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Genovesi in Sicilia

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Genovesi in Sicilia
ECONOMIA
E ARTE
Genovesi in Sicilia
Imprese commerciali e finanziarie
e committenza artistica
di una nazione di “mercatores”
Fausta Franchini Guelfi
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39
ECONOMIA
E ARTE
Quando il 23 marzo 1480 il Viceré di Sicilia autorizzava
i mercanti genovesi operanti a Palermo a riunirsi in confraternita presso
una cappella nel chiostro della chiesa di San Francesco, da molto tempo
gli attivissimi uomini d’affari della Repubblica erano profondamente
inseriti nella vita economica siciliana e avevano raggiunto posizioni
di assoluto privilegio rispetto ad altre comunità di commercianti
come pisani, lucchesi e catalani.
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ECONOMIA
E ARTE
Antonello Gagini, Altare
di San Giorgio,
particolari. Palermo,
Chiesa di San Francesco.
Alla pagina 38
Domenico Fiasella,
La Madonna Regina
di Genova. Palermo,
Museo Diocesano.
Alla pagina 39
Bartolomeo Pellerano
da Camogli, Madonna
dell’Umiltà. Palermo,
Galleria Regionale
della Sicilia.
ell’attuale piazza del Garraffello avevano da tempo una loggia mercantile
(oggi non più esistente), centro
degli incontri d’affari, fornita di
una fontana e circondata dagli
“scagni” (uffici) di mercanti e notai. L’altra importante sede commerciale dei genovesi in Sicilia
era Messina dove, dal trattato del
1117 fra Genova e Ruggero il
Normanno, godevano di rilevanti
esenzioni fiscali e del diritto di essere rappresentati da un console.
Dopo i normanni, anche gli svevi
avevano dato ai genovesi considerevoli privilegi: col trattato di
Pavia del 1162 Federico Barbarossa aveva concesso loro una
strada e un fondaco in tutte le
città siciliane. A Messina la comunità dei mercanti camoglini si collocava nei pressi di una strada
N
che da loro prese il nome di via
de Camulia1. Con l’avvento degli
aragonesi i commercianti liguri
dovettero contrastare, anche militarmente, la vivace concorrenza
dei catalani e dei valenzani; oggetto della contesa, il monopolio
del frumento siciliano e dei commerci con Tunisi per l’oro ed il frumento africani. Ma, oltre a condurre vere e proprie azioni di pirateria, i genovesi seppero anche
ottenere decisivi successi diplomatici: nel 1391 l’esercito aragonese di re Martino il Giovane fu
trasportato in Sicilia dalle navi genovesi, in cambio di importanti
privilegi fiscali sulle future esportazioni di frumento. La mappa del
potere economico genovese in Sicilia nel Trecento e nel Quattrocento si spiega sempre con questa parola: frumento. Così anche i
possedimenti in feudi e castelli
dei potenti clan familiari dei Ventimiglia e dei Doria si localizzavano
in zone chiave della produzione
agricola, come la piana di Agrigento.
L’istituzione nel 1480 della “CAPELA MERCATORUM GENUENSIUM”, come è inciso sul portale
che affaccia sul chiostro di San
Francesco a Palermo, venne perciò a sancire il prestigio ed il peso
economico di una comunità già
da tempo affermata. Al centro del
portale è scolpita la Vergine col
Bimbo, ai lati i protettori di Genova: San Giovanni Battista e San
Lorenzo a sinistra, a destra San
Giorgio e San Siro. In questa cappella fu probabilmente posta la
splendida tavola con La Madonna
dell’Umiltà che Bartolomeo Pellerano da Camogli aveva eseguito
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nel 1346 per un committente genovese finora non identificato2; e
nel 1520 lo scultore Antonello Gagini con atto notarile si impegnava
con il console della Nazione genovese Battista Cattaneo a scolpire un grandioso altare marmoreo con l’immagine di San Giorgio
ad altorilievo “cum alis ornamentis
sumptuosis”. La pala in marmo
bianco è sormontata da un frontone con la Vergine e il Bimbo fra
angeli e fiancheggiata da sei tondi
con i busti dei Santi Giovanni Battista, Stefano, Gerolamo, Lorenzo, Sebastiano e Cristoforo; alla
base è incisa la scritta con la quale la cappella e l’“opus marmoreum” vengono dedicate a San
Giorgio “Ianuae patrono” dai mercanti genovesi e da Giacomo Di
Negro, console nel 1526 al compimento dell’opera3. Lo stemma di
Genova è reiterato più volte
sull’architrave, ai lati della pala, ai
lati del paliotto. Le maestose forme classicheggianti e la raffinata
decorazione di questo complesso
scultoreo segnano uno dei momenti più alti dell’attività di Antonello Gagini, figlio di quel Domenico Gagini da Bissone che, giunto a Palermo da Genova nel 1459
dopo aver lavorato alla Cappella
di San Giovanni Battista nella cattedrale di San Lorenzo, vi aveva
aperto un’attivissima bottega che
in poco tempo aveva monopolizzato la produzione di scultura
marmorea nella Sicilia occidentale. La sua attività è strettamente
legata all’importazione di marmo
di Carrara (sicuramente effettuata
da navi genovesi) che la committenza siciliana voleva “nettu, blancu, lustranti e di bona grana, nettu
cioè di onni vina e bruttizza”4. Alla
sua morte nel 1492 Domenico era
stato sepolto fra i genovesi nella
chiesa di San Francesco.
Per i genovesi in Sicilia il culto di
San Giorgio espresse sempre sul
piano devozionale l’identità della
Nazione e l’immagine del santo
ne fu sempre la manifestazione fi-
ECONOMIA
E ARTE
Nicolò da Voltri,
San Giorgio. Termini
Imerese (Palermo), Chiesa
di Santa Maria di Gesù.
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ECONOMIA
E ARTE
San Giorgio
dei Genovesi, placchetta
in argento. Collezione
privata.
Giorgio Di Faccio,
Chiesa di San Giorgio
dei Genovesi a Palermo.
gurativa. Significativo esempio è
la tavola eseguita e firmata da Nicolò da Voltri più di un secolo prima per un “…isulfus…comissarius…consullis et merchator(um)”,
come è scritto sul dipinto, che è
probabilmente il genovese Battista Grisulfi, attivo a Palermo fra il
1402 e il 1404 5. La persistenza
dell’immagine di San Giorgio come simbolo della comunità dei
genovesi è attestata da una bella
“impronta” (targa argentea da
apporre, come un distintivo, sulla
veste processionale dei membri
delle confraternite laicali liguri)
con punzone palermitano settecentesco, probabilmente proveniente dalla chiesa di San Giorgio dei Genovesi6.
Nel Quattrocento al commercio
del frumento i genovesi avevano
aggiunto un’altra attività di fondamentale importanza per l’economia della Repubblica: l’importazione dalla Sicilia della seta grezza necessaria alla manifattura dei
velluti e delle sete genovesi. Messina soprattutto fornì per secoli ai
mercanti liguri il prezioso materiale7, fino alla totale distruzione dei
gelseti messinesi perpetrata nella
prima metà del Settecento duran-
te gli eventi bellici che segnarono
la breve dominazione austriaca
dell’isola. Le esportazioni in Sicilia dei mercanti genovesi erano
altrettanto preziose: panni inglesi
e francesi ma anche prodotti liguri come carta e tessuti in seta.
Se inoltre le navi genovesi portavano in Sicilia il bianchissimo
marmo di Carrara, ne esportavano il pregiato diaspro rosso che
soprattutto nel Seicento e nel
Settecento fu abbondantemente
usato per decorare con tarsie di
brillante colore gli altari delle
chiese di Genova e Liguria.
A partire dagli inizi del Cinquecento, inoltre, il commercio del
denaro aumentò enormemente i
profitti della Nazione genovese: i
prestiti ai governanti spagnoli della Sicilia da parte di potenti famiglie di banchieri come gli Adorno
e gli Spinola fruttavano, come pagamento degli interessi, privilegi
fiscali, concessioni di feudi, appalti per la riscossione delle imposte,
gestione amministrativa delle risorse di ampi territori. Durante il
regno di Carlo V fu spesso ricoperto da genovesi l’ufficio di Maestro Portulano, incarico governativo di amministratore della produzione e dell’esportazione del frumento siciliano; nella seconda
metà del secolo Nicolò Gentile
sarà il depositario del denaro della regia corte di Palermo; a saldare i debiti contratti, Carlo V concesse ai Pallavicino le isole Egadi
con le loro tonnare. Di breve durata (dalla seconda metà del Cinquecento alla prima metà del Seicento soltanto) ma apportatore di
sostanziosi guadagni per i genovesi fu anche il business delle assicurazioni marittime, del quale
famiglie come Spinola e Lomellini
giunsero ad avere quasi il monopolio. Accorti uomini d’affari, trafficavano col denaro ma non persero mai il controllo della fonte di
ogni ricchezza, il frumento. Nel
1570 i Centurione si costruirono
un palazzo a Palermo: erano fra i
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E ARTE
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più attivi assicuratori dell’isola, ma
avevano anche l’appalto della
contea di Modica come i Promontorio avevano l’appalto della contea di Caltabellotta, ambedue produttrici di frumento. La documentazione archivistica attesta come i
“mercatores” genovesi, assicuratisi il controllo della produzione, rivendessero ai siciliani il loro stesso frumento8.
A ribadire la rilevanza della comunità dei genovesi, la costruzione
della chiesa della Nazione nella
capitale del regno: nel 1576 i genovesi firmavano con la confraternita palermitana di San Luca una
convenzione, con la quale prendevano possesso della vecchia
chiesa del sodalizio con l’impegno
di ricostruirla totalmente intitolandola a San Giorgio. Ai confratelli
di San Luca sarebbe stata riservata una cappella del nuovo edificio, ma essi non avrebbero potuto
in alcun modo “concorrere et se
immiscere in regimine et guberno
dicte ecclesie Sancti Georgii
in…legatis elemosinis redditibus
et proventibus…in ea perveniendis”9. Con grande abilità i genovesi volgono a loro vantaggio la crisi
della confraternita, che non disponendo più di “redditus nec introytus” è costretta a lasciare “derelicta” la chiesa e a cederla in cambio di una cappella, impegnandosi
con clausole precise a non uscire
dallo spazio ad essa assegnato
per le sue attività devozionali e
soprattutto a non immischiarsi
nelle faccende della “magnificam
Nationem Genuensium”. I lavori
cominciarono immediatamente
sotto la direzione di Giorgio Di
Faccio, uno degli architetti più attivi a Palermo in quegli anni; le
grandi colonne marmoree sarebbero state fornite dal marmoraro e
scultore Giovanni Battista Carabio. Nel 1591 la chiesa era terminata. Il luminoso interno rinascimentale a croce latina e tre navate è scandito da maestosi fasci di
colonne che, su alti basamenti,
sorreggono gli archi poggianti su
raffinati capitelli corinzi; i pilastri
che reggono la cupola hanno un
doppio ordine di colonne che accentua la solenne grandiosità di
questo spazio architettonico. Il
pavimento è tuttora ricoperto di
lastre tombali sulle quali si leggono i nomi di membri delle famiglie Giustiniani, Spinola, Doria,
Pallavicino e di molte altre; fra
questi un Nicola Colombo che si
dichiara discendente dello scopritore del nuovo mondo ed afferma di essere ligure per nascita e siciliano in morte (SIC LIGUR EX ORTU MORTEQUE
SUM SICULUS) (1600)10.
Ad eccezione della cappella di
San Luca, riservata secondo i
patti all’antica confraternita, tutte
le altre portano il nome di famiglie
genovesi che ne ottennero il patronato e ne finanziarono l’arredo,
chiedendo grandi pale d’altare ad
alcuni dei più importanti pittori attivi fra la fine del Cinquecento e
gli inizi del Seicento, fra i quali il
veneto Jacopo Palma il Giovane
(Martirio di San Giorgio sull’altar
maggiore, Annunciazione nella
cappella Lomellini e Battesimo di
Cristo nella cappella Del Bene) ed
il toscano Jacopo da Empoli (Martirio di San Vincenzo da Saragozza nella cappella Giustiniani). Di
provenienza certamente genovese ed attribuita a Bernardo Castello è la pala, eseguita molto
probabilmente nel 1583 per la
cappella Malocello, con una Lapidazione di Santo Stefano che, sicuramente per volere del committente, è copia fedele della celebre
tavola dipinta da Giulio Romano
per la chiesa genovese di Santo
Stefano. E da Genova venne anche la grandiosa Madonna Regina di Genova che, dipinta da Domenico Fiasella subito dopo il
1637 a celebrare l’incoronazione
della Vergine protettrice e patrona
della Repubblica, si proponeva
come immagine ufficiale del prestigio della Nazione nella orgo-
gliosa rappresentazione, di nitidezza e precisione cartografica,
della città di Genova con le due
imponenti opere pubbliche appena compiute: il Molo Nuovo e le
nuove mura che circondavano la
città con un lungo percorso sul
crinale dei monti11.
Fra le lastre tombali nella chiesa
dei genovesi c’è anche quella della celebre pittrice cremonese
Sofonisba Anguissola. Sposatasi
in seconde nozze nel 1579 con
Orazio Lomellini, si stabilì a Genova fino al 1615 quando, seguendo il consorte, da anni impegnato in intensi traffici commerciali fra Genova e Palermo, si trasferì nella città siciliana e vi morì
dieci anni dopo12. L’intraprendente
Lomellini era un tipico uomo d’affari ben inserito nella vita palermitana di quegli anni, quando più
Bernardo Castello,
Martirio di Santo
Stefano. Palermo,
Museo Diocesano.
ECONOMIA
E ARTE
Michelangelo Merisi
da Caravaggio, Natività.
Già a Palermo, Oratorio
di San Lorenzo.
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della metà dei mercanti residenti
in città apparteneva alla Nazione
genovese. Capitano di nave e
commerciante, faceva la spola
fra Genova, Nizza, la Corsica,
Livorno, Napoli e Palermo, trasportando e vendendo frumento
e altre merci e curando gli affari
in Sicilia di molti mercanti genovesi. A Palermo ricoprì ben sette
volte l’incarico di console della
Nazione fra il 1615 ed il 1631 e
in qualità di console fu lui ad occuparsi della realizzazione del
grandioso arco di trionfo eretto
dai genovesi in onore di Santa
Rosalia nel 1625. La sua nomina
a senatore nel 1630 dimostra
ancora una volta come la prosperità mercantile e finanziaria
dei genovesi in Sicilia fosse
strettamente legata ad una presenza ai più alti livelli della pubblica amministrazione, che garantiva privilegi di ogni genere.
Ad esempio quel Vincenzo Giustiniani che aveva una cappella
nella chiesa di San Giorgio nel
1604 ebbe l’incarico dal Viceré
di amministrare Modica, Scicli e
Ragusa e dal 1610 anche il principato di Paternò e tutte le altre
terre del principe Antonio d’Aragona e Moncada. Le rendite
dell’antica nobiltà siciliana e dei
feudatari spagnoli passavano
sotto la gestione degli attivissimi
“mercatores” genovesi.
Se San Giorgio restava la chiesa
ufficiale della Nazione, i numerosissimi genovesi operosi a Palermo avevano anche altri spazi
di aggregazione destinati alla
devozione, come l’oratorio di
Santo Stefano per il quale il pittore genovese Bernardo Castello
eseguì nel 1619 la grande pala
con il martirio del santo destinata all’altar maggiore. Eretto nel
1589, l’oratorio era situato di
fronte al Monte di Pietà, amministrato dai genovesi, e possedeva, oltre al dipinto del Castello,
una serie di splendide tele secentesche con le storie di Santo
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Stefano 13. Uno studio recente,
suffragato dalla scoperta di inediti documenti archivistici, ha
portato ad individuare nell’oratorio di San Lorenzo un altro importante punto di riferimento dei
genovesi a Palermo e a proporre
una committenza genovese per
la Natività dipinta dal Caravaggio per l’oratorio e purtroppo rubata anni fa e non ancora ritrovata. Nell’oratorio, attiguo alla
chiesa di San Francesco dove la
“sepultura januensium” era utilizzata ancora nel primo Seicento,
era infatti attiva una confraternita intitolata a San Francesco,
fondata nel 1564 dal genovese
Antonio Massa. Il Rollo (elenco)
dei Fratelli della Venerabile
Compagnia di San Francesco
d’Assisi nella Chiesa di San Lorenzo annovera numerosi nomi
genovesi fra la fine del Cinquecento ed il primo decennio del
Seicento (Costa, Grimaldi, Brignone…) e la presenza, nella
pala del Caravaggio, della figura
di San Francesco accanto a
quella di San Lorenzo titolare
dell’oratorio, è un indizio sicuro
della committenza da parte della
confraternita14.
Il profondo inserimento dei genovesi nella vita palermitana si misura anche in questo diversificarsi della devozione: non arroccati
nella chiesa della loro Nazione,
ma attivi anche in altri contesti
religiosi. Se un folto gruppo di
genovesi si era orientato verso la
disciplina ascetica e penitenziale
della confraternita di San Francesco nata con il fine istituzionale di seppellire i poveri del quartiere della Kalsa, altri preferirono
accostarsi alla proposta devozionale più “moderna” di San Filippo
Neri. Alla congregazione palermitana dei Filippini, fondata nel
1593, si volse Gregorio Castello
(1586-1643), nipote del pittore
Bernardo e figlioccio di battesimo
di Sofonisba Anguissola durante
il soggiorno genovese della pittri-
ce. Stabilitosi in Sicilia agli inizi
del Seicento ed arricchitosi con
attività commerciali e bancarie,
insignito della signoria di Gagliano e di Capizzi, il Castello acquisì la cappella dell’Arcangelo Gabriele nella chiesa dell’Ordine.
Nei primi anni del Seicento giungeva a Palermo anche Camillo
Pallavicini: commerciante di frumento, procuratore per gli investimenti siciliani delle più rilevanti
famiglie aristocratiche di Genova
(Spinola, Serra, Pallavicini…) divenne il più ricco banchiere della
capitale siciliana. Il suo sostegno
economico fu di fondamentale
importanza per la crescita dei Filippini a Palermo. Nel 1633, rimasto vedovo, entrò nell’Ordine
Filippino; ma nella sua vita di devozione non dimenticò la sua
città natale e dispose un cospicuo lascito testamentario per la
fondazione di una congregazione
e la costruzione di una chiesa filippina a Genova: è la splendida
chiesa di San Filippo in via Lomellini15.
La fortuna dei genovesi in Sicilia
declinò con l’avvento dei Borboni nella prima metà del Settecento. Il governo borbonico iniziò immediatamente una vasta
azione di risanamento economico cancellando i numerosissimi
debiti contratti dagli spagnoli soprattutto con i genovesi e stroncando i privilegi e le esenzioni
fiscali concesse alla Nazione.
Queste misure furono precedute
da uno studio analitico della situazione (1736), che ben rappresenta il predominio acquisito
dai genovesi nell’economia siciliana: “Li genovesi si sono impadroniti del commercio in Palermo…Li genovesi sono li soli che
fanno questo commercio (del
frumento)”16. La riorganizzazione
del debito pubblico non lasciava
più spazio alle operazioni finanziarie e commerciali privilegiate
dei mercanti-banchieri della Repubblica.
Note
1. Dove non altrimenti specificato, le notizie storiche qui citate sono tratte da C.
TRASSELLI, I rapporti tra Genova e la Sicilia: dai Normanni al ’900, in Genova e i
genovesi a Palermo, Atti delle manifestazioni culturali (Genova 1978/1979), Genova 1980, pp. 13-37. In questi atti sono
pubblicate le conferenze tenute a Genova
dal 13 dicembre 1978 al 13 gennaio 1979,
in concomitanza con l’apertura, nel Salone
del Gran Consiglio di Palazzo Ducale, di
una mostra, progettata da Giovanna Rotondi Terminiello, di alcune delle pale d’altare della chiesa palermitana di San Giorgio dei Genovesi e dell’oratorio palermitano di Santo Stefano. Questi Atti restano
tuttora un contributo fondamentale per lo
studio dei rapporti fra Genova e la Sicilia.
Ringrazio Gioacchino Barbera, Direttore
dei Musei Regionali di Messina e di Siracusa, per i preziosi suggerimenti e per le
utilissime indicazioni bibliografiche.
2. Sulla tavola di Bartolomeo Pellerano: A.
DE FLORIANI, Pellerano, Bartolomeo, in
Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. IX,
Roma 1998, pp. 289-290 (con bibliografia
precedente).
3. V. SAVONA, Genova e i Genovesi a
Palermo: i contenuti della mostra, in Genova e i genovesi cit., 1980, p. 89. Il complesso marmoreo, tolto dalla cappella, è
attualmente collocato nella chiesa di San
Francesco.
4. F. NEGRI ARNOLDI, Marmi in Sicilia tra
Quattrocento e Cinquecento, in Le vie del
marmo. Aspetti della produzione e della
diffusione dei manufatti marmorei tra
Quattrocento e Cinquecento, Atti della
giornata di studio (Pietrasanta 1992), Firenze 1994, p. 25 (con bibliografia precedente).
5. Sul San Giorgio di Nicolò da Voltri: D.
BERNINI, Scheda n.1, in Opere d’arte restaurate a cura della Soprintendenza alle
Gallerie ed Opere d’Arte della Sicilia, Palermo 1966, pp. 5-7; G. ALGERI, Ai confini del
Medioevo, in G. ALGERI - A. DE FLORIANI, La pittura in Liguria. Il Quattrocento, Genova 1991, p. 58, fig. 59 (con bibliografia
precedente).
6. La targa d’argento è contrassegnata dal
punzone con l’aquila palermitana e dalle
lettere CD BLG 32. F. FRANCHINI GUELFI, Argenti e metalli, in La Liguria delle casacce. Devozione, arte, storia delle confraternite liguri, Catalogo della mostra, Genova 1982, p.113, fig. 27.
7. M. AYMARD, Commerce et production
de la soie sicilienne aux XVI et XVII siècles, in “Mélanges d’Archéologie et d’Histoire” 1965, n. 77, p. 621.
8. Nel 1561 Andrea Mazzone e Stefano
Spinola vendono al palermitano Gaspare
Sinatra 400 salme di frumento del prossimo raccolto di Sciacca o di Agrigento.
TRASSELLI 1980, p. 29.
9. L’atto notarile della convenzione è conservato nell’Archivio di Stato di Palermo
(Notaio Barnaba Bascone, vol. 7478, luglio 1576) ed è integralmente trascritto in
R. PATRICOLO, Le iscrizioni sepolcrali in
S.Giorgio dei Genovesi a Palermo, in Genova e i genovesi cit., 1980, pp. 78-80.
10. PATRICOLO 1980, pp. 81-83. Sull’architetto piemontese Giorgio Di Faccio, attivo dal 1559 a Palermo dove morì nel
1592: G. BARBERA, Di Faccio, Giorgio, in
Dizionario Biografico degli Italiani, vol.
XXXIX, Roma 1991, pp. 799-800.
11. Sul dipinto del Fiasella esiste una folta
bibliografia, citata in A. ORLANDO, Scheda VIII, n. 4, in El siglo de los Genoveses,
Catalogo della mostra di Genova a cura di
P. Boccardo e C. Di Fabio, Milano 1999,
p. 265. Sui dipinti della chiesa vedi, oltre a
Genova e i Genovesi cit., 1980: Dipinti restaurati della chiesa di S.Giorgio dei Genovesi, Catalogo a cura di D. BERNINI,
Palermo 1969.
12. Su Sofonisba Anguissola ed Orazio
Lomellini: R. SACCHI, Tra la Sicilia e Genova: Sofonisba Anguissola Moncada e
poi Lomellini, in Sofonisba Anguissola e le
sue sorelle, Catalogo della mostra di Cremona a cura di M. Gregori, Milano 1994,
pp. 153-169, 401.
13. M.G. PAOLINI, La decorazione dell’oratorio di S. Stefano, in Pietro Novelli e il suo
ambiente, Catalogo della mostra, Palermo
1990, pp. 140-142. Il dipinto del Castello reca la scritta BERN. CASTELL. GEN. PINGEBAT. MDCXVIIII.
14. L’ipotesi della committenza genovese
del dipinto del Caravaggio e la citazione
dell’inedito Rollo della confraternita sono
pubblicati, assieme ad un’analisi dell’“universo mercantile” genovese, in V. ABBATE, La città aperta. Pittura e società a Palermo tra Cinque e Seicento, in Porto di
mare1570-1670. Pittori e pittura a Palermo
tra memoria e recupero, Catalogo della
mostra a cura di V. Abbate, Palermo 1999,
pp. 32-56.
15. ABBATE 1999, p. 44.
16. C. TRASSELLI, Genovesi in Sicilia, in
“Atti della Società Ligure di Storia Patria”,
1969, p.176.
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