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ALESSANDRA ALBERTINI Non posso sono radioattiva

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ALESSANDRA ALBERTINI Non posso sono radioattiva
ALESSANDRA ALBERTINI
Non posso sono radioattiva
Mi colpisce una donna con i capelli neri e gli occhi scuri che insegue trotterellando due bambini
biondissimi con gli occhi azzurri. Mi domando se siano i suoi, se li ha adottati, se sia solo la babysitter o la compagna del padre. Arriva anche lui, bello come un modello da copertina, con un
sorriso smagliante e delle brioches nelle mani. Lei gli si avvicina, lo bacia sulle labbra, gli dice grazie
amore, i bambini corrono verso il papà, sono i suoi cloni, belli e biondi come lui, gli rubano le
brioches dalle mani, dicono mamma vieni a giocare. Penso è tutto normale, lei è la mamma,
semplicemente non le assomigliano. Penso a come si possa sentire in mezzo a quelle teste gialle, a
quegli occhi blu come il mare, a quelle pelli bianche, lei torva e bruna come la terra,
apparentemente così lontana da quel trio perfetto. Ma non avrà voglia di scappare, accarezzare
qualcuno con i suoi colori? Quando se ne vanno, li vedo allontanarsi, lei aggrappata a quell’uomo
così bello da togliere il fiato, con i bambini che girano in tondo, che cercano di infilarsi nel loro
abbraccio. Loro il grano, lei il campo che lo nutre.
Rimango da sola, le risate e le urla dei bambini piano piano calano fino a scomparire, il movimento
di gambe e busti e teste cessa. Rimangono solo i giochi e la speranza che qualcuno ci salga ancora.
E’ desolante l’altalena che si muove senza nessuno sopra. Mi da l’impressione che qualcuno abbia
rapito un bambino. Quel pezzo di legno che oscilla da solo mi fa orrore, mi succede anche al parco
con i miei figli se li perdo di vista per una manciata di secondi, cerco disperatamente intorno
all’altalena vuota, convinta che qualcuno se li sia presi, imbavagliati e caricati su una macchina.
Mi alzo velocemente, mi dirigo verso l’albergo, è meglio mangiare in camera, poter respirare l’aria
per metà, dover sempre fuggire dagli altri mi pesa, oggi più che mai. Mi pesa non poter vedere
Carlo, lo immagina divertirsi con i suoi bambini, cercare di conquistare la loro stima, leggere loro
qualcosa. O forse si stanno annoiando come tante altre famiglie la domenica mattina. Odio i suoi
figli e sua moglie che l’ha lasciato e che per questo lui oggi deve occuparsi dei bambini. Sei davvero
una stronza Annalisa.
Sulla strada del ritorno trovo una pasticceria dalla quale esce un odore meraviglioso di pastafrolla.
Entro, dico che voglio un cabaret di pasticcini, per quanti? Uno. Mi mostra un vassoio così piccolo
da sembrare un foglio ripiegato in quattro, va bene, scelgo due paste secche e due con la crema
cotta. Esco con il mio pacchettino e il nastro giallo attorno.
Torno in albergo, chiamo per farmi portare il pranzo in camera, mi butto su spaghetti e arrosto di
vitello, il dolce l’ho portato io. Mangio velocemente, voglio consumare il prima possibile la
desolazione di quel pasto da sola. I giorni precedenti, quelli in cui Carlo si è intrufolato nelle mie
passeggiate di giorno ho mangiato sempre qualcosa al volo, mi è piaciuto, sentivo ancora la sua
compagnia vicina, la città mi era amica e mangiare produceva piacere.
Mi distendo sul letto, non posso passare il pomeriggio guardando il soffitto. Esco di nuovo,
nervosa nelle gambe, vuota nelle parole, smarrita senza quelle di Carlo. Giro a vuoto per un po’,
poi finalmente alle tre apre un grande magazzino su tre piani. All’entrata leggo la merce in vendita
per ogni piano, calcolo di essere fuori in mezz’ora, è appena aperto ma comincia ad arrivare un
sacco di gente, bambini compresi. Al primo piano non mi fermo, ci sono vestiti da donna. Al
secondo faccio un giro velocemente, per comprare qualcosa a Paolo. Dopo un breve giro
d’ispezione opto per un maglione di cotone girocollo blu, il commesso tenta di farmi vedere altri
modelli, no, no va bene questo mia dia una cinquanta. Vuole il pacchetto regalo? No, altrimenti il
regalo te lo faccio io. Salgo al terzo piano, per fortuna ci sono le scale mobili a farmi correre veloci.
Mi vengono in mente le parole del medico nucleare, ora Anna deve fare l’ultima rampa di scale, mi
sarebbe piaciuto che intendesse quelle mobili. Al terzo piano ci sono vestiti e giocattoli per
bambini. Faccio scorrere le magliette per bambino, chiedo alla commessa due magliette uguali, di
Paul Frank con la scimmietta pirata, una blu e l’altra rossa, sei e tre anni. Meglio prenderle
abbondanti. Magari in questi quindici giorni sono cresciuti. Vado al corner dei giochi, prendo un
una nave di legno da montare, una valigetta rossa del dottore e un set di mazze da golf. Pago in
contanti, con le borse nelle mani scendo le tre rampe di scale mobili e esco con il fiato tirato.
Fatto. Fuori dalla porta del magazzino piango. Ma che cazzo me ne frega di tutta questa gente che
entra ed esce? Perché mi curo della loro salute? Qualcuno può curarsi anche di me? Piango e
cammino, le borse nelle mani, i regali della mia famiglia che non ho nemmeno guardato,
nemmeno scelto. Tutto questo finirà, mi ripeto, terrai per mano i tuoi bambini ed entrerete nei
negozi, starete in mezzo agli altri, mangerete insieme. Tutto questo finirà prima che lui finisca me.
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