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DIALOGHI CON ALDO MORO

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DIALOGHI CON ALDO MORO
ANTONIO SECCHI
DIALOGHI
CON ALDO MORO
Epistolario con un giovane:1970-1978
Introduzione di Francesco Sanna
Litografia Aldo Trois
Cagliari, Maggio 1986.
DIALOGHI
CON ALDO MORO
Epistolario con un giovane:1970-1978
A cura di Antonio Secchi
Introduzione di Francesco Sanna
Il 9 maggio ricorre l'ottavo anniversario della morte di Aldo Moro, l'uomo politico
che più ha segnato con le sue idee l'evoluzione della nostra democrazia difficile e la
storia della Democrazia Cristiana dalla Costituente al primo Governo di solidarietà
nazionale. A lui ci lega una grande amicizia, un sentimento forte che travalica la politica e
che i sardi dedicano soltanto agli uomini coraggiosi e leali. Aldo Moro ricambiò questo
rispetto e questa stima e divenne presto un raro e prezioso amico della Sardegna.
A testimoniarlo può contribuire anche questo quaderno di memorie di uno studente
sardo che ebbe la fortuna di scambiare con Moro un epistolario delicato e affettuoso.
Attraverso queste lettere la personalità del grande statista si manifesta, in una intimità
inconsueta per molti di noi, ricca di sensibilità e premurosa verso il giovane studente
che lo sollecita ai grandi interrogativi di ogni nuova generazione. Moro intuisce e
valorizza l'ansia della ricerca riscoprendo, insieme con lo studente, il senso della vita
e il significato profondo del «lavorare per la propria terra».
Si rileva in questa attenzione di Moro la preoccupazione per il futuro della nostra
Democrazia che «non si salverà» se non costruirà con i giovani una nuova speranza e
un nuovo senso del dovere. Per questo è giusto che Moro appartenga soprattutto ai
giovani, alla loro vigile memoria, al loro futuro, alla loro ansia per l'uomo e per la pace.
Allora è possibile che proprio i giovani scoprano, con la sensibilità della loro età, che Aldo
Moro è morto anche per loro, per difenderne la libertà.
Salvatore Ladu
Segretario Regionale D.C.
Introduzione
Tonino Secchi vince oggi un sensibile riserbo che i suoi amici sanno lo
ha frenato per lungo tempo dall'offrire questa immagine abbastanza inedita
di Aldo Moro, così marcata dall'impronta dell'incontro personale col leader
D.C. ucciso dalle Brigate Rosse. Il nostro tempo corre in fretta, nei ritmi di
consumo della sua cronaca vorticosa e la memoria storica — se pure vi è —
si perde facilmente, non regge alla fatica di essere trasmessa.
È più facile quindi che Aldo Moro — pur identificato con la sua tragedia, vissuta nell'intimo della coscienza nazionale — possa subdolamente essere rimosso, senza che noi nemmeno ci si accorga.
Questo lavoro va in senso inverso: è, insomma, un piccolo argine all'oblio,
allo sbiadire del ricordo. Gli otto anni che ci separano dalla morte dello statista democratico cristiano sono un periodo che invita a chiederci non solo chi
è stato Aldo Moro, quale importanza ha avuto la sua esperienza politica
nella storia del nostro Paese, ma anche chi è per noi Aldo Moro, se è
possibile e come è possibile e cosa significa misurarsi con /a sua figura.
Intendo dire per noi che non lo conoscemmo politicamente quando era in vita e che oggi rischiamo di vedercelo svanire tra l'agiografia e soventi tentativi di denigrazione. Il mio ricordo vissuto è, per esempio, quello di un bambino. Moro, allora Ministro degli Esteri, lo vidi ad Iglesias, in una Piazza
Lamarmora gremita all'inverosimile per un suo comizio. Alcuni gruppi
dell'estrema sinistra vollero quella sera dimostrare la loro potenza
intollerante ed un agente in tenuta di combattimento mi allontanò,
intimandomi di tornare a casa, prima che Moro cominciasse a parlare. A me
è stato chiesto di provare a raccogliere il significato voluto dalla
pubblicazione di queste lettere: capire e cercare, se vi è, una loro piena
«attualità»; tracciarne un possibile senso per chi vive adesso, immerso nelle
grandi trasformazioni, e in una esperienza politica giovanile. Comprendere
cioè come questa testimonianza particolare e in un certo qual modo
«datata» — legata com'è ad un periodo di grande travaglio politico, ma
profondamente diverso dalle inquietudini nostre —si trasformi e ci parli
ancora.
È una lettura, questa, che non dissimula un'emozione, la nostalgia di ciò
che non ci è stato dato. Chi si affaccia oggi all'esperienza politica subisce il
disorientamento, una mancanza sempre più evidente e pesante di maestri.
La necessità di attingere all'insegnamento di figure esemplari rimane molte
volte insoddisfatta. Se per attualità di un pensiero e di un esempio politico si
intende prendere una figura ormai cristallizzata nel passato della nostra storia e metterla astrattamente a confronto con una realtà alla quale non può
reagire, non può rispondere con l' «intelligenza del proprio tempo», Aldo
Moro probabilmente non è attuale, in questo senso banale. Dico questo,
però, con molte remore: l'intuizione lucidissima dei problemi che pesano,
ancora irrisolti, sulla nostra esperienza democratica, credo sia decisamente
valida. Ma l'insegnamento complessivo di Moro mi sembra, questo sì,
veramente per il mio tempo: se è vero che anche noi soffriamo le
semplificazioni che falsano i problemi, il prassismo senza anima,
l'intolleranza, l'assenza di un significato profondo al proprio impegno,
l'incapacità di dialogo e di confronto con gli altri. Per la nostra generazione
senza padri, figlia della crisi culturale sopravvenuta alla grande disillusione
degli anni settanta, è di grande interesse recuperare gli spezzoni di verità
che ogni tanto si lasciano afferrare,
vincitori nell'impatto con le divinità abbatute del nostro secolo, le
ideologie fallite. Nella prospettiva di questa ricerca, le lettere di Moro
al suo giovane allievo lasciano cogliere un messaggio di vera e
propria pedagogia politica moderna. Moderna (o moro tea) perchè
niente affatto falsamente rassicurante, niente affatto paternalistica o
retorica, bensì problematica, venata di quel pessimismo — direbbe
qualcuno — «da vecchio testamento» così presente in Moro, di colui
che parla prendendo sul serio l'interlocutore, senza paura di puntare
in alto, alle grandi domande di senso «... perchè di questo si tratta, di
riuscire a credere di avere un dovere da compiere, nella gioia come
nell'amarezza» (lettera dell'8 settembre 1970).
Nella gioia come nell'amarezza: il richiamo alla realtà umana, divisa e
ricomposta in questi sentimenti e nelle vicende che li causano, è costante
in Aldo Moro. Lo ritrovo intatto, sette anni dopo, nel discorso ai
giovani D.C. al loro congresso di Bergamo. Forse col presagio dei
tempi bui che cominciavano, aveva detto loro che la politica è uno
spendersi con la propria forza ideale nella comunità degli uomini,
immersi in difficoltà che impegnano ed entusiasmano, «... ma non si
sceglie il proprio tempo, nè si ha sempre diritto nella vita a cose
esaltanti...». Ecco, se dovessi indicare un pericolo che la politica corre
oggi seriamente è che si riveli incapace di proporre «cose esaltanti»,
come in larga misura le accade: che si stabilizzi nella mediocrità di
troppi suoi attuali interpreti e dei loro obiettivi.
È il rischio, insomma, della «grettezza ed esteriorità» (lettera del quattro
aprile 1972) che allontanano dall'esperienza politica e deludono le
speranze migliori. Qui vi è certamente una denuncia molto forte, nella
sostanza, delle «vuote forme», di ciò che vuol spacciarsi come
Politica mentre di essa nega «l'umanità» e la trasparenza. «La
ricchezza della nostra umanità completa> — aveva scritto subito dopo
la guerra in un editoriale di Studium intitolato «Al di là della Politica»
— «va rivendicata a noi contro i pericoli dell'inaridimento e
dell'esteriorità>. Così leggo, e mi accorgo di quanto siano distanti,
nella loro semplicità le parole di Moro dal grande apparato
approntato dalla scienza sociale e storica dei nostri tempi per
spiegare i problemi di degenerazione della politica. È bello però
ritrovare, al fondo delle cose, il nocciolo duro della loro essenza.
Allora mi pare che Moro voglia richiamare l'idea che esiste una
vocazione propria della politica, come di un impegno che ha bisogno
di salde fondazioni, «morali>, in senso pieno. Perchè ieri come oggi è
molto alto il «consumo interiore> della politica: anche quando è
vissuta con passione sincera essa brucia e divora le energie migliori
che hanno bisogno di essere create e nuovamente ricostituite.
La responsabilità personale e la coscienza divengono quindi la misura
di dignità del proprio impegno: «... Di fronte alla ricchezza di ideali e di
speranza di una gioventù che viene fuori dalla oscurità e dalla
povertà, bisogna prodigarsi pagando di persona...» (lettera del quattro
aprile 1972).
Questo credo sia un insegnamento da raccogliere e da rafforzare per
l'esperienza che da giovani oggi viviamo. La cultura radicale, che
dissocia la libertà dalla responsabilità, ha pervaso molti nostri
comportamenti, molte nostre categorie mentali. Non a caso ciò che
fa più diversa l'esperienza politica giovanile di oggi rispetto a quella
degli anni settanta è il muro dell'indifferenza, il credere che la storia
segua comunque il suo corso, anche senza il nostro apporto, ormai
marginale e poco significante.
A volte il sentirsi inutili, la rinunzia a dominare gli avvenimenti nasce
in noi dalle soventi sconfitte che la realtà ci infligge.
«Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente al
domani, credo che tutti accetteremo di farlo>. È anche la nostra tentazione,
spesso. «Ma non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi dobbiamo portare
la nostra responsabilità. Si tratta di essere fiduciosi e coraggiosi al tempo
stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà». Ai giovani della mia generazione spetta, credo, tradurre questo appello
(si trova nell'ultimo discorso di Aldo Moro) cominciando a denunciare nei
fatti i comportamenti e la retorica che li fanno «cittadini del domani>, secondo il noto insegnamento per cui il solo loro problema è divenire adulti.
Per noi essere pienamente e veramente uomini significa però — a dirla con
una formula felice — essere un pò meno «la generazione della vita quotidiana>. Il traguardo ambizioso e nuovo sarà forse quello di ridare una risposta
allo smarrimento dei nostri orizzonti. Riconquistare il futuro, dunque: e capire che ogni uomo e tutti gli uomini devono oggi più che mai mettersi in condizione di costruire la propria esistenza. Può la politica diventare nuovamente uno strumento efficace per questa aspirazione?
Molto dipenderà dai valori, dai progetti, dai comportamenti che innerveranno
la nostra esperienza concreta. Moro riteneva che riamare la politica, «affezionare i giovani alla politica (una politica che sia degna di loro) può essere un grande compito per la classe dirigente tutta intera, al Governo come
all'opposizione>. E invitava a far pesare le speranze e anche solo le
«generose illusioni» dei giovani, perchè nel profondo «è una nuova umanità
che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia>.
Raccogliere il suo messaggio oggi vuol dire preferire all'inerzia celebrativa i
valori dell'intelligenza, della passione, del coraggio, della speranza: ancora
una volta. Perchè sappiamo che «nuovi cieli e terre nuove dove abiti la
giustizia> non ci sono stati promessi invano.
Francesco Sanna
Delegato provinciale dei giovani D.C. di Cagliari
Dal 1970 al 1978 ho avuto la grande fortuna di intrattenere con Aldo Moro una cordiale corrispondenza dopo averlo conosciuto alla Facoltà di
Scienza Politiche dell'Università degli studi di Roma.
Ho conservato gelosamente fino ad oggi questa raccolta di lettere e di biglietti di auguri. Sono stato sempre convinto del carattere personale e riservato dell'epistolario. Due amici, il professore Aldo Moro e uno dei tanti studenti di Diritto e Procedura Penale, avevano voluto scambiare riflessioni sui
giovani e il proprio tempo, spontaneamente senza condizionamenti.
Dopo la tragedia di Via Fani ho riletto spesso quelle lettere. In esse ho riscoperto ogni volta nuovi e profondi significati pedagogici uniti alla forte attualità degli interrogativi morali e della ricerca del «dovere da compiere>, proposti dal professore allo studente. Ho pensato perciò che non fosse giusto lasciare quelle carte nascoste e silenziose.
Esse non mi appartenevano più perchè erano entrate a far parte di una storia
straordinaria, di una fiaba triste. Ho provato perciò a rimettere ordine nella
memoria per collocare quei piccoli frammenti nella grande tela del tempo recentemente trascorso. Non so se sono riuscito nell'intento di raccontare
con distacco ed equilibrio questo dialogo non immaginario tra il Professore
Aldo Moro e un suo studente negli anni difficili della contestazione studentesca e delle grandi lotte sindacali. Mi interessa molto però affermare che
ho ripercorso le vicende di questa amicizia soprattutto per riproporre ai giovani di oggi le domande decisive di ogni generazione: che senso ha la nostra
vita, qual è il nostro compito nel mondo, qual è il significato dello stare insieme ad altri uomini in una comunità, che cosa comporta oggi vivere nello
spirito di una idealità cristiana. Queste stesse domande furono al centro
della ricerca e della tormentata speranza dei giovani degli anni settanta e
condussero molti a lavorare con pazienza nella complessa dialettica della
democrazia, altri a rifiutare in blocco il modello di società e di Stato sorti dopo gli anni della dittatura e della guerra. Compito e ambizione di questo piccolo lavoro è testimoniare come Aldo Moro, nel crocevia della vita universitaria, fosse aperto al dialogo con tutti e non si sottraesse mai ai più difficili
confronti. Il giudizio sulle lettere autografe di Moro non è invece volutamente espresso perchè a mio parere dovrà emergere dalle sensazioni e dalle
emozioni di ciascun lettore. Come ha fatto Maria Fida Moro nella «Casa dei
Cento Natali>, anch'io ho rievocato tanti piccoli episodi che nella loro semplicità spiegano le ragioni di quelle lettere e i problemi posti al Professore.
Le risposte al giovane studente cadono oggi come grandi pietre in un mare
di confusione e di nuove speranze e confermano la straordinaria ricchezza
umana di Aldo Moro e la struggente attualità del Suo insegnamento.
Antonio Secchi
La lettera dell'8 settembre 1970
Ero stato l'unico della mia classe, la terza C del Liceo Siotto Pintor di Cagliari, ad iscrivermi in Scienze Politiche. Gli altri
compagni preferirono Medicina e Giurisprudenza e non si spiegavano il senso della mia scelta.
A me era sembrato naturale pensare a un corso di studi che sviluppasse la grande passione scoperta nel liceo per la filosofia e
la storia. Inoltre sapevo di poter frequentare la facoltà presso
l'Università di Roma. Una coppia di zii senza figli mi aveva più
volte sollecitato a raggiungerli nella capitale dove abitavano in
un misterioso appartamento nel palazzo Doria-Panfili, in via
Santa Maria dell'Anima, una parallela di Piazza Navona. Una
piccola feritoria nella cucina consentiva infatti di vedere, un pò
disturbati da un vivace capitello, qualche scorcio della piazza.
Il primo giorno dell'anno accademico avevo indossato l'abito
buono di flanella grigia e mi ero mosso un pò spaesato nel piazzale della Minerva, segnato dalle scritte rosse della facoltà di filosofia e da quelle nere di giurisprudenza.
Che ambiente strano rispetto al tranquillo liceo cagliaritano!
Mi avevano subito spiegato che non c'era da temere nessuno
scherzo per le matricole perchè la goliardia universitaria era morta. Il nuovo protagonista era il Movimento Studentesco e la rissa
continua con i fascisti, padroni incontrastati di Giurisprudenza
L'abito grigio non lo misi mai più. Imparai a vestirmi con le giacche a vento economiche comprate a Porta Portese e con le camicie americane usate. L'avvio dei primi corsi istituzionali di diritto pubblico, di filosofia del diritto e di storia delle dottrine politiche avevano già procurato nella mia mente degli squarci
enormi. La frequentazione delle assemblee del movimento studentesco contribuivano a sistemare nuove categorie nella preziosa cultura liceale. Mi sembrava però di essere rimasto per
anni come prigioniero in un castello pieno di libri meravigliosi e
di arti antiche. La Dittatura del proletariato, il mito della Cina,
l'alleanza operai studenti, la fabbrica, il crollo del Capitalismo
erano proprio un mondo nuovo tutto da scoprire. Non capivo del
tutto la scritta «Dio è morto», questa aveva anzi per me un significato banale. Mi piaceva contrapporle le memorie sempre vive
degli anni del collegio ginnasiale nel Veneto, sotto la guida di
sacerdoti eccezionali, padri spirituali coraggiosi, educatori duri
e tenaci. Il Dio che mi avevano fatto conoscere era quello della
Pasqua e dell'indimenticabile processione delle Palme che
svolgevamo all'interno del collegio nel silenzioso chiostro.
Cominciò così un difficile confronto tra le nuove scoperte e la
mia storia piccolo borghese illuminata dalla cultura cattolica.
Provavo interesse alla contestazione del baronato e naturale inclinazione all'apertura di spazi di maggiore partecipazione e di
democrazia nell'Università. Si faceva strada la scoperta dei
meccanismi economici di produzione della ricchezza e del ruolo
subalterno del mondo operaio.
La mattina in cui appresi dell'eccidio di Avola ero in classe con
altri amici. Leggendo l'Unità, l'Avanti, il Corriere della Sera,
commentavo con rabbia l'accaduto poi piansi in silenzio.
L'estate tornai in Sardegna e i miei genitori mi trovarono molto
cambiato. Trascorrevo con loro ore interminabili a parlare di politica, ma poi mi accorgevo di esagerare perchè mia madre, figlia di un grande invalido di guerra e mio padre, militare di carriera, erano saldamente ancorati alla dignità e modestia del ceto medio e non molto disponibili a concessioni sulle lotte operaie e le conquiste sindacali.
Conobbi Aldo Moro all'apertura del secondo anno accademico
nel corso di Diritto e Procedura Penale.
La figura dell'uomo politico, allora Ministro degli Esteri, mi incuriosiva enormemente perchè soprattutto davo per scontato che
quell'impegno universitario doveva essere per Aldo Moro
marginale. Rimasi deluso invece e sempre più sorpreso della
puntualità nella frequenza e della pignoleria nel rispetto
dell'orario. Arrivava presto di mattina sempre seguito dal Maresciallo Leonardi che lo aiutava a liberarsi del grande cappotto,
della sciarpa e del cappello. Sedeva in silenzio nella cattedra e
controllava con uno sguardo i presenti segnando in un foglio
bianco i nomi imparati il primo giorno.
Le sue lezioni non ammettevano interruzioni nè contradditorio;
era impossibile interrompere il Professore e rivolgergli delle domande. Enunciato il tema Moro apriva una riflessione a larghi
cerchi concentrici per giungere solo dopo una complessa analisi
alla puntuale definizione dei concetti giuridici.
L'introduzione al Corso di Diritto e Procedura Penale era comunque una formidabile lettura di Filosofia del Diritto. Solo dopo numerose lezioni potevamo avvicinarci al concetto dell'illecito penale, del reato e della sanzione, la pena.
II cammino di accostamento alla dottrina penalista era però
preceduto da una sconvolgente escursione nelle ragioni profonde dell'esperienza giuridica. Ho provato una grande emozione nell'acquisire per esempio l'assioma di diritto e libertà, del
rapporto tra diritto e giustizia, tra diritto e morale.
Le argomentazioni del Professore non avevano un carattere me-
ramente astratto ma si arricchivano di riferimenti alla storia e
alla prassi politica. Al termine della lezione si fermava un pò a
parlare con tutti, con quanti almeno gradivano conversare con
lui. Mostrava sensibilità particolare per gli studenti fuori sede,
per i loro problemi economici e li stimolava a organizzarsi e a
porre precise domande all'Università e al mondo politico.
Un giorno accolse anche l'invito del Movimento Studentesco di
partecipare ad una assemblea dibattito sul tema del rapporto
tra lotte studentesche e sistema politico italiano.
I leaders del Movimento si alternarono nel rivolgere le domande
al Professore che sedeva in cattedra con il solito attento autocontrollo. Fui colpito dal tono duro di un interrogatorio che oggi
ricordo come tremendo presagio.
Moro non si scompose mai e rispose a ciascun interlocutore rilevando la complessività del fare politica in Italia, ma anche il
grave ritardo dei partiti di fronte ai problemi posti dai giovani. Mi
sembrò inverosimile ma alla fine l'assemblea lo salutò con un
applauso che non aveva alcuna ironia ma che forse voleva
significare rispetto per il coraggio del libero confronto con tutti. Con
l'approssimarsi della conclusione del corso di Diritto Penale avevo
avvertito tra gli studenti di Roma più scaltri l'intento di invitare a
cena il Professore. E ciò avvenne con l'esclusione de- 13 gli
studenti sardi fuori sede, i quali forse avevano il torto di fare gruppo
a né di essere troppo diversi perchè non inclini all'opportunismo e
al culto della persona.
Quella vicenda mi ferì come un bambino e nonostante il massimo voto ottenuto all'esame unitamente ad una sincera stretta
di mano del Professore, continuai a meditare sulla forma migliore per riprendere il dialogo con Aldo Moro.
Su mia richiesta il Maresciallo Leonardi mi fornì l'indirizzo di
casa in via Porta Trionfale. Durante il settembre del 1970, arso e
assolato come capita spesso in Sardegna, decisi di scrivere al
Professore e di rivolgergli le seguenti domande:
«Che senso ha per Lei insegnare all'Università? Come concilia
l'impegno politico con l'insegnamento? Lei in fondo, non è forse un abile uomo di potere del sistema democristiano?» Concludevo
la lettera con una piccola provocazione: la cena di fine anno
aveva escluso gli studenti sardi fuori sede, perchè il Professore
non aveva badato al fatto?
Con una tempestività che mi colpì enormemente giunse la risposta in data 10 settembre 1970, con carta intestata «Il Ministero degli Affari Esteri».
II Testo
«Caro Secchi,
Ti ringrazio molto della tua lettera che considero una manifestazione di fiducia, la cosa cioè che più conti per me. Credo di
avere ricercato, dal momento nel quale ho iniziato il mio insegnamento, un dialogo disinteressato e cordiale con i giovani.
Esso ha continuato a svolgersi per moltissimi anni, nelle condizioni umane e sociali le più diverse, sempre costruttivo e, per
me utile e gradevole. È difficile dire che cosa, obiettivamente,
ne sia derivato. Non vi sono criteri di accertamento e di misura.
Per parte mia ne ho ricavato una sensibilità aperta al movimento e rinnovamento; una garanzia contro la cristallizzazione e il
conformismo. Ho forse dato, o contribuito a dare, il giusto per
quel che tocca la dignità umana e riguarda l'assolvimento del
proprio compito nel mondo. Perchè di questo si tratta, di riuscire a credere di avere un dovere da compiere nella gioia come
nell'amarezza. E polarizzare intorno ad esso le complesse e misteriose ragioni della vita. In questa prospettiva non ho naturalmente mai subordinato il mio interesse umano all'interesse politico. Tutt'altro. Esso è restato sempre per me marginale e, il
più possibile, interpretato ed esaurito in termini di impegno
umano. Così è ovvio che io non ho fatto nessuna scelta, quando ho accettato di buon grado l'invito che alcuni mi hanno rivolto, un gruppo di amici cioè, per un pranzo di fine anno... l'obiettività e cioè un universale rispetto ed interessamento è il mio
primo dovere. Di te ho apprezzato la serietà, l'intelligenza e
l'apertura, anche se non priva di problemi e di amarezza.
Penso perciò che un discorso tra noi possa continuare, come ho
significato con un sincero elogio ed una cordiale stretta di mano
dopo l'esame. Vi sono molte cose che non vanno nella nostra società (perchè non vanno in noi stessi, nella nostra coscienza).
Non penso però che mai un giovane di valore abbia trovato la via
sbarrata: e non accadrà neppure a te, se saprai, come sono certo, orientarti. Ti ringrazio dunque dí avermi scritto e ti ricambio,
nella speranza di rivederti, un affettuoso saluto, tuo
Aldo Moro»
La lettera del 17 gennaio 1971
Era una mattina gelida e limpidissima del gennaio 1971
quando a Parigi mi recavo alla scuola dell'Alliance Francaise.
Avevo studiato inglese alle Medie e non avevo invece mai
affrontato la lingua francese.
Per accelerare al massimo l'acquisizione di questa lingua, fondamentale per l'attività diplomatica e le relazioni internazionali,
avevo pensato di trascorrere a Parigi i primi tre mesi del 1971.
Mi ero sistemato presso una signora anziana in Rue Olivier de
Serres, con la metropolitana a portata di mano che mi consentiva di raggiungere il quartiere latino in poco tempo. La mia giornata era scandita da precisi impegni: la mattina a lezione di
francese, nel pomeriggio seguivo come uditore le lezioni
dell'Institut Supérieur des Sciences Politiques, la sera mi
chiudevo in un piccolo cinema universitario nella zona del
Pantheon. Per pochi franchi vecchie pellicole intrattenevano
un pubblico vario di studenti soli o in compagnia.
Quella mattina mi ero fermato per un attimo a leggere i titoli dei
quotidiani in esposizione nelle locandine dei giornalai. Avevo
appreso con gioia e stupore la notizia della visita del Ministro
degli Esteri Aldo Moro al Governo Francese. Mi chiesi all'istante se per caso avessi potuto salutare il professore e se la
piccola e curiosa sorpresa fosse stata gradita.
Mentre svolgevo queste riflessioni mi incamminavo già verso
l'Ambasciata d'Italia che si trovava tra il quartiere latino e l'Ecole Militaire. Il gelo di quella mattina non limitava l'emozione che
provavo dentro. Giunto all'Ambasciata d'Italia mi trovai di fronte a una cancellata che impediva l'accesso a chiunque non
fosse munito di un particolare permesso. Osservai nel piazzale
le auto del Corpo diplomatico italiano. Pensai che il Ministro
fosse già a Parigi. Ebbi uno straordinario coraggio nel
chiedere agli uomini della vigilanza notizie del professore. Di
fronte allo stupore delle guardie che forse osservavano con
diffidenza i miei bleu-jeans sbiaditi e la giacca a vento
logora, pensai di chiedere almeno di poter lasciare un
messaggio
al
maresciallo
Leonardi,
fedelissimo
accompagnatore
di
Aldo
Moro.
Delicatissimo fu il
comportamento di Leonardi che uscì dal palazzo e mi salutò
con simpatia. Mi assicurò che avrebbe portato il mio saluto al
professore e che la cosa sarebbe stata molto apprezzata. Ci
stringemmo la mano velocemente. Al mio nuovo indirizzo di
Parigi giunse in data 23.3.1971 una busta dell'Ambasciata d'Italia a Parigi contenente due brevi messaggi di Moro.
I Testi
18.3.71
Carissimo,
Ricevo ora la tua lettera da Parigi cuí risponderò appena
possibile. Ti invio intanto il mio ringraziamento per gli auguri di
Natale, che non avevo potuto spedire, non avendo il tuo indirizzo in Italia. Lo potrei avere?
Grazie ancora ed affettuosi saluti
Aldo Moro
17.2.71
Caro Secchi,
Rispondo con molto ritardo ai tuoi gentili auguri. Volevo infatti
farlo personalmente e così è passato tempo, occupato da mille
impegni del mio lavoro. Desidero ringraziarti dunque e ricambiare
nel modo più sincero e cordiale.
Ti auguro le cose migliori in questa età nella quale ti costruisci
la vita e hai entusiasmo, serietà, gioia.
Ti auguro di trovare il tuo posto nel mondo e di avere la consapevolezza dell'alto compito che nella società umana sei chiamato ad esplicare. Credo che la nostra piccola comunità universitaria ti abbia aiutato a capire. Farai il resto da te, con la tua
sensibilità e percezione delle cose. Mi sarà gradito vederti,
quando ti sia possibile. E grazie del tuo saluto da Parigi.
Con affettuosi saluti
tuo Aldo Moro
La lettera del 4 aprile 1972
Al corso di studi universitari avevo dato un orientamento
internazionale. Sognavo di poter conoscere i problemi di un
mondo inquieto eppure ricco di umanità diverse e originali.
L'esame di Storia e Istituzioni dei Paesi Afro-Asiatici mi era rimasto nel cuore e all'interno di esso la specifica storia africana. Mi
ero comunque preoccupato di andare anche alla scoperta dei
drammi del Centro e del Sud America.
Seguivo fuori corso lezioni di Diritto Diplomatico e compravo
assiduamente il mensile francese Le Monde Diplomatique.
La laurea era vicina e la tesi già scelta, un pò sperimentale e
strana anche per il titolo «Il contributo dei Paesi Africani alla
codificazione del diritto dei trattati».
Con il Professore Aldo Moro le occasioni d'incontro erano diventate più rare perchè a me correva l'obbligo di seguire le discipline del quarto anno e Moro proseguiva instancabile il corso di Diritto Penale al secondo anno. Cercavo sempre di non distrarlo quando lo incontravo nei corridoi della facoltà accerchiato da gruppi di studenti. Mi limitavo ad avvicinarmi, ad
ascoltare quasi di nascosto i suoi dialoghi delicati e le sue battute spiritose. Poi mi scopriva lui tra i più giovani e mi chiedeva
di accompagnarlo alla macchina per parlare un pò.
Si preoccupava della mia passione per gli studi internazionali e
mi chiedeva se ero interessato a seguire dopo la laurea la scuola
della S101 che preparava per un anno i giovani laureati al concorso diplomatico. L'incontro con Aldo Moro servì comunque a
trasmettermi una nuova passione, tremenda ed esclusiva: la politica. Durante le vacanze di Pasqua e di Natale e nelle lunghe
estati rientravo in Sardegna.
Restavo sempre colpito al primo impatto dal disordine e dalla
precarietà degli assetti urbani, dalla immagine arida e fissa dei
paesi del Basso Campidano senza strade e senza illuminazione.
Da questo aspetto forse estetico risalivo alla storia dei Piani di
Rinascita, alle speranze deluse unitamente al grande cammino
percorso fino alla metà degli anni settanta. Olbia, dove avevo
vissuto con la famiglia, fino agli undici anni, era diventata infatti
il simbolo del cambiamento e dello sviluppo. Da bambino ricordavo il paese ai tre confini del ponte di ferro verso il cimitero, al quartiere già lontano di Sant'Antonio verso Tempio, al
nuovo ospedale avamposto verso Arzachena. La nuova città era
un pò il simbolo del «boom» Costa Smeralda, della nuova frontiera del turismo internazionale.
Erano stati risparmiati dal cemento invece i luoghi più cari della
mia infanzia, la peschiera di zio Biliano verso il lido del Sole e
Padrongianus e le piscine del fiume che costeggiava il campo
sportivo. Di domenica da bambini lo risalivamo, facevamo il bagno e tornavamo a casa un pò umidi addosso, giocando a lanciarci esili giunchi. Tempio invece non era cresciuta. Fiera della
sua tradizione e della sua cultura forse aveva perso qualche
smalto del vecchio sogno di diventare punto di riferimento del
turismo montano. Restava il breve sogno di Carnevale, la lavorazione del sughero e del granito, il buon vino. Olbia e Tempio
erano stati i luoghi amati dell'infanzia, lo specchio tra il mare e
la montagna, un viaggio continuo tra due lingue e due genti di
Sardegna. Avevo lasciato questo piccolo regno di amicizie e di
affetti profondi quando nostro padre, militare di carriera, fu traferito nel Veneto per un periodo che durò quasi sei anni. Una parentesi importante della mia vita perchè avevo potuto studiare
nel colleggio Barbarigo di Padova e nel Convitto di Desenzano
del Garda, con enormi sacrifici della famiglia.
Il legame con Cagliari nacque con il ritorno della famiglia in
Sardegna, quando mio padre fu assegnato alla Base Nato di
Decimomannu. Cagliari confermava il primato di unica vera città
dell'isola, sede della Regione, centro amministrativo e commerciale per eccellenza. È qui che ho provato a fare i primi pas- 27
si nella vita politica, durante gli anni dell'Università che frequentavo a Roma. Avevo infatti pensato che l'esempio di Aldo Moro
giustificasse l'iscrizione alla DC.
Nonostante il fiume in piena della contestazione che toccava
tutti avevo riscontrato clamorose contraddizioni nelle pieghe
distruttive del movimento studentesco che consideravo ormai
un coacervo di folclore e di estremismo.
Nuove assonanze con le memorie del Veneto invece avevo ritrovato nella frequenza ai corsi di Storia del Movimento Cattolico
in Italia e Storia dei rapporti fra Stato e Chiesa tenuti da Pietro
Scoppola. Avevo fatto perciò una scelta ideale convinto dell'importanza e dell'utilità di un partito democratico e popolare,
d'ispirazione cristiana. Così avevo anche aderito alla costituzione del Gruppo moroteo a Cagliari. Imparai presto che i leaders
più prestigiosi erano a Sassari, Paolino Dettori e Pietro Soddu.
Mitica per me era invece la figura di Francesco Cossiga e quella di
Nino Giagu che conoscevo solo dai giornali.
A Cagliari gli anni settanta erano molto critici per la D.C., divisa
in troppi gruppi, incapace di uscire dal circolo chiuso del trasformismo e delle lotte personali fini a se stesse, priva di un capo carismatico. In questo difficile apprendistato ho provato momenti di grande slancio e cadute nella più profonda amarezza.
Toccavo con mano la complessità della politica e la continua
sfida morale tra parole, fatti e comportamenti. In un momento
di particolare delicatezza di queste riflessioni ho provato ad interrogare il professore sulle vere ragioni dell'impegno politico.
«Era accettabile l'impegno politico inteso come esclusivo interesse personale? Quale rapporto doveva esistere tra la militanza politica e la testimonianza cristiana? La politica si può configurare come servizio?
Il partito a quale ruolo assolve nella democrazia se si trasforma
in un luogo chiuso ai problemi della gente?»
A questi quesiti Aldo Moro rispose lucidamente e con estremo
coraggio nella lettera del 4 aprile 1972.
Il Testo
4.4.1972
«Caro Antonio,
Ti avevo visto in fretta all'Università, prima che cominciassero
queste brevi vacanze. Avrei voluto fermarmi un pò, ma sono
stato distolto da un qualche impegno. È per questo che ti
scrivo, avendo a mente le cose che mi avevi fatto presenti tempo
fa ed i tuoi problemi di orientamento professionale e sociale. Ho
compreso in significato della tua esperienza di partito in
Sardegna. So quanto pesino la grettezza e l'esteriorità, quali cagioni di delusione sia la vuota forma di una realtà, in sè, profondamente vera ed umana.
La battaglia sociale e politica è lo sforzo di pochi, disinteressati,
generosi e leali, intendo dire la nobile battaglia per una società
giusta. Vi sono sempre molti pronti a mescolare l'interesse con il
bene comune. Non bisogna guardare in questa direzione ma alla
propria coscienza, al proprio limpido impegno morale prima che
politico. Di fronte alla ricchezza d'ideali e di speranze di una
gioventù che viene fuori, o emerge, dalla oscurità e dalla povertà,
bisogna prodigarsi, pagando di persona.
Talvolta il Partito è più uno schermo che un efficace canale di
comunicazione. lo avrei voluto (un pò ancora vorrei) convogliare
queste forze sane non verso il potere, ma verso la partecipazione. Non so che cosa potrò fare. Ma vorrei dire che mi è cara,
umanamente, ogni comprensione ed ogni solidarietà. E per
questo spero di mantenere un contatto con te e con quanti, come te, desiderano disinteressatamente servire il paese nello
spirito di una idealità cristiana.
Poi c'è il problema dei tuoi studi e del tuo avvenire, un desiderio dei
grandi spazi, delle molteplici esperienze tra popoli vecchi e nuovi
non contraddice al tuo compito nell'isola che ami, ma lo
continua.Quale che sia domani il tuo posto nel mondo, lo terrai
con l'anima limpida di un sardo consapevole e paziente.
lo credo che sia utile la frequenza ai corsi della SI01; preferibilmente però dopo una laurea che è ormai un traguardo vicino. Sono
sempre a tua disposizione, sia o non al Ministero degli Esteri, per
facilitarti questo cammino ed ogni utile contatto internazionale.
Benchè preveda di avere poco tempo, pochissimo, per le elezioni
imminenti, sarò sempre lieto di vederti, e ti prego di gradire il mio
grato e affettuoso saluto con i migliori auguri, tuo
Aldo Moro»
La lettera del 28 Dicembre 1974
Il Professore si era ricordato della mia laurea e prima che
partissi per la Sardegna mi aveva mandato un biglietto in Piazza
della Cancelleria, mia nuova abitazione, perchè lo raggiungessi
al Ministero degli Esteri. Avevo messo un bel vestito estivo color carta da zucchero e quando entrai nello studio del Ministro
fui accolto con un insolito affetto e un saluto che mi fece arrossire: «come stai bene e poi con questa bella giovinezza».
Forse il Professore voleva mettermi a mio agio in quella enorme
stanza dove dominava un grande arazzo sopra il salotto dove si
siedono i Ministri in visita in Italia.
Ci accomodammo infatti in quelle poltrone per affrontare un delicato argomento, la mia scelta professionale, il mio futuro. Il
Professore non volle far pesare la sua opinione anche se era
ormai chiara; mi chiese invece di ragionare con lui sugli studi
internazionali e sul mio legame con la Sardegna.
Parlò raramente com'era sua abitudine, ascoltò soprattutto le
mie considerazioni relative alla dura alternativa che avevo di
fronte, proseguire la strada internazionale oppure rientrare
nell'isola. Certamente però nelle ultime lettere avevo trasmesso al Professore un nuovo sentimento, la riscoperta della mia
terra, il legame profondo che sentivo con i problemi storici
dell'isola. Mi univa ad Aldo Moro una circostanza curiosa. Ero
nato anch'io nelle Puglie, a Gioia del Colle, dove mio padre, di
Olbia, rientrato dalle campagne d'Africa aveva sposato mia madre, giovanissima ostetrica. lo ero nato subito nel luglio del
1947 e quasi immediatamente trasferito ancora in Sardegna ad
Olbia, dove ci seguì la sorella piccola di mamma, rimasta orfana, zia Pia. Io non tornai più nelle Puglie, da ragazzo. Passarono
trent'anni prima di conoscere la terra di Moro in un brevissimo
viaggio con mia moglie, improvvisato per salutare gli zii di San
Marco in Lamis, vicino Foggia. Nonostante queste radici mi
sentivo assolutamente sardo e riuscivo a parlare il logudorese e
il gallurese. Intatte erano rimaste le immagini della nonna paterna, minuta, con un copricapo nero che dalle spalle la avvolgeva tutta. Passava qualche volta nel lungo mare per andare a
trovare parenti al ponte di ferro; a me piaceva osservarla da lontano senza chiamarla. La domenica ero assiduo, dopo la messa, nella sua poverissima casa al Casermone. Mi faceva sedere
nella sedia più alta al centro della cucina e mi osservava a lungo accarezzandomi.
Si ricordava sempe di aprire il cassetto della credenza e di raccogliere duecento, trecento lire tra i risparmi della spesa. Erano
il regalo per il cinema. Con un bacio forte stringendomi il viso
tra le mani scarne mi salutava «Grazie della visita masciu meu».
Il nonno era invece altissimo, di professione macellaio, grande
conoscitore delle campagne e degli stazzi della bassa Gallura.
Lo ricordano ancora a Loiri quando scambiava filo e bottoni
con galline e pelli di volpe. Tutte le mie storie erano legate a loro, i nonni e poi alle esperienze di mio padre, maresciallo
dell'aeronautica e a mia madre, ostetrica del paese.
Con lei in particolare trascorsi tutto il mio tempo rispettoso
sempre della sua dedizione al lavoro e di una onestà difficile nel
suo mestiere. La conservò gelosamente insieme alla sofferenza
per la morte prematura dei genitori. Il ritorno in Sardegna era un
pò un bagno di questo mare di piccoli e grandi sentimenti.
C'era anche una novità importante, mi ero innamorato di una ragazza di Assemini, alta, dai lineamenti sardi, ancora un pò bambina. Il Professore volle sentire molte di queste storie sarde e alla
notizia del fidanzamento osservò: «I tuoi genitori sono contenti?».
Mi colpì la domanda un pò antica, un pò strana.
Il colloquio al Ministero degli Esteri si concluse con una certezza: bisognava restare in Sardegna per contribuire alla crescita
della propria gente e dell'isola amata.
Fu questo il tema di una lettera breve che Aldo Moro trovò il
tempo di scrivermi quando assunse nel 1974 l'incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il Testo
«Carissimo Antonio,
Innanzi tutto i più fervidi auguri di bene e di pace in occasione delle festività natalizie e di fine d'anno.
Grazie delle tue parole di stimolo e d'incoraggiamento, sia per
quanto riguarda il partito, sia per quanto attiene al Governo.
E una grande impresa quella alla quale mi sono accinto e mi è
essenziale la fiducia dei giovani, sia pure per un mutamento
graduale. Mi preoccupa, tra gli altri, il tuo caso. Vorrei, sopra
ogni altra cosa, che tu restassi in Sardegna a fare del bene. Mi
dici di varie possibilità.
Vorrei mi chiarissi quali, tra esse, appaiono le più facili o meno
difficili. Due sole, perchè si possa battere meglio, là dove vi sono possibilità. E poi conto di parlare di te con gli amici sardi.
Coraggio, ce la faremo. I più affettuosi saluti, tuo
Aldo Moro»
Conclusione
Dopo la laurea avevo seguito a Milano un corso postuniversitario della Scuola Superiore «E. Mattei» in Economia Industriale. Era il primo passo, concordato con Aldo Moro, per
orientare la cultura generale di Scienze Politiche verso il concreto, in particolare verso il sistema di relazioni industriali.
La scuola Mattei non dava diritto automatico di accesso all'ENI
ma era comunque un buon biglietto da visita per la presentazione al grande Ente di Stato. Terminati gli obblighi del servizio militare, Moro infatti segnalò il mio nome a Benedetto De Cesaris.
fondatore e guida carismatica dell'ASAP, l'Associazione Sindacale delle Aziende del Gruppo ENI. Iniziai così la mia strada in
Sardegna così come aveva voluto la mia vocazione sostenuta
sempre dagli incoraggiamenti del Professore. Dopo gli anni
dell'Università incontrai Aldo Moro in Sardegna in occasione di
alcune visite politiche.
Ad Alghero nel 1975 durante la campagna elettorale lo accolsi
all'arrivo dell'aereo militare in perfetta tenuta da sottotenente
dell'Aeronautica. Aldo Moro salutò i generali e le autorità presenti, poi si fermò un momento a ricordarmi che voleva parlarmi, nella serata, prima di rientrare a Roma! Ci fu un momento di
sconcerto tra gli ufficiali che componevano il seguito, e qualcuno mi osservò un pò incuriosito.
Moro tenne un comizio energico nella piazza principale di Alghero e la notte dopo una cena breve e frugale mi chiamò nella
sua macchina che faceva ritorno in aeroporto.
Mi sentii imbarazzato stretto nel sedile posteriore tra il Professore, alla mia destra e Pietro Soddu alla sinistra.
Nel sedile anteriore, accanto all'autista, sedeva in silenzio Paolino Dettori. Moro volle parlare della mia collocazione professionale in Sardegna. Mi disse che avrebbe potuto sentire Ernesto
Dessì, suo carissimo amico e Direttore della SFIRS oppure contattare De Cesaris per I'ASAP. Gli confermai il mio vivo interesse
per l'esperienza industriale con una preferenza per l'ENI visto
che la SFIRS affrontava difficili problemi di ristrutturazione.
L'amicizia con Aldo Moro accompagna la mia piccola storia fino al terribile 1978. Gli auguri di Natale e a Pasqua, biglietti brevi
di saluto e di incoraggiamento per il lavoro e la vita di partito. Il
giorno del matrimonio un enorme cesto di fiori con un biglietto
autografo «Auguri tuo Aldo Moro».
11 16 marzo 1978 mi ero attardato la mattina nella libreria Dessì
nel largo Carlo Felice e mentre osservavo i titoli dei nuovi arrivi
sentii alcuni signori che bisbigliavano di un sequestro. Pensai
all'ennesima disgrazia di qualche famiglia sarda. Uscendo poi
dalla libreria mi rimase un grande dubbio perchè mi era parso di
aver sentito anche il nome del sequestrato. Chiesi subito notizie al giornalaio che mi confermò. «Aldo Moro era stato sequestrato in via Fani a Roma e la sua scorta uccisa». Non ebbi il
tempo neppure di riflettere. Mi precipitai di' corsa come un forsennato in ufficio per avere l'ultima conferma poi raggiunsi immediatamente la sede del partito in via Nuoro.
Solo nello studio camminava in silenzio il segretario provinciale
Battista Zurru. Ci abbracciammo subito con un pianto silenzioso e trattenuto a forza. I funzionari stavano già ricevendo da
Piazza del Gesù disposizioni per un manifesto murale da affiggere in tutto il paese e direttive per le manifestazioni pubbliche.
Non c'era più dubbio, era iniziata una grande tragedia nazionale.
Della prigionia riuscii a seguire, come tutti, ogni passaggio e
ogni speranza. Mi sentivo schierato naturalmente con chi auspicava una trattativa ma provavo un grande rispetto per il lavoro e
l'atteggiamento di Francesco Cossiga, allora Ministro dell'Interno. Il 9 maggio 1978 un singolare e tremendo epilogo della mia
amicizia con Aldo Moro. Ero a Roma per i normali incontri di
coordinamento in associazione. Avevo alloggiato all'Hotel
SantaChiara dietro il Pant heon e dovevo r aggiungere il
terminal dell'Alitalia per non perdere l'aereo della sera per
Cagliari.
Mi incamminai verso piazza Argentina tenendo con la destra una
leggera borsa da viaggio. Uno strano silenzio era caduto nella
zona. Nella piazza sempre affollata di gente e di autobus non trovai anima viva. Non riuscii a collegare subito la cosa con Aldo
Moro ma per intuito mi diressi subito verso Piazza del Gesù.
In lontananza scorgevo delle persone che correvano e anch'io
mi mossi velocemente nella stessa direzione. Mi fermai di fronte a una folla che premeva contro le transenne che le forze
dell'ordine avevano improvvisato all'ingresso di via Caetani.
Tutte le persone spingevano per forzare il blocco, molte non sapevano neppure perchè, altre dicevano che era stata trovata
una Renault rossa con il corpo di Aldo Moro. Anch'io mi portai il
più possibile avanti ma scorgendo l'auto abbandonata non molto lontano non riuscii a dominare un pianto irresistibile e così
indietreggiai e camminai verso Piazza Venezia ancora sconvolto. Ripetevo continuamente «Non è possibile, è assurdo».
In quella via sono tornato tante volte. Un giorno ho posato dei
garofani rossi sulla lapide in compagnia di mia moglie e di mia
figlia Elisa. La bambina osservava attenta i miei occhi lucidi e
mi chiese: «chi era questo signore, papà». Le risposi che
l'avrebbe imparato a scuola, nella storia d'Italia.
Guida bibliografica allo studio del pensiero e dell'opera di Aldo Moro
Aldo Moro nella vita familiare
Maria Fida MORO — LA CASA DEI CENTO NATALI. Rizzoli 1982
«un ricordo affettuoso dedicato alla memoria di un padre scomparso; un ritratto di famiglia in cui i particolari della vita quotidiana si illuminano di significati non effimeri; ma anche una cronaca di avvenimenti vissuti accanto
ad un protagonista della vita italiana, una testimonianza di come alcune
idee guida si incarnassero, umilmente, nelle azioni concrete di tutti i giorni».
Maria Fida MORO — IN VIAGGIO CON MIO PAPÀ. Rizzoli 1985
«dal Giappone alla Russia, dall'Iran ad Israele, al seguito di un uomo di Stato di eccezione che era anche un padre straordinario...».
Aldo Moro professore di Diritto
Aldo MORO — LEZIONI DI FILOSOFIA DEL DIRITTO. Cacucci 1978
«questo testo è stato realizzato per concessione gratuita della famiglia
dell'Autore e della Fondazione Aldo Moro. Il materiale didattico è stato tratto dalle lezioni di due corsi che Moro ha tenuto negli anni 1944-45 e 1946-47
presso l'Istituto di Filosofia del Diritto della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università di Bari. Il contenuto delle lezioni ha un particolare valore
scientifico e storiografico>.
AUTORI VARI _ CULTURA E POLITICA NELL'ESPERIENZA DI ALDO
MORO. Giuffrè 1982
«Aldo Moro non è stato solo un politico e uno statista ma anche uno studioso. Lo testimoniano gli scritti di Leopoldo Elia, Norberto Bobbio, Giuliano
Vassalli, Roberto Ruffilli, Ugo De Siervo, Sandro Fontana>.
Aldo LOIODICE e Pino PISICCHIO — MORO E LA COSTITUENTE. ESI 1984
«all'Assemblea Costituente, usciti dalle rovine della guerra, Moro portò il
contributo di un ruolo positivo inteso ad evitare l'apologia retorica di posizioni retrograde>.
Aldo Moro nella storia politica contemporanea
Baget BOZZO — IL PARTITO CRISTIANO E L'APERTURA A SINISTRA.
LA DC DI FANFANI E DI MORO 1954-1962. Vallecchi 1977
Baget BOZZO e Giovanni TASSANI — ALDO MORO IL POLITICO NELLA
CRISI 1962-1963. Sansoni 1983
«i due libri descrivono gli anni dell'egemonia democristiana dagli anni cinquanta al boom economico italiano. E poi la crisi culturale morale e civile
dei primi anni settanta. Il secondo libro si chiude qualche anno prima degli
anni di piombo, in cui si consumerà la vicenda umana del maggior politico
italiano del secondo dopoguerra. Moro è visto non solo come leader della
DC ma come leader nazionale. Moro è uomo del politico possibile ma il suo
possibile ha anche un orientamento dinamico, una finalità>.
TRANIELLO e CAMPANINI — DIZIONARIO STORICO DEL MOVIMENTO CATTOLICO IN ITALIA 1960-1980. Marietti 1980-82.
Francesco MALGERI — STORIA DEL MOVIMENTO CATTOLICO IN ITALIA. Il Poligono Editore Roma, 1980-82.
Giorgio CAMPANINI — CATTOLICI NEI TEMPI NUOVI quinto volume
«ALDO MORO> Il Poligono Editore Roma, 1982.
Francesco TRANIELLO — PARTITO E SOCIETA NEL PENSIERO DI MORO. In Appunti di Cultura e di Politica n. 5 e 6 Maggio — Giugno 1981.
Aniello COPPOLA — MORO. Feltrinelli 1976
«personaggio totus politicus Moro meritava un'analisi tutta politica. Egli si è
affermato come guida del suo partito e del governo quale ideatore della strategia più ambiziosa di questo trentennio repubblicano, il centro sinistra: una
formula legata indissolubilmente all'arte politica morotea».
In questa introduzione dell'Autore appare chiaro il limite dell'orizzonte laico
di analisi dell'uomo politico e della complessità di quel tempo.
Italo PIETRA — MORO FU VERA GLORIA? Garzanti 1983
«l'Autore dà una biografia di Aldo Moro che prima di fermarsi all'ora di Via
Fani fà un giro lungo per la vita italiana, da Bari a Roma, dagli anni della FUCI alle stagioni della costituente, da Piazza del Gesù a Palazzo Chigi. A poco
Moro, che sulle prima sembrava un giurista prestato alla politica, diviene un
maestro di pedagogia politica, una figura pastorale»
Quella di Pietra è opera contradditoria fondata sulla vecchia tesi laica della
mancanza di senso dello Stato e di volontà d'azione dei cattolici democratici.
Autori VARI — QUESTO È ALDO MORO. Il Punto n. 28 e 29 1978
«questo libro riporta il testo dei discorsi di scritti apparsi, a firma di storici,
politici e uomini di cultura sui giornali nazionali nel periodo tra il 16 marzo e
il 9 maggio 1978>.
Renato MORO — LA FORMAZIONE GIOVANILE DI ALDO MORO. In storia contemporanea n. 4-5 1983
Giorgio CAMPANINI — AL DI LÀ DELLA POLITICA E ALTRI SCRITTI DI
ALDO MORO. In Studium 1942-1952. Edizioni Studium 1982.
Aldo MORO: Scritti e Discorsi
Aldo MORO — L'INTELLIGENZA E GLI AVVENIMENTI. Testi 1959-1978.
Garzanti 1979
«questo libro testimonia lo sforzo della Fondazione Aldo Moro di rispondere
alle esigenze dell'opinione pubblica, quella cioè di mettere in luce il contributo dato da Aldo Moro allo sviluppo della società italiana. Nell'introduzione George L. Mosse, storico dell'Europa contemporanea, illustra la statura
internazionale di Moro alla luce dei problemi europei del dopoguerra>.
Aldo MORO— SCRITTI E DISCORSI volume 1° 1940-1947. Volume 2°
1951-1963 Edizioni Cinque Lune curate da Giuseppe Rossini
«un discorso su Moro — attraverso il recupero del suo patrimonio intellettuale e morale — è un discorso sulla sua capacità di mediazione, sul suo
sforzo di interpretazione della realtà italiana in trasformazione, sulla sua
funzione equilibratrice del quadro politico ma è anche un discorso sulla presenza, sulla identità della DC, sulla sua anima e sulla sua ispirazione».
Aldo MORO — DISCORSI POLITICI. Edizioni Cinque Lune 1978.
Aldo MORO — UNA POLITICA PER I TEMPI NUOVI. Agenzia Progetto
«in questo volume sono raggruppati i principali discorsi di Moro pronunciati
dal novembre 1968 al giugno 1969 in vista dell'H° Congresso nazionale
straordinario della DC».
giorni della tragedia
Giovanni SPADOLINI — DIARIO DEL DRAMMA MORO. Editore Le Monnier 1978.
Alfredo VINCIGUERRA — QUESTO PAESE NON SI SALVERÀ... LA TRAGEDIA MORO. Edizione Sei 1978.
Robert KATZ — I GIORNI DELL'IRA. IL CASO MORO SENZA CENSURE.
ADN Kronos 1982.
Senato della Repubblica e Camera dei Deputati — Atti della Commissione Parlamentare d'inchiesta sulla strage di Via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia. Roma 1984.
— Antonio Secchi (Tonino per gli amici) ha 38 anni, si è laureato in Scienze Politiche all'Università di Roma, è Dirigente dell'Agip Petroli e ricopre da anni la posizione
di Direttore Regionale dell'ASAP (l'Associazione Sindacale delle Aziende Eni).
— Francesco Sanna ha 21 anni e studia Giurisprudenza all'Università di Cagliari.
E delegato provinciale del Movimento Giovanile D.C.
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