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Vittorio Marangon IL MOVIMENTO CATTOLICO PADOVANO I

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Vittorio Marangon IL MOVIMENTO CATTOLICO PADOVANO I
Vittorio Marangon
IL MOVIMENTO
CATTOLICO PADOVANO
Parte I (1875-1945)
Centro Studi Ettore Luccini
Padova - 1997
INTRODUZIONE
Essendovi modi diversi di intendere l’espressione “movimento
cattolico”, si ritiene opportuno esplicitare come qui viene intesa.
Il termine “movimento” viene recepito nella sua accezione più
ampia per cui lo si definisce come “un processo di natura
economica, sociale, politica, talvolta comprendente tutti questi
aspetti con prevalenza dell’uno o dell’altro, di rilevante durata e
importanza storica, che si ispira a un patrimonio comune (anche se
internamente non del tutto coerente) di bisogni consapevoli,
aspirazioni, valori, ideologie e obiettivi, e che coinvolge (o tende a
coinvolgere) gruppi sociali molto ampi (classi o aree culturali o
altre categorie di persone che abbiano in comune qualche
caratteristica sociale considerata importante) dando luogo a una
molteplicità di gruppi organizzati di vario tipo (partiti, sindacati,
associazioni) spesso in antagonismo o comunque in tensione
dialettica fra loro, senza però identificarsi in nessuno di essi e
neppure esaurirsi in essi, tendendo a produrre cambiamenti socioculturali profondi e permanenti” (1).
Conseguentemente l’espressione “movimento cattolico” sta ad
indicare l’insieme di idee, di programmi, di fatti associativi che
connotano l’impegno dei cattolici nella vita sociale e politica (nella
cultura, nell’educazione, nel sindacato, nelle istituzioni) e che,
facendo riferimento all’ispirazione cristiana, muta a seconda dei
tempi, dei luoghi e delle circostanze, quindi non univoco, come, del
resto, è avvenuto per gli ordini religiosi (2).
Nella storia del movimento cattolico, così definito, si possono
fino ad oggi distinguere tre grandi fasi.
La prima abbraccia il periodo che intercorre tra le origini e la
fine delle seconda guerra mondiale; la seconda va dal 1945 al
dissolvimento della DC e la terza, ancora magmatica, è quella
attuale.
Mentre nella prima fase il movimento cattolico, inizialmente
condizionato dal “non expedit”, è prevalso l’impegno sociale, la
seconda è stata caratterizzata dalla partecipazione politica.
Questo lavoro si limita alla prima fase nei suoi tre momenti
essenziali: la nascita e lo sviluppo del movimento cattolico, il
difficile periodo del ventennio fascista, la partecipazione alla lotta
resistenziale.
Si cerca di mettere in luce come rimanga determinante in tutti e
tre i momenti, almeno nella diocesi di Padova, il ruolo dell’Azione
Cattolica, cioè sostanzialmente della Chiesa dal momento che,
secondo la definizione allora corrente, essa era “la partecipazione
dei laici all’apostolato gerarchico della Chiesa” con tutte le
implicanze e conseguenze positive e negative.
Conseguenze positive perchè, mentre il fascismo ha demolito
tutte le opere sociali cattoliche dalle casse rurali alle cooperative,
dalle leghe alle assicurazioni, non riuscì a farlo con l’Azione
Cattolica, difesa con fermezza e tenacia da Pio XI che, invece, ha
abbandonato a se stesso il Partito Popolare e rinunciato alle opere
sociali.
Negative per il fatto innegabile che la subordinazione gerarchica
ha fatto sì che al laicato cattolico fosse concessa una autonomia
limitata. Ciò ha condizionato la sua crescita, pagata con una
presenza debole e insufficiente nei successivi processi di
modernizzazione e secolarizzazione.
Sarà questo uno dei temi principali sviluppati nella seconda
parte della ricerca.
Inoltre si affronta, ancora non esaustivamente e limitatamente al
livello locale, il contestato nodo dei rapporti tra Chiesa e dittatura
fascista, cercando di dimostrare che il consenso era di facciata e che
sostanzialmente il popolo delle nostre parrocchie non diede al
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fascismo altro che una adesione esteriore, come del resto è
avvenuto in tutte le dittature, secondo la prassi millenaria del
“primum vivere”.
Infine, e non da ultimo, si intende dimostrare, contro una
indifferenza generalizzata o frequenti deformazioni storiografiche,
che quella dei cattolici, anche a livello locale, è stata una grande
storia la quale non sfigura affatto nel confronto con altre altrettanto
importanti.
Note:
(1) Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Volume XI, p.27.
(2) Cfr. Francesco Malgeri in Dizionario delle idee politiche, Editrice Ave 1993,
p.516.
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Capitolo I
IL VENETO POVERO E ARRETRATO
CHE ENTRA NEL REGNO D’ITALIA
Il territorio padovano, che nel 1866 entrava a far parte del Regno
d’Italia, era un’area economicamente e socialmente arretrata. Si
reggeva infatti su un’economia essenzialmente agricola, cui
corrispondeva una fragile struttura del mercato, una lenta
circolazione del danaro, assai limitati investimenti fondiari. La
proprietà era per lo più concentrata nelle mani dei grandi proprietari
terrieri, in genere retrogradi e sordi ad ogni istanza sociale,
arroccati nei propri privilegi; secondo l’inveterata tradizione
dell’aristocrazia veneziana. Essi, come scrive Cozzi(1), ritenevano
che il cattolicesimo veneto costituisse “un elemento fondamentale
per la società dei patrizi” in quanto “garantiva il rispetto per la
gerarchia, per l’autorità, ispirava ai popoli le norme morali
indispensabili per una buona convivenza nell’ambito statuale, era
per loro un freno, un invito all’ordine, all’accettazione rassegnata e
serena della loro sorte di sudditi”.
Amministravano per interposta persona, i tanto malvisti e
malfamati “fattori”. Preferivano la conduzione mezzadrile
all’affitto, poiché così si garantivano un reddito senza rischi e senza
investimenti e, per di più, potevano fruire di servitù personali a
titolo gratuito, prestate di solito nella “corte” annessa alla villa
padronale (dove dovevano subito accorrere al suono dell’apposita
campanella) e di regalie (le “onoranze”).
La campagna era (come ora) fittamente popolata e intensamente
coltivata: l’81 per cento della superficie agraria era a “seminativo
arborato” contro il 65 per cento nella provincia di Rovigo e il 63 per
cento nelle province di Treviso e Verona. La nostra provincia con il
66,2 per cento della popolazione residente nelle case sparse,
disseminate tra i campi (si tratta della tipica abitatività diffusa) è
seconda in assoluto in Italia dopo Modena.
Mentre nella Bassa è consistente la dimensione dei fondi per la
cui coltivazione i proprietari si servono delle diverse figure
bracciantili (accordati, obbligati, disobbligati, bovai, avventizi),
nell’Alta prevalgono le “cesure” (2-10 campi) e le “campagnole”
(10-28 campi) condotte direttamente; abbastanza diffusa è anche la
mezzadria.
Il lavoro è duro perché la natura è prodiga ed avara allo stesso
tempo. La produzione è strettamente legata all’andamento
stagionale.
Per i fittavoli e i mezzadri i contratti sono quasi sempre verbali e
di durata annuale: il “fare San Martino”, cioè il traslocare alla fine
dell’annata agraria, è quindi frequente e considerato un evento
ineluttabile come le calamità naturali (la grandine, la siccità, le
gelate primaverili, la moria del bestiame...). Si diceva:
“San Martin, San Martineo,
poco vin nel careteo,
pochi schei nel tacuin,
riva, riva San Martin”.
Così i contadini, data la precarietà dei contratti, si guardavano
bene dal procedere ad investimenti ed i proprietari facevano
altrettanto perché ricercavano una rendita immediata.
Continua è la lotta per la sopravvivenza. L’alimentazione è
povera; l’alimento base è la polenta perché il frumento bisognava
venderlo per pagare l’affitto o darlo al padrone. Oltre alla polenta
(da cui l’attributo di “polentoni” dato ai veneti e di “civiltà della
polenta” alla nostra cultura) l’alimento principe sono i fagioli e le
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patate unitamente alle carni insaccate del maiale, il “salvadanaio”
delle famiglie contadine.
Le donne allevano il pollame che serve per le loro piccole spese:
periodicamente passa il “polastraro” in bicicletta con le gabbie e le
sporte o col carrettino per raccogliere polli e uova.
La bevanda usuale è il vino, ma anche (specie nei periodi di
magra) il vinello e la “graspia” ottenuta facendo fermentare le
vinacce con acqua.
La concimazione è esclusivamente animale fatta con il letame o
stallatico. La rotazione agraria rimane immutata nel tempo:
granoturco, frumento, erbaio.
La casa rurale ha un’architettura molto semplice ma funzionale
con stalle portico e fienile. I più poveri abitano nei “casoni”,
monolocali con il pavimento in terra battuta e il tetto di paglia. Per
l’illuminazione ci si serve di lumi ad olio e poi a petrolio.
Suggestivo e unico nel suo genere è il paesaggio rurale con la
caratteristica “piantata veneta”, cioè il seminativo arborato, in cui
gli spazi coltivati a cereali o ad erbaio si alternano con filari di viti,
sostenute da gelsi, noci o altre piante.
Sotto il profilo sociale si avverte una consistente frattura tra gli
abitanti dei centri (i ”paesi”) e i contadini; sono in pratica due
mondi che vivono separati con due distinte culture, come del resto
avviene tra città e campagna, il “contado”.
Padova, dalla Patavium di Tito Livio e di Augusto, è stata per
due millenni un centro agricolo e commerciale in cui, di
conseguenza, hanno sempre esercitato un ruolo egemone la
proprietà fondiaria e i commercianti. Di qui una classe politica
cittadina istintivamente e tradizionalmente conservatrice, che
privilegia l’immobilismo sociale fino all’inerzia.
Nei paesi c’è l’artigianato funzionale ai bisogni di un’economia
agricola povera ed una popolazione contadina con assai limitate
capacità di acquisto (fabbri, maniscalchi, calzolai, sarti). C’è il
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mercato, occasione di incontro; ci sono osti e bottegai. L’osteria, di
solito, preclusa al prete che la vede come un pericolo (vi si
bestemmia), ha una funzione sociale assieme ai “filò” nelle stalle
durante le lunghe serate invernali che sono scuola di
socializzazione, di manualità e di immaginazione.
Non c’era stato alcun sviluppo industriale. Era stato sì
inaugurato, ancora il 12 dicembre 1842, il tronco ferroviario (il
terzo in Italia), Marghera-Padova della “Imperial Regia privilegiata
strada ferrata lombardo-veneta” con tre corse al giorno, seguito nel
1849 dal tratto Padova-Vicenza. La ferrovia favorirà diversi anni
dopo la nascita di quella che può essere considerata la prima zona
industriale padovana nelle vicinanze della stazione. Ma per decenni
le uniche attività industriali rimangono le filande, le fabbriche di
laterizi e i forni di calce, i mulini, le cave.
Non si può dire che le filande avessero effettiva valenza
industriale, però per buona parte del secolo scorso, costituirono una
rete di presenza manifatturiera nella campagna padovana e veneta
capillarmente diffusa e collegata all’allevamento del baco da seta
che ai primi di giugno dava il primo reddito dell’annata agraria.
Una delle prime ed importanti filande fu quella fondata a Monselice
nel 1846 da Maso e Giacobbe Trieste, con macchinari
d’avanguardia (le bacinelle a vapore).
In città, nei primi anni dopo l’annessione, ci sono solo due
aziende moderne, la fabbrica di panni Marcon con una settantina di
dipendenti e la fonderia Benech e Rocchetti con un centinaio.
Per l’annessione non c’è alcuna partecipazione popolare e la
spiegazione del “sì” pressoché unanime al plebiscito di annessione
si spiega in buona parte con l’atteggiamento favorevole del
Vescovo, desideroso di stabilire buoni rapporti con il nuovo assetto
istituzionale. I preti obbediscono alle direttive del Vescovo (era
Manfredini, noto per i suoi sentimenti filo-austriaci) ma c’è
qualcuno che dà sfogo ai propri sentimenti. Il parroco di Monselice,
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quando nell’estate del 1866 transita per il paese Vittorio Emanuele
II diretto a Padova, scrive nel registro dei battezzati: “In questo
giorno infausto in cui entrò in Monselice il Re massone Vittorio
Emanuele II, io sottoscritto ho battezzato...”.
La gente ha l’impressione che a volere l’annessione al Regno
d’Italia fossero i “siori” per il loro tornaconto.
In realtà l’unificazione mette il contadino veneto in condizioni di
svantaggio rispetto al grano emiliano, ai bozzoli lombardi, ai vini
meridionali. Lo svantaggio viene accentuato tra il 1882 e il 1883
dal deprezzamento dei cereali sui mercati internazionali. Così le
condizioni di vita delle popolazioni rurali peggiorano in
concomitanza anche con eccezionali calamità meteorologiche,
malattie della vite e del baco da seta.
Inoltre, per una serie di concause, immediatamente dopo l’Unità
il livello di vita delle popolazioni rurali peggiora e tocca il culmine
nel corso degli anni ‘80 con la crisi dell’agricoltura: deprezzamento
dei cereali sui mercati internazionali; eccezionali calamità
meteorologiche, malattie della vite e del baco da seta. Aumenta la
pressione fiscale, scaricata sui fitti, in conseguenza dei dazi sui
consumi: è del 1869 la tristemente nota “tassa sul macinato”
definita la “tassa sulla fame”.
Si diffondono epidemie; tra il 1884 e il 1886 le nostre
popolazioni sono colpite dal vaiolo e dal colera. A causa
dell’insufficiente alimentazione, si diffonde enormemente la
pellagra definita “malattia della povertà” (morbus miseriae) il cui
esito è talvolta la pazzia. Di qui le espressioni, rimaste per decenni
nel linguaggio locale: “gheto el colera?” e “te salta la pelagra?”.
Secondo i dati del Ministero dell’Interno (1890) nella provincia i
casi di pellagra erano 22.000; in certe zone si arrivava a percentuali
di pellagrosi tra il 15 e il 20 per cento della popolazione, tanto che
si arrivò a distribuire gratuitamente il sale.
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Accanto
alla
miseria
c’era
l’analfabetismo.
Nel
camposampierese (1871) gli analfabeti maschi sono il 73,5 per
cento della popolazione e le femmine l’88,4. Per tutto l’800 le classi
sono numerosissime (mediamente 70-80 alunni) con un profitto
assai basso. Ancora nel 1901 il 62 per cento dei residenti nel
Comune di Padova è analfabeta e su una popolazione provinciale di
459-930 abitanti ci sono solo 674 insegnanti nel rapporto di un
insegnante ogni 682 persone.
I numerosi poveri (c’erano i mendicanti, i “poareti”, che
giravano di casa in casa e chiedevano la carità “per amor di Dio”
ricevendo spesso una scodella di farina che mettevano nel sacchetto
portato sulla spalla) venivano assistiti dalla Congregazione di
Carità, funzionante obbligatoriamente in ogni Comune, sostituita
nel 1937 dagli Enti Comunali di Assistenza (E.C.A.) ora soppressi.
La commissione comunale predisponeva e aggiornava di anno in
anno “l’elenco dei poveri” ai quali venivano date gratis le medicine,
buoni alimentari e sussidi. Fino alla seconda guerra mondiale, in
molti comuni rurali della provincia in tali elenchi figurava fino al
20 per cento della popolazione.
Per quanto riguarda l’aspetto religioso, l’annessione al Regno
d’Italia portò molte novità di non poco conto. Mentre con l’Austria
il parroco era direttore delle scuole elementari, responsabile
dell’assistenza, della beneficenza e della tenuta dei registri di stato
civile, ora i parroci, abituati a predicare il rispetto e l’obbedienza
all’autorità costituita, si trovano a dover fare i conti non più con uno
stato confessionale, uno “stato cristiano” quale si definiva l’impero
asburgico, ma con uno stato liberale laico con forti venature laiciste
e anticlericali.
Anche il nuovo Regno d’Italia continuò la politica delle
soppressioni di ordini religiosi e di conventi iniziata da Napoleone
per cui di fatto, con esiti impreveduti e certo non voluti, si accrebbe
la concentrazione della “cura d’anime” nelle parrocchie e nelle
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mani del clero secolare invece che nei conventi e negli ordini
religiosi.
Lo Stato italiano affida ai Comuni compiti in precedenza assolti
dal clero che però ne assume di nuovi su sua iniziativa con gli asili
che affida alle suore, gli orfanotrofi, le case di ricovero...
Al laicismo diffuso e in una atmosfera complessiva poco
favorevole alla Chiesa (a Padova sono state frequenti le
manifestazioni di ostilità nei confronti del clero) le nostre
parrocchie moltiplicano le confraternite, le congregazioni, le pie
unioni. Di solito in ogni parrocchia si trova la Confraternita del
Santissimo Sacramento (i “capati”), la Confraternita (detta anche
Scuola o Congregazione) della Dottrina Cristiana, la Pia Unione
delle Figlie di Maria, l’Unione delle Madri Cristiane, il Terz’Ordine
di San Francesco, la Confraternita del Rosario, la Pia Associazione
Sacra Famiglia. A queste associazioni religiose si aggiungerà poi
l’Azione Cattolica, inizialmente limitata ai gruppi giovanili.
La religiosità popolare fa da collante perché con i suoi riti e le
sue liturgie, con l’efficace linguaggio dei simboli e dei segni,
risponde alla domanda di sacro proveniente dalla società rurale; ed
ecco quindi le rogazioni, la benedizione delle stalle, i tridui per
chiedere la pioggia... Rimangono un ricordo le tante e suggestive
processioni che si snodavano per le vie dei nostri paesi.
Gli “inconfessi” sono pochi e, di solito, appartengono al ceto
medio o alla borghesia. La vita sociale si svolge attorno al
campanile, il centro è la parrocchia che si pone come elemento di
continuità nel mutare dei regimi e svolge azione di supplenza nei
confronti di uno Stato spesso latitante, di socializzazione primaria,
di aggregazione, allora come ora.
La parrocchia rurale è economicamente povera, come la
maggioranza della gente che vi fa riferimento ma che la sostiene
come può. Dicevano i vecchi parroci che le loro parrocchie
vivevano della “ciacole dei siori e dei schei dei poareti”. Le entrate
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provengono in parte dalle decime e dai livelli e in parte dalle
questue e dalla “cassa delle anime”; all’amministrazione
collaborano i fabbricieri.
I contadini, sottomessi da secoli, ritengono inutili lotte e
ribellioni (“tanto no ghe xe gnente da fare”); diffidano delle
istituzioni pubbliche - che significano per loro tasse, servizio
militare, carabinieri - e del nuovo comprese, le novità sociali. Così
finiscono per vedere nei loro preti le uniche persone in grado di
capirli e di aiutarli.
Quei preti, che sono di estrazione popolare e che rimangono per
lunghi anni nella stessa parrocchia, sono i rappresentanti naturali
della comunità, i moderatori nei rapporti tra le classi sociali, gli
intermediari con l’autorità.
Occorre rilevare, infine, che non è l’influenza della religione a
rendere le masse contadine docili, rassegnate, obbedienti (almeno in
apparenza): è il peso della storia. Lo dimostreranno nel secondo
dopoguerra quando tenteranno di scrollarselo di dosso.
Note:
(1) G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, Venezia-Roma 1958, p.4.
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Capitolo II
NASCE L’IMPEGNO SOCIALE DEI
CATTOLICI
La prima risposta allo Stato liberale, per molti versi laicista ed
anticlericale, viene ancora prima dell’insorgere della “questione
romana”. E’ infatti il 29 giugno 1867 che Mario Fani e Giovanni
Acquaderni stendono il programma di una società giovanile
cattolica che si proponeva la difesa della Chiesa e del tessuto
cristiano del nostro popolo attraverso l’uso dei mezzi religiosi della
preghiera, dell’azione e del sacrificio, un trinomio nel quale sono
riassunte le finalità costanti dell’Azione Cattolica.
La seconda consistente risposta viene nel 1875 con la
costituzione dell’Opera dei Congressi. Il primo Congresso cattolico
aveva avuto luogo l’anno prima a Venezia nella chiesa di Santa
Maria dell’Orto.
Nell’Opera prevalse l’intransigentismo che trovava il suo
riferimento nell’enciclica di Pio IX “Quanta Cura” con l’annesso
Sillabo (1864). Particolarmente forte è l’intransigentismo veneto
che si riconosce in Giovanni Battista Paganuzzi, nei fratelli Scotton,
in Giuseppe Sacchetti.
Esistono voluminose pubblicazioni sugli scontri tra intransigenti
e moderati; in esse prevale l’opinione che l’ideologia
dell’intransigentismo sia diventata quella delle popolazioni rurali
subalterne.
Vista dalla parte della gente e dei suoi preti, cioè dal basso, la
storia del movimento cattolico del secolo scorso acquista invece un
sapore diverso. E’ provato che ai parroci poco interessavano le
interminabili diatribe tra intransigenti e moderati. Mentre i vertici
polemizzano e si lacerano, i parroci operano. Creano opere sociali
poiché, in coerenza col precetto evangelico della carità e sentendosi
responsabilmente parte viva del loro ambiente, si fanno carico, oltre
che delle anime di cui devono aver cura, anche dei problemi
pressanti della loro gente aiutandola ad organizzarsi per difendersi.
Da qualche tempo è venuto di moda parlare di società civile;
ebbene, il movimento cattolico degli inizi crea fra parrocchia e
società civile un rapporto stretto che passa attraverso le casse rurali,
le società di mutuo soccorso, le assicurazioni, le cooperative le
quali sono forme concrete di solidarietà che permeano
capillarmente la società rurale.
Pertanto non si può attribuire alle nostre parrocchie quello che è
stato definito lo “scandalo del silenzio”. Può essere stato
solidarismo paternalistico, può essere vero che ci sono state forti
difficoltà ad uscire da una tradizionale visione clerico-assistenziale
ed a cogliere la questione sociale nei suoi termini reali, ma quelle
opere da un lato hanno innescato processi partecipativi irreversibili
e dall’altro hanno favorito la persistenza di tanti valori.
La limitata partecipazione politica
A complicare le cose, ci si mise di mezzo la questione romana
con il divieto per i cattolici di partecipare alle competizioni
politiche (proibizione riassunta nella formula del “non expedit”) in
virtù di una visione angusta e di una distinzione equivoca tra
amministrazione e politica. Così l’atteggiamento dei parroci,
contrario al governo, fu di collaborazione con le amministrazioni
comunali e favorevole alla partecipazione dei cattolici alle
competizioni amministrative. Esponenti cattolici divennero sindaci,
come l’avvocato Pietro Tono, presidente della Banca Popolare, ad
Este nel 1895.
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Le masse popolari cattoliche sono così doppiamente escluse
dalla vita politica: escluse perché la partecipazione al voto era
determinata dal censo e dall’istruzione (e le masse popolari non
avevano né l’uno né l’altra) e perché c’era il divieto papale.
Alle prime elezioni politiche del Regno d’Italia (27 gennaio
1861) il corpo elettorale comprendeva l’1,9 per cento della
popolazione e votò solo il 57 per cento degli aventi diritto.
Nel Comune di Padova per le prime elezioni dopo l’annessione,
su 60.984 abitanti gli elettori erano 660: votarono 506. Nel 1876 ci
sono 774 elettori a Piove-Conselve; 963 a Este-Monselice. I votanti
non superarono il 60 per cento.
Con la riforma del 1882 gli elettori salirono al 6,9 per cento
della popolazione. Solo nel 1913 Giolitti introdusse il suffragio
universale maschile: erano ammessi al voto i maschi che avessero
prestato servizio militare e avessero compiuto i trent’anni.
Un esempio della lenta evoluzione lo si ha considerando
l’elettorato politico nel Comune di Camposampiero dal 1868 al
1913:
TAB.1 - ELETTORATO POLITICO NEL COMUNE DI
CAMPOSAMPIERO (1)
Anno
1868
1871
1881
1891
1903
1913
Elettori
63
87
85
262
318
554
% sulla popolazione
2,0
2,3
2,3
7,0
7,1
10,1
17
L’astensionismo cattolico pesa sulla media dei votanti (che va
dal 40 al 60 per cento degli elettori) e sulla composizione delle
amministrazioni comunali che rimangono saldamente nelle mani
dei ceti benestanti liberali.
Può essere utile esaminare i dati del 1889 relativi alla provincia
di Padova:
TAB.2 - ELETTORI ED ELETTI ALLA PROVINCIA
DI PADOVA NEL 1889(2)
Elettori:
Per censo
Per titoli
4.348
24.385
------------------------Totale 28.733
Eletti per condizione sociale:
Avvocati
Proprietari
Professori
Ingegneri
Fattori
Commercianti
Impiegati pubblici
Impiegati privati
Medici
32,5 per cento
27,5 per cento
17,5 per cento
7,5 per cento
5,0 per cento
2,5 per cento
2,5 per cento
2,5 per cento
2,5 per cento
--------------------------TOTALE
100,0
18
Alle amministrative del 28 gennaio 1900 sugli 80.000 abitanti
del Comune di Padova, votarono poco più di settemila elettori e
l’amministrazione passa al “Blocco popolare”, in realtà espressione
della Padova borghese.
Durò fino al 1912 e realizzò alcune opere importanti, in primo
luogo il Corso del Popolo: Piazza Garibaldi era chiusa a nord e per
andare alla stazione si passava da via San Fermo.
E’ opportuno ricordare che nell’agosto del 1919 l’età per
l’ammissione al voto viene abbassata a 21 anni e viene introdotto il
sistema della rappresentanza proporzionale.
Sarà solo dopo il ventennio fascista, durante il quale il
Parlamento è stato messo in mora, che nel 1946, con il
riconoscimento del voto alle donne, si arriva al suffragio veramente
universale.
La lenta industrializzazione
L’unità cambiò poco nel tessuto produttivo padovano. Un primo
quadro complessivo dell’industria nel primo periodo post-unitario si
ha nel 1889: la provincia conta 805 opifici con 5.119 occupati su
circa 400.000 abitanti: l’1,28 per cento!
Nell’area cittadina operavano 70 imprese industriali che davano
lavoro a 1.031 persone. E’ qui e in questo periodo che si sono
sviluppate quelle che rimarranno per decenni le uniche industrie
padovane di rilievo.
Era stato Vincenzo Stefano Breda, nato a Limena nel 1825, uno
dei protagonisti del primo sviluppo industriale italiano, antesignano
della Grassetto, a fondare nel 1872, con un capitale di 10 milioni di
lire, la “Società Veneta per l’esercizio delle Ferrovie secondarie
19
italiane”! Furono lo stesso Breda e la Veneta i principali promotori
della “Società altiforni di Terni”, il primo esempio di una lunga
serie di intrecci - spesso poco chiari - tra industria privata ed
apparati dello Stato. Allo stesso Breda si deve il nucleo originario di
quell’industria che agli inizi del Novecento fu denominata “Officine
Meccaniche Stanga”. Tra l’altro ideò un tunnel sotto lo Stretto di
Messina.
Nell’area di via Trieste, ora adibita a parcheggio, dove è rimasta
fino al 1966, sorgeva l’Officina del gas che, alimentata dal carbone
trasportato per via d’acqua sui tipici barconi, forniva il gas per 115
fanali pubblici e 13.645 utenze private.
Con la solita enfasi (anche adesso talora si parla di Padova come
della Milano veneta) la stampa di allora parlò di Manchester
padovana a proposito delle industrie sorte sul terreno, fino ad allora
coltivato, davanti alla stazione ferroviaria. Ivi operavano la fabbrica
di bottoni “Zuccherman e Diena”, la fabbrica di occhielli Agraffi, le
Distillerie Italiane (dove è ora piazza De Gasperi) e, a nord della
ferrovia, le distillerie Alberti e la Pezziol, oltre a diversi altri opifici
minori.
370 erano i mulini con 804 addetti (dei quali 109 donne e 89
ragazzi); la maggior parte di essi (246) funzionava ad acqua, 117
usavano forza animale e soltanto 7 energia a vapore. Dal paesaggio
cittadino i mulini vengono cancellati quando nel 1882 le acque del
Bacchiglione in piena travolsero le decine di mulini galleggianti
ormeggiati a Ponte Molino. Non deve sembrare eccessivo il gran
numero di mulini che, diffusi nel territorio, assicuravano la
trasformazione in farina dei cereali necessari all’alimentazione.
Si contavano anche 27 pastifici.
Altra lavorazione molto diffusa era quella dei laterizi, della calce
e delle stoviglie in terracotta; se ne contavano ben 69 con 1043
addetti di cui 62 ragazzi e ragazze. La fornace per laterizi più
consistente era la Voltan e C. di Albignasego che occupava 182
20
operai e produceva 8 milioni di mattoni; altri 2 milioni ne
producevano le fornaci di Mestrino; pure importanti erano le Aghito
di San Giorgio delle Pertiche e le Forti di Monselice. Gli addetti
lavoravano dall’alba al tramonto per 10-12 ore al giorno ed in
genere erano retribuiti a cottimo.
Nelle numerose cave dei Colli (le “priare”) lavoravano 508
persone tra cavatori e scalpellini.
Oltre alle filande (alla già citata “Filanda Trieste” di Monselice
si erano aggiunti l’opificio Vaccari di Piazzola con 167 addetti e la
“Società per la filatura del lino e della canapa” di Montagnana con
2.116 fusi e 326 addetti) il tessile già allora era caratterizzato da una
diffusa lavorazione a domicilio che poteva contare su 4.698 telai a
mano. Qualcuno è ancora funzionante.
A Carmignano sul Brenta una società svizzera aveva avviato la
cartiera che occupava 76 operai.
Poco prima della fine del secolo (1898) Giovanni Luigi Voltan
fondava la prima fabbrica di scarpe della Riviera del Brenta: sei
anni dopo ne produceva mille paia al giorno con 400 addetti.
Agli inizi del secolo (1902) nascono le “Officine di Battaglia”
per la costruzione di macchine agricole; le Officine diventano poi la
“Galileo” e nel 1913 passano alla Sade.
Anche ad Este, nello stesso periodo, sorgono importanti
industrie quali la fabbrica di fiammiferi con 300 operai, quella dei
busti da donna con 200 e le “Officine” divenute poi l’Utita (3).
A Padova nel 1910 ha luogo la prima “Fiera dei Campioni” su
iniziativa del cav. Fiorazzo, industriale del legno.
Tutto ciò mette in evidenza alcune caratteristiche della
industrializzazione padovana che hanno pesato a lungo e le cui
conseguenze sociali ed economiche si avvertono ancor oggi.
Anzitutto occorre spiegare, sia pure brevemente, i motivi del
ritardato sviluppo industriale e dei suoi limiti. Di solito si dice che a
Padova sono mancati liberali illuminati come Rossi e Marzotto. La
21
verità è che la classe dirigente padovana ha allora (e anche dopo)
preferito un modello di sviluppo agrario, “padano”, piuttosto che
uno sviluppo industriale di tipo “milanese”.
Quando il comitato elettorale moderato propose la candidatura a
sindaco della città di Vincenzo Stefano Breda, la candidatura fu
bocciata perché, scrisse il “Giornale di Padova” in data 14 luglio
1871, si aveva ragione di temere che egli intendesse dare maggiore
impulso a grandi lavori edilizi provocando l’arrivo “di una
numerosa colonia di operai, i quali dopo alcuni anni, scemati
necessariamente i lavori, ne chiederebbero di nuovi e potrebbero
tornare di non lieve imbarazzo alla nostra città”.
E’ la stessa mentalità dell’ingegnere capo del Comune di Padova
che nel 1881 riteneva non si dovessero costruire quartieri operai
anche perché questi concentramenti di popolazione avrebbero
offerto un campo “dove facilmente potrebbero allignare e crescere
rigogliose le teorie sovversive”. Bisogna attendere l’avvento
dell’amministrazione popolare perché questa visione cambi.
Era conservatorismo bello e buono, segno di una mentalità che
aveva profonde radici e che non scomparirà tanto presto. La
“consorteria moderata” aveva costruito un “solido sistema di potere
che controllava capillarmente tutti i gangli della società civile e le
istituzioni pubbliche”(4) quasi una prefigurazione del doroteismo
veneto e della logica clientelare, della compenetrazione tra sfera
politica e sfera economica. Aggiungasi che su questa linea si è
sostanzialmente ritrovato anche il tradizionale ceto commerciale
bottegaio padovano “moderato” e poco incline alla novità che
l’impianto di grandi industrie avrebbe inevitabilmente comportato.
In sostanza, Breda preferì investire massicciamente altrove e
Bernardi, che aveva progettato e costruito la prima auto italiana
adattando a un triciclo un motore a benzina da 500 cc che poteva
sviluppare una velocità di 35 chilometri all’ora, fu obbligato a
chiudere la prima fabbrica italiana di automobili (1899), la “Società
22
Italiana Bernardi”, che aveva aperto in città. Lo spazio venne
immediatamente occupato dalla FIAT.
Ritardi e gracilità non furono quindi occasionali, ma frutto di
scelte.
In secondo luogo le industrie che nascono, sono opera di
imprenditori di estrazione liberale, preoccupati unicamente di
accumulare profitti a spese di una manodopera poco qualificata e
peggio retribuita.
Nel 1878 nella già menzionata “Filanda Trieste” di Monselice
risultavano occupate 130 persone: 10 uomini, 65 donne e 55
ragazze. Si lavorava 14 ore al giorno con un salario giornaliero che
per le operaie comuni andava dai 60 ai 70 centesimi e superava una
lira per le “filandiere maggiori”: un chilo di pane costava poco
meno di mezza lira(5).
Nella Chiesa e nel movimento cattolico non ci fu solo il rifiuto
netto degli “immortali principi” della Rivoluzione Francese, ma
anche uno storico ritardo nella comprensione dei problemi sottesi ai
processi di industrializzazione e quasi nessun tentativo di
interpretare le condizioni e le esigenze dei lavoratori delle fabbriche
che, anche per questo, in particolare nella città e nella Bassa,
riposero le loro speranze di riscatto nel socialismo, aprendo un
solco profondo fra operai “rossi” e contadini “bianchi”.
Per di più nelle campagne si creò una frattura tra braccianti,
molto numerosi nella “Bassa” e coltivatori diretti (fittavoli e piccoli
proprietari) prevalenti nell’”Alta”.
Questo spiega anche perché nell’Alta abbia prevalso prima il
Partito popolare e poi la Democrazia Cristiana, mentre nella Bassa
hanno avuto una forte presenza, in ordine di tempo, gli anarchici, i
socialisti e i comunisti.
Le poche industrie create da imprenditori cattolici, nei rapporti
con i lavoratori dipendenti, furono viziate da un controproducente
formalistico clericalismo. Nella fabbrica estense di busti per
23
signora, si usavano le suore per la sorveglianza e la catechizzazione
delle operaie. Era obbligatoria la preghiera e la presenza alle
funzioni religiose. Nel 1910 furono addirittura resi obbligatori gli
esercizi spirituali in clausura nel Collegio del Sacro Cuore.
Così il movimento operaio padovano nasce collocandosi subito a
sinistra e la frattura è rimasta in buona parte fino ai giorni nostri.
All’inizio del secolo, il quadro occupazionale è il seguente:
TAB.3 - L’OCCUPAZIONE NELLA PROVINCIA DI
PADOVA NEL 1901(6)
Attivi:
m
f
tot
%
agricoltura
97.283 43.334
140.617
85,8
industria
10.717
3.577
14.294
8,7
industria alimentare 4.010
192
4.202
2,6
arti e professioni
2.992
1.714
4.706
2,9
------------------------------------------------------TOTALI
115.002 48.817
163.819
56,9
Non attivi:
18.809 105.381
124.190
43,1
-------------------------------------------------------
TOTALI
Popolazione
presente
24
133.811
154.198
288.009
221.681
221.546
443.227
100,0
Il dato che maggiormente colpisce è quello degli occupati in
agricoltura che arrivano all’85,8 del totale.
Va anche rilevato che la popolazione attiva arrivava all’altissima
percentuale del 56,9 per cento, mentre nel 1996 il tasso di attività
non arriva al 41 per cento e gli attivi in agricoltura sono scesi al
7,45 per cento.
Un altro elemento da non sottovalutare è quel 2,9 per cento delle
“arti e professioni” (notai, medici, insegnanti).
L’emigrazione
Il lento processo di industrializzazione si accompagna
all’aggravamento delle già misere condizioni del mondo contadino.
Furono gli “anni neri” di una crisi che sarebbe durata fino al 1897 e
che causò una miseria contadina di massa dalle dimensioni di vera e
propria calamità sociale.
L’inchiesta Jacini, affidata per la parte concernente il territorio
padovano e veneto ad Emilio Morpurgo, professore dell’Ateneo
patavino e analizzatore lucido ed acuto delle condizioni di vita e di
lavoro della gente dei campi, mise in evidenza una situazione
paurosa, aggravata dal crollo dei prezzi agricoli.
Il quadro complessivo presentato era veramente desolante.
Ristagnava la produzione, non si facevano investimenti, la
mezzadria era in crisi e le condizioni di vita dei braccianti
risultavano subumane, perché sempre alle prese con salari irrisori e
la disoccupazione o sottoccupazione stagionale.
Si legge nella relazione: “In complesso il salario discende a 60
centesimi ed anche a meno nella cattiva stagione e non si può dire
che in tutto l’anno, computati solamente i giorni di lavoro, la media
25
delle mercedi oltrepassi una lira (...). Le condizioni dei lavoratori
sono tristi a Noventa, sono squallide a Saccolongo, misere a
Maserà, cattivissime a Carrara San Giorgio, infelicissime a
Veggiano, peggiorano sempre più a Vigodarzere, con miseria sotto
ogni rapporto a Saonara, miserabili ad Abano”(7).
Così ha inizio la prima grande emigrazione di massa. Scriveva
con grande lucidità l’allora parroco di Mestrino, don Angelo
Candeo: “Il nostro colono (...) ricorre, se può, all’emigrazione di cui
non misura i pericoli e le incertezze, fermo nell’idea che le tristi
condizioni del presente sono peggiori di qualsiasi incerto
avvenire”(8).
Era quindi la forza della disperazione quella che spingeva i
contadini veneti verso la “Merica”:
Mamma mia, dammi cento lire
che in America voglio andar.
Sapevano bene che avrebbero dovuto affrontare una vita
intessuta di stenti e di fatiche:
in Merica siamo rivati;
abiam trovato né palia né fieno;
abiam dormito sul duro terreno,
come le bestie che va a
reposar...
C’era almeno una speranza di riscatto che qui era venuta meno e
che, purtroppo, nelle piantagioni di caffè o nelle distese di canna da
zucchero brasiliane, come pure nella sconfinata pampa argentina,
rimase molto spesso solo un miraggio.
Sono quattro milioni i veneti sparsi per il mondo: un altro
Veneto diffuso.
26
Tra il 1888 e il 1897 da Camposampiero emigrò il 20 per cento
della popolazione e da Campodarsego in un solo anno, il 1891, il
12,9 per cento. Si spopola anche la zona a ridosso dell’Adige:
Stanghella, Boara Pisani, l’Estense...
La classe dirigente non seppe trovare rimedi forti al di là
dell’indagine Jacini: anche allora si facevano indagini invece di
dare risposte assai più costose e impegnative.
I parroci temono per la fede degli “emigranti di ritorno” che
molto spesso tornavano socialisti.
Il ruolo del vescovo Callegari
In questo quadro sconfortante (miseria contadina ed
emigrazione, ritardata industrializzazione, divieto vaticano di
partecipare alla vita politica) nasce l’impegno sociale dei cattolici
che in pochi anni nel nostro territorio registra una eccezionale e
irripetibile fioritura di opere.
Nella nostra diocesi la nascita e il rapido moltiplicarsi delle
iniziative sociali cattoliche trovò un convinto protagonista nel
vescovo Giuseppe Callegari che resse la diocesi tra il 1882 e il
1906.
Lo troviamo vescovo di Treviso (27 febbraio 1880) a soli 39
anni. E’ lui che nomina rettore del seminario trevigiano Giuseppe
Sarto, il futuro Pio X; di qui una profonda amicizia e reciproca
stima.
Il Callegari condivide l’idea di un movimento cattolico
intransigente. E’ amico di Giuseppe Sacchetti e, prima di essere
nominato vescovo collabora al giornale “Veneto Cattolico” e
partecipa ai lavori della commissione preparatoria del primo
Congresso cattolico (Venezia, 12-16 giugno 1874). E’ membro del
comitato permanente della prima sezione dell’Opera dei Congressi.
27
Quando il 19 maggio 1883 il Callegari ne prende possesso, la
Diocesi patavina conta 318 parrocchie (ripartite in 37 vicariati), 24
curazie, 12 chiese sussidiarie(9).
Nella prima lettera pastorale indirizzata al clero e al popolo della
diocesi, mons. Callegari scriveva (1883) che l’annessione al Regno
d’Italia coincideva con “l’irrompere del vizio di tutte quelle false
massime onde ai dì nostri si mollano le basi della santissima
religione e della civile società (10)”.
Contro il liberalismo politico e contro l’agnosticismo di stato
tuona: “pessimi uomini, che con somma ingiuria fingono la
religione cattolica nemica del vero progresso e della coltura degli
ingegni”. Lo stesso vescovo Callegari, nel dichiarare la sua lealtà
alle istituzioni, non abbassa il tono polemico nei confronti della
politica religiosa e sociale: “Quanto maggiori sono i pericoli e i
danni che ai dì nostri minacciano la civile società fino alle basi
scollate dalle perverse dottrine, che uomini nemici della fede
cattolica e del genere umano van propagandando, tanto maggiore
sarà il mio studio di predicare e colla voce e coll’esempio, la
obbedienza dovuta alle leggi, l’osservanza alle legittime
autorità(11)”.
Come si vede, è un atteggiamento fermo e chiaro che però si
mantiene sul terreno pastorale. Le rampogne sono rivolte al
laicismo scristianizzante ed all’anticlericalismo imperante, non alle
legittime autorità alle quali è dovuta obbedienza anche se la
dominante democrazia liberale ne è ritenuta corresponsabile e le
libertà liberali sono accusate di demolire un millenario patrimonio
di cultura e di costume che caratterizza la civiltà veneta fortemente
impregnata di cattolicesimo.
Altrettanto netta è la sua adesione al “non expedit” e la presa di
coscienza dell’iniquità della lotta contro la Chiesa e le sue
istituzioni. La risposta non può essere che una risposta di fede, però
28
non disincarnata e, di conseguenza, non separabile da alti valori
sociali.
Perciò mons. Callegari insiste sulla necessità di una catechesi
illuminata, accompagnata da opere sociali: “La religione si attua
nell’obbedienza ai precetti divini e nelle opere caritative e
assistenziali verso i bisognosi”.
E’ illuminante la definizione di “opere caritative e assistenziali”,
che corrisponde a quella assai nota del Paganuzzi di “azione
benefica verso il popolo”, e fornisce una chiave interpretativa di
quella che è stata inizialmente l’azione sociale dei parroci in
aderenza alle direttive vescovili.
Occorre anche aggiungere che la nostra diocesi poteva contare
su un clero adeguatamente formato in uno dei seminari più
efficienti d’Italia e strettamente unito al suo vescovo. Non ha quindi
alcuna ragion d’essere la distinzione, che molto di frequente ricorre
nella storiografia laica, di una netta divaricazione tra alto e basso
clero, anche se la diversità di funzioni e di responsabilità portarono,
per ovvie ragioni, ad atteggiamenti diversi ma mai contrapposti.
Alla rilevante realtà ecclesiale padovana (si tratta di una delle
maggiori diocesi italiane) propone con chiarezza un programma che
fa riferimento al suo motto: “Restaurare omnia in Christo” e quindi
il suo impegno è rivolto ad una rigenerazione totale della società in
senso cristiano. Le opere sociali rientrano in questa visione e così
pure l’associazionismo laicale, di cui sostiene l’importanza nel
Sinodo diocesano convocato tra il 3 e il 5 settembre 1890, presenti
circa 400 sacerdoti.
Sul dovere dell’azione insiste sempre e lo fa in particolare nel
suo intervento al Congresso dell’Opera a Milano (sett.1897): “I
cattolici devono risolutamente agire con sempre maggiore coraggio;
ecco le parole del Santo Padre, ecco l’invito (...): è tempo di agire
valorosamente e devono con sempre maggiore coraggio i cattolici
29
muoversi all’azione (...) perché quello che già abbiamo ci è ragione
di sicura speranza(12)”.
Ben presto però si era accorto che accanto alle opere occorreva
una cultura sociale che le supportasse, che desse loro le conoscenze
necessarie per operare. Il Callegari lamenta l’insufficiente presenza
degli intellettuali cattolici (si tratta della tradizionale povertà
culturale) che: “troppo spesso in Italia vivono disconosciuti, isolati
ed operanti in angusta cerchia, deficienti del sussidio di mutui lumi
e discussioni, e non poco ancora remoti da quella unità di
intendimenti finali che sotto la guida della Chiesa risponda alla
dignità e alle tradizioni del sapere cristiano”(13).
Sono queste le convinzioni sulle quali fonda il suo impegno per
la costituzione dell’”Unione Cattolica per gli Studi Sociali” le cui
basi furono poste in una riunione tenutasi a Padova in Vescovado il
29 dicembre 1889 (due anni prima della Rerum Novarum) alla
quale, oltre a mons. Callegari, erano presenti il vescovo di
Mantova, mons. Giuseppe Sarto (divenuto poi patriarca di Venezia
e, nel 1903, Papa Pio X), Giuseppe Toniolo, il noto studioso
trevigiano di problemi sociali, ed una trentina di laici tra i quali
Medolago Albani e il rodigino mons. Giacomo Sichirollo.
L’Unione si proponeva di studiare e diffondere tra i cattolici la
conoscenza dei problemi economici e sociali(14).
Nacquero obiezioni, ma il vescovo Callegari ribadì l’autonomia
dell’Unione e la sostenne strenuamente, ritenendo che l’Unione
avesse il compito di esaminare scientificamente i problemi
economico-sociali, mentre la seconda sezione dell’Opera aveva il
compito esclusivo di creare opere sociali. In sostanza la prima era la
mente, la seconda il braccio.
All’interno del movimento cattolico la posizione del vescovo di
Padova era di tutto rilievo. Lo dimostra la lettera che il Paganuzzi,
leader dell’”Opera dei Congressi”, gli scrisse il 23 febbraio 1891 al
fine di convincerlo dell’opportunità di coagulare tutte le attività
30
attorno all’Opera il cui consiglio direttivo aveva allora sede a
Padova. Con molta abilità e tatto mons. Callegari compose il
dissidio organizzativo a ciò sollecitato da Papa Leone XIII il quale
poi (1893) delimitò le rispettive sfere di influenza di Opera e
Unione. All’Unione venne riservata l’azione sociale e politica.
Quando pochi anni dopo (1897) i contrasti riaffiorarono, toccò
ancora al vescovo di Padova esperire il tentativo di mediazione, che
però incontrò resistenze tali da richiedere un ordine esplicito del
Papa. Siccome i toni del contrasto tra Paganuzzi e Toniolo, cioè tra
Opera ed Unione, invece di placarsi si fecero più aspri, il Papa
scrisse proprio a mons. Callegari (24 novembre 1897)
riconfermando esplicitamente il suo desiderio di mantenere in vita
l’Unione con configurazione autonoma(15).
In sostanza mons. Callegari fu dell’Unione per gli studi sociali
uno degli animatori e protettori più attivi e influenti e,
contemporaneamente, una delle voci più autorevoli nell’Opera.
In diocesi stimola la diffusione dei comitati parrocchiali e la
costituzione di opere sociali. Aiutato dal conte Fracanzani, insiste
perché in tutte le parrocchie vengano costituiti e resi funzionanti tali
comitati che dai 17 dell’aprile 1887 salgono a 113 nel giro di poco
più di un anno.
Si incontrano grosse difficoltà soprattutto per la carenza di
risorse umane. Comunque nel periodo 1890-1892 il Comitato
diocesano promuove:
- la Società cattolica di mutua carità di Piove;
- la Società cattolica agricola di Piove di Sacco, Rossano Veneto,
Thiene;
- la Società euganea di mutuo soccorso di Este.
Nella relazione presentata al Congresso di Pavia (1894) si legge
che Padova ha 8 sottocommissioni diocesane, 27 sezioni giovani,
un comitato interparrocchiale e un rilevante numero di comitati
parrocchiali. Rimane scarsa la presenza in città.
31
L’anno successivo al Congresso di Torino (1895) la relazione
evidenzia lo sviluppo delle attività economiche. Ci sono 17 società
di mutuo soccorso, 15 casse rurali e le attività della Banca Cattolica
sono in espansione. Persistono difficoltà di varia natura perché non
c’è una tradizione di impegno sociale e perché in varie località è
viva l’opposizione. Ad esempio a Camposampiero pesa
negativamente l’influenza del sindaco e a Villa del Conte “la
prepotenza di alcuni ricchi”.
Nel 1895 e nella primavera del 1896 il Callegari collabora
all’organizzazione del secondo Congresso dell’Unione che si tiene a
Padova (25-28 agosto 1896) in una sala del Vescovado.
L’attenzione del vescovo si concentra sempre più sul problema
della presenza della Chiesa tra le classi più povere, però senza
uscire dalla visione mutualistico-assistenziale.
Nel 1897 i comitati parrocchiali sono saliti a 155 e le casse rurali
cattoliche a 48.
La repressione del 1898 (Governo Di Rudini) colpì duramente
tutto l’apparato organizzativo del movimento cattolico. Oltre alla
sospensione del quotidiano della Curia, “L’Ancora”, vennero sciolti
tutti i 155 comitati parrocchiali, le 87 sezioni giovanili, le 56 casse
rurali, le 38 società operaie, una sessantina di altre associazioni(16).
Fortunatamente durò pochi mesi.
Nell’aprile del 1899 a Ferrara, Callegari torna sul programma e
sulla struttura dell’Opera dei Congressi insistendo, di fronte alle
tensioni ed ai contrasti, sull’unità senza però drammatizzare:
“Ci vediamo additata la via che dobbiamo
percorrere, non ci è lecito tentennare o dare addietro
il passo (...); noi dobbiamo dare al Papa questa
consolazione, di cementare la nostra unità, aprendo
l’anima alla fiducia dei capi (...) affinché possa
durare sempre la concordia”(17).
32
L’anno successivo al Congresso di Roma (1900) Callegari
disegnava le tendenze politiche sorte in seno all’Opera
dichiarandosi contrario alle proposte di Murri. Si distingue anche
dal Toniolo a proposito dei sindacati cristiani. Rimane
sostanzialmente fermo all’idea delle unioni professionali miste:
quindi niente sindacato nè lotta di classe e scioperi ma azione
filantropica. Egli pensa ad una società che difenda il patrimonio
morale cristiano senza sconfinamenti dottrinali e cedimenti al
liberalismo.
Insiste spesso sulla inconciliabilità tra Chiesa e progresso laico.
Non accetta la democrazia parlamentare, frutto della Rivoluzione
Francese. Altrettanto drastica è la sua condanna del socialismo:
“Il socialismo è teoria contraria alla libertà, alla
dignità, al benessere umano perché fa schiavi,
macchine, isterilisce (...). E’ dottrina assurda (...),
empia, anticristiana perché si oppone ai precetti,
perché tali sono quelli che la professano. E’ una
mistificazione (...)”(18).
Solo nel 1909 il vescovo di Treviso, mons. Andrea Giacinto
Longhin, riconoscerà che “l’uomo può unirsi, può federarsi in leghe
o sindacati per meglio provvedere ai propri interessi (...) in
conformità alla dottrina sociale della Chiesa”.
Mons. Callegari è fortemente preoccupato per l’insegnamento
religioso nelle scuole elementari comunali di fatto soppresso dalla
legge Coppino (1877). Gli insegnanti vengono assunti a prescindere
dalla loro moralità.
La situazione è particolarmente difficile nella città che rimane
laica con manifestazioni di intolleranza. Il 19 gennaio 1898 viene
assalito il Circolo universitario e sfregiato lo stemma vescovile.
33
Nel 1904 solo il 49 per cento dei genitori del comune capoluogo
chiede l’istruzione religiosa per i figli mentre a Treviso, Verona e
Vicenza la chiede la quasi totalità. Nel 1908, dopo un durissimo
scontro,
la
Giunta
comunale
delibera
l’abolizione
dell’insegnamento religioso nelle scuole comunali.
Non c’è a Padova una presenza significativa di quel
moderatismo cattolico-liberale o clerico-moderatismo che ha a
Vicenza personalità di spicco quali Alessandro Rossi, Giacomo
Zanella, Giuseppe Fogazzaro, Fedele Lampertico, il quale fu
ricercatore originale di un rapporto di interdipendenza tra etica ed
economia per costruire una società antitetica a quella
“rivoluzionaria del socialismo”.
Le opere sociali
Come si è già ricordato, alle sollecitazioni del vescovo la
risposta fu immediata.
I parroci, che nella grande maggioranza provenivano da famiglie
contadine e perciò si sentivano parte viva della gente dei campi in
mezzo alla quale vivevano e operavano e che non potevano
abbandonare a se stessa, recepirono prontamente le indicazioni
pastorali del vescovo che arrivavano a proposito e se ne fecero
immediatamente carico, dando una risposta logica e coerente che la
pubblicistica laica e di sinistra non ha capito.
Secondo le direttive vescovili, la risposta fu anzitutto e
soprattutto pastorale. i parroci non fanno tante analisi sulle cause
socio-politiche dello stato di miseria in cui versa la loro gente.
Ritengono, come il loro vescovo, che i mali sociali derivino dal
“malgoverno” e dal “malcostume” e, pertanto, rispondono facendo
appello anzitutto alla fede che sentono e vivono come patrimonio
collettivo. Del resto per i contadini veneti dell’800 il fatto religioso
34
non viene mai ridotto all’ambito strettamente individuale nè a fatto
di gruppi elitari.
Come si è detto, il contesto psicologico in cui si innesta la
religiosità contadina è certamente quello delle stagioni, delle forze
della natura, dell’imprevisto, ma quello religioso è un fatto
comunitario, come fatti comunitari erano le lunghe veglie invernali
nelle stalle, i “filò”, durante i quali le donne filavano e gli uomini si
scambiavano le loro esperienze, tramandandosi così oralmente
l’antica cultura contadina, eseguivano semplici lavori o giocavano a
carte.
L’appello si concretizza nella moltiplicazione delle confraternite
(che allontanano la tendenza all’individualismo religioso) e
nell’intensificazione dell’insegnamento catechistico. Ma anche
questo dà fastidio. Il delegato di Pubblica Sicurezza di Piove di
Sacco, Giannelli, scrive al Prefetto di Padova in data 14 novembre
1895: “Associazioni sotto titoli diversi che vengono denominate
come confraternite, ne esistono in ogni parrocchia e lo scopo di
ciascuna ha per base l’obbedienza passiva al prete, e quindi giovano
e servono al partito cattolico sotto tutti gli aspetti (...). Il prete
diventa assoluto padrone delle opinioni, non solo, ma ha anche il
diritto di regolare l’andamento cristiano della famiglia (...)”(19).
Poiché, d’altra parte, la gente è pressata da bisogni vitali,
rispondono con opere caritative ed assistenziali che nascono e si
fermano ai confini della parrocchia. Era inevitabile che, crescendo,
quelle opere assumessero sempre più prima una valenza
economico-sociale e poi politica; ma sono nate come opere
religiosamente motivate che prescindevano da ogni calcolo
strettamente economico e che, perciò, si muovevano secondo una
logica nettamente opposta all’ideologia liberale e allo spirito
capitalistico.
C’erano già le società di mutuo soccorso: la Società Cattolica di
Mutuo Soccorso era stata fondata nel 1880. Come si sa, queste
35
società avevano per base la moralità e la fratellanza e per scopo il
vicendevole aiuto in casi di malattia o di inabilità al lavoro
(indennità giornaliera).
Vengono successivamente, anche sulla spinta della Rerum
Novarum (1891), le casse rurali, le cooperative, le società di
assicurazione. La serie di iniziative messe in atto in pochi anni ha
dell’incredibile.
Tutte queste opere si connotano, almeno inizialmente, come fatti
di Chiesa e come sensibilità pastorale per gli strati sociali più
deboli, il che del resto era già avvenuto quando, in precedenza, con
le stesse caratteristiche e per le stesse motivazioni, erano stati
fondati ospedali, orfanotrofi, ospizi, monti di pietà. Sono i preti che
si fanno carico di organizzare queste attività non per cupidigia di
potere nè per volontà di egemonia, bensì per spirito di servizio in
attuazione dei precetti evangelici.
Sia le casse rurali che le cooperative non hanno alcun fine di
lucro (e lo dichiarano nei loro statuti) nè sono premessa per
investimenti.
Sono finalizzate all’assistenza solidaristica religiosamente
motivata. Le somme depositate presso le casse rurali sono
infruttifere. Cerutti, il loro fondatore, voleva che, secondo i principi
della mutualità, non si distribuissero dividendi e che eventuali utili
andassero ad accrescere il patrimonio comune.
Ne era chiarissimo il carattere cristiano. Il primo requisito per
farne parte è una comprovata coscienza religiosa che deve trovare
riscontro in una “condotta morigerata ed onesta”.
Gli statuti precisavano che “occorreva spiegare sentimenti
cristiani verso la religione, la Chiesa, il pontefice, l’educazione
cristiana dei figli, la santificazione della festa”(20).
Quasi sempre la costituzione e le assemblee annuali
coincidevano con la festa patronale.
36
Rispondono a bisogni reali perché salvano i contadini dai debiti
ricorrenti e dal ricorso agli usurai e agli strozzini; sono un punto di
riferimento sicuro cui si può ricorrere per l’acquisto delle sementi e
per il mantenimento della famiglia in attesa del raccolto. Salvano
spesso dallo sfratto: stringevano il cuore a San Martino le lunghe
processioni di carri sui quali erano caricate le povere masserizie dei
contadini costretti a sloggiare in virtù di patti mezzadrili e contratti
di affitto ferrei.
I debiti fanno terrore... e il prete ispira fiducia perché è uno di
loro, parla il loro linguaggio e si fa interprete delle loro
insopprimibili esigenze vitali. Così le casse rurali si moltiplicano
prodigiosamente. Nel 1894, solo due anni dopo la fondazione della
prima, erano già diventate 164, di cui 86 nel Veneto; nel 1897 erano
salite a 700 di cui ben 490 venete, superando così il numero delle
casse rurali promosse da Leone Wollemborg, un illuminato
proprietario terriero ebreo, che aveva costituito la sua prima cassa
rurale a Loreggia nel 1883, con 32 soci tutti contadini ad eccezione
del medico condotto e del segretario comunale.
E’ evidente che quelle nate all’ombra del campanile ispirano
maggior fiducia.
Don Luigi Cerutti, l’attivo prete di Gambarare, è solitamente
ricordato come l’organizzatore delle casse rurali cattoliche. In realtà
egli, oltre al credito rurale (arrivò a stabilire anche rapporti organici
con le banche cattoliche urbane, promosse dalle varie curie
vescovili ed egli stesso fu tra i promotori della costituzione del
Banco di San Marco), fu soprattutto un instancabile organizzatore
di cooperative agricole. Costituì con ammirevole fervore unioni
assicurative contro la grandine, l’incendio, la mortalità del
bestiame; organizzò centri per l’acquisto collettivo di sementi e
macchine agricole; costituì consorzi di irrigazione(21).
Favorite dalla presenza di queste strutture, altre ne sorsero: forni,
spacci cooperativi, latterie e cantine sociali.
37
L’opera dei parroci non si limita alla realizzazione di queste
iniziative. Cercano anche di migliorare le condizioni produttive in
campo agricolo. Nella seconda metà dell’800 furono una ventina i
parroci della diocesi di Padova premiati dalla Società di
incoraggiamento per benemerenze nell’agricoltura. Tra questi don
Angelo Candeo, parroco per l’eccezionale durata di 63 anni a
Mestrino.
Esperto di problemi agricoli, tenne legami in Italia e all’estero
sul modo di migliorare le coltivazioni e di combattere i parassiti
delle piante. Ideò nuovi attrezzi agricoli e riuscì a convincere il
Papa Leone XIII a piantare un vigneto negli “orti” vaticani.
Casse rurali e cooperative rompono l’atavica e istintiva
diffidenza, destando nei contadini la coscienza delle loro possibilità
di riscatto. Così i nostri contadini, definiti “polentoni” remissivi e
passivi, dimostrano insospettate capacità di autopromozione: i
parroci li fanno, finalmente, sentire persone, invece che semplici
strumenti, diversamente dallo Stato che li vuole solo sudditi esclusi
da ogni partecipazione reale alla vita amministrativa e politica.
L’imprevista e imprevedibile fioritura di opere sociali fa sì che la
parrocchia cominci a configurarsi, con questa sua capillare ed
operosa presenza come fenomeno sociale di masse popolari; le
unifica e, in un certo senso, le “proletarizza” nel periodo classico
del liberalismo politico. Ciò non è affatto strano, ma suscita dure
reazioni tanto nei liberali che nei socialisti, i quali vedono crescere
un pericoloso concorrente. I primi vedono messi in discussione i
loro privilegi; i secondi ritengono che queste iniziative siano di
ostacolo alla lotta di classe. Il Prefetto di Padova nel 1896 riferiva a
Roma:
“Nelle chiese, ormai, si tengono tutte le conferenze
pubbliche per scopi esclusivamente laicali, cioè per
l’organizzazione elettorale amministrativa, per la
38
costituzione di società operaie ed agricole
cattoliche, per la formazione di casse rurali, ecc.; e
l’altare maggiore viene coperto da tavoloni e
convertito i palco tribunizio”(22).
La maggioranza dei nostri preti contadini continua a ritenere che
la parrocchia non debba uscire dall’ambito dell’attività
assistenziale, ma ci sono anche (pochi in verità) preti “moderati” e,
agli inizi del secolo, preti “democratici” alla Murri, che ritengono
necessario rompere il cerchio dell’isolamento pensando allo sbocco
politico e alle elezioni.
In realtà casse rurali, cooperative, unioni, fanno crescere una
nuova mentalità che a poco a poco si fa sindacale e politica;
nascono infatti successivamente anche unioni professionali e le
prime “leghe bianche” e, infine, il Partito Popolare.
E’ un processo logico ed irreversibile: nascono come strumenti
assistenziali e diventano mezzi di liberazione delle masse contadine
da un secolare stato di soggezione. Più o meno consapevolmente,
l’azione educativa ed assistenziale acquista prima valenza sociale e
poi politica. Pertanto è del tutto errata l’accusa di paternalismo: se
anche ci fu, non fu solo questo.
Si usa ripetere che tali iniziative dei parroci non toccarono la
struttura della società contadina e sostanzialmente giovarono a
conservare un modello di campagna come depositaria di virtù
domestiche, riserva di fede incontaminata, baluardo contro gli errori
e la corruzione cittadina.
Può anche essere parzialmente vero. Una cosa però è certa ed è
questa: mentre i socialisti predicavano violenza e prospettavano
rivoluzioni impossibili e i liberali semplicemente ignoravano la
povertà contadina di massa, i parroci - sospinti dai loro vescovi rispondevano ai bisogni immediati della gente; ed anche questa è
storia, anzi una grande storia del cattolicesimo sociale.
39
Contemporaneamente alle casse rurali nascevano le banche
cattoliche. Il 22 giugno 1893, presso il notaio Alberto de Ziller in
via Belle Parti, 53 persone sottoscrivevano l’atto costitutivo della
Banca Cooperativa Cattolica Padovana. Sono preti (mons. Dal
Santo rettore del Seminario e il bibliotecario don Stievano,
l’arciprete di Cittadella, il vicario e il prevosto di Santa Sofia,
diversi canonici e parroci) e laici (l’avv. Turazza, l’avvocato conte
Prospero Radini Tedeschi, l’avvocato senatore Coletti di Este, il
conte De Claricini). Lo scopo sociale era la diffusione della piccola
proprietà e il credito all’artigianato. La prima sede è in via
Bolzonella, ora Santa Lucia.
Nel 1906 diventa Banca Antoniana.
Un anno dopo la costituzione i soci erano saliti a 958; nel 1897
sono 2.043.
Viene fondata poi la Banca Cattolica del Veneto e il Banco di
San Marco.
Al liberale Luigi Luzzatti, altro ebreo, professore di diritto
costituzionale nella nostra università, si deve la fondazione delle
banche popolari. Ma banche cattoliche e banche popolari non vanno
confuse con le casse rurali. Diversi sono i protagonisti e diverse le
finalità.
Nell’ottobre del 1893 nasce a Padova, con sede nel palazzo
vescovile all’angolo tra via Vandelli e piazza Duomo, un’altra
consistente iniziativa che resiste nel tempo, cioè le Cucine popolari
di cui lo stesso Vescovo assume la presidenza e che, affidate alle
suore elisabettiane, rimangono aperte tutti i giorni feriali dalle 11
alle 15. Vivono di elargizioni della borghesia padovana e delle
banche locali: la Cattolica, la Popolare, la Cassa di Risparmio.
La stampa cattolica
40
Sul finire dell’800 i cattolici padovani si rendono conto che non
sono sufficienti le opere sociali; occorre fare cultura, informare ed
influire sulla pubblica opinione. Così si ha una eccezionale fioritura
di stampa cattolica.
Il 1° gennaio 1882 esce come settimanale “La Specola”, erede di
“Padova Cattolica” (1881). Intende essere l’organo ufficiale di tutto
il movimento cattolico di cui illustra le direttive; infatti si
sottotitola: “A cura del Comitato diocesano per l’Opera dei
congressi cattolici in Italia”. Si batte in tre direzioni: municipi,
scuole, ospedali con un taglio illuminista, anti liberale, integralista.
Nel 1889 entrò in redazione Giuseppe Sacchetti e “La Specola”
si sottotitolò: “Lettera popolare del Sabbato”. Era il segnale di una
ricerca di laicità. Dopo che il Sacchetti si trasferì a Milano, assunse
la direzione don Amedeo Stivanello. Per difficoltà economiche
cessò nel dicembre del 1894.
Tra il 1892 e il 1896 venne pubblicata “La Sentinella”. Nel
periodo 1894-1896 esce anche un altro settimanale: “Il Popolo”,
con l’intento di popolarizzare l’idea cattolica. Vi compaiono scritti
in dialetto di don Giuseppe Flucco.
Dal 1° luglio 1896 diventò “Il Popolo quotidiano” con un
supplemento, “Il Popolo della Domenica”. Chiude per contrasti
interni il 13 dicembre 1896.
Il 1° gennaio 1897, segno di un notevole fermento di interessi
ma anche di faciloneria e di improvvisazione, ne prende il posto un
nuovo quotidiano, “L’Ancora”, organo degli atti ufficiali del
Comitato diocesano, con il supplemento “L’Ancora della
Domenica”.
Si tratta di un giornale moderno, politicamente impegnato e
combattivo; è favorevole alla democrazia cristiana e intendeva
preparare i cattolici alla diretta partecipazione politica. Il taglio è
antisocialista e antiliberale; si schiera contro i cattolici moderati e,
per motivi morali (la tutela del focolare domestico), contro l’attività
41
lavorativa extradomestica delle donne. Accetta lo sciopero. Venne
sospeso durante la repressione del 1898.
Nell’aprile del 1900, “L’Ancora” chiudeva per i contrasti tra i
clerico moderati (sindacalisti e cooperativisti) e intransigenti. Così
Padova rimane senza un giornale cattolico, mentre quattro erano
quelli avversari: Il Veneto, La Provincia di Padova, L’Eco dei
Lavoratori, La Libertà.
Nel 1902 nasce il periodico “Per il Popolo” che si proponeva la
difesa dottrinale con apertura ai problemi sociali del mondo rurale e
artigiano e voleva il riconoscimento dl mondo cattolico. Cessò le
pubblicazioni il 22 dicembre 1907, subito rimpiazzato, con
continuità anche nelle testate, da “La Difesa del Popolo” (5 gennaio
1908).
Chi vuole “leggere” le vicende del mondo cattolico padovano
non può prescindere da questo settimanale che, nel corso di questo
secolo, ha mantenuto un vincolo profondo con la comunità e il
territorio in cui è nato cercando, anche nei periodi difficili e
traumatici, di rimanere vicino al “vissuto quotidiano” della gente.
La Camera del Lavoro
Mentre i parroci organizzano opere sociali tra i contadini, un
altro protagonista si presenta sulla scena: si tratta del Partito
Socialista.
Nel 1891 esce un giornale: “La Sveglia dei Lavoratori” e viene
costituito un circolo di studi sociali di orientamento socialista.
Nello stesso anno, il 1° maggio, si celebra a Padova per la prima
volta la festa del lavoro.
Due anni dopo si costituisce la Lega Socialista padovana
aderente al Partito Socialista che diventa l’erede della tradizione
anarchico-socialista la quale aveva avuto un certo peso tra le masse
42
bracciantili della Bassa. Non si dimentichi che a Monselice nel
1878, era stato effettuato il primo sciopero nel padovano,
organizzato dagli anarchico-internazionalisti di Carlo Monticelli.
Il 29 marzo 1893 nasce la Camera del Lavoro, dopo che l’idea
era stata lanciata nell’ottobre 1892. Alla riunione costitutiva
partecipano i rappresentanti di dieci società operaie cittadine e un
buon numero di lavoratori.
Presidente ne diventa l’avvocato Alessandro Marin,
repubblicano, e il programma si ispira a cautela poichè la
maggioranza dei promotori appartiene alla democrazia borghese,
progressista e radicale. Si riteneva dovesse avere la funzione di un
ufficio di collocamento gratuito. In giugno gli aderenti avevano
superato i mille e si erano costituite quattro sezioni: fornai, calzolai,
muratori e tipografi. Nell’agosto gli scalpellini fondavano la prima
lega di resistenza. I cattolici padovani la ignorarono.
Nonostante la moderazione, poco più di un anno dopo, il 23
ottobre 1894, il prefetto ne decreta lo scioglimento ritenendo che
avesse superato i limiti di “sodalizio benefico” e denuncia
all’autorità giudiziaria trenta aderenti.
Viene ricostruita solo dopo sei anni, nel marzo del 1900, e
ufficialmente inaugurata il 22 ottobre dello stesso anno con 3.009
iscritti.
Al primo congresso nazionale della Federterra (1901) sono
presenti quattro leghe padovane con 1.450 iscritti.
Nei confronti delle aggregazioni “bianche” la Camera del
Lavoro assume un atteggiamento nettamente ostile. In occasione del
3° Congresso nazionale della CGIL tenutosi proprio a Padova
(Teatro Garibaldi, 24-28 maggio 1911) il segretario generale
afferma:
“Non è tanto il marchio confessionale quello che ci
fa considerare l’organizzazione nemica, quanto che
43
questa organizzazione e per le origini sue, per ciò
che rappresenta come fatto, e per i fini cui è
indirizzata, è in aperta antitesi col genuino e
spontaneo
movimento
di
classe
(...).
L’organizzazione confessionale, come quella del
resto ispirata da tutti i partiti conservatori, non è che
del crumiraggio sistematico”.
Note:
(1) E. Ceccato, Camposampiero 1866-1966, Signum 1988, p.310.
(2) ISTAT, Compendio delle statistiche elettorali italiane dal 1848 al 1934, Roma
1947.
(3) Storia dell’industria padovana, Supplemento redazionale da “Il Gazzettino”, 18
dicembre 1989.
(4) A. Ventura, Padova, Laterza 1989, p.178.
(5) Il Pianeta Veneto. La nostra gente, Editore Quotidiani Veneti, 1989, p.195.
(6) Censimento della popolazione al 10 febbraio 1901, Roma 1903.
(7) E. Morpurgo, Relazione sulla XI Circoscrizione. Atti della Giunta per la
Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, Vol.IV, Roma 1882-83.
(8) Notizie riassuntive intorno alle condizioni delle popolazioni agricole in Unione
cattolica per gli Studi Sociali in Italia. Atti e documenti del secondo congresso
cattolico italiano tenutosi in Padova nei giorni 26, 27, 28 agosto 1896, Padova
1897, p.306.
(9) Il vicariato raggruppa più parrocchie di una stessa diocesi e il vicario vi esercita
alcuni poteri per delega del vescovo. Si chiamava curazia un territorio con una
propria chiesa però non costituito canonicamente in parrocchia.
Le chiese sussidiarie si chiamano ora chiese minori dipendenti da una parrocchia.
(10) G. Callegari, Lettera Pastorale al clero e al popolo della sua diocesi, Treviso
1883, p.29.
44
(11) G. Callegari, op. cit. p.32.
(12) F. Agostini, Gli indirizzi e le iniziative pastorali di mons. Giuseppe Callegari
nella diocesi di Padova, in Le scelte pastorali della Chiesa padovana 1883-1982,
Gregoriana, Padova 1992, p.48.
(13) F. Agostini, op. cit., p. 41.
(14) G. Spadolini, L’opposizione cattolica, Vallecchi, Firenze 1954, p.254-256.
(15) G. Spadolini, op. cit., pp.311-314.
(16) A. Ventura, op. cit. p.211.
(17) F. Agostini, op. cit., p.48.
(18) F. Agostini, op. cit., p.59.
(19) Archivio di Stato di Padova, Prefettura-Gabinetto (1985-1987).
(20) A. Gambasin, Parroci e contadini nel Veneto alla fine dell’Ottocento, Roma
1973, pp.62-63. Nello Statuto della Cassa rurale di Piove di Sacco (24 maggio
1896) si specifica che tra i compiti del segretario c’è quello di “sorvegliare che
all’apertura e chiusura di ogni adunanza si reciti una breve preghiera invocando la
protezione del Signore Iddio”.
(21) S. Tramontin, La figura e l’opera sociale di Luigi Cerutti, Brescia 1968.
(22) A. Ventura, op. cit., p.204.
45
Capitolo III
LA FASE DEL CONSOLIDAMENTO
I primi anni del nuovo secolo sono segnati da forti contrasti tra i
vertici del movimento cattolico, tanto che Pio X nel 1904 scioglie
l’Opera, decretando la fine della prima esperienza unitaria dei
cattolici italiani.
Era evidente che il papa intendeva riaffermare il dovere della
totale obbedienza alle sue direttive. Infatti nella lettere in cui veniva
resa nota la decisione pontificia dello scioglimento, si legge: “E’
preferibile che un’opera non si faccia anziché farla contro la
volontà del vescovo”.
Il vescovo Luigi Pellizzo
In questo contesto, a mons. Callegari succede mons. Luigi
Pellizzo che reggerà la diocesi fino all’aprile del 1923.
Mons. Pellizzo proviene da famiglia contadina friulano-slovena
ed è portatore di un nuovo stile di azione sociale. Gli avversari lo
chiamano “monsignor osso duro” o “monsignor orso” e tale fu in
realtà per il suo carattere deciso e la sua energia.
Prende possesso della diocesi (700 mila anime, 322 parrocchie e
31 curazie) il 2 maggio 1907 e non viene accolto bene dai socialisti
ma neppure dalle componenti cattoliche moderate.
La Padova massonica e anticlericale lo respinge con aperte
manifestazioni di protesta quando vuole fare visita di cortesia
all’Università e all’Ospedale. In Municipio il Sindaco, Giacomo
Levi Civita, espresso dal “blocco popolare” che in realtà era
espressione della Padova borghese alla quale conveniva un
cattolicesimo sonnolento, lo accolse con un saluto di chiara
intonazione anticlericale.
Non ne rimane intimorito e la lettera che indirizza alla diocesi il
23 luglio 1908 non è certo di circostanza. Per dare maggior forza al
suo progetto si richiama all’enciclica di Pio X “Il fermo proposito”
riproducendo il passo che meglio rispondeva ai suoi intendimenti:
“Il vero apostolo (...) s’adoperi adunque di
migliorare anche, entro i limiti della giustizia e della
carità, la condizione economica del popolo
favorendo e promuovendo quelle istituzioni che a
ciò conducono”.
E aggiungeva:
“Nessuno, meno casi eccezionali, si tenga estraneo
dalla vita pubblica: poichè ogni cittadino ricco o
povero, dotto o scarsamente istruito, ha dei diritti e
dei doveri verso il Comune, la Provincia e lo Stato,
li deve esercitare”(1).
Il Corriere della Sera scriveva: “Nel Veneto (...) il vento della
ribellione non arriva più dall’osteria o dalla piazza”, arriva invece
dalle parrocchie “dove i sacerdoti organizzano i contadini contro i
proprietari”.
Occorre però dire che il vescovo Pellizzo concepiva l’azione
sociale e politica come strumento teso a riconquistare al
cristianesimo la società italiana. E’ un progetto che torna
nell’immediato secondo dopoguerra con la proposta del “paese
cristiano”.
48
In altri termini, l’intento era quello di salvaguardare la fede dagli
attacchi della massoneria laicista e del socialismo ateo. Pertanto per
lui l’esigenza primaria era quella di un rinnovamento della pastorale
e di una piena valorizzazione delle varie forme di apostolato, senza
separare l’azione religiosa da quella sociale e politica che riteneva
essere un semplice prolungamento della prima.
Pellizzo pensava ad una democrazia cristiana confessionale,
obbediente alla gerarchia. Era una proposta che si muoveva in senso
opposto a quella sturziana dell’aconfessionalità. Così intendeva
l’Azione Cattolica come un valido strumento religioso e sociale
insieme di modo che l’associazione, nella sua maggioranza, assume
posizioni di fiancheggiamento alle iniziative sociali e politiche
cattoliche. Ma clero e laicato ne risultarono divisi: ed è una storia
che si ripete.
Si ha, di fatto, la sovrapposizione dell’azione sociale a quella
religiosa. I parroci escono dalle sacrestie, fanno azione sociale e poi
anche politica in prima persona facendo delle parrocchie un punto
di riferimento non solo ecclesiale e spesso si confondono con gli
attivisti politici: fondano comitati elettorali, scelgono i candidati
alle elezioni amministrative, convogliano voti con l’aiuto della
stampa diocesana.
Tutto questo si presta ad equivoci ed a facili interpretazioni di
parte.
L’opinione
pubblica
cittadina
rimase
notevolmente
impressionata da una manifestazione di massa che ebbe luogo a
Mottinello nei pressi di Galliera dove accorsero centinaia di
contadini per impedire lo sfratto di una famiglia di mezzadri.
Non c’era ancora un partito organizzato, ma anche nei
documenti ufficiali si parla di “partito clericale”. Nel suo rapporto
del 6 febbraio 1911 al Ministro degli Interni il Prefetto scrive:
49
“Sento il dovere di informare la prefata eccellenza
vostra che l’organizzazione ideata e attuata da mons.
Pellizzo, va sempre più estendendosi e rafforzandosi
come avevo preveduto e va perciò diventando
sempre più pericoloso per l’ordine pubblico in
questa provincia. Rigido, tenace, astuto, detto
prelato non si fa scrupoli di ricorrere anche a mezzi
illeciti e di abusare del suo spirituale ministero pur
di farsi strada e di raggiungere il fine propostosi che
è quello di impadronirsi delle amministrazioni
locali, di imporsi al governo, di sovrapporsi alle
autorità civili, di creare quasi - insomma - in questa
provincia uno stato nuovo che si muova e agisca a
suo piacimento”(2).
L’interpretazione è faziosa, ma esprime la preoccupazione
diffusa per le conseguenze dell’azione del Vescovo sugli equilibri
sociali e politici esistenti. D’altra parte nè i tradizionali comitati
elettorali nè l’organizzazione socialista poteva competere con le
strutture parrocchiali capillarmente presenti in tutto il territorio e la
cui centralità spirituale e civile preoccupava non poco gli avversari.
Le conseguenze sono evidenti: nelle elezioni politiche del 1913 nel
collegio di Cittadella Leone Wollemborg, il fondatore delle casse
rurali, viene battuto dal candidato cattolico.
Conclusasi l’immane tragedia della Grande Guerra, che aveva
lasciato ferite profonde, la Diocesi non era più quella di prima. Il
Vescovo lo percepisce e, coinvolgendo il laicato, accentua l’azione
religiosa rivolta alla riconquista delle coscienze, dedicando
particolare attenzione all’evangelizzazione, alla catechesi, alla
scuola e alla cultura.
In questo quadro rientra l’avvio del Collegio Barbarigo che, con
l’Antonianum, costituì il punto di partenza per un rinnovamento
50
cristiano facendo leva sulla cultura, e l’apertura della Gregoriana
(1922).
Nel marzo del 1921 dà inizio alla seconda visita pastorale, anche
qui nel tentativo di porre rimedio agli sconvolgimenti morali e
religiosi provocati dalla guerra.
Vede nel Partito Popolare la saldatura dell’intensa azione sociale
con l’aspetto più propriamente politico e scende direttamente in
campo con la lettera pastorale del 15 febbraio 1920 nella quale
sottolinea, con il suo stile forte, il pericolo dell’estremismo
socialista che, a suo giudizio, faceva riferimento all’esperienza dei
“Soviet russi”.
Rimane però profonda la divaricazione tra la città laica e la
campagna cattolica che si riconosce nel popolarismo sturziano: si
ha lo scontro tra due blocchi sociali. Meglio sarebbe parlare di tre,
perché il proletariato bracciantile e quello operaio fanno riferimento
al socialismo.
Permane pure vivo lo scontro all’interno del mondo cattolico ed
ha sostanzialmente ragione chi afferma il carattere eminentemente
rurale del cattolicesimo sociale e politico padovano.
Intorno alla figura del vescovo Pellizzo crescono diffidenze e
malcontenti, tanto che il Vaticano lo promuove, secondo una nota e
collaudata prassi, a segretario economo della Fabbrica di San Pietro
e quindi lo trasferisce mascherando una rimozione.
E’ molto probabile che sul trasferimento abbia pesato l’ostilità
dei fascisti locali che di sicuro non gradivano un vescovo legato al
cattolicesimo sociale.
Il forte impulso all’azione sociale
Onde dare maggior vigore e organicità alla presenza sociale,
mons. Pellizzo concentra le attività nella direzione diocesana che
51
crea ex novo in sostituzione del Comitato. Vi pone a capo il
ventottenne don Restituito Cecconelli da Civè di Correzzola: di qui
il suo interesse per il piovese.
Il 29 febbraio 1908 il Vescovo invita nel Collegio Sacro le circa
trecento associazioni sociali esistenti nel territorio diocesano. Ne
risultano rappresentate 220 in una giornata, scrive la Difesa, che
“rimarrà memorabile negli annali del nostro movimento” perché
“dopo tanto tempo di sonno e di obbrobrioso letargo, che pareva
quasi togliere la speranza di una futura resurrezione, è suonato per
le forze cattoliche padovane lo squillo eccitatore della nuova vita”.
Sono, in particolare, rappresentate 47 casse rurali, 34 comitati
parrocchiali, 38 sezioni giovani, 19 assicurazioni del bestiame, 38
società di mutuo soccorso(3).
L’attività di Cecconelli è frenetica. Si circonda di un gruppo
eccezionale di giovani che poi avranno un ruolo rilevante: Gavino
Sabadin (primo prefetto dopo la Liberazione), Cesare Crescente
(per un ventennio Sindaco di Padova), Giuseppe Dalla Torre (per un
quarantennio direttore de L’Osservatore Romano), Rinaldo
Pietrogrande, Italo Rosa, Sebastiano Schiavon (poi deputato) al
quale viene affidato l’Ufficio cattolico del Lavoro, pure di nuova
costituzione (1908).
L’Ufficio, che corrisponde alla Lega socialista, si occupa di
contratti agrari, di patti colonici, di miglioramenti salariali
rompendo vecchi equilibri e talora scavalcando a sinistra i
socialisti. Ha subito successo tra i fittavoli poichè si batte contro le
“onoranze” e per la modifica dei patti agrari.
L’Ufficio Cattolico del Lavoro si occupa anche delle operaie
tessili del Piovese (a Piove l’Ufficio aveva aperto una agenzia) le
quali erano circa duemila e che in dodici ore di lavoro
guadagnavano al massimo 60 centesimi e, per di più, il pagamento
veniva effettuato non in danaro ma in merce spesso computata ad
un prezzo superiore a quello praticato al pubblico.
52
Il 1° agosto(4) si riuniscono nel teatro cattolico di Piove e
decidono per lo sciopero, dopo di che si arriva all’accordo che
Cecconelli presenta in un’affollata assemblea - erano più di 600 le
operaie presenti - svoltasi a Vigorovea.
Lo stesso Ufficio promuove nell’aprile del 1909 uno sciopero
che coinvolge 200 operai della Sgaravatti di Saonara e dura undici
giorni.
Occorre rilevare che gli organizzatori di leghe erano una
minoranza abbastanza ristretta all’interno del movimento cattolico e
nel padovano avevano una presenza assai limitata tra gli operai.
Non va trascurato il fatto che contemporaneamente a questa
fioritura di attività nasce a livello nazionale l’iniziativa delle
Settimane sociali che affrontano temi rilevanti per l’impegno
sociale.
La prima Settimana sociale (Pistoia, 23-28 settembre 1907) ebbe
infatti per tema: “Movimento cattolico e azione sindacale. Contratti
di lavoro, cooperazione e organizzazione sindacale. Scuola”.
Nel 1908 le settimane sociali furono addirittura due; l’una a
Brescia (6-13 settembre) su: “Questione agraria. Condizione
operaia ed educazione. Programma sociale ed organizzazioni
cattoliche”, l’altra a Padova che discusse di: “Questioni del lavoro e
dell’economia. Problemi agricoli”. La quarta si tenne a Firenze ed
ebbe a tema: “Cattolicesimo sociale ed economia moderna”. Tra i
relatori all’ottava (Milano 30 novembre-6 dicembre 1913) ci fu
Giuseppe Dalla Torre.
Il quadriennio 1908-1911 fu un periodo esaltante. Don Restituto
era ovunque a stimolare e promuovere. Nella sua Bassa, agli operai
di Tribano, afferma che “la Chiesa ci proibisce solo di dimenticare i
nostri diritti” e scrive che le organizzazioni cristiane di classe “più
che mezzo di resistenza sono garanzie di pace”.
Nei primi otto mesi del 1909 vengono costituite 193 nuove
società: un numero che ha dell’incredibile.
53
Tra le diverse realizzazioni originali può essere citata
l’assicurazione dei suini (il salvadaio dei poveri) realizzata a
Conselve (15 marzo 1908): costava una lira all’anno e rispondeva
ad un bisogno immediato data l’importanza che l’allevamento del
maiale aveva per la gente dei campi.
Si comincia, in sostanza, ad andare oltre il vecchio solidarismo
cattolico scendendo sul terreno sindacale. L’azione rivendicativa
turba i vecchi equilibri anche all’interno del mondo cattolico
padovano in buona parte chiuso e miope, amante del quieto vivere o
meglio del “quieta non movere”.
Nell’Alta padovana, che in parte ricade nella diocesi di Treviso,
si fa sentire l’influsso di Giuseppe Corazzin.
A Cittadella nasce il primo sindacato rurale cattolico il 1°
maggio 1909 ad opera di Sebastiano Schiavon. Si denomina
“Unione professionale tra i lavoratori della terra” e il 15 maggio
1910 diventa “Sindacato veneto fra i lavoratori della terra” che
comprende i contadini cattolici delle diocesi di Padova, Treviso e
Vicenza.
Si struttura in sezioni su base parrocchiale. L’intento è quello di
offrire agli agrari un’alternativa alle trattative con le leghe rosse.
Ma durò poco. Il Cecconelli (e non poteva essere diversamente
date le connotazioni della sua azione) si schierò con Miglioli,
assumendo chiaramente posizioni di sinistra.
Lo scontro avvenne al Congresso cattolico di Modena apertosi il
9 novembre 1910. Cecconelli affermò con forza che non accettava
le unioni miste caldeggiate da Nicolò Rezzara e difese il diritto di
sciopero accusando di eccessiva cautela il programma che veniva
proposto.
Tra l’altro disse:
“Pare a noi di vedere uno studio perché le giovani
energie non possano esplicarsi, perché ci si vuole
54
tenere indietro. Guardate i verbi che riempiono
questo documento: ordina, vuole, delibera, consiglia
(...). Ora questa preoccupazione mi fa paura (...).
Restiamo a casa se non possiamo dire quello che
abbiamo nell’animo.
Nella relazione Rezzara non si parla di scioperi,
eppure noi abbiamo dovuto organizzarne e
sostenerne parecchi, ma non ci venne mai un
consiglio, mai una istruzione della direzione
dell’Unione economico-sociale, eppure questi
scioperi erano indispensabili a farsi (...). Quanto alle
unioni miste noi ci dichiariamo assolutamente
contrari ad esse. Coloro che sono pratici di
organizzazione, conoscono le difficoltà che vi sono
per fare una propaganda. I contadini ci guardano
negli occhi, anche noi cattolici e preti per vedere se
siamo sinceri; stanno a guardare dove andiamo a
finire, quando abbiamo finito la nostra propaganda
se dal conte A, se dal barone B. Ma se torniamo a
casa sulla nostra povera carrozza, allora soltanto
hanno stima di noi”(5).
Le speranze del gruppo dei giovani riuniti attorno a Miglioli,
trovarono un netto atteggiamento di chiusura nell’intervento
conclusivo di Crispolti che, esprimendo il pensiero vaticano,
affermò che in Italia non era concepibile un partito cattolico
autonomo o un partito cristiano-sociale che prescindesse dalle
ragioni altissime della Santa Sede. Nella società le Unioni
dovevano mantenere “carattere confessionale e realizzare
prevalentemente opere di carità”(6).
Ci furono pressioni del Vaticano preoccupato delle iniziative
sociali padovane e delle posizioni assunte da Don Restituto che era
55
anche consigliere comunale e provinciale. Dopo le “autorevoli
pressioni” fu fatto dimettere dalla presidenza della Direzione
diocesana, allontanato dalla Difesa e dal quotidiano La Libertà.
Secondo una consolidata tradizione curiale, fu mandato fuori
provincia, prima a Thiene nel collegio vescovile e poi curato a
Fonzaso.
Nonostante l’allontanamento del Cecconelli, l’azione intrapresa,
anche se proseguita con minore incisività, diede i suoi frutti anche
sul piano politico. Nelle elezioni amministrative del 1912 i cattolici,
alleati con i liberali moderati, riconquistarono il Comune di Padova
e cominciarono a controllare diversi comuni.
Nel 1914 Gavino Sabadin diventa Sindaco di Cittadella e nelle
elezioni politiche del 1913, le prime a vedere la presenza di
candidati cattolici, era stato eletto deputato con una larghissima
maggioranza (10.156 voti contro i 1.079 del candidato socialista)
nel collegio di Cittadella-Camposampiero, l’area più bianca d’Italia
(allora vigeva il sistema uninominale) il prof. Sebastiano Schiavon,
lo “strapazza siori”.
Continua contestualmente la costituzione di casse rurali (nel
1914 le casse rurali funzionanti nel territorio padovano raggiungono
il numero di 97) di cooperative, di assicurazioni, di società di mutuo
soccorso in una situazione sociale ed economica che rimane
estremamente pesante, come dimostrano i dati sull’emigrazione: dal
Veneto se ne vanno più di centomila persone all’anno con una punta
di 123.853 nel 1913.
Il Veneto è in gran parte ancora quello dei “buoni villici”, delle
serve “ciacolone”, dei carabinieri tonti.
Nella città sono molti quelli che vengono chiamati
“industrianti”, quelli che si “arrangiano” senza un mestiere definito:
battono il baccalà sui paracarri, riordinano i ciottoli sulle strade,
pescano nei canali.
56
La “Difesa del Popolo”
All’interno di un nitido disegno strategico e nella
consapevolezza che per una riconquista della società era necessaria
l’informazione, dopo appena otto mesi dal suo ingresso, mons.
Pellizzo crea il settimanale “La Difesa del Popolo”.
Il primo numero reca la data del 5 gennaio 1908. La redazione è
in via Cappelli 10; un numero costava 10 centesimi e
l’abbonamento annuo 2 lire e cinquanta centesimi.
Significativo il disegno della testata. Sulla sinistra è raffigurata
una donna armata di scudo che difende un lavoratore appoggiato ad
un’incudine tra fumiganti ciminiere; sulla destra c’è un contadino
che ara sotto il sole in un paesaggio campestre dominato da una
chiesa.
La stessa titolazione era tutto un programma che veniva così
spiegato:
“Difesa del Popolo sul terreno vero delle
rivendicazioni
sociali,
inquantochè
(e
lo
proclamiamo a voce alta) noi intendiamo che,
salvaguardati i diritti e tenuto in doverosa
considerazione il prestigio di quelli che sono i
reggitori della società, anche ai lavoratori siano
garantiti, e anche per essi siano rivendicati, quei
diritti che umanità e progresso assolutamente
esigono”.
Nella presentazione del nuovo “periodico settimanale della
Diocesi di Padova”, come si leggeva nel sottotitolo, l’avvocato
Umberto Signorini scriveva che la “Difesa del Popolo era contro
l’enorme ammasso di errori che, ai danni del proletariato,
57
continuamente vengono divulgati per strappargli dal cuore e dalla
mente la fede”.
La finalità dichiarata era quindi anzitutto religiosa. Sul piano
politico l’orientamento è chiarissimo: si polemizza con le leghe
socialiste e le amministrazioni comunali rette dai socialisti e il tono
è duro e sarcastico. Se ne ha un’idea rileggendo la rubrica
“Macchiette rosse” dove si dice che il capolega socialista mette
insieme “l’astuzia della volpe con la viltà del coniglio, la
simulazione infedele del gatto con la sciocca burbanza del cane
bulldog, la fame del lupo con la sete di sangue del vampiro”.
Del resto il programma precisava: “Ammiriamo gli operai che
(...) si stringono in lega per istruirsi, civilizzarsi, migliorare le
proprie condizioni e per far valere le proprie ragionevoli richieste”
nella convinzione che essi debbano rifiutare qualsiasi atto di
ribellione e di violenza, nè “giammai e per nessun motivo e in
nessuna circostanza” dimenticare “il principio d’autorità, il
sentimento religioso, la dignità morale”. Fatto nuovo in quel
contesto abbastanza tradizionalista, Cecconelli (Difesa, 9 agosto
1908) scriveva: “Organizziamo le donne lavoratrici”.
Fece subito presa il linguaggio facile e la concretezza dei
problemi affrontati, l’attualità e la cronaca diocesana.
Nel numero del 13 agosto 1911 si poteva leggere: “Il nostro non
è un giornale uso Gazzettino; è un giornale di battaglia (...) non
fatto per divertire ma per istruire, un giornale di azione, non di
chiacchere”.
La dimostrazione concreta del consenso dei lettori è data dal
fatto che dopo soli tre anni la tiratura dalle 1.500 copie iniziali sale
a 12.000.
Il settimanale si fece portavoce del movimento sociale cattolico
e delle sue iniziative.
L’8 marzo 1914 la redazione si trasferì in via Dietro Duomo
dove è tuttora.
58
Due anni dopo (15 dicembre 1909) esce il quotidiano “La
Libertà” che durerà fino all’ottobre 1921 quando viene sostituito da
“Il Popolo Veneto”. Aveva lo stesso titolo dell’omonimo giornale
radicale che aveva da pochi mesi cessato le pubblicazioni. Lo dirige
il Cecconelli, presto sostituito, per volontà del vescovo, da
Giuseppe Dalla Torre.
Mentre con la Difesa Pellizzo si proponeva di influire sulle
masse contadine per sottrarle all’influenza socialista, con “La
Libertà” pensava alla contestuale riconquista della città, ben
consapevole che a tal fine occorreva uno strumento diverso da un
settimanale.
Il Dalla Torre diede notevole impulso a “La Libertà” facendone
l’espressione di un cattolicesimo che intendeva superare le sterili
posizioni dell’intransigentismo aprendosi all’adesione dei cattolici
all’accettazione dell’unità nazionale in un clima di libertà che
offrisse alla Chiesa le necessarie garanzie di indipendenza e,
ponendo fine al laicismo anticlericale, consentisse alla religione di
esperire la sua azione rivolta ad influire sul vivere civile, sulle
istituzioni e sulle leggi.
Nel 1912 il Dalla Torre, nominato presidente dell’Unione
Popolare, ne trasferì la sede da Firenze a Padova. Nel 1915 sarà
trasferita a Roma.
I casoni e la pellagra
Di casoni, tipiche e misere costruzioni emblema della
condizione contadina, agli inizi del secolo (1903) ce n’erano nella
nostra provincia 12.898 abitati da 80.000 mila persone. Nel 1933 ce
n’erano ancora 2.644 e 361 nel 1954, tutti nel piovese. Sulla
“Difesa del Popolo” del 16 aprile 1911 ne viene descritto uno di
Sandon: un unico locale di 4 metri per 3 e mezzo che serviva da
59
cucina, camera da letto; granaio, legnaia, cantina e pollaio. Il
pavimento era di terra battuta e il tetto di paglia.
Cecconelli li definisce “delitti di umanità” e tane da “civiltà
abissina” e si batte con forza per la loro eliminazione, sia dalle
pagine del settimanale diocesano sia con precisi e documentati
interventi in Consiglio provinciale.
Per obbligare pubbliche autorità e amministrazioni comunali ad
intervenire, il Cecconelli organizzava gruppi che mandavano
ostentatamente a fuoco i casoni in particolare nella saccisia dove
erano più numerosi.
Fu questa una delle pagine più esaltanti della lotta per il
miglioramento delle condizioni in cui si viveva nella campagna
padovana.
A questo segno emblematico della condizione contadina, se ne
accompagna un altro altrettanto significativo, la pellagra, dovuta ad
alimentazione povera di vitamine, in particolare la polenta,
alimento base della gente veneta, da cui l’espressione “veneto
polenton”. Nel 1909, secondo dati ufficiali, la pellagra colpiva nella
nostra provincia 11.670 persone: erano 22.154, pari al 5,6 per cento
della popolazione nel 1881 quando Padova deteneva nel Veneto il
triste primato, seconda in Italia dopo Brescia.
I pellagrosi erano così ripartiti territorialmente:
- 1.268 nel camposampierese;
- 985 nel cittadellese;
- 1.548 nel conselvano;
- 762 nell’estense;
- 1.024 nel monselicense;
- 154 nel montagnanese;
- 1.769 nel piovese;
- 4.250 nel mandamento di Padova.
Oltre 40 erano i casi nella sola parrocchia di Pontelongo.
60
Per decenni sono rimaste tra le espressioni usuali dei nostri
vecchi: “gheto la pelagra?” e “pelagroso”.
Era il ricordo forte di un evento inevitabile come le avversità
atmosferiche: “La pellagra te la trovi addosso come la miseria,
quando mangi... solo polenta”.
Il solco profondo tra cattolici e socialisti
Più volte si è accennato alla totale reciproca incomprensione tra
movimento cattolico e movimento socialista: diversa era
l’ideologia, diversi i fini e i mezzi.
La Chiesa e il movimento cattolico rifiutano il concetto di lotta
di classe arrivando con fatica ad accettare l’idea di azione di classe,
fermi come sono in buona parte al corporativismo interclassiste. Lo
stanno a dimostrare le difficoltà incontrate da Miglioli e dal nostro
Cecconelli.
La “rivoluzione sociale” è del tutto estranea ed incomprensibile
alla cultura della parrocchia veneta; per di più i parroci, che sono di
estrazione contadina, non riescono a capire la civiltà industriale che
avanza con tutti i diversi fenomeni conseguenti. Gioca in questo
senso, oltre all’estrazione sociale, la mentalità e l’educazione
ricevuta. Il mondo dei campi è legato all’immutabile fluire delle
stagioni, ai misteri di una natura che l’operaio demitizza
trasformando la materia e capovolgendo l’esperienza psicologica
del contadino il cui ritmo di vita è scandito, oltre che dalle stagioni,
dalle feste religiose.
Sul versante sociale, i socialisti non si fanno affatto carico delle
esigenze dei coltivatori diretti, dei piccoli proprietari e affittuari e
degli artigiani. A dividere i “bianchi” dai “rossi” non c’è soltanto il
61
fatto religioso (la “miscredenza” socialista); c’è una concezione del
tutto opposta dei rapporti di classe.
Date le premesse, è inevitabile che il sindacalismo cattolico
delle “leghe bianche” si diffonda tra i contadini e, in particolare, tra
la grande massa dei coltivatori diretti, che non sono assimilabili nè
agli agrari nè ai braccianti (aspetto non colto dai socialisti) e tra le
lavoratrici del settore tessile.
Le leghe socialiste sono forti tra i lavoratori della Bassa, dove
più numerosi sono i braccianti e più misere le condizioni di vita. Si
espandono subito tra gli operai della nascente industria, che
dissocia il lavoro dalla religiosità e cambia mentalità e costumi.
L’attivismo sociale dei cattolici preoccupa non poco i socialisti.
L’”Eco dei Lavoratori” in data 8 gennaio 1907 parla di opera
nefasta e partigiana che, sotto il manto della carità, esercita il partito
nero, quello dei preti”.
Nè meno teneri sono nei confronti dei socialisti i vescovi veneti.
Nell’omelia di Natale del 1909 il vescovo di Treviso, Andrea
Giacinto Longhin, disse: “Le masse degli operai si sollevano
furibonde; il socialismo, diventato anarchia, invade le campagne
(...). L’uomo può unirsi, può federarsi in leghe o sindacati per
meglio provvedere ai propri interessi (...) in conformità alla dottrina
sociale della Chiesa”.
L’incomunicabilità ha un riscontro visivo: i “bianchi” si
ritrovano sul sagrato della Chiesa, i “rossi” all’osteria (nel territorio
padovano nel 1909 ce n’erano 2.955, una ogni 157 abitanti).
C’è contrapposizione anche nel celebrare la festa del lavoro. E’
ancora Cecconelli a dire: “Anche quest’anno i cattolici d’azione
festeggiano il primo maggio, non con chiasso e con vane parole, ma
col forte proposito di una vigorosa ripresa di propaganda e di lavoro
in pro del popolo sfruttato dai nemici del cristianesimo”(7).
62
Va pure rilevato che neppure gli agrari accettano l’azione dei
cattolici, che a volte preferiscono trattare con i socialisti. Lo rileva
il Cecconelli:
“L’indirizzo nuovo dato da noi all’azione cattolica
padovana non ha destato le simpatie di tutti, ha
urtato anzi la suscettibilità di molti (...). Oggi
vorremmo vincere le diffidenze e le paure di certi
padroni e grandi fittavoli, la mentalità dei quali
lascia molto a desiderare (...). Molti borghesi,
ammalati di anticlericalismo cronico, considerano le
organizzazioni socialiste come un minor male di
fronte a quelle democratico cristiane (...). Meglio il
Segretario della Camera del Lavoro Piuttosto che il
prete”(8).
Il quadro è completo se si aggiunge il rifiuto socialista del fatto
religioso. L’incomprensione è totale e si fa spesso astiosa e
polemica; al radicalismo laico e socialista si risponde con
l’integralismo clericale e l’antisocialismo viscerale: i cattolici
moderati a Padova, come si è detto, erano scarsamente influenti con
la conseguenza inevitabile che si è avuto il predominio
incontrastato degli intransigenti, i quali hanno bloccato ogni
apertura sia sociale, impedendo altresì la ricerca di conciliazione tra
fede cattolica e pensiero moderno.
Tutto sommato ciò andava bene anche a socialisti e laici
anticlericali ai quali sarebbe stato più difficile combattere un
cattolicesimo moderno e illuminato poiché, come è ben noto, spesso
è più facile la strada del ricorso alla categoria del nemico da
demonizzare e sconfiggere, pur essendosi incaricata di dimostrare
che il risultato, anche se c’è, è effimero. Sono molti e assai
significativi gli esempi che si possono fare.
63
La posizione socialista nei confronti della religione è espressa
con chiarezza da Andrea Costa:
“La questione religiosa è parte essenziale della
questione sociale. Pregiudizio e privilegio sono
strettamente legati l’uno all’altro. Miseria e
ignoranza: ecco ciò che sta al di sotto di ogni
pregiudizio religioso. Stando così male in questo
modo, è naturale che le plebi povere della città e
della campagna cerchino il loro rifugio in un mondo
migliore, sia pure oltre la vita. Rendete loro cara la
terra, mettendole in grado di vivere più
umanamente.
Più benessere, più libertà, più cultura!
Sbarazziamoci dei privilegi: ci sbarazzeremo dei
pregiudizi, faremo così guerra efficace al
clericalismo”.
In sostanza l’esponente socialista, molto noto a Padova, sostiene
che la religione è frutto dell’ignoranza e sostegno del privilegio.
Perciò l’azione sociale del vescovo Pellizzo viene attaccata a fondo
dal laicismo padovano. Se ne trova un esempio significativo ne
“L’Asino” di Podrecca che in data 8 agosto 1909 scriveva:
“Questo prete che ha un passato non onorevole è ora
il capo riconosciuto e temuto delle bande clericali
spadroneggianti la Vandea d’Italia. Nel suo pugno si
annodano le fila dell’organizzazione operaia
cattolica,
estesa largamente dal clero su tutte le campagne del
Veneto. Pellizzo è il suggeritore di questa triste e
turpe commedia delle Leghe di resistenza cristiana,
64
che servono a dominare la massa dei contadini, e
permettono di fare ricatti sulla paura zotica della
borghesia campagnola, trepidante perfino alle parole
organizzazione, lega, associazione. Insomma questo
vescovo demagogo ha saputo foggiare un’arma a
doppio taglio, con la quale affetta per se la torta
borghese da una parte, la polenta proletaria
dall’altra”.
La durezza dell’attacco costituisce però un involontario
riconoscimento dell’azione svolta dal vescovo.
Più morbido e tattico era stato Vittorio Gottardi che nella sua
relazione al Congresso socialista veneto (Legnago, 3 giugno 1894)
aveva esortato a “lasciar stare la religione” concludendo:
“In ogni modo, non bisognerà offender Dio. In
campagna, più che altrove, sarà bene lasciarlo,
insieme agli uccellini, fra le nuvole sue. E non
tirargli contro”(9).
Evidentemente Gottardi aveva, più di Andrea Costa e di
Podrecca, il senso della realtà.
A Padova non mancano manifestazioni di anticlericalismo rosso.
L’11 febbraio 1919 viene interrotta da una “gazzarra incomposta” la
processione serale con le candele in onore della Madonna di
Lourdes guidata dal vescovo Pellizzo(10).
Si chiude una fase
Con la Grande Guerra si chiuse la prima fase del movimento
cattolico, una fase esaltante anche se quasi sempre sommessa,
65
discreta ed umile, fatta di tanti piccoli tasselli messi insieme
dall’iniziativa tenace e paziente di tanti nostri parroci.
Movimento clerico-contadino? Sicuramente l’iniziativa è partita
dai parroci e il movimento cattolico, sviluppatosi nella nostra
diocesi e nel Veneto, rispecchiava mentalità, stati d’animo e bisogni
di un ceto contadino povero i cui problemi più pressanti erano il
pane quotidiano, lo sfratto, le ipoteche, le usure, le malattie, le
avversità atmosferiche.
Populismo cristiano? La risposta è negativa se al termine
“populismo” si dà il significato di un atteggiamento generico,
velleitario e demagogico, sostanzialmente reazionario. Come si è
cercato di dimostrare, il movimento cattolico nella nostra diocesi
non fu niente di tutto questo. Fu risposta concreta ed immediata a
bisogni concreti ed immediati; una risposta che, seguendo un chiaro
processo logico, crescendo prese coscienza di sé e da attività
assistenziale e solidaristica si fece attività rivendicativa e poi
cominciò a prendere forma politica su una strada tutta in salita
poichè a difficoltà oggettive si aggiunsero quelle derivanti dalle
posizioni vaticane prima nei confronti dello Stato italiano, poi nei
confronti del gruppo di Murri e, infine, nei confronti del
popolarismo sturziano lasciato al suo destino.
Note:
(1) A. Lazzarini, Vita sociale e religiosa nel padovano agli inizi del novecento,
Roma 1978, pp.196-204.
(2) G. Romanato, Luigi Pellizzo a Padova (1907-1923) in “Le scelte pastorali ...”,
op. cit., p.93.
(3) Si veda in appendice l’elenco completo.
(4) La Difesa del Popolo, 2 agosto 1908.
(5) G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia, Laterza 1970, p.321.
66
(6) G. De Rosa, op. cit., pp.316-325.
(7) La Difesa del Popolo, 2 maggio 1909.
(8) La Difesa del Popolo, 28 giugno 1908.
(9) AA.VV., Il sindacalismo agricolo Veneto e l’opera di G. Corazzin, Fondazione
Corazzin 1983, p.23.
(10) Bollettino diocesano, marzo 1919.
67
Capitolo IV
NELLA TEMPESTA DELLA “GRANDE
GUERRA”
Nel profilarsi di quella che fu chiamata la “Grande Guerra”, una
volta tanto cattolici, socialisti e moderati giolittiani si erano trovati
sulla stessa posizione: d’accordo contro l’intervento dell’Italia.
Sono invece entusiasticamente interventisti forti gruppi
universitari padovani le cui posizioni - fatto per niente nuovo della
storia della città - sono nettamente contrapposte a quelle della
maggioranza della popolazione il cui atteggiamento mentale e i cui
interessi non portavano certo verso la guerra.
I cattolici padovani nulla concedono al patriottismo nazionalista
e il “cattolico deputato” padovano, Sebastiano Schiavon, dirigente
della locale Unione cattolica del Lavoro, nella memorabile seduta
parlamentare del 20 maggio 1915 vota contro la concessione al
Governo dei pieni poteri per la guerra.
Scriveva la “Difesa” ancora il 18 ottobre 1914: “La guerra è una
tragedia. Oltre alle motivazioni morali ci sono per i cattolici altre
ragioni, non ultima quella dei legami con la cattolicissima Austria”.
Il vescovo Pellizzo rifiuta la tradizionale concezione della
“guerra giusta” sostenendo che in tale categoria “è totalmente
assente il senso cristiano”. Egli vede nell’immane conflitto “un
castigo della divina giustizia che, abbandonando le traviate passioni
degli uomini al loro corso totale, ne faceva sentire ad essi
amarissimi frutti”. E invita i fedeli a pratiche di pietà riparatrice.
Ma, dopo l’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915), fa
scrivere su “La Difesa” del 30 maggio: “Noi fummo sempre
contrari ad una guerra come guerra (...). Il sacrificio è grande, ma è
grande l’animo dei cattolici italiani, sereni alla luce della nostra
fede, forti nell’amore alla nostra Patria (...). Mai come ora fu
necessaria la concordia nazionale”.
E “La Libertà” scrive: “i cattolici non hanno che un dovere solo,
quello di sorreggere nella disciplinata, patriottica unità di intenti il
governo nell’opera ardua che si sta svolgendo e che dobbiamo
ritenere rispondente agli interessi della Patria”.
In realtà preti e laici il loro dovere lo fecero interamente
dimostrando con i fatti la loro assoluta fedeltà patriottica.
Però una quindicina di preti fu accusata di disfattismo, di
austriacantismo, di spionaggio, di incitamento alla diserzione.
Il caso più noto è quello di Don Antonio Dalla Valle, arciprete di
Este, che il 3 settembre 1917 venne denunciato perché aveva fatto
distribuire ai fedeli che uscivano dal Duomo la “nota” nella quale
Benedetto XV definiva la guerra “un’inutile strage”. Il 6 febbraio
successivo venne arrestato per disfattismo perché durante l’omelia
domenicale, parafrasando l’invocazione delle litanie dei santi: “A
peste, fame et bello, libera nos Domine” aveva detto: “La guerra ci
ha dato sempre peste, fame e immoralità”. Venne processato; lo
stesso vescovo andò a testimoniare e Don Antonio venne assolto.
Ben 186 sacerdoti diocesani e 210 chierici furono chiamati alle
armi; di essi una trentina furono decorati al valore militare; 11 non
tornarono. La diocesi di Padova fu la quinta d’Italia per il numero
di sacerdoti e chierici chiamati alle armi e la seconda, dopo Milano,
per il numero dei decorati.
Dato il clima anticlericale prevalente nei comandi militari, essi
furono spesso addetti a servizi umilianti. Lo rilevò lo stesso capo di
Stato Maggiore preso l’Intendenza generale dell’Esercito: “Un
numero ragguardevole di soldati sacerdoti è adibito a servizi, quali
pulizia e depurazione dei fossi, sistemazione di concimaie,
asportazione di immondizie con carriole (...), lavatura di pavimenti,
disinfezione di stalle...”.
70
Molti furono in prima linea e tra essi anche un futuro vescovo,
don Vittorio De Zanche, cappellano del VII° Lancieri Milano.
Il vescovo, ritenendo giustamente che la figura del prete non
andasse confusa con quella del soldato, dispose che in chiesa essi
non potessero confessare in divisa.
Nonostante il lealismo e il coraggio dimostrato al fronte (non ci
fu solo l’esempio fulgido di Guido Negri, il “capitano santo”) i
cattolici continuarono ad essere accusati di scarsa fedeltà verso la
Patria tanto che intervenne lo stesso vescovo il quale nel giugno
1917 scrive che solo un “settarismo delinquente a fini
inconfessabili” poteva spiegare “la malignità a ridire su tutto nel
clero” e si chiede cosa sarebbe avvenuto, specialmente nelle
campagne, se il clero non avesse interamente compiuto il suo
dovere.
Il 4 luglio, anticipando la nota espressione di Papa Benedetto
XV, definisce il conflitto “orribile e inutile strage”, ma nel
contempo continua a mettere in evidenza il comportamento della
Chiesa diocesana. Con un legittimo senso di orgoglio, dopo
Caporetto, scrive al Papa che tutti erano scappati come lepri e che
solo i preti erano rimasti con la loro gente.
Dopo la rotta del fronte (ottobre-novembre 1917) Padova
divenne “capitale del fronte” poichè vi ebbe sede il Comando
Supremo. Parte della diocesi si venne a trovare sulla linea del
fuoco; la popolazione di 35 parrocchie dell’altopiano di Asiago e
della Valbrenta venne sgomberata e nell’ultimo anno di guerra altre
22 si vennero a trovare al di là delle linee austriache.
Il vescovo si prodiga instancabilmente in favore dei militari
feriti che affluiscono a Padova, visita sistematicamente i profughi e
non manca di recarsi nei campi di internamento dei prigionieri
austriaci. Altrettanto fa il vescovo Rodolfi di Vicenza e Longhin di
Treviso. Come altre volte era avvenuto nei momenti più gravi della
nostra storia nazionale la Chiesa, dimostrando una eccezionale
71
capacità di tenuta, è con la popolazione di cui cerca di alleviare le
sofferenze.
Prezioso si rivelò il servizio prestato dalle suore nei tre ospedali
militari di Padova, nelle loro dodici sezioni staccate e nei tredici
ospedali militari esistenti nel territorio diocesano. Verso la fine del
1917 il Seminario diventò ospedale militare della Croce Rossa.
Padova, data la vicinanza al fronte e la ancora limitata
autonomia degli aerei, subì i primi bombardamenti aerei della
storia. Il 2 novembre 1916 era stata bombardata la Rotonda, come
ricorda la lapide in Piazza Mazzini. Ma una vera ondata di
incursioni sulla città si ebbe tra il 28 dicembre 1917 e il 5 gennaio
1918: vi furono sei incursioni durante le quali vennero sganciate
sull’abitato 579 bombe. La sera del 29 dicembre fu colpita la
basilica del Carmine (la cupola bruciò come una torcia) e
interamente distrutto il teatro Verdi.
L’incursione più grave fu quella del 30 dicembre. Fu abbattuto il
frontone del Duomo; colpita la basilica del Santo e il Museo.
Rimase miracolosamente illesa la Cappella degli Scrovegni (cinque
bombe caddero vicinissime) e pure il Seminario nei cui pressi
caddero due bombe incendiarie che fortunatamente non esplosero.
Complessivamente Padova subì 19 incursioni aeree, vi caddero 912
bombe che causarono 129 morti; 105 edifici rimasero distrutti.
Il settimanale diocesano “La Difesa del Popolo” sospese le
pubblicazioni dopo il 14 novembre 1917 per riprenderle, a guerra
finita, il 10 novembre 1918.
Adempiendo ad un voto formulato nel periodo più tragico della
guerra dell’associazione universale Sant’Antonio, il 9 maggio 1919,
il vescovo poneva la prima pietra del Tempio votivo della Pace.
Con la “Grande Guerra” finisce in buona parte l’Ottocento
contadino veneto che scompare del tutto con il secondo conflitto
mondiale, dopo la non trascurabile appendice del “ruralismo
fascista”.
72
Capitolo V
DAL PARTITO POPOLARE ALLA
DITTATURA FASCISTA
Gli avvenimenti che segnano il periodo intercorrente tra la fine
della prima guerra mondiale e la seconda sono sufficientemente
noti. E’ però una storia molto controversa sulla quale da parte
cattolica poco si è fatto per ricondurre i fatti alla loro realtà.
Continuano così ad avere larga accoglienza tesi che presentano una
visione distorta, se non tendenziosa, concernenti, in particolare,
l’atteggiamento della Chiesa e dei cattolici nei confronti del
fascismo.
Nasce il Partito Popolare
Nell’immediato dopoguerra il movimento cattolico assume una
nuova fisionomia. Finiscono le Unioni, che ne avevano
caratterizzato la prima fase, e nascono quattro nuove
organizzazioni: una politica, il Partito Popolare in luogo
dell’Unione elettorale; una sindacale, la Confederazione Italiana dei
Lavoratori (C.I.L.) in luogo delle Unioni professionali; due
economiche, la Confederazione Cooperativa Italiana (associa 2116
casse rurali, 800 unioni agricole, 525 cooperative di ex combattenti)
e la Federazione Mutualità e Assicurazioni sociali in luogo
dell’Unione economico-sociale.
Il Partito Popolare, fondato il 18 gennaio 1919 con l’appello “A
tutti gli uomini liberi e forti”, altro non fece che raccogliere
nell’arco della sua breve e tormentata vicenda i frutti del lavoro
metodico, intenso e diffuso svolto in precedenza dai cattolici in
campo sociale.
A Padova ci si muove subito. Ai primi di febbraio del 1919 si
insedia una commissione provvisoria con il compito di preparare la
costituzione formale del Partito Popolare. Ne fanno parte l’avv.
Andrea De Besi, il conte avv. Baldino Compostella, l’avv. Cesare
Crescente, l’avv. prof. Italo Rosa, l’avv. Gavino Sabadin, l’on.
Sebastiano Schiavon, l’avv. Pietro Tono.
Alla fine dello stesso mese, nella sede del Circolo Cattolico in
via Altinate 20, avviene la costituzione ufficiale.
Il programma viene presentato dall’avv. Italo Rosa. La
presidenza della Sezione padovana risultò così composta:
Conte Antonio Cittadella Vigodarzere;
on. prof. Sebastiano Schiavon;
prof. avv. Italo Rosa;
avv. cav. Cesare Crescente;
avv. nob. Andrea De Besi;
cav. ing. Agostino Zanovello;
cav. Antonio Casale;
dott. Roberto Roberti;
Luigi Dorio, ferroviere;
Giuseppe Cecchinato, agricoltore.
A chi osservava che in campo politico esisteva già l’Unione
Popolare, la “Difesa” (23 febbraio 1919) spiegò: “... niente
soppressioni e niente confusione. L’Unione Popolare seguirà la
propria strada sotto la guida dell’autorità ecclesiastica (...). Il PPI si
manterrà indipendente nella sua sfera d’azione e mirerà
all’applicazione dei principi del cristianesimo alla vita politicolegislativa”.
74
Inizialmente non si guardò al Partito socialista come ad un
nemico, anzi nella “Difesa” del 2 febbraio 1919 si leggeva: “... il
nostro e il loro partito (quello dei socialisti) sono le forze reali del
paese destinate al grande scontro (...). I tempi muteranno anche in
Italia (...). I problemi che il dopoguerra ha posti, specialmente nel
campo sociale di fronte alle masse lavoratrici, non potranno essere
risolti se non da questi due partiti, il cattolico e il socialista”.
Quello popolare si caratterizza subito come forza politica di
massa che si proclama non confessionale, ma è diretta da un prete,
don Luigi Sturzo, oltre che da laici cristianamente motivati, tra i
quali Umberto Merlin, rodigino di nascita ma padovano di
adozione. Si può ricordare che anche a Padova uno degli animatori
più intelligenti, coerenti e costanti fu don Giacomo Gianesini.
E’ qui opportuno cogliere alcune connotazioni del Partito
Popolare che ne segnano l’intrinseca debolezza politica.
In primo luogo l’insanabile rapporto conflittuale con i socialisti
che preclude qualsiasi accordo e facilita la scalata al potere della
reazione fascista.
In secondo luogo pesano le divisioni interne allo stesso mondo
cattolico ideologicamente diviso tra cattolicesimo democratico
antifascista e clerico-moderatismo timoroso se non ostile ad ogni
mutamento dell’assetto sociale e degli esistenti equilibri politici.
C’è anche chi (come padre Gemelli, il fondatore dell’Università
Cattolica, e don Olgiati) contro l’ipotesi sturziana di riforme
correttive e migliorative dello Stato liberale, elabora un diverso
progetto storico avanzando l’ipotesi di “stato cristiano” e sogna di
servirsi del fascismo a tale scopo.
Se le masse contadine sono apertamente con Sturzo, l’altra parte
del mondo cattolico tende a collocarsi su una posizione intermedia
abbastanza ambigua e attendista. Ma non è una novità.
In sostanza l’esperienza sturziana pone rilevanti questioni che il
cattolicesimo italiano non è mai del tutto riuscito a risolvere e in
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primo luogo la possibilità di assumere posizioni politiche autonome
rispetto agli orientamenti espressi dalla gerarchia, l’accettazione
piena della democrazia politica ed economica, un giudizio chiaro
sull’uso della violenza e comportamenti coerenti.
Inoltre, ed è un aspetto sul quale non si è compiutamente
riflettuto, mentre il popolarismo sturziano si definisce non
confessionale ma laico, in realtà l’azione del clero locale in favore
del Partito Popolare, concepito come partito cattolico di massa, è
esplicita e senza riserve, come sarà per la D.C. negli anni
dell’immediato dopoguerra. Ma così questa esperienza, dai forti
contenuti programmatici, resta segnata dal rapporto con la gerarchia
e le articolazioni dell’associazionismo cattolico considerato come
l’estendersi della parrocchia in campo politico. A tale lettura porta
anche il fatto incontestabile che diversi sacerdoti vi erano
direttamente impegnati: tra il 1919 e il 1922 sessantamila tra preti e
frati sono stati membri del Partito Popolare. Ma il Vaticano mal
sopportava la proclamata aconfessionalità del Partito Popolare, la
sua struttura democratica e l’indirizzo riformatore.
I Circoli di Azione Cattolica ufficialmente ribadiscono la loro
apoliticità e l’opzione educativo-religiosa; in realtà c’è un
coinvolgimento reale che in occasione delle elezioni amministrative
del 1920 e delle politiche del 1921 diventa appoggio
incondizionato.
Il settimanale diocesano nel periodo tra il 1919 e il 1922 è in
sostanza il bollettino del Partito Popolare padovano. Così
l’esperienza politica, caratterizzata da questo stretto rapporto,
mostra la sua intrinseca debolezza perché non può contare su una
sua autonoma struttura organizzativa: la forza aggregante è la
parrocchia ed è questa il limite di fondo.
E’ così inevitabile che l’appoggio al P.P. attiri sui parroci prima
l’opposizione liberale, numericamente minoritaria, però potente non
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solo sul piano economico ma anche su quello culturale e politico, e
poi quella fascista.
Infine l’esperienza del popolarismo è debole perché ha una
doppia anima: ha una dirigenza prevalentemente costituita dai ceti
medi delle professioni e della finanza (basta rivedere la
composizione della prima presidenza della Sezione padovana) ed
una base popolare prevalentemente contadina. Le tiene insieme il
comune riferimento alla religione e alle parrocchie. Non è quindi
un’esperienza laica, aconfessionale, perchè la sua identità è senza
ombra di dubbio socio-religiosa.
Fedele alla tradizione del movimento cattolico, traduce le istanze
sociali in proposte politiche con particolare riguardo per il mondo
contadino, proponendosi il rafforzamento della piccola proprietà,
chiedendo la riforma agraria e nuovi patti agrari.
L’immediato successo e l’azione sociale
Il successo è immediato. Nelle elezioni generali del 16
novembre 1919 i popolari ebbero nel Veneto la maggiore
percentuale di voti con il 35,8 per cento e 17 eletti. In certe zone del
padovano si superò il 50 per cento. Il quadro per la nostra provincia
è descritto nella tabella della pagina seguente.
Il successo dei popolari destò uno stupore che però era del tutto
immotivato. Quel consenso elettorale non nasceva all’improvviso;
era il frutto di un’azione sociale seria e capillare che aveva
progressivamente coinvolto le masse contadine passando
dall’assistenza alle opere sociali; dalle opere sociali alle leghe, dalle
leghe all’espressione partitica. Era però un consenso “bloccato” che
non riuscì ad espandersi come confermano le elezioni politiche del
1921.
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Poco prima del Partito Popolare era stata costituita la
“Confederazione italiana dei lavoratori” cui aderirono subito tutte le
“leghe bianche” esistenti nel territorio padovano. Nel programma
della Confederazione, cui collaborò il trevigiano Corazzin, si
leggeva che obiettivo era la “progressiva attuazione del triplice
principio
TAB.4 - ELEZIONI
1919
POLITICHE
16
NOVEMBRE
voti
percentuali
Partito Popolare
Partito Socialista
Blocco liberale
35.001
29.012
16.418
---------------TOTALE
80.431
(°) Eletti: Ettore Annigoni degli Oddi,
Sebastiano Schiavon
Edoardo Piva
(°°) Eletti: Gino Panebianco
Gian Tristano Carazzolo
Felice Pavan
(°°°) Eletto: Giulio Alessio
43,5 (°)
34,1 (°°)
20,4 (°°°)
voti
voti
10.284
9.497
9.442
6.458
5.971
3.641
5.880
della organizzazione, rappresentanza e collaborazione di classe
sulla base della giustizia e della solidarietà sociale”.
Sul piano pratico prevedeva “incoraggiamento e organizzazione,
per opera convergente della legge e dell’attività privata, di tutte le
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forme di proprietà e di lavoro, in cui questi due elementi, secondo
giustizia, si fondono e si associano e si integrano: piccola proprietà
lavoratrice, libero artigianato, colonia e partecipazione, piccolo
affitto e affittanze collettive, sviluppo della libera cooperazione;
compartecipazione effettiva agli utili, alla gestione e alla proprietà
delle aziende”; lo sciopero deve essere solo economico.
Come si vede, la Confederazione faceva proprie le istanze del
movimento cattolico, specialmente della gente dei campi, in una
visione di collaborazione tra le classi e di “sproletarizzazione” dei
salariati.
Le “leghe bianche” della C.I.L., che tra i lavoratori della terra
raccoglievano i maggiori consensi, contarono su una forte adesione
che portò ad alcune conquiste peraltro effimere.
C’era alla base una aperta scelta di classe che, però, rifiutava il
principio della lotta di classe in nome di una visione interclassista
che era contemporaneamente antisocialista e anticapitalista, cioè
perfettamente in linea con l’insegnamento sociale della Chiesa e
con la precedente tradizione del movimento cattolico.
Si legge in un documento, che ebbe larga diffusione anche nel
padovano (autunno 1918): “La classe lavoratrice non ha alcun
interesse a favorire e, tanto meno, forzare l’evoluzione sociale nel
senso della soluzione collettivistica e della concentrazione
capitalistica (...). L’una e l’altra sono ugualmente antidemocratiche
antisociali, avendo entrambe per presupposto e per conseguenza
l’universale proletarizzazione della classe lavoratrice e la
generalizzazione del salariato...”(1).
Da parte sua il settimanale diocesano ripeteva: “I socialisti
vogliono tutto dare in mano allo Stato, noi vogliamo invece che la
terra sia frazionata fra i contadini...” (30 novembre 1919);
l’obiettivo era cioè la sproletarizzazione dei braccianti.
Avendo il suo punto di forza nelle campagne, il Partito Popolare
insistette particolarmente sulla riforma agraria nell’intento di
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favorire l’accesso alla proprietà della terra frazionando le grandi
proprietà, mentre i socialisti ne proponevano la collettivizzazione
che spaventava fittavoli e piccoli proprietari.
La differenza delle due proposte è sostanziale e divide il mondo
contadino: da una parte i braccianti egemonizzati dalle leghe
socialiste; dall’altra i fittavoli ed i piccoli proprietari che fanno
riferimento all’Unione del lavoro cattolica; da una parte l’intento di
realizzare le teorie marxiste, dall’altra l’utopica ricerca del
superamento contemporaneo del capitalismo e del marxismo. La
divisione si ripeterà nel secondo dopoguerra, sulle stesse
motivazioni.
Particolarmente intensa fu l’azione per la riforma dei patti
agrari. A Padova nel luglio del 1920 tra la Federazione cattolica dei
lavoratori della terra e l’Associazione Agraria, alla presenza del
Prefetto, veniva sottoscritto un importante concordato con il quale
gli agrari si obbligavano a cedere in fitto una parte dei loro terreni
alla mano d’opera iscritta alle leghe bianche che, da parte loro, si
impegnavano a far lavorare in compartecipazione la parte rimanente
dei fondi dei conduttori cedenti.
Fu subito chiaro che il patto di frazionamento era mal digerito
dagli agrari, molti dei quali ritennero che il “sovversivismo” bianco
fosse sì meno violento di quello rosso, ma più pericoloso perchè
duraturo nei suoi effetti in quanto metteva in pericolo nelle
campagne, oltre ai rapporti economici, la tradizionale subalternità
dei contadini nei confronti dei proprietari terrieri.
Anche ammesso che il frazionamento dei fondi portasse a
mantenere un assetto arretrato dell’agricoltura (economia di
sussistenza e non di mercato) era però certo che la diffusione della
piccola proprietà diretto-coltivatrice si sarebbe tradotta in una
“drastica riduzione della rendita fondiaria in mano alla borghesia
cittadina, e quindi in un profondo mutamento dell’assetto
economico e sociale”. Tanto meno digerirono il progetto di riforma
80
agraria che i popolari riuscirono a far approvare dalla Camera ma
che venne ritirato dopo la “Marcia su Roma”. Corse nei confronti
dei popolari l’accusa di “bolscevismo bianco”.
Così gli agrari si servirono delle squadracce fasciste. L’azione
fascista si connotò così chiaramente come classista (lo dimostrerà
poi nel ventennio con la sua politica di “contadinizzazione” che
puntava ad una società rurale ordinata e stabile) e fu seminata da
una lunga serie di violenze che colpirono ugualmente leghe rosse e
leghe bianche.
Prevale la violenza fascista
C’è, a questo proposito, una grossa lacuna nella storiografia
corrente che mette in evidenza la repressione feroce dispiegata nei
confronti dei socialisti e dei neonati comunisti, ma minimizza le
violenze subite dai popolari e tace sulle violenze che i “rossi”
usarono sui “bianchi” che mai risposero alla violenza con la
violenza.
Sono ampiamente documentate le brutali violenze dello
squadrismo fascista contro le istituzioni bracciantili e contadine
“rosse” a Correzzola, Bovolenta, Monselice, Piove, Montagnana...
Una ad una le leghe socialiste vennero neutralizzate. Il 1° maggio
1922, festa del lavoro, fu una giornata di sangue a Megliadino San
Vitale: gli squadristi assalirono l’abitazione dei fratelli Zaglia che,
per difendersi, spararono; tre fascisti caddero e 21 persone furono
arrestate.
Ma scorrendo le pagine della “Difesa” si trovano notizie di
bastonature e di violenze sui “bianchi” ad opera dei “rossi”. Il 20
giugno 1920 a Fontanafredda di Cinto Euganeo alcuni leghisti
bianchi furono bastonati dai rossi. A Baone viene bastonato
Guerrino Dan. Il 26 settembre 1920 ad Arzergrande un leghista
81
“rosso” spara a Luigi Sanavio, neo consigliere popolare, che poi
muore, e ad Anselmo Favaron. Il 2 ottobre 1920 a Tresto (Este)
viene ucciso, in un’osteria, da socialisti Angelo Rosa da Carceri,
iscritto al Circolo giovanile e ferito gravemente Carlo Rosina pure
da Carceri.
Oltre che delle violenze, i parroci si preoccupano della
penetrazione del socialismo anche tra le masse cattoliche. Ad
esempio il parroco di Carbonara (Rovolon) nel maggio del 1920
lamenta che perfino le figlie di Maria “si sono lasciate trascinare
dall’idolo bolscevico, si sono iscritte alla lega rossa, hanno preso
parte a cortei anche fuori parrocchia al grido di “Rivoluzione!” con
canti sovversivi, accompagnate da giovinastri e dalla bandiera
socialista, dando un miserevole esempio di follia, di degenerazione
e di ignoranza”(2).
Così quando il 6 aprile 1921, una colonna di fascisti
militarmente inquadrata, distrugge la sede della Camera del Lavoro
in via del Carmine, la “Difesa” ha un atteggiamento ambiguo.
Per quanto riguarda i cattolici, già nel luglio 1921 l’Unione del
Lavoro produceva un lungo elenco di attentati e di violenze. La
“Difesa del Popolo” in data 10 luglio scriveva: “Ci riesce
inesplicabile il mancato intervento dell’autorità politica e di
pubblica sicurezza”.
Era evidente la collusione poichè non si trattava di fatti isolati
ma di azioni organizzate con violenze delittuose che l’autorità
fingeva di non vedere. Sono centinaia i bastonati e molti i locali di
leghe devastati senza che i “bianchi” possano essere accusati di
alcunchè.
I Popolari però, nonostante tutto questo, in questa fase non
mostrano cedimenti. Attenuano però le loro istanze
programmatiche, escludono dalle liste per le elezioni politiche del
maggio 1921 Sebastiano Schiavon (che esce dal Partito) perchè
82
ritenuto di idee troppo avanzate e candidano Leopoldo Ferri che si
rifaceva a posizioni liberal-conservatrici.
Le elezioni del 1921 danno a Padova il seguente risultato:
TAB.5 - ELEZIONI POLITICHE DEL MAGGIO 1921
Voti
Percentuali
Partito Popolare
42.786
Partito Socialista
37.596
Partito Liberale
23.122
Partito Repubblicano
586
------------------------TOTALE
104.090
41,1
36,1
22,2
0,6
Sul fascismo montante l’Azione Cattolica aveva assunto una
posizione chiara fin dall’inizio. Già in data 21 novembre 1920 “Noi
giovani” aveva dato un giudizio pesantemente negativo dei fascisti
di cui si diceva che erano bestie umane che trionfavano e si definiva
il fascismo “controrivoluzione agraria nazional-fascista che cerca di
soffocare ogni tentativo del povero ad una rivendicazione”. Lo
stesso giornale il 27 marzo 1921 denuncia le sopraffazioni fasciste e
le condanna “con tutta l’anima nostra”.
Nell’estate (15 agosto 1921) si protesta contro “l’indegna
persecuzione” e pochi mesi dopo (13 marzo 1922), in riferimento
alla domanda di “stato forte” scrive: “non fascismo ma autorità”. Si
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pensò anche all’istituzione di “avanguardie cattoliche” per
l’autodifesa, ma la proposta venne respinta. Riproposta dopo le
intimidazioni del 28 maggio venne nuovamente respinta.
Intanto gli agrari accentuano la reazione e la “Difesa” (19
febbraio 1922) denuncia che nella Bassa non c’è più orario di
lavoro e che gli agrari, per impedire ai braccianti di scioperare in
concomitanza con i lavori primaverili, trattengono un terzo del
salario. Nello stesso numero il settimanale diocesano denuncia con
forza “Centinaia e centinaia di lavoratori furono bastonati a sangue!
I feriti da arma da fuoco furono oltre trenta. Gli incendi di case e di
masserie di lavoratori furono innumerevoli (...). Locali di leghe e di
organizzazioni furono invasi, bruciati e venne imposta la loro
chiusura (...). Una vita d’inferno che chi non la trascorse non può
neppure lontanamente immaginare quanto dolorosa per violenze
inaudite perpetrate di giorno e di notte sotto gli occhi delle autorità
locali quasi sempre insufficienti e qualche volta partigiane della
parte agraria e fascista...”.
Nell’estate del 1922 intimidazioni e violenze si accentuano
ulteriormente. il 22 giugno a Conselve una quindicina di fascisti
bastona l’organizzatore dell’Unione del Lavoro, Andreose, il
capolega Silvio Sette e il contadino Antonio Bertin. Il 23 giugno a
Ponso una quarantina di fascisti incendia la casa di Antonio
Magarotto, che era già stato duramente percosso nella notte del 2
giugno. Nella stessa nottata penetrano nell’abitazione di Antonio De
Stefani, gettano in cortile il letto matrimoniale e lo bruciano, poi
appiccano il fuoco pure alla barchessa e alla stalla.
A Carceri, nella notte del 26 giugno una cinquantina di fascisti
brucia la stalla di Marcello Allegri, bastona il contadino Guerrino
Zeminian e il fratello Augusto, poi Luigi Buttarello, il fratello
Giuseppe e il figlio Ferruccio e dà fuoco al barco con gli attrezzi.
Nella stessa notte in città era stata gravemente danneggiata la
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tipografia del “Popolo Veneto”, il quotidiano dei popolari, e
bastonati in via San Pietro l’avvocato Orlandini e Anacleto Gamba.
Non furono risparmiati nemmeno i preti. A diversi fu fatto bere
l’usuale bicchierone di olio di ricino: tra gli altri toccò al parroco di
Codevigo don Luigi Corradin. A Bovolenta i fascisti prelevano
l’arciprete don Giuseppe Sgarbossa che, prima di salire sul camion,
indossa cotta e stola: ma il camion fascista non parte.
Ancora una volta il settimanale diocesano interviene (10
settembre 1922) riprendendo un articolo dell’on. Meda “Il fascismo
e i cattolici” ne assume le conclusioni riassumibili
nell’affermazione che i cattolici “non possono essere fascisti perchè
non è accettabile il metodo della violenza e il fine non giustifica i
mezzi”.
Invece l’Azione Cattolica (i Circoli giovanili erano una forza
consistente e in crescita: da 222 nel 1921 a 262 nel 1922) adotta la
linea del silenzio ripiegando esclusivamente su questioni religiose
senza più alcuna apertura socio-politica. La ribadita apoliticità evita
spaccature interne tra filofascisti e antifascisti, tra moderati e
intransigenti, ma non ferma i fascisti che paralizzano l’attività a
Saletto di Montagnana, Sant’Elena, Rosara, Barbona, Megliadino
San Vitale.
Il 27 agosto 1922 (siamo a due mesi dalla “marcia su Roma”), il
direttore della “Difesa, don Riccardo Ruffatti, in un articolo titolato
“Per il popolo sempre”, scriveva, quasi presagio degli eventi:
“Corrono tempi brutti, difficili per la democrazia, per il movimento
d’ascesa delle classi lavoratrici (...). Il movimento di violenza che
sta desolando l’Italia (...) è pieno di uno spirito antipopolare (...); si
vorrebbe ricacciare indietro il popolo (...). Attenti alle conseguenze.
Una reazione chiama l’altra (...). Chi sa quale sarà il domani d’Italia
(...), la violenza distrugge. Proseguiamo il nostro lavoro. E’ il nostro
dovere”. Ciò mentre Pio XI proprio il giorno della “Marcia su
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Roma” in una lettera ai vescovi richiamava “i principi cristiani
dell’ordine”.
Subito dopo l’ascesa al potere del fascismo (5 novembre 1922)
sul settimanale si poteva leggere che non ci si illudeva “su ciò che
potrà fare in avvenire lo stato fascista che non ha certo direttive
cristiane nel proprio programma”.
Con amarezza, pochi mesi dopo, (15 aprile 1923) lo stesso
settimanale rilevava: “Le nostre cooperative se ne vanno ad una, ad
una, esse lasciano il campo...”.
Mentre la piccola borghesia e il ceto medio abbandonano il
Partito Popolare, non lo abbandona quel mondo contadino che, con
i suoi preti in testa, rifiutava la violenza fascista, dissentiva
profondamente in materia politico-sociale e sentiva il fascismo
come estraneo perchè prescindeva dalla religione e dalle parrocchie.
Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 (si votò con la nuova
legge maggioritaria, nota come “legge Acerbo”), dopo una
campagna elettorale caratterizzata da violenze e da brogli,
confermano inequivocabilmente che sul listone del blocco
nazionale c’è la convergenza di tutta la destra e di buona parte del
ceto medio.
Le masse popolari operaie in buona parte rinnovano il loro voto
a sinistra (socialisti massimalisti, socialisti unitari, comunisti,
repubblicani) e quelle contadine al Partito Popolare.
Questo il risultato nella nostra provincia:
TAB.6 - ELEZIONI POLITICHE 6 APRILE 1924
Lista nazionale
86
Voti
Percentuali
57.814
52,7
Partito Popolare
Socialisti massimalisti
Socialisti unitari
Comunisti
Repubblicani
Democrazia sociale (°)
Altoatesini
TOTALE
24.078
12.462
5.955
6.043
1.547
1.446
298
---------------109.643
21,9
11,5
5,4
5,5
1,4
1,3
0,3
---------------100.0
(°) Prevalentemente ex radicali
Tra gli otto popolari eletti nella circoscrizione veneta figurano
De Gasperi, Merlin, Uberti.
L’esito del voto è una riprova del dissenso popolare e dimostra
che, almeno fino ad allora, non ci fu da parte delle masse popolari
cattoliche quella convergenza sul fascismo che molti danno come
dato certo. Sono gli stessi fascisti a dire che a Piombino l’arciprete,
mons. Dal Colle, era in grado di determinare la sconfitta del
“listone” alle elezioni del 1924.
Gli ultimi conati di resistenza da parte dei popolari si esaurirono
dopo l’assassinio di Matteotti e l’adesione alla secessione
parlamentare dell’Aventino, cui parteciparono unitamente agli altri
parlamentari antifascisti. Ma ancora nel 1926 il segretario del
Fascio di Casale Scodosia accusava l’arciprete, don Pietro
Trombetta, di svolgere attività in favore del Partito popolare.
Circa l’atteggiamento del clero padovano in generale, Prefettura
e Questura ritenevano che i sacerdoti simpatizzanti per il fascismo
fossero in tutto una cinquantina, cioè una ristretta minoranza. La
maggioranza del clero locale, prima schierata con il Partito
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Popolare, dopo il suo scioglimento e in obbedienza alle direttive del
Vescovo, mostrò in pubblico un atteggiamento ossequioso.
Chiesa padovana e fascismo
Il Partito si dissolse e, in tutta la diocesi, non rimase nè una lega,
nè una cassa rurale, nè una cooperativa cattolica. Rimase solo
l’Azione Cattolica che, in base alle direttive vaticane, accettò
tacitamente il nuovo stato di cose, potenziando però la propria
organizzazione. A Padova gli iscritti balzarono dai 15.392 del 1925
ai 61.174 del 1931.
E’ dimostrato che gli ex popolari godettero di piena cittadinanza
nell’Azione Cattolica padovana e mantennero posizioni di rilievo
nel cattolicesimo locale, tenendo vivi quei germi di democrazia che
facilitarono la formazione e la maturazione dei giovani della
generazione successiva, quella che partecipò attivamente alla
Resistenza e che costituì l’ossatura della classe dirigente della
Repubblica.
Lo intuirono subito Prefetto e Questore i quali continuarono a
ritenere che l’Azione Cattolica fosse divenuta, con la copertura dei
preti, un covo di ex popolari. Tra i segnalati si possono citare
l’avvocato Italo Rosa, ex deputato ed ex segretario del Partito
Popolare (poi nuovamente segnalato perchè mai aveva dimostrato
alcuna simpatia per il regime); il prof. Giovanni Soranzo
dell’Università Cattolica e presidente diocesano degli uomini di
Azione Cattolica; il prof. Agostino Faggiotto, ex consigliere
comunale per il P.P.; gli estensi ing. Antonio Guariento e l’avvocato
Rinaldo Pietrogrande, di cui prima fu distrutto lo studio a Lendinara
e poi fu egli stesso aggredito e bastonato in strada ad Este. I fascisti
estensi lamentavano che il fascismo si era fermato alle porte della
città entro le quali tutto era rimasto nelle mani dei cattolici.
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Nè mai venne meno la sorveglianza sui preti che erano stati
l’anima del Partito Popolare. Il direttore de “La Difesa del Popolo”,
don Riccardo Ruffatti, continuò ad essere ritenuto “elemento
alquanto sospetto” nonostante si mostrasse “riservato e ligio al
regime”. Anche se “apparentemente” si occupasse solo di religione,
fu sempre ritenuto “elemento avverso al regime” don Giacomo
Gianesini, già segretario del Partito Popolare. Si noti che, sia il
vescovo Dalla Costa che Agostini, lasciando entrambi al loro posto
smentirono nei fatti il loro presunto filo-fascismo.
Altrettanto sospetto fu sempre considerato don Cesare
Michelotto, antifascista dichiarato, anche se si professava fedele al
governo.
Tornando all’Azione Cattolica si può affermare che essa si pose
sulla linea della difesa degli interessi cattolici secondo la linea
adottata dalla Chiesa ufficiale che non cessò di rivendicare con
forza la propria autonomia e il proprio ruolo etico-educativo. Per
questo abbandonò al suo destino il Partito Popolare e obbligò don
Sturzo all’esilio.
A Padova il Vescovo Elia Dalla Costa, succeduto al Pellizzo (7
ottobre 1923), compì una scelta obbligata, l’unica possibile, di
fronte alla dittatura, abbandonando la linea dell’impegno sociopolitico e puntando tutto sull’azione religiosa e pastorale. Pertanto
intensificò l’evangelizzazione, la catechesi e l’azione educativa.
Nella lettera pastorale per la Quaresima del 1925 chiariva che
l’A.C. non era azione politica e neppure economica, cancellando
così anche formalmente (il fascismo l’aveva già fatto nella
sostanza) tutte le opere sociali realizzate dal movimento cattolico:
“L’Azione cattolica non può dividere gli animi e i cuori come la
politica e l’economia”.
Si configurava una linea di cautela e di prudenza; non si voleva
lo scontro e si cercava di non lasciare adito alle accuse dei fascisti
secondo i quali l’Azione Cattolica continuava ad aiutare quel che
89
rimaneva del Partito Popolare. Ma l’Azione Cattolica dovette
rinunciare anche ad organizzare nuove associazioni professionali:
quelle già esistenti dovevano avere finalità esclusivamente spirituali
e religiose e contribuire “a che il sindacato giuridicamente
riconosciuto (quello fascista) rispondesse sempre meglio a principi
di collaborazione fra le classi...”.
Nell’accordo fra la Santa Sede e il Governo italiano del 2
settembre 1931 si confermò: “L’Azione Cattolica non ha nel suo
programma la costituzione di associazioni professionali e sindacali,
non si propone quindi compiti di ordine sindacale. Le sue sezioni
interne professionali, attualmente esistenti, sono formate a fini
esclusivamente spirituali e religiosi”(3).
D’altra parte la scelta religiosa poneva l’associazione sotto la
diretta protezione del vescovo e chiunque l’avesse colpita avrebbe
colpito lui. Così quando nella notte tra il 22 e il 23 maggio 1925 i
fascisti incendiarono la sede della Giunta diocesana (nell’attuale
cinema Concordi) dopo aver gettato dalle finestre tavoli, armadi,
sedie, registri e documenti e averli dati alle fiamme, Dalla Costa
tornò immediatamente dalla visita pastorale che stava effettuando a
Sant’Angelo di Piove. Spedì al Prefetto un telegramma nel quale
deplorava “come cittadino la violenza impunita di tutte le leggi e
come vescovo gli oltraggi recati ad una azione dal Papa voluta ed
imperata”(4) ed espresse con parole forti la sua solidarietà al
presidente della Giunta diocesana: “Nessuna condoglianza si deve a
chi soffre nella persecuzione. La violazione del diritto è miseria e
vergogna per chi la opera, non per chi la subisce. Più alta delle
fiamme vili e indisturbate del rogo, si leva umile ma immacolata la
nostra bandiera(5)”.
I fascisti non risposero direttamente; lo fecero attraverso il loro
quotidiano locale “La Provincia di Padova” sostenendo, falsamente,
che la sede della Giunta diocesana ospitava la sede del partito
90
popolare e che perciò l’Azione Cattolica conduceva una politica
antigovernativa.
La smentita del vescovo arrivò puntuale e precisa e la
conclusione suonò come una condanna esplicita della violenza
fascista: “Se ad un partito concederemo la violenza come un diritto
dovremo concludere, sebbene mestissimamente, che la nostra
decadenza morale è perfetta, e mi auguro che questo non sia per
l’onore e per la vita dell’Italia e degli italiani(6)”.
Successivamente il Vescovo richiamò i suoi preti al dovere di
non cedere mai quando venisse offesa la legge di Dio o contraddette
le disposizioni dell’autorità ecclesiastica:
“Oggi è un sindaco che accampa i diritti di tutela per
non dire di proprietà sulla sala delle associazioni
cattoliche; ieri era la presidenza di un partito che
pretendeva di rendere obbligatorie le iscrizioni al
partito stesso; domani sarà un commissario che
imporrà al parroco di fondere con un’altra, sorta
appena in paese, la vecchia e gloriosa banda
cattolica. O un podestà che invaderà addirittura una
porzione di terreno appartenente alla fabbriceria.
Raccomandiamo di essere calmi e prudenti ma di
non cedere sui propri diritti, quando questo non sia
un dovere(7)”.
Poco dopo (settembre e ottobre 1925), oltre alla calma ed alla
prudenza, ricordò ai sacerdoti, in linea con una secolare tradizione,
il dovere della deferenza verso l’autorità costituita. Lo prese alla
lettera il parroco di Rubbio che, accusato di anti italianità e di
antifascismo, rispose di essere stato nelle trincee del Carso e
dell’Altopiano e che aveva sempre ispirato il suo comportamento al
91
biblico: “Obbedite a coloro che vi governano anche se sono delle
canaglie”(8).
La serie delle violenze però non cessò e nella notte tra il 2 e il 3
novembre 1926 gli squadristi devastarono e incendiarono la sede de
“La Difesa del Popolo”. La responsabilità fu attribuita ai soliti
ignoti. Il vescovo non parlò, ma venne aperta una sottoscrizione che
consentì al giornale di riprendere subito le pubblicazioni.
Risulta così provato non essere affatto vero che la Chiesa abbia
favorito l’ascesa del fascismo. Certo, ci furono i clerico-fascisti e
anche nella nostra diocesi, in particolare in quelle zone della Bassa
dove più consistente e decisa era stata l’azione delle leghe
socialiste, alcuni preti non nascondono la loro soddisfazione per la
sconfitta dei “rossi” ad opera del fascismo e per il ristabilimento
della legalità e dell’ordine. Si possono citare i parroci di
Castelbaldo, Masi e Merlara.
Afferma il parroco di Castelbaldo che “non si può negare che (il
fascismo) abbia avuto qui dei meriti”. Anche nella Bassa però ci
sono parroci che intravedono subito il pericolo fascista. Il parroco
di Urbana, ad esempio, scrive che il partito fascista “oggi combatte
accanitamente l’opera e l’influenza del sacerdote, che vorrebbe
distruggere completamente e denigra continuamente”. Quello di
Bagnoli dice del fascismo che “più che per l’ordine, ha carattere
egoistico e vendicativo” e il parroco di Piacenza d’Adige, don Ivo
Bruttomesso, nel 1928 viene confinato per un anno a
Valdobbiadene(9).
Il parroco di Urbana, don Giuseppe Saccardo, fu costretto ad
accettare il trasferimento a San Pietro Montagnon (ora Montegrotto
Terme). Per “attività dannosissima al Partito Nazionale Fascista” fu
denunciato al Prefetto don Felice Velluti, parroco a Villafranca.
Al vescovo il prefetto chiese di richiamare il parroco di Masi,
don Angelo Segato, e l’arciprete di Montagnana, don Riccardo
92
Bergamo, definito “restio ad ogni collaborazione” con i fascisti
locali.
Don Egidio Romanato, parroco di Arsego, continuò a criticare
spesso e pubblicamente il regime fascista. Il parroco di Arquà
Petrarca, don Giuseppe Dalla Longa, fu accusato di creare problemi
al locale Partito fascista e don Adolfo Sabbadin, della parrocchia
dell’Immacolata, di non collaborare.
Particolarmente accesi furono i contrasti sull’Altopiano: ad
Asiago, Enego, Roana, Foza, Cesuna, Rotzo.
Si verificarono anche episodi singolari che, sussurrati di bocca
in bocca, fecero il giro della diocesi. A don Giuseppe Meggiorin,
parroco di Vigonza, in precedenza organizzatore di leghe bianche a
Saonara, le autorità richiesero di apporre il fascio littorio sulla
facciata dell’asilo. Egli obbedì... apponendo un fascio di dimensioni
talmente ridotte che era impossibile vederlo dalla strada.
Don Domenico Barbiero, parroco di Montà, accusato di
antifascismo, prima in una predica, secondo un rapporto inviato dal
questore al prefetto, ebbe a dire: “La carne dei sacerdoti è indigesta
e non passerà nè con l’olio di ricino nè con altra specialità chimica;
è una carne che fa morire”. Poi, la sera del Venerdì santo del 1932,
per non passare davanti alla Casa del Fascio, cambiò il tradizionale
percorso della processione.
Sull’atteggiamento della Chiesa nel periodo della dittatura
fascista i giudizi sono ancora molto controversi. Prevale la tesi della
storiografia laica, secondo cui “l’atteggiamento della gerarchia e del
clero era improntato a collaborazione e sostegno nei confronti del
fascismo”, aggiungendo che tale atteggiamento collaborativo era
riferibile ad una tradizione conservatrice ed autoritaria.
Questo giudizio viene avvalorato dalla documentazione
disponibile che è quasi esclusivamente quella ufficiale. Si usa
affermare che molta documentazione è andata distrutta.
93
In realtà, dopo il 1925, ad affidare il loro pensiero a documenti
scritti erano solo i preti filofascisti. Solo degli sprovveduti potevano
affidare allo scritto quello che realmente pensavano del fascismo
conoscendo l’onnipotenza della polizia fascista con la moltitudine
di confidenti più o meno prezzolati. Se ne parlava nelle canoniche
ma, si sa, “verba volant”.
Chi ricostruisce la storia del mondo cattolico in quel periodo
facendo riferimento ai bollettini e ai settimanali diocesani, alle
lettere pastorali e ai discorsi dei vescovi, alle circolari dell’Azione
Cattolica, ai bollettini parrocchiali dovrebbe sapere bene che quello
era solo il parere ufficiale, di facciata. Ben altre erano le
considerazioni sul fascismo che si facevano negli ambiti
parrocchiali di quelle zone nelle quali il movimento cattolico prima
e il Partito Popolare poi si erano più profondamente radicati e
avevano dovuto subire la violenza fascista, quasi sempre finanziata
dagli agrari, con la distruzione totale di tutte quelle opere che con
tanta fatica erano state pazientemente promosse.
Non si nega affatto che parte del mondo cattolico sia stata
favorevole al fascismo, in cui vedeva il restauratore della legalità e
dell’ordine contro il sovversivismo anticlericale “rosso”; nè si
nasconde che la Chiesa ufficiale abbia salutato la Conciliazione
come un grande evento “provvidenziale” usando toni trionfalistici.
Ne è un tipico esempio il Bollettino diocesano veronese che nel
numero 16 (febbraio-marzo) dell’anno 1929 scriveva: “L’ora di Dio
è suonata. L’Italia, la Patria nostra carissima (...) saluta riconoscente
la Conciliazione come l’inizio di un’età nuova di pace e di
restaurazione religiosa”.
Analoghe espressioni si trovano nei bollettini delle altre diocesi
venete, anche se più tiepide in quelli di Padova, Venezia e Chioggia.
Non si dimentichi che vescovo di Padova era Elia Dalla Costa che
non mancò di mettere in evidenza le difficoltà anche gravi che
l’attuazione del Concordato avrebbe comportato e, con notevole
94
preveggenza puntò molto sulla riorganizzazione dell’Azione
Cattolica rivalutandone i compiti. Con l’usuale franchezza, don
Primo Mazzolari definì la Conciliazione un “matrimonio senza
amore”.
Una prima spia del fatto che l’entusiastico consenso ufficiale era
solo in parte condiviso nelle parrocchie la si ha esaminando i
bollettini parrocchiali che all’avvenimento dedicano poco spazio e
usano toni assai meno entusiastici. Un secondo sintomo lo si ha
scorrendo le “cronache” delle parrocchie: poche ne fanno cenno; la
maggioranza dei parroci rimane fedele al detto che “un bel tacer
non fu mai scritto”. Fa eccezione il parroco di Zelarino,
notoriamente antifascista.
Non si può certo negare che ad un certo momento il Vaticano
abbia privilegiato gli accordi di vertice con lo Stato fascista anche
in virtù di una persistente ostilità nei confronti dello Stato laico
liberale. In questa ottica vanno collocati la Conciliazione e il
Concordato dell’11 febbraio 1929 che portano diversi parroci a
cambiare, almeno ufficialmente, il loro atteggiamento.
Però, grattando sotto la vernice di una pressoché unanime
adesione esteriore (come avviene in tutti i regimi totalitari), si
scopre che negli anni tra il 1925 e il 1938 l’atteggiamento dei
cattolici è molto variegato poichè va dall’adesione e dalla
sottomissione alla differenziazione ed alla critica; si nota una
pluralità di opinioni e di atteggiamenti, una compresenza di anime
diverse.
Si scrive che: “L’appoggio più valido e convinto al regime
fascista veniva ancora dalla Chiesa, che in particolare a Padova
svolgeva un’opera efficace e insostituibile tra le masse e il
regime”(10). In realtà non era per niente appoggio valido e convinto.
Lo si vide bene in occasione dei fatti del 1931 e del 1933.
Nel 1931, dopo aver dichiarata l’incompatibilità tra
l’appartenenza alla FUCI e ai GUF, con l’ordinanza del 30 maggio
95
il Governo fascista scioglieva tutte le associazioni cattoliche. Ci
furono invasioni di sedi, sequestri di bandiere e verbali,
manomissioni. A Padova ciò avvenne in concomitanza con il
centenario antoniano. Nell’ultima parte dell’omelia del 13 giugno
1931, Dalla Costa, senza alcun timore dei fascisti presenti in massa
nella Basilica del Santo, pronunciò parole di cui la censura fascista
proibì la pubblicazione:
“Noi educheremo fin che morremo, ricordando e
facendo ricordare le parole celebri di Silvio Pellico:
chi grida, patria, e poi la patria disonora egli stesso
con indegne azioni, è un trafficante del patriottismo
(...). Il Santo di Padova assista la Santa Madre
Chiesa (...). Ogni giorno mette dinanzi alla Chiesa
nuovi nemici; per lei vivere è combattere e quando
non combatte non vi è pace, ma semplice armistizio
per la Chiesa di Dio”(11).
Non pare proprio che da queste parole traspaia una convergenza
di fondo tra Chiesa e fascismo. Si rispetta l’autorità costituita; si era
rinunciato alla presenza in campo sociale e politico ritenuta di
importanza non primaria per la missione della Chiesa, ma non si
cede di un palmo sul problema essenziale dell’educazione della
gioventù.
I parroci difesero con tenacia e senza cedimenti il loro spazio
educativo (Azione Cattolica, asili, patronati, filodrammatiche,
bande musicali) poco o nulla concedendo alle organizzazioni
fasciste. Di ostacolare tali organizzazioni venne accusato il
cappellano di Agna, don Angelo Zanchetta, che una Domenica fece
uscire dalla chiesa una Piccola Italiana in divisa, molto
probabilmente in accordo con il parroco, don Cristiano Codemo,
notoriamente ostile al fascismo. Il parroco di Correzzola, don
96
Giuseppe Bertuzzo, continuò a criticare i fascisti locali perchè alla
domenica organizzavano attività che impedivano ai giovani la
partecipazione alla messa festiva.
Da parte sua, Pio XI il 21 giugno denunciò con fermezza la
devastatrice prevaricazione fascista sull’Azione Cattolica con
l’enciclica “Non abbiamo bisogno” in cui si legge che quella
concezione dello Stato era “non conciliabile con la dottrina della
Chiesa”. Si osservò anche che la formula del giuramento, così come
stava, non era lecita.
Il 9 luglio il PNF revocò l’incompatibilità tra l’iscrizione al
partito e l’appartenenza all’AC.
In base all’accordo, annunciato il 2 settembre, l’Azione
Cattolica diveniva strettamente diocesana alle dirette dipendenze
del Vescovo e con finalità rigidamente limitate all’ambito religioso:
venivano escluse anche le attività sportive.
L’Azione Cattolica gode di attenzioni particolari da parte della
gerarchia ecclesiastica e registra continui incrementi; i parroci
continuano ad essere i rappresentanti riconosciuti del “potere reale”
in particolare nelle campagne.
A ben riflettere, il fascismo spinge le masse contadine, che non
potevano essere fasciste perchè collegavano il giudizio sul regime
con il comportamento degli agrari, a stringersi maggiormente
attorno alle parrocchie e il clero ad intensificare l’opera di
formazione religiosa ancorata ai sacramenti, alla religiosità
popolare, ad una catechesi sistematica. Ci sono situazioni
differenziate anche perchè continua a prevalere una relativa
autonomia delle parrocchie.
Solo una lettura non approfondita può portare all’affermazione
che: “L’atteggiamento del Vescovo rifletteva la visione di una
Chiesa tutta raccolta in se stessa”, mentre si dovrebbe anche
riconoscere che ci fu una difesa tenace, per quanto prudente, della
97
moralità, dei costumi, dei valori anche nel periodo che viene
definito come quello del maggiore consenso cattolico al fascismo.
Nella cronistoria parrocchiale di Chiesanuova c’è una nota
significativa del parroco, don Ettore Silvestri, che alla fine del
1936, dopo aver rilevato come le relazioni tra le autorità fasciste e
la parrocchia, “a Chiesanuova come in tanti altri paesi” non fossero
affatto quali le presentava la propaganda fascista, anzi si facessero
sempre più difficili, scriveva:
“Va delineandosi netta la condotta del fascio di
allontanare per quanto è possibile le anime dalla
Chiesa con tutti i modi in loro mano. Non è una lotta
aperta, ma sorda, segreta, subdola, i cui fatti deleteri
poi facilmente diventano giorno per giorno sempre
più visibili, come sempre più fredde e diplomatiche
diventano le relazioni con i fascisti locali. Il
contegno del parroco con simili persone è calma,
niente sfrecciate fuori di porta, osservare
attentamente le cose e al momento opportuno
parlare senza animosità, ma con fermezza e senza
dimostrare alcuna paura”(12).
L’assetto socio-economico
Circa l’assetto socio-politico va rilevato che nel periodo fascista
permane la separazione netta, anche politica oltre che sociale, tra
città e campagna.
L’apparato produttivo rimane debole. Nel 1927 venivano censite
in provincia 8.966 imprese industriali con 43.738 addetti su 615
mila abitanti. La mappa delle imprese risultava composta come
nella tabella di pagina 95.
Il “ruralismo” fascista, al di là dell’esaltazione retorica della
sana gente dei campi, significò mantenimento di un serbatoio di
98
manodopera a basso costo e le disposizioni contro l’urbanesimo ne
sono una riprova.
Il fascismo intendeva governare lo sviluppo economico
controllando rigidamente il rapporto città-campagna, agricolturaindustria. Di qui le tre scelte: ruralismo, antiurbanesimo, battaglia
demografica.
L’agricoltura, scriveva uno dei teorici fascisti del ruralismo, “è
un modo di vita e la vita rurale contiene i desideri, favorisce le virtù
del lavoro e del risparmio”. Detto in termini più brutali, il ruralismo
comprimeva i consumi nelle campagne e teneva in parcheggio
forza-lavoro che se si fosse liberamente spostata verso le città
avrebbe turbato l’equilibrio economico e politico.
Su ogni chilometro quadrato di superficie coltivata lavoravano
42 persone (30 uomini e 12 donne) contro le 8 degli Stati Uniti e le
20 di Francia e Germania.
TAB.6 - MAPPA DELLE IMPRESE CENSITE NEL
1927
Agricoltura
pesca
cave
legno
alimentari
pelli e cuoio
carta
2,32
0,26
1,94
10,33
13,38
0,55
0,88
99
poligrafici
siderurgiche e metalli
meccaniche
lavorazione minerali
costruzioni
tessili
abbigliamento e arredamento
igienici e sanitari
chimiche
energia, luce ed acqua
altre
1,22
0,35
10,50
3,93
8,10
14,14
11,36
2,48
2,38
11,14
4,74
I rapporti di produzione rimasero di tipo pre-capitalistico e, per
taluni aspetti, addirittura feudale, come per le “onoranze”.
Le dure condizioni di vita rimasero sostanzialmente immutate:
nel 1936 solo 27,9 abitazioni rurali su cento hanno la luce elettrica.
Il fascismo strumentalizzò la parsimoniosità e la rassegnazione
contadina non toccando un rapporto proprietario che, integrato dal
controllo sugli istituti di credito agrario, sui consorzi di bonifica, sui
consorzi agrari, perpetuava l’egemonia della città sul territorio.
D’altra parte la politica demografica, facendo aumentare la
popolazione rurale, favoriva gli agrari poichè la pressione
consentiva di diminuire i salari agricoli e di ottenere maggiori
profitti per la cessione di affitto, a mezzadria e a
compartecipazione.
La bonifica integrale si proponeva due finalità: una maggiore
domanda di beni industriali ed una attenuazione della
disoccupazione. La colonizzazione interna mirava anche ad
attenuare la pressione della manodopera bracciantile nelle sedici
100
province cruciali della Valle Padana e cioè, oltre alle otto province
emiliane, le lombarde Cremona, Mantova, Brescia e le venete
Rovigo, Verona, Padova, Vicenza, Venezia.
Anche nelle campagne padovane nel periodo fascista, e in
particolare nel corso degli anni ‘30, si consolidò l’egemonia del
capitale finanziario in simbiosi con la proprietà terriera.
Accanto all’affittanza, che riguardava il 40 per cento dei terreni,
ed alla piccola proprietà, c’era la mezzadria che era la forma di
conduzione preferita dai proprietari di estrazione nobiliare e la
conduzione diretta con manodopera bracciantile nella Bassa. Solo i
Papafava, di orientamento liberale moderato, preferivano l’affitto.
Le attenzioni del Regime si concentrano sulla città. Già nel 1927
si pensa alla “grande Padova” e infatti nel luglio di quest’anno si
tiene in Municipio una riunione promossa dal Podestà Francesco
Giusti “allo scopo di esaminare l’aggregazione a Padova di 16
Comuni: Abano, Albignasego, Cadoneghe, Legnaro, Limena,
Noventa Padovana, Ponte San Nicolò, Rubano, Saonara,
Selvazzano, Teolo, Torreglia, Vigodarzere, Vigonza, Villafranca,
Polverara e parte del territorio di San Pietro Montagnon (ora
Montegrotto). Il progetto, che rispondeva alle disposizioni
governative relative alla revisione delle circoscrizioni comunali,
ebbe unanime parere favorevole anche se poi non se ne fece nulla.
Viene però realizzata una ristrutturazione urbanistica che muta il
volto di alcune zone cittadine: viene sventrato il quartiere Santa
Lucia e nasce Piazza Spalato (ora Insurrezione) con il palazzo della
Previdenza Sociale; in Piazza Capitaniato viene costruito il Liviano;
nei campi e negli orti della zona di Santa Maria in Vanzo sorge il
quartiere “Città Giardino” e il palazzo Esedra... Molto meno
appariscente è l’insediamento industriale (Viscosa, Zedapa, Ingap,
Officine Stanga, Itala Pilsen). L’autarchia fascista, dopo le sanzioni
inflitte all’Italia per la guerra dell’Etiopia, vede a livello locale
101
alcune interessanti innovazioni: l’Ingap produsse bachelite, la
Viscosa il rayon, Albano Pessi ideò l’albanite per sostituire il legno.
La Chiesa ufficiale fu favorevole all’impresa etiopica, letta in
chiave missionaria e concepita come possibilità migratoria; fu
favorevole anche all’intervento nella guerra civile spagnola a fianco
dei franchisti contro i “rossi” in nome dell’antisocialismo di sempre
e di un anticomunismo altrettanto radicale.
Del resto l’enciclica sul comunismo ateo del 1933 era stata
ampiamente diffusa in tutte le parrocchie e commentata nelle
riunioni di Azione Cattolica.
I clerico-fascisti inneggiarono alla “nuova” civiltà romana e
cristiana rispolverando l’idea costantiniana del baluardo contro la
nuova barbarie dell’ateismo comunista sovversivo.
L’idillio venne rotto dalle leggi razziali del 1938 che
rimettevano brutalmente in discussione la concezione cristiana
dell’uomo e della sua dignità sempre riaffermata e difesa.
Non potendo organizzare associazioni professionali, la Chiesa
ottiene di poter prestare assistenza religiosa ai lavoratori e viene
costituita l’Onarmo tra i cui cappellani merita di essere ricordato il
padovano don Vito Sguoti che nel febbraio 1938 viene mandato a
Carbonia tra i minatori e scende con essi in miniera; ma i fascisti
locali non vedono volentieri la sua opera e lo fanno allontanare:
ritornerà nel 1945 e morirà di silicosi, la malattia dei minatori, nel
1946.
Con chiara antiveggenza, il vescovo Carlo Agostini, succeduto
al Dalla Costa, intuisce il futuro sviluppo della città e decide la
costruzione di sette nuove chiese al di fuori della vecchia cinta
muraria definendole “come torri per la difesa della fede popolare e
per impregnare la vita di costumi cristiani(13)”:
Santissimo Nome di Gesù
San Giuseppe
102
(1934)
(1937)
Natività
Sacra Famiglia
San Carlo
San Prosdocimo
Santissima Trinità
(1939)
(1939)
(1940)
(1941)
(1941)
La costruzione di una chiesa e il formarsi di una nuova
parrocchia non è solo un fatto religioso ma anche sociale perchè la
parrocchia era, ed è ancor oggi, oltre la famiglia, una delle poche
“agenzie” educative e sociali presenti nel territorio. Inoltre la
Chiesa padovana si preoccupò sempre della moralità, talora con
interventi di dubbia efficacia. Denunciò con toni apocalittici, quali
strumenti di corruzione, il ballo e talvolta anche i filò.
Per il ballo furono continui gli interventi sulle autorità locali
perchè non rilasciassero le prescritte autorizzazioni. Un decreto
vescovile del 1935 escluse dalla benedizione pasquale le abitazioni
dei promotori e dei fautori delle feste di ballo, sulle quali ci fu
sempre scontro aperto: don Luigi Gastaldello, parroco di
Casalserugo, rispose al segretario politico locale di essere disposto
a dare la vita piuttosto che il suo consenso all’allestimento della
piattaforma. I parroci non furono inizialmente favorevoli neppure al
cinema, la nuova forma di spettacolo che si andava diffondendo
negli anni ‘30: poi venne la risposta dei cinema parrocchiali.
Inoltre in ogni ambito parrocchiale, comprese le associazioni,
venne rigidamente mantenuta una “debita separazione” fra i due
sessi. Nelle chiese c’era la “parte” riservata agli uomini e la “parte”
riservata alle donne.
Alcune considerazioni
103
Torna spesso il rilievo: i cattolici non possono negare l’adesione
al fascismo poichè le masse accorrevano ad osannare i gerarchi
fascisti di turno che venivano a Padova: De Bono, De Marsanich,
Starace, Bottai, lo stesso Mussolini. “La massa è sempre pronta ad
allinearsi con il più forte. Una lezione sgradevole...”. In realtà le
masse popolari non erano affatto allineate. Subivano e, ammaestrate
da secoli di dominazione, mostravano un consenso che non c’era.
Più che fasciste o antifasciste le masse contadine venete furono
afasciste.
Le adunate oceaniche (compresa quella in Prato della Valle del
1938 in occasione della venuta di Mussolini) non devono trarre in
inganno: l’entusiasmo era comandato e solo di facciata.
Così entusiasmo non ci fu il 10 giugno 1940 alle adunate
convocate in tutte le piazze per l’annuncio di Mussolini dell’entrata
in guerra dell’Italia. Ci fu invece in città un’esplosione spontanea di
entusiasmo il 25 luglio all’annuncio della caduta del fascismo.
Secondo la versione corrente tra manganello punitivo e
aspersorio benedicente si creò una specie di “Santa Alleanza” non
messa in discussione neppure dallo scontro sull’Azione Cattolica
del 1931. Non si nega che ci siano stati cedimenti e debolezze e, in
alcuni casi, anche collusioni di gruppi cattolici e di singoli col
fascismo, ma è bene ricordare alcuni elementi di fatto.
In primo luogo (lo si è rilevato anche a proposito di Pio X) la
Chiesa poneva in primo piano l’aspetto pastorale, come era del tutto
logico. In secondo luogo non era ancora arrivata all’accettazione
piena della democrazia politica (lo fece Pio XII nel 1942 durante la
seconda guerra mondiale) e pertanto ogni governo - anche
dittatoriale!- le andava bene purché rispettasse i suoi diritti.
Infine, secondo la teoria del “male minore” riteneva che i
maggiori pericoli per la fede venissero da sinistra: il complesso
dell’antisocialismo era molto accentuato a tutti i livelli e fu tale che,
per breve periodo (dalla presa del potere da parte dei fascisti il 28
104
ottobre 1922 al 17 aprile 1923), i cattolici popolari parteciparono al
primo governo Mussolini per cooperare “alla rinascita dei valori
morali e religiosi, alla pacificazione sociale e alla disciplina
nazionale del paese assicurata sulle basi indefettibili di ogni vivere
civile: la libertà e la giustizia”.
Ma riconoscere obiettivamente questo, non significa affatto dire
che il mondo cattolico, e in particolare le masse contadine, abbiano
sposato la causa fascista, nè all’inizio nè poi e tanto meno a Padova
e nel Veneto. C’è chi ricorda che, quando le processioni uscivano
dal centro abitato, ancora all’inizio degli anni ‘30, c’era qualcuno
che intonava “O bianco fiore” e che molti - anche preti piansero
quando il 29 febbraio 1929 venne firmato il Concordato: non era un
pianto di gioia. Allorché, nel 1931, venne attaccata l’Azione
Cattolica, la risposta fu unanime dal Vescovo, come si è visto, ai
preti e ai laici. Non ci furono nè cedimenti nè defezioni. Le
bandiere vennero sequestrate, ma i distintivi non vennero tolti dalle
giacche: vennero semplicemente coperti con un piccolo pezzo di
stoffa nera in segno di lutto dal momento che era proibito solo
ostentarli.
Nè sottomissione nè rassegnazione caratterizzarono l’Azione
Cattolica padovana dove si continuò a far riferimento alla Rerum
Novarum per difendere il patrimonio sociale cristiano. Senza
l’Azione Cattolica degli anni ‘30 e il precedente retroterra sociale
non si spiegherebbe nè la partecipazione dei cattolici padovani alla
Resistenza nè l’immediato decollo della D.C. Però è ambiguo
affermare che “nel lungo periodo la Chiesa si rivelava la vera
beneficiaria del regime fascista”(14).
Note:
(1) S. Tramontin, Sinistra cattolica di ieri e di oggi, Torino 1974, pp.44-45.
105
(2) AA.VV., La nostra storia, Edizioni de “Il Gazzettino”, 1987, p.94.
(3) G. De Antonellis, Storia dell’Azione Cattolica, Milano 1987, p.371.
(4) Bollettino diocesano di Padova, 1925, p.283.
(5) Ibidem, p.283.
(6) Ibidem, p.283.
(7) Pierantonio Gios, Dalla dittatura alla democrazia, in AA.VV., Storia religiosa
del Veneto, Diocesi di Padova, Gregoriana Editrice 1996, pp.424-425.
(8) Pierantonio Gios, op. cit., pp.424-425.
(9) Sull’argomento si veda: L. Billanovich Vitale, Clero e agitazioni contadine nel
padovano nel primo dopoguerra, in Il sindacalismo agricolo veneto nel primo
dopoguerra e l’opera di G. Corazzin, Fondazione Corazzin 1983, pp.204-205 e P.
Gios, Dalla dittatura alla democrazia, in Storia religiosa del Veneto. Diocesi di
Padova, Gregoriana ed. 1946, pp.413-418.
(10) A. Ventura, op. cit., p.344.
(11) Bollettino diocesano di Padova, 1931, pp.369-370.
(12) Pierantonio Gios, op. cit., p.439.
(13) Bollettino diocesano di Padova, 1938, p.165.
(14) A. Ventura, op. cit., p.367.
106
Capitolo VI
NELLA RESISTENZA
Ad oltre mezzo secolo dalla conclusione della vicenda
resistenziale, il cercare di ragionarvi serenamente è fatica improba e
rischiosa perchè di quegli eventi si danno ancora interpretazioni
diverse più o meno parziali, più o meno ideologizzate e, per di più,
le memorie di coloro che li hanno vissuti, come del resto è sempre
avvenuto per la memorialista nel corso dei secoli, hanno spesso il
tono dell’apologia reducistica.
Così è avvenuto anche per quanto riguarda la resistenza
padovana. Ad esempio l’interpretazione di Aronne Molinari(1) è
opposta a quella di G. E. Fantelli(2) ed entrambi mancano di quella
obiettività che si dovrebbe perseguire nella ricostruzione di
qualsiasi vicenda storica.
Anche gli studiosi che vanno per la maggiore e che fanno da
protagonisti nei tanti dibattiti, sono vistosamente parziali in
particolare quando trattano dell’apporto dei cattolici. In genere si
limitano a mettere in evidenza l’unitarietà delle diverse componenti
nei Comitati di Liberazione Nazionale e l’apporto delle sinistre.
Le diverse resistenze
Occorre dire subito che l’unità resistenziale aveva un solo
obiettivo comune: la fine dell’occupazione tedesca e della
Repubblica Sociale Italiana che ne aveva supportato le brutali
imposizioni.
Al di fuori di questo c’erano profonde diversità sia riguardo ai
fini che ai mezzi.
Nei comunisti erano forti le istanze di classe e la volontà di
arrivare anche in Italia ad una “democrazia progressiva”: Togliatti,
tornato il 27 marzo del 1944 in Italia da Mosca, incontrò forti
difficoltà nell’imporre la sua linea di unità nazionale.
I cattolici rifiutavano nettamente il concetto di lotta di classe,
arrivando con fatica all’idea di azione di classe.
Le formazioni comuniste privilegiavano l’azione militare; i
cattolici - di qui l’accusa di “attendismo”- erano sostanzialmente
contrari alla violenza contro le persone e si proponevano, per
quanto possibile, di evitare rappresaglie sulla popolazione civile.
Per i cattolici esisteva il problema morale, di non facile
soluzione, del come conciliare l’uso della violenza col principio
dell’ordine e della legalità. Da sempre la morale cattolica
riconosceva il principio della legittima difesa, ma sulla liceità della
lotta armata resistenziale ci furono lunghe discussioni. Si concluse,
sulla scorta del “De auctoritate” di San Tommaso, che essendo
legittima la ribellione al tiranno e la sua uccisione, era lecita la
resistenza anche armata. Non si trattava di accademia, ma della
ricerca di motivazioni etiche per l’azione.
Le tecniche garibaldine erano apertamente osteggiate dal clero
che, in luogo della lotta armata, preferiva forme di resistenza
passiva. In luogo di “lotta partigiana” si preferisce parlare di
patriottismo e infatti i cattolici impegnati nella Resistenza amano
definirsi “patrioti” e le loro formazioni, anche nella nostra
provincia, si denominano “Damiano Chiesa” e “Guido Negri”. Più
che di un fatto militare si trattò per loro di un processo di
coscientizzazione.
Si può obiettivamente aggiungere che le “brigate del popolo”
cattoliche furono più apartitiche delle formazioni garibaldine (nelle
quali il commissario politico era sempre un comunista di provata
108
fede) anche perchè, nonostante si parli di formazioni democristiane,
in effetti nella nostra provincia la Democrazia Cristiana esisteva
solo in un ristrettissimo gruppo di vertice (Saggin, Sabadin, Zancan
e pochissimi altri).
E’ certamente vero che vi furono cattolici nelle formazioni
garibaldine e comunisti nelle formazioni cattoliche. Ci fu sì il
cattolico Luigi Pierobon (“Dante”, comandante della “Brigata
Garibaldi Stella”) e il comunista Gino Scalco nella Damiano
Chiesa, ma furono casi isolati ad eccezione di quei gruppi autonomi
incorporati nella “Brigata Garibaldi Padova” nell’estate 1944, come
il gruppo di Conselve che faceva riferimento a Modesto Violato nel
quale i cattolici erano più di uno.
I partigiani comunisti provenivano prevalentemente dai ceti
operai, quelli cattolici dal mondo contadino e studentesco. I primi
avevano di frequente alle spalle tradizioni di antifascismo militante;
i secondi avevano in generale evitato forme aperte di dissenso al
regime tanto che si è diffusa l’opinione di un mondo cattolico
padovano filo-fascista.
Non si tiene conto che il fascismo padovano si era connotato
come fascismo agrario il quale, con le sue intimidazioni e violenze,
distrusse sia le organizzazioni bracciantili “rosse” che tutte le opere
sociali realizzate dal movimento cattolico tra le masse contadine in
particolare nell’Alta padovana.
I tanti fittavoli e piccoli proprietari, così come i braccianti, non
furono fascisti neppure dopo l’impresa etiopica. I nostri contadini
percepivano, seppure inconsciamente, che il “ruralismo” fascista
comportava immobilismo sociale ed uso spregiudicato della
manodopera
contadina
eccedente,
cui
si
ricorreva
propagandisticamente quando si trattava di coltivare la Maremma,
le paludi pontine (Littoria, Sabaudia, Pontinia), il Sulcis (Carbonia)
o la “quarta sponda” (Bengasi e Derna). Sentivano estraneo il ceto
109
dirigente fascista in prevalenza espressione della piccola e media
borghesia.
Il clero rurale si trovava in sintonia con i contadini anche perchè
molti parroci erano stati promotori e organizzatori di casse rurali, di
leghe e di sezioni del Partito Popolare. Esso accettò di limitare la
sua azione alla sfera religiosa, ma la base locale dell’Azione
Cattolica, nella quale erano rimasti i popolari, fu sostanzialmente
critica nei confronti del regime fascista.
C’è una sintomatica relazione del prefetto di Treviso che in data
9 luglio 1935 scrive al ministero:
“L’Azione Cattolica, quantunque ostenti insegne ed
emblemi religiosi ed affermi di voler conseguire la
diffusione e l’attuazione di principi esclusivamente
spirituali e culturali dei propri adepti, è senza
dubbio il fulcro di una vasta, tenace, larvata azione
politica che tende, attraverso la FUCI, a forgiare i
quadri che dovranno contenere e guidare le
formazioni future adatte e pronte ad ogni
eventualità. L’attività finora esplicata, per quanto
condotta con molta cautela e circospezione ed
ammantata di legalità, trovando nelle leggi stesse
dello Stato un fondamento giuridico che ne sanziona
la legittimità, si rivela immediatamente non solo
come contrastante con le direttive del Partito, bensì
anche tendente ad emulare in un primo tempo, per
sopraffare poi tutte le istituzioni, organizzazioni ed
iniziative fasciste”.
Si noti bene che siamo nel 1935, e quindi nel periodo in cui il
fascismo, dopo l’impresa etiopica, godeva del massimo consenso.
110
La relazione esprime con chiarezza la situazione che, per quanto
risulta, era analoga a Padova e in altre diocesi venete.
Era pur sempre un dissenso che si manteneva entro i limiti della
legalità, del rispetto per l’autorità costituita e poi, nel periodo 19401943, del compimento del proprio dovere sui vari fronti di guerra.
Molto spesso si sottovaluta che a Padova nell’inverno 1944-’45
l’Azione Cattolica propose come testo per la gara di cultura
religiosa, cui tutti i circoli erano tenuti a partecipare, quel
“Catechismo sociale” che provocò la reazione fascista culminata
nel tentativo di arresto del suo autore, don Guido Beltrame, salvato
proprio sulla porta del vescovado dal deciso intervento personale
del vescovo Agostini(3).
Quel testo, nelle sue tre parti (ordinamento sociale, economia
sociale, questione sociale) non faceva altro che richiamare i punti
essenziali del tradizionale magistero sociale con una dura ed
esplicita condanna del liberismo e del comunismo. In linea col
magistero ed in particolare con il concetto di collaborazione tra le
classi (interclassismo) si dava un giudizio sostanzialmente molto
blando del corporativismo fascista.
Il giudizio negativo si riduceva alla domanda n.61: “Quale è il
difetto fatale che sta alla radice del corporativismo fascista?”.
Nell’edizione minore del “Catechismo”, quella distribuita a tutti i
soci dell’Azione Cattolica diocesana, la risposta suonava così:
“E’ duplice:
1) L’asservimento dell’individuo alle presunte esigenze dello Stato;
2) La sottomissione dell’economia alla politica del partito”.
Non poteva sfuggire all’attenzione dei fascisti nè l’espressione
“difetto fatale” (cioè di fondo e non sanabile) nè tanto meno
quell’”asservismo dell’individuo alle presunte esigenze dello Stato”
che, tanto nella forma quanto nella sostanza equivaleva ad una
chiara condanna della dittatura.
111
Occorre notare che non si trattava di un documento clandestino,
ma di una pubblicazione a stampa che recava l’imprimatur del
vescovo Agostini in data 4 ottobre 1944 ed era esposto al pubblico
nella vetrina della Gregoriana in via Roma.
Del resto, dalla sede di via San Tommaso, l’Azione Cattolica
padovana diffondeva ampiamente, per la formazione sociale dei
soci, pubblicazioni quali il “Codice sociale” di Malines (Edizioni
“La Civiltà Cattolica”, 1944), i “Principi dell’ordine sociale
cristiano” di Jacopo Bianchi (Editrice AVE, 1944) e “Il messaggio
sociale di S.S. Pio XII” di Carlo Colombo (Editrice “Vita e
Pensiero”, 1944).
Anche questa era “resistenza” e se sul piano militare sono
comprensibili le accuse di attesismo, non si può negare che ci sia
stata un’estesa azione sistematica rivolta alla formazione sociale,
certamente “pensando al dopo” che era un “dopo” molto diverso, se
non opposto, da quello ipotizzato dai comunisti.
Ciò emerge con innegabile chiarezza da un opuscolo,
predisposto da Luigi Gui e diffuso tra i partigiani delle “brigate del
popolo” padovane nel dicembre 1944:
“Bisogna dimostrare il dissenso che ci separa sia dai
liberali, indifferenti ai bisogni del popolo e attaccati
al passato, quanto dai socialisti e specialmente dai
comunisti che predicano la lotta di classe e la
violenza armata. Anche in questo essi si rivelano
parenti stretti dei fascisti (...)”.
Particolarmente pesante è l’ultima frase riportata, che è un
sintomo di ciò che si sarebbe poi verificato.
Senza il retroterra dell’antifascismo militante e dell’intensa e
continua azione formativa, non si capirebbe l’adesione dei cattolici
al movimento resistenziale.
112
Da più parti si afferma che la Resistenza ha coinvolto un assai
ristretto numero di persone, il che non è affatto vero per una serie di
fatti inoppugnabili.
Si trascura il fatto degli oltre 600 mila militari italiani catturati
dai tedeschi e deportati in Germania che rifiutarono in massa
l’adesione alla Repubblica Sociale di Salò preferendo la dura scelta
della “resistenza del filo spinato”.
Si dimentica l’altrettanto corale aiuto dato dalla nostra gente
dopo l’8 settembre non solo agli sbandati (ed era perfettamente
comprensibile) ma anche ai prigionieri fuggiti dal campo di
concentramento di Chiesanuova di solito genericamente definiti
inglesi mentre in realtà si trattava di militari alleati in prevalenza
sudafricani e neozelandesi (i tedeschi avevano “messo al sicuro” in
Germania i prigionieri inglesi e americani) e di un numero
considerevole di jugoslavi.
Risposta di massa vi fu anche da parte dei contadini delle nostre
campagne che istintivamente si sentono in sintonia con i partigiani,
quanto meno coprendoli con la loro tacita omertà. Non fu affatto un
atteggiamento di comodo perchè essere sorpresi con un prigioniero
alleato o un partigiano in casa significava quanto meno il
saccheggio dell’abitazione e spesso l’incendio e la deportazione.
Una partecipazione di tali dimensioni non si improvvisa: doveva
avere profonde radici e venire da lontano.
In sostanza ci furono più Resistenze di segno diverso che
avevano in comune l’obiettivo della Liberazione e ognuna pagò il
suo prezzo nella riconquista della libertà. Certo, la Resistenza dei
cattolici fu meno appariscente, ma non per questo meno importante.
Se le differenze non fossero state profonde non si
spiegherebbero gli eventi successivi sui quali hanno pesato in
misura determinante gli effetti degli accordi di Yalta e di Potsdam.
Sono quindi infondate le accuse rivolte ai cattolici: “Il
movimento cattolico veneto ebbe sempre una forte carica
113
conservatrice”(4) e “L’azione dei democratici cristiani fu quasi
nulla”(5) .
In realtà parteciparono attivamente alla Resistenza, con modalità
e finalità diverse, preti e laici.
Il vescovo Agostini
Anzitutto va considerato l’atteggiamento del Vescovo, mons.
Carlo Agostini, che fu diplomaticamente prudente a livello ufficiale
ma coerente nell’operatività. In qualche caso il suo comportamento
venne interpretato come appoggio diretto alla Repubblica Sociale,
come è avvenuto per il discorso pronunciato in Cattedrale in
occasione del funerale cittadino delle vittime del bombardamento
dell’11 marzo 1944 che provocò 400 morti e semidistrusse la
Chiesa degli Eremitani, rovinando irreparabilmente gli affreschi del
Mantegna, e quella di San Benedetto, il cui restauro si era concluso
appena tre mesi prima: tra le rovine in quelle ore si aggirò il parroco
con la veste macchiata di sangue e coperta di calcinacci.
Davanti alle bare, il Vescovo tra l’altro disse:
“Sappia il mondo che la chiesa degli Eremitani non
esiste più, che gli inestimabili tesori d’arte, l’undici
marzo furono letteralmente polverizzati. Basta con
simili bombardamenti (...). Non è lecito nè a chi
comanda nè a chi esegue colpire così. Io invoco il
senso di umanità comune a tutti gli uomini e ricordo
che sopra ad ogni uomo è la giustizia di Dio e che
presto o tardi questa giustizia vendica il sangue
innocente”.
I fascisti, interpretandolo strumentalmente, subito stamparono e
diffusero il discorso in tutta la provincia, datandolo 15 marzo 1944 114
XXII. Sono superflui i commenti su quel “XXII” che si riferiva
all’era fascista.
Gli storici generalmente attribuiscono al vescovo Carlo Agostini
simpatie filofasciste. Anche ammesso che vi fossero state prima del
25 luglio, non è affatto dimostrato nè dimostrabile che egli abbia
manifestato simpatia per la Repubblica Sociale. Tra l’altro, mai il
settimanale diocesano “La Difesa del Popolo” ospitò un bando
tedesco o fascista.
Non solo, ma mons. Agostini, subito dopo l’8 settembre, quando
fu informato dal parroco di Chiesanuova del passaggio allo scalo
merci di Campo di Marte di un convoglio carico di soldati italiani
deportati, accorse immediatamente. Si accostò ai carri e, sotto lo
sguardo stupefatto dei militari tedeschi che non osarono sparare,
aprì con un coltello i carri, mandando contemporaneamente alla
ricerca di cibo e di bevande.
Poi, nei venti mesi successivi, si occupò personalmente di tutti i
suoi preti arrestati o minacciati di arresto per attività contrarie
all’occupante e ai collaborazionisti di Salò.
Come già ricordato, salvò dall’arresto sulla porta del vescovado
don Guido Beltrame, autore del “Catechismo sociale”. Accorse in
Piazza Castello, impedendo che don Piero Costa, allora assistente
dei giovani di Azione Cattolica, fosse fatto salire sul camion che
l’avrebbe deportato in Germania. Si recò personalmente al comando
tedesco per chiedere il rilascio dei due cappellani di Cittadella, don
Augusto Rancan e don Francesco Bertoncello.
E’ anche documentato il suo intervento rivolto a salvare la vita
di partigiani detenuti.
In definitiva il Vescovo si mantenne sulla linea dell’episcopato
Triveneto che, analogamente all’episcopato piemontese e lombardo,
prese posizione con un documento che sostanzialmente faceva
proprie le tesi dell’attesismo se non di un dosato equilibrismo.
Infatti nella notifica del 20 aprile 1944, dopo aver ripetuto che i
115
vescovi giudicavano la guerra “se non come uno dei più tremendi
flagelli”, si affermava di non poter entrare nel merito perchè essa
“nella continuazione come nel principio è un fatto strettamente
politico” ed essendo tale non investiva le responsabilità della
Chiesa che erano esclusivamente religiose: così si evitava ogni
scelta di fondo e si motivavano gli interventi in favore dei
perseguitati come azione umanitaria.
I vescovi però non potevano evitare di esprimersi, senza mezzi
termini e diplomatici dosaggi, su un episodio che ritenevano
particolarmente grave sul piano religioso e cioè sull’appoggio dato
da esponenti della Repubblica Sociale a don Tullio Calcagno, un
prete fanaticamente fascista, propugnatore di una chiesa nazionale.
Egli, tra l’altro sosteneva che “dalle premesse bibliche si deduce
apoditticamente che gli italiani devono odiare tutti i nemici in
quanto tali e finché tali dell’Italia e dell’Asse e del Tripartito e di
tutti gli aderenti a questo, come nemici della giustizia e quindi di
Dio. Odio non solo lecito, ma comandato”.
Partendo da simili premesse, teologicamente aberranti, si
ventilava l’ipotesi di una chiesa nazionale.
Dal 10 gennaio 1944, don Calcagno stampa, con il
finanziamento del ministero fascista della Cultura popolare, un suo
settimanale, “Crociata Italica”, che si poneva in linea con “Action
Francaise” di Maurras e Daudet. Il settimanale ebbe una tiratura
iniziale di centomila copie che vennero largamente diffuse in
ambienti cattolici del territorio controllato dalla Repubblica Sociale.
Fortemente irritato e preoccupato, il cardinale patriarca di
Venezia, Piazza, (analogamente ai vescovi di Torino, Milano,
Bologna oltre a quello di Cremona, Cassani, che l’aveva fatto
immediatamente) dichiara che avrebbe immediatamente sospeso “a
divinis” tutti i preti della regione che in qualche modo avessero
collaborato al giornale.
116
Anche questo fatto allargò il solco tra la Chiesa e la Repubblica
Sociale.
Il coinvolgimento del clero
I preti diocesani e i religiosi sistematicamente aiutarono i
perseguitati senza distinzione di parte.
Esemplari in quest’opera furono don Giovanni Fortin, padre
Placido Cortese dei conventuali del Santo, padre Cornelio Biondi e
padre Germano Lustrissimi, entrambi benedettini del convento di
Santa Giustina.
I primi due furono infaticabili nel mettere in salvo prigionieri
alleati e internati jugoslavi fuggiti dal campo di concentramento di
Chiesanuova, nonché ebrei.
Don Fortin, arrestato in sacrestia e inviato al lager di Dachau
dopo settanta giorni passati in carcere, al giudice che lo accusava di
essere un traditore della Patria, rispose fermo: “Io ho obbedito al
Vangelo”.
Padre Cortese, per fabbricare documenti di identità falsi, usava
le foto degli ex voto che avevano qualche rassomiglianza con le
persone da aiutare. Non si è mai saputo che fine abbia fatto dopo
l’arresto probabilmente dovuto al fatto che, essendo nativo di
Cherso, si riteneva fosse venuto a conoscenza di notizie importanti
nei suoi contatti con gli internati jugoslavi.
Più controverse, per evidenti motivi, sono le figure di padre
Cornelio e di padre Germano, entrambi cappellani delle Brigate
Nere padovane. Ci sono prove certe che con la loro opera
intelligente, ma estremamente pericolosa, misero al sicuro molti
resistenti. Salvarono Castelbaldo dalla distruzione per rappresaglia
117
e, a dimostrazione che la loro opera si rivolgeva a tutti senza
distinzione di parte, si può ricordare che padre Biondi procurò a
padre Angelo, pure lui del convento di Santa Giustina, un’auto
fascista con la quale poté portare in salvo a Milano Giuseppe
Doralice, il noto capo partigiano comunista, attivamente ricercato
dopo i fatti di Castelbaldo.
Assai rilevante fu il ruolo attivo giocato nella Resistenza
padovana da alcuni sacerdoti e da alcuni istituti religiosi della città.
Anche qui alcuni nomi: don Giovanni Apolloni, padre Mariano
Girotto, don Egidio Bertollo, don Antonio Pegoraro, don Guerrino
Gastaldello, l’Antonianum, il convento di Santa Giustina, diverse
canoniche.
Esemplare è la figura di don Giovanni Apolloni del collegio
Barbarigo, amico e consigliere di Otello Pighin (“Renato”) che
entra attivamente nella Resistenza e con don Francesco Frasson
stampa innumerevoli documenti falsi: dalle carte d’identità agli
esoneri. Nello stesso giorno (quel nero 7 gennaio 1945) della
grande retata dei membri del Comitato di Liberazione Nazionale
alla Casa di Cura Palmieri al Torresino e dell’uccisione di Pighin,
viene arrestato dagli uomini di Carità e portato a Palazzo Giusti.
Torturato non parla; uscirà solo alla Liberazione.
Don Egidio Bertollo accoglie per diversi mesi nella canonica di
San Carlo le sedute del Comitato di Liberazione Nazionale e ne
ospita il comandante militare. Arrestato, viene liberato grazie
all’intervento del vescovo di Treviso (era stato portato a
Montebelluna).
Don Antonio Pegoraro è con i partigiani del Grappa nei terribili
giorni del rastrellamento. Don Guerrino Gastaldello è cappellano
della “Damiano Chiesa”.
Padre Mariano Girotto prestava l’ufficio parrocchiale e la saletta
della San Vincenzo per le riunioni del Comitato di Liberazione
Regionale. Il professor Meneghetti arrivava in tuta da operaio e con
118
il tradizionale pentolino in mano. Ai frati che gli chiedevano chi
fossero tutte quelle persone, rispondeva che si trattava di uomini...
dell’Azione Cattolica.
Nella cripta della chiesa di San Prosdocimo funzionò la
tipografia clandestina dalla quale, oltre a migliaia di volantini,
vennero stampate con la sovracopertina di Pinocchio, le
“Confidenze di Hitler”, che presentavano il dittatore nazista come
un pazzo fanatico.
Nella canonica di Voltabarozzo ebbe sede il comando della
Brigata Trentin e in quella di carceri d’Este tenne le sue riunioni il
comando della Pierobon.
Non è per fortuita coincidenza che la resa delle forze fasciste sia
stata firmata al Santo e quella delle forze tedesche all’Antonianum.
Il clero diocesano pagò la sua partecipazione alla Resistenza con
dieci sacerdoti uccisi e quarantaquattro incarcerati.
Accaddero alcuni fatti mai chiariti, come l’uccisione del parroco
di Bertipaglia, don Luigi Bovo, avvenuta nella sua canonica il 25
settembre 1944.
Dell’assassinio fu accusato un partigiano della “Brigata
Garibaldi Padova”, Artemio Zambolin (“Silla”) da Pontelongo che,
dopo essere stato torturato, venne fucilato nella piazza di
Bertipaglia dai fascisti della Brigata Nera “Begon”.
Non è per niente certo che lo Zambolin sia stato l’uccisore del
prete; c’è chi sostiene che egli sia stato solo un capro espiatorio per
coprire il vero colpevole. E’ verosimile, anche perchè è provato che
don Luigi aiutava i partigiani che si rivolgevano a lui(6).
L’impegno del laicato
Numericamente consistente fu l’adesione alle formazioni
partigiane organizzate dai cattolici padovani.
119
Mentre i comunisti, in coerenza con la loro impostazione
ideologica, optarono per una formazione unica estesa a tutta la
provincia (la Brigata Garibaldi Padova poi “Franco Sabatucci”
inizialmente ripartita in sette battaglioni e poi in undici) i cattolici
organizzarono quattro brigate che facevano riferimento a quattro
diverse aree del territorio provinciale:
- la “Luigi Pierobon” tra Abano ed Este;
- la “Guido Negri” tra Padova, Piove e Dolo;
- la “Brunello Rutuli” (inizialmente “Adige”) tra Conselve e
Cavarzere;
- la “Damiano Chiesa”, poi ripartita in tre, nell’Alta padovana.
Su due formazioni, la “Silvio Trentin” e la “Corrado Lubian”,
contavano gli azionisti di “Giustizia e Libertà”.
Al momento della Liberazione al comando della “Pierobon”
c’era Giuseppe Bussolin, della “Guido Negri” Antonio Ranzato,
della “Rutuli” Marino Munari e delle tre brigate della “Damiano
Chiesa” rispettivamente Giuseppe Armano, Sebastiano Bortignon,
Graziano Verzotto.
Inizialmente all’interno del Comitato di Liberazione si discusse
molto vivacemente se le formazioni partigiane dovessero essere
unificate sotto un unico comando militare o mantenere la loro
caratterizzazione politica. Prevalse la seconda tesi (vi insistettero in
particolare i comunisti) e solo nella tarda primavera del 1944 il
Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto (CLNRV)
dispose l’organizzazione in brigate, battaglioni e compagnie.
I termini militari di brigate, battaglioni e compagnie non
traggano in inganno perchè in realtà il numero dei partecipanti era
assai esiguo rispetto alle omonime formazioni dell’esercito.
Quanti erano in realtà i partigiani combattenti? Non sono certo
attendibili nè le cifre fornite al Comando Militare Regionale (CMR)
nè quelle relative a coloro che hanno ottenuto la qualifica
dell’apposita commissione. Per evidenti motivi politici ogni
120
componente cercò di valorizzare la propria partecipazione alla
Guerra di Liberazione gonfiando le cifre; e lo fecero tutti, dai
comunisti ai cattolici.
Ci sono dei riscontri oggettivi. La “Brigata Garibaldi Padova”,
sicuramente la più numerosa, ebbe riconosciuti 3.687 partigiani
combattenti e 1.689 patrioti. Ma un testimone attendibile, Giorgio
Amendola, quando, su incarico della Direzione Nazionale del PCI,
fu a Padova tra il 14 e il 24 settembre 1944, cioè nel periodo della
grande estate partigiana, accertò che la Brigata garibaldina
padovana contava su 2.000 uomini dei quali solo 500 erano
armati(7).
Se, in sostanza, i partigiani combattenti della formazione
comunista erano 500, i partigiani combattenti cattolici erano ancora
meno e quelli di “Giustizia e Libertà” non arrivavano al centinaio.
Non è da trascurare l’apporto delle donne, talora ignorato o
sottovalutato nella sua essenzialità non solo sul morale ma anche in
funzioni essenziali quali il servizio di staffetta e di predisposizione
di rifugi sicuri.
C’è anche un secondo interrogativo: quanto hanno veramente
pesato le forze partigiane sul piano militare?
Al molto sul piano politico, specie per quanto riguarda la
coscientizzazione delle masse popolari, corrisponde un poco sul
piano militare. Nella pianura padana con un insediamento abitativo
diffuso, fortemente presidiata da forze tedesche ben armate ed
addestrate e dalle formazioni fasciste, erano possibili solo le tipiche
azioni di guerriglia, del mordi e fuggi in prevalenza atti di
sabotaggio alle vitali linee di comunicazione (strade, ponti, linee
ferroviarie e telefoniche).
Occorre anche aggiungere che la lotta partigiana vera e propria
si limitò all’estate e all’inizio dell’autunno 1944, concentrandosi nel
periodo che va dalla liberazione di Roma e dallo sbarco in
121
Normandia alla spietata repressione nazi-fascista e al proclama del
generale Alexander (13 novembre 1944).
I due eventi (l’arrivo degli alleati a Roma e l’apertura del
secondo fronte) facevano ritenere, in base ad una valutazione più
emotiva che razionale, che la guerra si sarebbe conclusa prima
dell’inverno. Non si metteva in conto che l’Italia era per gli alleati
un fronte secondario (serviva a tenere immobilizzate consistenti
forze nemiche) e che l’esercito tedesco, secondo una consolidata
tradizione, avrebbe combattuto fino all’ultimo.
La disparità delle forze apparve chiara nella battaglia del Grappa
(19-28 settembre 1944) che in soli dieci giorni costò alla Resistenza
veneta 171 impiccati, 603 fucilati, 804 deportati, 3212 prigionieri,
285 case incendiate. D’altra parte era pura illusione pensare di
potersi contrapporre allo scoperto ai tedeschi.
La crisi della lotta partigiana arrivò subito dopo in pianura. Le
ondate di arresti (giocarono negativamente spie, delazioni,
cedimenti) crearono larghi vuoti nelle formazioni. Agli arresti si
accompagnarono feroci esecuzioni rivolte a terrorizzare la
popolazione: Pierobon viene fucilato a Chiesanuova con altri sei;
Busonera viene impiccato in via Santa Lucia con altri due; quattro
vengono impiccati al ponte che ora si chiama “Quattro Martiri”;
sette vengono fucilati a Luvigliano e i loro cadaveri impiccati ai
platani del viale antistante la Villa dei Vescovi; sette vengono
impiccati sul lungargine della Brentella (ora via Sette Martiri); sei
della Pierobon vengono uccisi a Piacenza d’Adige e altri sei fucilati
a Megliadino San Vitale...
A completare la crisi, arrivò il proclama col quale il generale
Alexander invitava le formazioni partigiane ad interrompere “le
operazioni organizzate su vasta scala” continuando solo a fornire al
comando alleato notizie di carattere militare.
Le conseguenze furono pesanti poichè molti, sfiduciati,
abbandonarono e si ridussero a livello minimo le azioni di guerra
122
anche perchè al proclama seguì una drastica riduzione degli
aviolanci di armi e di materiale da parte degli alleati. Molto si è
scritto sulle ragioni che indussero Alexander ad emanare il
proclama; di sicuro c’è che gli inglesi non amavano i partigiani e in
particolare quelli comunisti.
Più che per le azioni militari in sé, la Resistenza armata contò
perchè lo Stato Maggiore tedesco era fortemente preoccupato
dell’azione partigiana, un fenomeno difficilmente comprensibile per
una mentalità abituata a ragionare in termini di armate schierate sui
campi di battaglia secondo determinati piani strategici. Un risultato
certo fu l’immobilizzazione di consistenti forze a salvaguardia delle
retrovie e delle possibili direttrici di ritirata verso il territorio
tedesco.
Le forze fasciste, salvo rare eccezioni, furono impegnate
esclusivamente, invece che al fronte, nella lotta antipartigiana e poi,
come la Milizia fascista dopo il 25 luglio, anche questa volta si
arresero senza combattere.
Qui va considerato un ultimo aspetto. Le colonne tedesche in
ritirata (ma non in rotta) vennero spesso attaccate senza un piano
prestabilito da formazioni non addestrate, scarsamente armate e non
adeguatamente comandate. Si voleva colpire il nemico a tutti i costi
comunque e dovunque, senza valutare le prevedibili conseguenze.
Un conto era attaccare quei piccoli gruppi che, nei mesi
dell’occupazione erano stati disseminati nel territorio e che
rimasero tagliati fuori dalle grandi direttrici di ritirata, un conto era
lo scontro con colonne corazzate ancora efficienti, disciplinate e
potentemente armate. L’attaccarle poteva essere un atto eroico, ma
equivaleva ad un suicidio e quasi sempre, secondo il costume
tedesco, comportava feroci rappresaglie sulla popolazione.
Così avvennero gli eccidi di San Benedetto delle Selve (Praglia
di Teolo) dove morirono fucilati 3 partigiani ed 11 civili; a Saonara
dove vennero trucidati 50 civili; a Santa Giustina in Colle con 23
123
fucilati tra i quali il parroco don Giuseppe Lago e il cappellano don
Giuseppe Giacomello; a Sant’Anna Morosina dove 38 cittadini
vennero presi in ostaggio e poi freddamente trucidati a Castello di
Godego, poco oltre Castelfranco.
Per dovere di obiettività occorre precisare che se i primi due
eccidi sono stati conseguenza di azioni partigiane garibaldine, la
responsabilità degli altri due è stata di formazioni partigiane della
“Damiano Chiesa”.
Altri eccidi vennero evitati dal coraggio dei parroci che
trattarono con i tedeschi la liberazione di gruppi di loro
parrocchiani presi in ostaggio. Così fece a Lozzo don Tarcisio
Mazzarotto e a Saletto di Vigodarzere don Antonio Moletta, dopo
che era stato ucciso il cappellano don Beniamino Guzzo.
In positivo va rivelato che quando le truppe alleate arrivarono
nel territorio padovano, lo trovarono completamente libero, ma
quegli eccidi pesano ancora negativamente nel ricordo della gente
convinta che quelle tragedie potevano essere evitate.
Note:
(1) A. Molinari (a cura di), La Divisione Garibaldina “F. Sabatucci” Padova (19431945), Forcato, Padova 1977.
(2) G. E. Fantelli, La Resistenza dei cattolici nel padovano, FVL, Padova 1965.
(3) A. Micheli, Ha combattuto con le vittime, in “La Difesa del Popolo”, 2 gennaio
1983.
(4) M. Sartori, La Resistenza a Padova, settembre 1943-aprile 1945, Tesi di laurea
1981, appendice p.64.
(5) Ibidem p.55.
(6) cfr. La Difesa del Popolo, 20 dicembre 1992.
(7) G. Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, Roma 1973, p.442.
124
DOCUMENTI
DOCUMENTO N.1
La Cassa Rurale di Piove di Sacco (1)
A) La Cassa Rurale
Che cosa è una Cassa Rurale?
La Cassa Rurale è una società di prestiti ordinata a rendere
possibile anche al contadino il credito di cui abbisogna, per salvarlo
così dall’usura e migliorarne la condizione.
Che il contadino abbia bisogno di credito non v’ha alcuno che lo
possa negare, ove conosca le condizioni disastrose in cui versa
attualmente l’agricoltura e specialmente la piccola cultura. Ora il
contadino non possiede ordinariamente che pochi attrezzi rurali,
qualche bovina, al più poche pertiche di terreno; e questa garanzia,
sebbene superi materialmente in valore la piccola somma di cui egli
può abbisognare, pure attesane l’assoluta esiguità che la rende più
soggetta all’avversità, e la lontananza del contadino dai centri di
credito che lo rendono sconosciuto, non può bastare perchè a lui si
aprono gli sportelli delle banche così dette popolari.
Senza dire che il contadino è per se stesso restio di ricorrere a
questi istituti, e che le norme con cui questi si reggono, non si
addicono ai bisogni dell’agricoltura. Che fa adunque il contadino?
Se il bisogno non è urgente si adatta a tirare innanzi alla meglio,
interdicendosi quelle migliorie e quei modi d’acquisto che non poco
lo avvantaggerebbero d’assai, e andrà così sempre alla peggio. Se
invece il bisogno di prestito in cui si trova, è urgente, egli dovrà
ricorrere ad una delle molte forme di usura più o meno velate che
gli si offrono e che finiscono col rovinarlo interamente.
Ma ecco come a sovvenirlo e nell’uno e nell’altro caso la Cassa
Rurale. Quel contadino, anziché rimanere isolato nel suo bisogno, si
associa a molti altri suoi comparrocchiani, tutti onesti e ben
intenzionati come lui; con atto notarile stringono un patto di
solidarietà illimitata, cioè si obbligano solidariamente, tutti per uno
ed uno per tutti, garanzia di quei capitali che la loro Società potesse
ottenere dalle Banche o dai privati....
Piove di Sacco il giorno di S. Antonio del 1894.
B) L’atto costitutivo
N°1232 di Repertorio - N°1582 di Registro
---------------------Atto Costitutivo della Cassa Rurale di Prestiti di Piove di Sacco
Società Cooperativa in nome collettivo
---------------------Regnante S. M. Umberto I° per grazia di Dio e per volontà della
Nazione Re d’Italia. In Piove di Sacco in una sala grande detta il
Paradiso di recente costruzione attigua alla Chiesa Parrocchiale,
questo giorno - due - del mese di Settembre 1894, mille ottocento
novanta quattro.
Avanti di me Dottor Bernardo Bonato di Antonio, qui residente
(...) si sono personalmente costituiti quali parti stipulanti il presente
atto pubblico i Signori:
1. Tedeschi Conte Prospero di Carlo Avvocato nato e domiciliato
a Piacenza, residente a Padova.
2. Coin Don Roberto fu Luigi nato ad Arzarello, Arciprete,
Parroco domiciliato a Piove di Sacco.
3. Discardi Don Isidoro fu Domenico nato a Pianiga Sacerdote.
Beneficiato domiciliato a Piove di Sacco.
4. Salviati D. Rainerio di Giacomo nato a Monselice Sacerdote.
Beneficiato domiciliato a Piove di Sacco.
126
5. Roncolato Don Pietro di Matteo nato ad Este Sacerdote.
Beneficiato domiciliato a Piove di Sacco.
6. Andreatta don Rocco fu Francesco a Crespano Veneto, Rettore
delle Grazie, domiciliato a Piove di Sacco.
(Seguono i nomi degli altri 45 fondatori)
E le suddette parti dichiarano coll’atto presente costituire fra
loro una Società in nome collettivo sotto la denominazione
“CASSA RURALE DI PRESTITI di Piove di Sacco Società
Cooperativa in nome collettivo”.
La società ha per iscopo di migliorare la condizione morale e
materiale dei suoi soci, fornendo loro il denaro a ciò necessario nei
modi determinati dallo Statuto (...).
C) Lo Statuto
(...)
Art.4. Possono appartenere alla Società soltanto persone
giuridicamente capaci, che offrano la guarentigia dell’onestà e
moralità individuale; che siano buoni cattolici e non contrari al
Governo costituito, che non facciano parte di un’altra Società a
responsabilità illimitata, che appartengano alla Parrocchia di Piove
di Sacco o abitino nella stessa con frequente dimora avendovi
continue relazioni d’affari, e che sappiano scrivere il loro nome e
cognome (...).
Art.7. I soci sono obbligati:
a) di rispondere con tutti i loro averi fra essi in parti eguali e
solidarmente rispetto ai terzi dei prestiti passivi contratti dalla
Società e per ogni altra sua obbligazione;
(...).
Art.26. Segretario (...) sorveglierà che all’apertura e chiusura di
ogni adunanza si reciti una breve preghiera invocando la protezione
del Signore Iddio (...).
127
Art.33. Ogni socio deve indicare ogni cosa colla più scrupolosa
verità perchè ove le cose non fossero vere, il Consiglio di
Presidenza o gli negherà il prestito, o avendolo già accordato glielo
richiederà immediatamente, anche per via di legge.
(1) La costituzione e lo statuto della Cassa Rurale di Piove di Sacco seguono criteri
comuni a tutte le altre casse rurali cattoliche costituite in quell’esaltante periodo.
Promotori e fondatori ne sono i preti locali con persone gravitanti nell’ambito della
parrocchia, in larga prevalenza agricoltori, ma anche artigiani e commercianti.
La costituzione avviene in un locale della parrocchia e tipiche caratteristiche
fondanti, che si ritrovano identiche in tutte le altre casse, sono la confessionalità
(articoli 4 e 26) e la responsabilità illimitata (articolo 7).
Il conte Prospero Radini Tedeschi (1856-1924), avvocato e agricoltore, era legato
all’Opera dei Congressi ed era stato pochi mesi prima (giugno 1893) uno dei
fondatori della Banca Cooperativa Cattolica padovana, poi divenuta nel 1906
Banca Antoniana.
Ricco possidente, risiedeva a Piove dove nell’agosto del 1909 venne a trovarlo il
fratello Giacomo Maria, vescovo di Bergamo, con il giovane segretario don
Giovanni Roncalli, divenuto poi Papa Giovanni XXIII.
Copia integrale della presentazione, dell’atto costitutivo e dello statuto è riprodotta
in G. Borella, D. Borgato, R. Marcato, Un secolo di cooperazione. Cento anni di
vita della Cassa Rurale e Artigiana di Piove di Sacco (1894-1994), Banca di
Credito Cooperativo di Piove di Sacco 1994, p.71-75; 182-202.
DOCUMENTO N.2
Il nostro programma (1)
... Il periodico che, sotto veste rammodernata ed elegante, si
presenta innanzi a voi, carissimi lettori, riassume nel suo titolo ed
esprime chiaramente tutto un programma di lavoro e di
restaurazione.
128
Difesa del Popolo contro l’enorme ammasso di errori che, ai
danni del proletariato, continuamente vengono divulgati per
strappargli dal cuore e dalla mente la Fede, quel prezioso tesoro che
i suoi antenati con tanta cura custodirono; contro tutte le calunnie
che si vanno propalando per screditare istituzioni sacre e persone
ascritte ad ordini religiosi.
Difesa del Popolo contro le più subdole insidie in cui si cerca di
farlo miseramente cader vittima.
Difesa del Popolo contro il dilagare di letture malsane e di
insegnamenti perversi, che vanno sempre più diffondendosi sotto la
menzognera etichetta di un’istruzione cosiddetta moderna e civile.
Difesa del Popolo sul terreno vero delle rivendicazioni sociali,
inquantochè (e lo proclamiamo a voce alta) noi intendiamo che,
salvaguardati i diritti e tenuto in doverosa considerazione il
prestigio di quelli che sono i reggitori della società, anche ai
lavoratori siano garantiti, ed anche per essi siano rivendicati, quei
diritti che umanità e progresso assolutamente esigono. Ed invero
noi non invochiamo, anzi neppur immaginiamo, il ritorno della
nefasta servitù della gleba, ed il ripristino del nefasto ordinamento
feudale.
Anzi ammiriamo gli operai che, secondo i diversi generi d’arte o
mestiere, si stringono in lega per istruirsi, civilizzarsi, migliorare le
proprie condizioni e per far valere le proprie ragionevoli richieste.
Ma altrettanto siamo convinti che gli operai debbano abborrire da
qualunque ribellione e da qualunque atto di violenza; e che
giammai e per nessun motivo ed in nessuna circostanza essi
debbano dimenticare il principio di autorità, il sentimento religioso,
la dignità morale.
Con questi propositi e con questi convincimenti iniziamo le
pubblicazioni, dando il saluto dell’armi a tutti gli avversari,
esigendo da essi quel rispetto delle persone (pur criticandone
129
eventualmente i principi) che io e i miei amici costantemente
professammo....
per la Direzione e Redazione
avv. Umberto Signorini
(1) Il programma de “LA DIFESA DEL POPOLO” pubblicato nel numero 1 in
data 5 gennaio 1908.
DOCUMENTO N.3
L’associazionismo sociale diocesano presente in Collegio
Sacro il 29 febbraio 1908 (La Difesa del Popolo, 4 marzo
1908)
Le casse rurali presenti sono:
Arsiè,
Borso,
Bojon,
Brugine,
Calaone,
Caltrano,
Campagna Lupia,
Campolongo Maggiore,
Campolongo sul Brenta,
Candiana,
Carceri,
Casale Scodosia,
Caselle dei Ruffi,
Cinto Euganeo,
Codevigo,
Crespano,
130
Fara Vicentina,
Fonzaso,
Gallio,
Legnaro,
Lusiana,
Marendole,
Maserà,
Megliadino San Vitale,
Mellamè,
Merlara,
Mestrino,
Monselice,
Ospedaletto Euganeo,
Pernumia,
Pianiga,
Piove di Sacco,
Piovene,
Polverara,
Ponte di Brenta,
Saccolongo,
Saletto di Montagnana,
San Giorgio delle Pertiche,
San Martino di Monselice,
Sant’Elena,
Segusino,
Selvazzano,
Valle San Giorgio,
Valsanzibio,
Veggiano,
Villa del Conte,
Villa Estense.
131
Sono presenti i Comitati parrocchiali di:
Bertipaglia,
Borgoforte,
Caltrano,
Carceri,
Cattedrale (città),
Cazzago,
Conselve,
Fratte,
Marendole,
Megliadino San Vitale,
Monselice (interparrocchiale),
Montagnana,
Noventa Padovana,
Piove,
Ponte Casale,
Saccolongo,
San Benedetto (città),
San Gregorio,
San Nicolò (città),
Santa Giustina,
Sant’Andrea,
Sant’Angelo di Sala,
Sant’Elena (Este),
Santa Maria delle Grazie (Este),
Santa Giustina in Colle,
Sant’Andrea (città),
Sant’Angelo di Piove,
Sant’Angelo di Sala,
Santa Sofia (città),
Santa Tecla (Este),
Selvazzano,
132
Servi (città),
Tencarola,
Tribano,
Valsanzibio,
Vescovana,
Voltabarozzo.
Sono presenti i rappresentanti delle seguenti assicurazioni del
bestiame:
Brugine,
Caltrano,
Campagna Lupia,
Campolongo,
Cesuna,
Foza,
Fratte,
Liettoli,
Lusiana,
Pernumia,
Piove di Sacco,
Polverara,
Salboro,
San Giorgio delle Pertiche,
Santa Giustina in Colle,
Saonara,
Terranegra,
Villa del Conte,
Voltabarozzo.
Sono rappresentate le seguenti società di mutuo soccorso:
Bassanello,
Bastia,
133
Borso,
Cagnola,
Campese,
Casale Scodosia,
Cassola,
Cinto Euganeo,
Conselve,
Crespano,
Gallio,
Granze di Vescovana,
Grisignano,
Legnaro,
Megliadino San Vitale,
Merlara,
Montagnana,
Montegalda,
Ospedaletto Euganeo,
Noventa Padovana,
Padova,
Pedescala,
Piove di Sacco,
Piovene,
Ponte Casale,
Pove,
Pozzonovo,
Romano,
Rovolon,
Saletto di Montagnana,
Santa Tecla (Este),
Schiavonia d’Este,
Solesino,
Teolo,
134
Thiene,
Valstagna,
Veggiano,
Villa Estense.
Cinque sono le Cooperative di consumo presenti:
Calvene,
Fonzaso,
Gallio,
Pedescala,
Perlena.
Sei i circoli operai:
Calaone,
Carceri,
Carmini (città),
Santa Maria delle Grazie (Este),
Santa Tecla (Este),
San Pietro Valdastico.
Quattro i circoli democratici cristiani:
Megliadino San Vitale,
Piove di Sacco,
Vigorovea,
Villa Estense.
Due le società agricole:
Cittadella,
Piovene.
Tre sono i circoli della Gioventù Cattolica presenti:
Merlara,
135
Montagnana,
Padova.
Una la Cooperativa fra braccianti: Merlara; sono presenti anche
l’Unione cattolica del Bassanello, il patronato di San Sabino
(Monselice) e la cassa parrocchiale dei Carmini (città).
DOCUMENTO N.4
La guerra è una tragedia: i cattolici per una neutralità
vigilante sui diritti dell’Italia (1)
L’energica campagna intrapresa perchè l’Italia abbia a
proseguire sul terreno neutrale finora continuato, comincia a dare i
suoi frutti.
I maniaci, i guerrafondai, gli spacconi, i facilitoni, cominciano
ad ammutolire accorgendosi che fuor del chiasso fatto da loro un
gelido silenzio li circonda.
Ed è il silenzio di tutta l’immensa folla del popolo italiano, il
quale pensa con terrore alle terribili ripercussioni della guerra nelle
famiglie, nella vita, dovunque.
Si fa presto a strombazzare la guerra quando non si hanno
conseguenze, ma chi ne ha, va più guardingo; o per vaporose teorie,
pallonate retoriche, gonfiature ostentate, non ha nessun entusiasmo
che lo spinga a rimetterci la pelle, lui e i suoi e a veder la sua rovina
economica.
Perchè fino a prova contraria, anche durante la guerra bisogna
mangiare; e i dissesti ed arresti negli affari e commerci non sono
certo quelli che daranno pane a chi ha fame.
*****
136
Uno dei lati più immorali di questa moribonda campagna
guerrafondaia, fatta per tre quarti dagli scarti di truppa o da chi per
altra causa è esente da servizio militare, è il vedere come sia
sostenuta da coloro che ieri spingevano i soldati all’antimilitarismo;
magari fucilando i superiori.
E’ un concetto che più volte abbiamo ripetuto e che oggi pure
ripetiamo, perchè non lo sarà mai abbastanza, e più di qualunque
altra motivazione serve a snebbiare qualcuno il cui cervello fosse
stato preso da malinconie guerresche.
Due sono i partiti che particolarmente sostengono in Italia la
neutralità: i socialisti e i cattolici.
I socialisti ufficiali hanno da tempo pubblicato un manifesto in
cui bandivano la neutralità assoluta, senza eccezioni; è vero che
anche in mezzo a loro ci sono dei dissenzienti.
I cattolici hanno invece formulata diversamente la loro
neutralità; essi hanno detto: ragioni vere per entrare in guerra oggi
non ce ne sono, dunque stiamo fermi con le armi al piede, pronti ad
intervenire se un’offesa od una minaccia ci venisse, o se domani
non si tenessero nel debito conto i buoni diritti d’Italia. Allora che
vi saremo costretti risponderemo.
Tra i due è evidente come quelli che veramente vogliono il bene
dell’Italia sono solo i cattolici.
I socialisti sono sempre stati degli opportunisti senza idealità; ci
sarebbe voluta una bella ingenuità a credere che oggi non lo fossero
più.
*****
La nostra formula di neutralità giova insieme di risposta (posto
che lo meriti) a tutta la canea latrante che siamo antipatrioti.
137
Lasciamo adunque che il governo prosegua come ha
incominciato, senza aver la solita pretesa di forzarlo con
dimostrazioni di esaltati.
Chi ha la responsabilità “giudica” più sicuramente di chi non ne
ha.
E chi è a conoscenza di tutto, “agisce” come può agire, e non
come non può.
Sono verità così elementari che non ci dovrebbe esser bisogno di
dire.
Ma oggi pare che certa gente sia divenuta analfabeta in fatto di
giudizio; e per essa bisogna proprio ricominciare dall’a.
(1) LA DIFESA DEL POPOLO, 18 ottobre 1914.
DOCUMENTO N.5
Così lo Stato va al suicidio (1)
La nuova direzione del Partito Nazionale Fascista ha lanciato al
paese un roboante manifesto, il quale termina con le seguenti
parole: “Saremo con lo Stato e per lo Stato tutte le volte che esso si
dimostrerà geloso custode difensore e propagatore delle tradizioni
nazionali, del sentimento nazionale capace di imporre a tutti i costi
la sua autorità. Ci sostituiremo allo Stato tutte le volte che esso si
manifesterà incapace di fronteggiare e combattere senza indulgenza
la funesta coesione di elementi di disgregazione intima dei principi
della società nazionale.
“Ci schiereremo contro lo Stato qualora esso dovesse cadere
nelle mani di coloro che minacciano e attentano all’avvenire del
paese.
“L’Italia innanzi tutto. L’Italia sopra tutto: questo è il
programma di ieri, questo quello di oggi e di domani”.
138
Domandiamo noi: è intollerabile che in uno Stato esista ancora
una organizzazione armata che dichiara senz’altro di volersi
“sostituire” allo Stato stesso ogni qualvolta quello si manifesti
incapace a fronteggiare ecc. ecc.? E chi può essere giudice di una
tale situazione se non lo Stato stesso? Povero... “Stato Sovrano” dei
liberali, creatori, fautori e sostenitori del fascismo!
E lo stato, permettendo una tale organizzazione armata, non
legalizza col suo consenso tacito l’esistenza di fazioni fuori della
legge che condurranno inevitabilmente al suicidio della sua autorità,
al regime di ritorsione violenta, dell’assassinio politico,
all’esercizio arbitrale del potere? Ci pensi, il governo, finché è in
tempo!
(1) LA DIFESA DEL POPOLO, 4 dicembre 1921
DOCUMENTO N.6
Intanto i fascisti intimidiscono le leghe (1)
Quanto sopra per ciò che riguarda i rapporti tra datori di lavoro e
lavoratori(2). Chè, per i rapporti tra lavoratori e... fascisti più o meno
agrari...
Nella Bassa Padovana (e particolarmente nei distretti di Este e
Conselve) gravissime furono le violenze di ogni genere consumate
dai fascisti dall’aprile a tutt’oggi. In queste ultime settimane le
violenze aumentarono di numero e di gravità. Accenniamo soltanto
a quelle consumate contro l’organizzazione bianca e i nostri.
Centinaia e centinaia di lavoratori furono bastonati a sangue! I
feriti da arma da fuoco furono oltre a trenta. Ci furono alcuni morti
tutti di parte operaia. Gli incendi di case e di masserizie di
lavoratori furono innumerevoli. Si calcolano a oltre cento i
lavoratori che per mesi dovettero dormire nei campi, lasciando
139
indifesi in pericolo d’assalto donne, bambini e vecchi, essendo
ricercati continuamente dai fascisti. Immancabilmente, tutte le sere,
centinaia e centinaia di colpi di fucile e di rivoltella furono sparati
in numerosi paesi.
Locali di Leghe e di organizzazioni furono invasi, bruciati e
venne imposta la loro chiusura. Diecine e diecine di bandiere
furono asportate con la violenza. Le leghe e le organizzazioni di
quasi tutti i paesi non poterono funzionare, e non possono ancora
funzionare.
Organizzatori e dirigenti bastonati e feriti a Este e Conselve, a
Ospedaletto e Vighizzolo. Minacce continue: una vita d’inferno che
chi non la trascorse non può neppure lontanamente immaginare
quanto dolorosa per violenze inaudite perpetrate di giorno e di notte
sotto gli occhi delle Autorità locali quasi sempre insufficienti e
qualche volta nettamente partigiane della parte agraria e fascista. Ai
capilega di alcuni paesi fu intimato non di non commettere
violenze, che nessuna violenza fu mai commessa dai nostri nella
Bassa, ma di sciogliere le Leghe o dimettersi dalle Leghe stesse e
minacciati ripetutamente. Leghisti bastonati, organizzatori e
dirigenti aggrediti e diffidati dal recarsi ancora in alcuni paesi.
Commenti?... Non ne facciamo. Solo ricordiamo: “La corda
troppo tesa si spezza”.
(1) LA DIFESA DEL POPOLO, 19 febbraio 1922
(2) Si riferisce all’articolo precedente, titolato: “Nè legge nè orari”
DOCUMENTO N.7
Il fascismo e i cattolici (1)
Su questo tema: - Il fascismo e i cattolici - ha pubblicato un
importante articolo l’on. Meda nella rivista Vita e Pensiero.
140
Possono i cattolici essere fascisti? Ecco la domanda che si pone
l’on. Meda. Alla quale risponde negativamente. Perchè?
Per queste ragioni. Posto anche che con i metodi fascisti della
violenza si ottenga qualche buon effetto, i cattolici non possono
tuttavia acconsentirvi.
Il fine non giustifica i mezzi - Non possono acconsentirvi per il
fatto che l’etica cattolica non tollera, per nessun verso che possa
indulgersi al fatto singolo condannevole per deferenza al risultato,
magari proficuo, che l’autore del fatto medesimo si proponeva di
conseguire. La morale cattolica non ammette il furto perchè se ne
ritraggano risorse a soccorrere sventure pietose, nè il falso per
rimuovere o prevenire un danno immeritato, nè l’omicidio per
ridare la sicurezza ad un onesto o la pace ad una famiglia; ammette
solo il diritto alla vita, e scrimina perciò chi rubi, o meglio si
procuri sottraendolo ad altri senza averne il consenso, il necessario
a sostenersi, o dissimuli e neghi ciò che pur vero, potrebbe, se
confessato, ritogliere l’onore e la libertà, o privi altrui dell’esistenza
nel cimento di salvare la propria: ma tutto ciò non mai
preordinatamente, per calcolo diretto ad un vantaggio, bensì
soltanto per riparare ad involontarie, e non ovviabili necessità
immediate.
Vendetta e rappresaglia sono vietate - Nè, prosegue l’on. Meda,
in qualsiasi modo la dottrina cattolica riconosce poi la liceità della
vendetta e della rappresaglia; tutto il suo sistema etico, che si
identifica cogli assiomi dell’insegnamento evangelico, è anzi una
reazione tenace contro lo spirito pagano prima, barbarico poi, che la
vendetta e la rappresaglia in certa maniera esaltavano come
soddisfazione delle offese patite, come riparazione dell’onore
vilipeso e del danno sofferto.
Dunque - Dunque in quanto il fascismo si concreti e si esplichi
in meditate imprese di reazione, di aggressione o di repressione
violenta, in ferite ed uccisioni, in saccheggi ed incendi poco
141
importa se di camere del lavoro o di private abitazioni, in
soppressioni della libertà personale o sociale, ai cattolici non è
assolutamente lecito nè dare il nome nè tanto meno contribuirvi con
l’opera o con il denaro.
(1) LA DIFESA DEL POPOLO, 10 settembre 1922 (un mese e mezzo prima della
“marcia su Roma” e la presa del potere da parte dei fascisti).
DOCUMENTO N.8
Testo dell’accordo tra la Santa Sede e il Governo Italiano
per la composizione del conflitto sull’Azione Cattolica (1)
In seguito alle conversazioni svoltesi fra la Santa Sede e il
Governo Italiano, concernenti l’avvenuto scioglimento dei Circoli
Giovanili facenti capo all’Azione Cattolica, e in genere, l’attività
della medesima, si è addivenuti ad un accordo nei termini seguenti:
1) L’Azione Cattolica Italiana è essenzialmente diocesana e
dipende direttamente dai Vescovi i quali ne scelgono i dirigenti
ecclesiastici e laici. Non potranno essere scelti a dirigenti coloro
che appartennero a partiti avversi al regime. Conformemente ai suoi
fini di ordine religioso e soprannaturale L’Azione Cattolica non si
occupa affatto di politica e nelle sue forme esteriori organizzative si
astiene da tutto quanto è proprio e tradizionale di partiti politici. La
bandiera delle associazioni locali dell’A. C. sarà la nazionale.
2) L’Azione Cattolica non ha nel suo programma la costituzione
di associazioni professionali e sindacali di mestiere; non si propone
quindi compiti di ordine sindacale. Le sue sezioni interne e
professionali attualmente esistenti e contemplate dalla legge 3
aprile 1926, sono formate a fini esclusivamente spirituali e religiosi,
e si propongono inoltre di contribuire acchè il sindacato
giuridacamente riconosciuto risponda sempre meglio ai principi di
142
collaborazione fra le classi e alle finalità sociali e nazionali che, in
paese cattolico, lo Stato coll’attuale ordinamento si propone di
raggiungere.
3) I Circoli giovanili facenti capo all’Azione Cattolica si
chiameranno Associazioni giovanili di Azione Cattolica. Dette
Associazioni potranno avere tessere e distintivi strettamente
corrispondenti alla loro finalità religiosa; nè avranno per le diverse
Associazioni altra bandiera all’infuori della nazionale e dei propri
stendardi religiosi.
Le Associazioni locali si asterranno dallo svolgimento di
qualsiasi attività di tipo atletico e sportivo limitandosi soltanto a
trattenimenti d’indole ricreativa ed educativa con finalità religiose.
(1) Da “L’Osservatore Romano”, 2 settembre 1931
DOCUMENTO N.9
Lettera di Antonio Guariento a Raffaele Jervolino in
data 24 novembre 1933 (1)
Dopo aver espresso il suo “senso di sfiducia e di malcontento, o
meglio di delusione” la lettera così prosegue:
“Vorrei esserti vicino per dirti tutto il mio pensiero,
pieno di tanta amarezza per l’andamento generale
delle nostre cose non solo di Gioventù, ma di quelle
in genere di tutta l’Azione Cattolica. Ho
l’impressione che ci si faccia marciare su di un
binario falso, pretendendo che ci si adatti ai sistemi
più comodi e meno pericolosi. Tu al centro le vedi
meglio di me le cose nostre, ma tu converrai che
l’Azione Cattolica non si può fare con gli stessi
criteri che può seguire una qualsiasi diplomazia. Così
143
non si formano i caratteri e non si fa dell’Azione
Cattolica che ci fu detto essere al di fuori e al di sopra
della politica...”
(1) In Mario Casella, Per una storia dei rapporti tra Azione Cattolica e fascismo, in
Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato
di Pio XI (1922-1939) a cura di Paolo Pecorari, Vita e Pensiero, Milano 1979,
p.1176.
L’estense Antonio Guariento era allora dirigente regionale della Gioventù maschile
veneta e Raffaele Jervolino presidente nazionale. Nella lettera sono chiari il suo
dissenso e le sue perplessità sulla linea morbida e di adesione - quantomeno
formale - al fascismo.
DOCUMENTO N.10
Quadro dei rapporti tra PNF e AC tra l’agosto del 1938 e
il 22 aprile 1939 (1)
Riassunto:
Diocesi interpellate
Diocesi che hanno risposto
Diocesi che non hanno risposto
Diocesi che hanno accusato situazione normale
Diocesi che hanno segnalato incidenti e difficoltà
n. 323
n. 272
n. 51
n. 63
n. 189
Dettaglio
N. Diocesi
1. Diocesi con casi di ritiro tessere
del PNF
144
17
N. Casi
219*
2. Diocesi che accusano casi di imposte
dimissioni da soci dell’A.C.I.
3. Diocesi che accusano casi di imposte
dimissioni da dirigenti dell’A.C.I.
20
9
N. Diocesi
4. Diocesi che accusano casi di soci
dell’A.C.I. licenziati dal lavoro
5. Diocesi che accusano casi di rimozione
dalle cariche del P.N.F.
6. Diocesi che notificano casi di dimissioni
spontanee (!) dall’A.C.I.
7. Diocesi che segnalano casi di imposta
sospensione di spettacoli o chiusura sale
8. Diocesi che comunicano il divieto di
parlare di A.C.I.
9. Diocesi che accusano casi di divieto
di portare il basco
10. Diocesi che denunciano casi di divieto
di pubblicità delle allocuzioni del S.
Padre del 21 luglio 1938
11. Diocesi che accusano intimidazioni
o vessazioni di vario genere
12. Diocesi ove si verificarono dichiarazioni
di incompatibilità tra P.N.F. e A.C.I.
13. Diocesi ove si verificarono inviti o
imposizioni a togliersi il distintivo
dell’A.C.I.
38
14. Diocesi che ebbero richieste di elenchi
di dirigenti o soci dell’A.C.I.
13
42*
23*
N. Casi
1
2
10
10*
5
20
5
5
1
1
1
1
3
3
68
31
* più casi non determinati
145
1) Mario Casella, op. cit. p.1246-1247.
Il quadro riassuntivo dei rapporti tra Partito Nazionale Fascista e
Azione Cattolica è stato elaborato dalla segreteria generale
dell’A.C. in base alle relazioni inviate a Roma dai vescovi o dai
responsabili diocesani riguardanti il periodo che va dall’agosto
1938 al 22 aprile 1939.
Molto probabilmente il documento, che comprende anche
l’elenco dettagliato dei fatti, è servito alla Segreteria di Stato
vaticana e a Pio XI per una informazione complessiva sui rapporti
tra fascismo e A.C. a livello locale.
Esso riveste notevole importanza poichè dimostra che, dietro il
consenso di facciata, i rapporti erano difficili. Basti pensare che
nella Diocesi di Bergamo, nel periodo considerato dal rapporto,
vennero ritirate ben 196 tessere del P.N.F. a membri dell’A.C.
DOCUMENTO N. 11
La preghiera del ribelle (1)
SIGNORE che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di
contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito
contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della
massa, a noi oppressi da un giogo numeroso e crudele, che in noi e
prima di noi ha calpestato Te Fonte di libera vita, dà la forza della
ribellione.
DIO che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi: alita nel
nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze,
vestici della tua armatura. Noi ti preghiamo, Signore.
TU che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato,
crocifisso, nell’ora delle tenebre ci sostenti la tua vittoria: sii
nell’indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nella
146
amarezza. Quanto più si addensa e incupisce l’avversario, facci
limpidi e diritti.
NELLA tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci
piegare. Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca al Tuo
innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e
carità.
TU che dicesti: “Io sono la resurrezione e la vita”, rendi nel
dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalla
tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie.
SUI monti ventosi e nelle catacombe delle città, dal fondo delle
prigioni, noi ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
DIO della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la
gioia, ascolta la preghiera di noi “ribelli per amore”.
(1) La preghiera, il più alto documento della religiosità resistenziale cattolica, è del
bresciano combattente per la libertà Teresio Olivelli.
Anche nella nostra provincia veniva spesso letta negli incontri clandestini delle
formazioni partigiane cattoliche (Luigi Pierobon, Guido Negri, Damiano Chiesa,
Brunello Rutoli).
147
BIBLIOGRAFIA
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154
INDICE DEI NOMI
Acquaderni Giovanni, 17.
Agostini mons. Carlo, 85, 97,
106, 107, 109, 110.
Agostini Filiberto, 45n.
Alessio Giulio, 75.
Alexander Harold, 117, 118.
Allegri Marcello, 81.
Amendola Giorgio, 116, 119n.
Andreatta don Rocco, 122.
Andreose, organizzatore U.L.,
81.
Annigoni degli Oddi Ettore, 75.
Apolloni don Giovanni, 113.
Armano Giuseppe, 115.45n, 47.
Barbiero don Domenico, 89.
Beltrame don Guido, 106, 111.
Benedetto XV, 69.
Bergamo don Riccardo, 89.
Bernardi Enrico, 24.
Bertin Antonio, 81.
Bertollo don Egidio, 113.
Bertoncello don Francesco, 111.
Bertuzzo don Giuseppe, 92.
Bianchi Jacopo, 107.
Billanovic Vitale Liliana, 101n.
Biondi padre Cornelio, 112, 113.
Bonato Bernardo, 122.
Borgato Daniela, 124.
Borella Girolamo, 124.
Bortignon Sebastiano, 115.
Bottai Giuseppe, 99.
Bovo don Luigi, 114.
Breda Vincenzo Stefano, 21, 23,
24.
Bruttomesso don Ivo, 88.
Busonera Flavio, 117.
Bussolin Giuseppe, 115.
Buttarello Luigi e fratelli, 81.
Calcagno don Tullio, 111, 112.
Callegari mons.Giuseppe, 25Candeo don Angelo, 27, 38.
Carazzolo Gian Tristano, 75.
Casale Antonio, 72.
Antonio, 72.
Casella Mario, 139, 141.
Cassani mons.Giovanni, 112.
Ceccato Egidio, 42n.
Cecchinato Giuseppe, 72.
Cecconelli don Restituto, 51-6
Cerutti don Luigi, 37, 38.
Cittadella Vigodarzere co.
Codemo don Cristiano, 92.
Coin don Roberto, 122.
Coletti Domenico, 38, 40.
Colombo Carlo, 107.
Compostella Baldino, 72.
Contarini Nicolò, 16n.
Coppino Michele, 34.
Corazzin Giuseppe, 53, 65n, 76,
101n.
Corradini don Luigi, 81.
Cortese padre Placido, 112, 113.
Costa Andrea, 62, 63.
Costa don Piero, 111.
Cozzi Gaetano, 7, 16n.
Crescente Cesare, 52, 72.
Crispolti Filippo, 55.
Dal Colle mons. Antonio, 84.
Dalla Costa mons. Elia, 85, 88,
90, 91, 97.
Dalla Longa don Giuseppe, 89.
Dalla Torre Giuseppe, 52, 53,
58.
Dalla Valle don Antonio, 68.
Dal Santo, monsignore, 40.
Daudet Leon, 112.
De Antonellis Giacomo, 100.
De Besi Andrea, 72.
De Bono Emilio, 99.
De Claricini, conte, 40.
De Gasperi Alcide, 84.
De Marsanich Augusto, 99.
De Rosa Gabriele, 65n.
De Stefani Antonio, 81.
De Zanche don Vittorio, 69.
Discardi don Isidoro, 122.
Doralice Giuseppe, 113.
156
Dorio Luigi, 72.
Faggiotto Agostino, 85.
Fani Mario, 17.
Fantelli Giorgio Erminio, 103,
119n.
Favaron Anselmo, 79.
Ferri Leopoldo, 80.
Fiorazzo cav. Vittorio, 23.
Flucco don Giuseppe, 42.
Fogazzaro Giuseppe, 35.
Fortin don Giovanni, 112.
Fracanzani co. Carlo, 30.
Frasson don Francesco, 113.
Gamba Anacleto, 81.
Gambasin mons. Angelo, 45n.
Gastaldello don Guerrino, 113,
114.
Gastaldello don Luigi, 98.
Gemelli frà Agostino, 73.
Giacomello don Giuseppe, 118.
Gianesini don Giacomo, 73, 85.
Giannelli, delegato di P.S., 36.
Giolitti Giovanni, 19.
Gios don Pierantonio, 101n.
Girotto padre Mariano, 113, 114.
Giusti Francesco, 96.
Gottardi Vittorio, 63.
Guariento Antonio, 85, 138, 139.
Gui Luigi, 108.
Jacini Stefano, 27, 28.
Jervolino Raffaele, 139
Lago don Giuseppe, 118.
Lampertico Fedele, 35.
Lazzarini Antonio, 64n.
Leone XIII, 32, 38.
Levi Civita Giacomo, 47.
Longhin mons. Andrea Giacinto,
34, 61, 69.
Lustrissimi padre Germano, 112,
113.
Luzzatti Luigi, 41.
Magarotto Antonio, 81.
Malgeri Francesco, 7n.
Manfredini mons. Federico, 12.
Marcato Roberto, 124.
Marin Alessandro, 43.
Marzetto Gaetano, 23.
Matteotti Giacomo, 84.
Maurras Charles, 112.
Mazzarotto don Tarcisio, 119.
Mazzolari don Primo, 90.
Meda Filippo, 82, 136.
Medolago Albani co. Stanislao,
31.
Meggiorin don Giuseppe, 89.
Meneghetti Egidio, 114.
Merlin Umberto, 73, 84.
Michelotto don Cesare, 85.
Michieli, mons. Antonio, 117n.
Miglioli Guido, 54, 55, 60.
Moletta don Antonio, 119.
Molinari Aronne, 103, 119n.
Monticelli Carlo, 43.
Morpurgo Emilio, 27, 42n.
Munari Marino, 115.
Murri Romolo, 34, 39, 64.
Mussolini Benito, 99, 100.
Napoleone, 14.
Negri Guido, 69.
Olgiati don Francesco, 73.
Olivelli Teresio, 142.
Orlandini, avvocato, 81.
Paganuzzi Giovanni Battista, 17,
30, 32.
Panebianco Gino, 75.
Papafava, famiglia, 96.
Pavan Felice, 75.
Pecorari Mario, 139.
Pegoraro don Antonio, 113, 114.
Pellizzo mons. Luigi, 47-51, 58,
62, 63, 64n, 67, 85.
Piazza mons. Adeodato, 84, 112.
Pierobon Luigi, 105, 117.
Pietrogrande Rinaldo, 52, 85.
Pighin Otello (“Renato”), 113.
Pio IX, 17.
Pio X, 29, 31, 47, 48, 99.
Pio XI, 6, 141.
Pio XII, 99.
157
Piva Edoardo, 75.
Podrecca Guido, 62, 63.
Radini Tedeschi, v. Tedeschi.
Rancan don Augusto, 111.
Ranzato Antonio, 115.
Rezzara Nicolò, 54.
Roberti Roberto, 72.
Rodolfi mons. Ferdinando, 69.
Romanato don Egidio, 98.
Romanato Giampaolo, 64n.
Roncalli don Giovanni, 124.
Roncolato don Pietro, 122.
Rosa Angelo, 79.
Rosa Italo, 52, 72, 85.
Rosina Carlo, 79.
Rossi Alessandro, 23, 35. Rudini
(marchese di) Antonio, 33.
Ruffatti don Riccardo, 82, 85.
Sabadin Gavino, 52, 55, 72, 104.
Sabbadin don Adolfo, 89.
Saccardo don Giuseppe, 88.
Sacchetti Giuseppe, 17, 29, 41.
Saggin Mario, 105.
Salviati don Rainerio, 122.
Sanavio Luigi, 79.
Sarto mons. Giuseppe, v. Pio X.
Sartori Maurizio, 119n.
Scalco Gino, 105.
158
Schiavon Sebastiano, 52, 53, 55,
67, 72, 75, 80.
Scotton fratelli, 17.
Segato don Angelo, 89.
Sette Silvio, 81.
Sgarbossa don Giuseppe, 82.
Sguoti don Vito, 97.
Sichirollo mons. Giacomo, 91.
Signorini Umberto, 56, 125.
Silvestri don Ettore, 93.
Soranzo Giovanni, 85.
Spadolini Giovanni, 45n.
Starace Achille, 99.
Stievano, bibliotecario, 40.
Stivanello don Amedeo, 41.
Sturzo don Luigi, 73, 85.
Tedeschi mons. Giacomo Maria,
122.
Tedeschi co. Prospero, 40, 122,
124.
Tito Livio, 11.
Togliatti Palmiro, 104.
Toniolo Giuseppe, 31, 32.
Tono Pietro, 18, 72.
Tramontin mons. Silvio, 45n,
100n, 101n.
Trieste Giacobbe e Maso, 12, 22.
Trobetta don Pietro, 84.
Turazza Enrico, 40.
Uberti Giovanni, 84.
Umberto I, 182.
Zaglia fratelli, 79.
Zambolin Artemio (“Silla”),
114.
Zancan Lanfranco, 104.
Zanchetta don Angelo, 92.
Zanella Giacomo, 35.
Zanovello Agostino, 72.
Zeminian Augusto e Guerrino,
81.
Ziller (de) Alberto, 40.
INDICE
159
INTRODUZIONE ....................................................................................Pag. 3
CAPITOLO I - IL VENETO POVERO E ARRETRATO
CHE
ENTRA NEL REGNO D’ITALIA...................................“ “
7
CAPITOLO II - NASCE L’IMPEGNO SOCIALE DEI
CATTOLICI....................................................................“ “ 15
La limitata partecipazione politica - La lenta
industrializzazione - L’emigrazione - Il ruolo
del vescovo Callegari - Le opere sociali - La
stampa cattolica - La Camera del Lavoro.
CAPITOLO III - LA FASE DEL CONSOLIDAMENTO............................“ “
Il vescovo Luigi Pellizzo - Il forte impulso
all’azione sociale - La “Difesa del Popolo” - I
casoni e la pellagra - Il solco tra cattolici e
socialisti - Si chiude una fase.
CAPITOLO IV - NELLA TEMPESTA DELLA “GRANDE
GUERRA”.....................................................................“ “
45
65
CAPITOLO V - DAL PARTITO POPOLARE ALLA DITTATURA
FASCISTA......................................................................“ “ 69
Nasce il Partito Popolare - L’immediato
successo e l’azione sociale - Prevale la violenza
fascista - Chiesa padovana e fascismo L’assetto
socio-economico
Alcune
considerazioni.
CAPITOLO VI - NELLA RESISTENZA.................................................Pag. 101
160
Le diverse Resistenze - Il vescovo Agostini - Il
coinvolgimento del clero - L’impegno del
laicato.
DOCUMENTI..........................................................................................“ “ 119
La Cassa Rurale di Piove di Sacco - Il nostro
programma
(Difesa
del
Popolo)
L’associazionismo sociale diocesano presente
in Collegio Sacro il 19 febbraio 1908 - La
guerra è una tragedia: i cattolici per una
neutralità vigilante sui diritti dell’Italia - Così
lo Stato va al suicidio - Intanto i fascisti
intimidiscono le leghe - Il fascismo e i cattolici
- Testo dell’accordo tra la Santa Sede e il
Governo italiano per la composizione del
conflitto sull’Azione Cattolica - Lettera di
Antonio Guariento a Raffaele Jervolino in data
24 novembre 1933 - Quadro dei rapporti tra
PNF e AC tra l’agosto del 1938 e il 22 aprile
1939 - La preghiera del ribelle.
BIBLIOGRAFIA......................................................................................“ “ 141
INDICE DEI NOMI..................................................................................“ “ 147
161
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