti dell’Italia - Così lo Stato va al suicidio - Intanto i fascisti intimidiscono le leghe - Il fascismo e i cattolici - Testo dell’accordo tra la Santa Sede e il Governo italiano per la composizione del conflitto sull’Azione Cattolica - Lettera di Antonio Guariento a Raffaele Jervolino in data 24 novembre 1933 - Quadro dei rapporti tra PNF e AC tra l’agosto del 1938 e il 22 aprile 1939 - La preghiera del ribelle. BIBLIOGRAFIA......................................................................................“ “ 141 INDICE DEI NOMI..................................................................................“ “ 147 161