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8°Zadankai 19 Aprile 2012

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8°Zadankai 19 Aprile 2012
TRATTO DAL NUOVO RINASCIMENTO N°394!
19 APRILE 2012
ZADANKAI
La Rabbia
Siamo proprio sicuri di avere ragione ?
Il conflitto
caratterizza i nostri
tempi; Seiji Takaku ha
trovato un'interessante
chiave di lettura che
illustra come la
consapevolezza dei
propri sbagli ci renda
più disponibili a
perdonare quelli degli
altri e ad avere relazioni
armoniose. A questo
scopo può essere utile il
punto di vista offerto
dalle filosofie orientali e,
in particolare, dal
Buddismo.
di Marialuisa Ce!erino
«IO HO RAGIONE, TU HAI TORTO!».
Questa frase, detta in modo esplicito oppure soltanto pensata, è il cuore di ogni conflitto, sia nell'ambiente strettamente personale, sia nella società, dove la convinzione di una "parte"- che sia una classe
sociale, un popolo o una nazione - di avere ragione può sfociare in sanguinosi conflitti che recano dolore e devastazione. Il conflitto, un tipo di relazione interpersonale distruttiva che caratterizza i nostri
tempi, un'epoca di «dispute e conflitti [...] in cui la vera Legge sarà oscurata e perduta» come profetizzava il Sutra della Grande raccolta. Seiji Takaku, membro della Soka Gakkai americana e professore di
psicologia alla Soka University lavora da anni su questo tema, una scelta, come egli afferma «naturale
per me che, da studente, mi trovavo a dover lottare per costruire e mantenere relazioni armoniose con
persone provenienti da culture differenti». Egli ha trovato una chiave di lettura che offre applicazioni
interessanti nella vita di tutti i giorni nella "teoria attribuzionale" del suo maestro, il professor Weiner,
uno dei maggiori studiosi del mondo nell'ambito della "motivazione umana", i cui lavori hanno ispirato
in gran parte le teorie di Martin Seligman sul valore dell'ottimismo di cui ha spesso parlato anche il
presidente Ikeda (cfr. NR, 334, 8). Ma cosa dice questa teoria, che risulta interessante per spiegare (e
modificare) il nostro modo individuale di reagire e di entrare in relazione sia con noi stessi sia con gli
altri? Anzitutto afferma che il comportamento delle persone spesso è dettato dalla maniera in cui interpretano i fatti che accadono loro. Per esempio, una persona che viene bocciata a un esame troverà
naturale chiedersi: «Come mai mi è capitato?».
GRUPPO PROMONTORIO!
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TRATTO DAL NUOVO RINASCIMENTO N°394!
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E la maniera in cui reagirà e si comporterà dipenderà proprio dalla risposta che si darà a questa domanda. Se penserà di essere stata bocciata perché non era abbastanza capace, è probabile che proverà vergogna e deciderà di arrendersi. Ma se penserà che la causa della bocciatura è stata il non essersi impegnata
abbastanza, è probabile che il rimorso la indurrà a riprovarci una seconda volta mettendoci maggiore
impegno. Se qualcuno ci fa qualcosa che non ci piace possiamo scegliere di pensare che «l'ha fatto apposta per ferirmi», oppure che «è successo ma in realtà non voleva farmi star male». Nel primo caso è probabile che ci arrabbieremo e reagiremo con un comportamento distruttivo, per esempio rompendo
l'amicizia (questa si chiama nel linguaggio tecnico della psicologia "attribuzione distruttiva"). Nel secondo caso probabilmente perdoneremo l'altra persona (cioè faremo una "attribuzione costruttiva").
Alcune ricerche hanno dimostrato che quando accade qualcosa di negativo o di inaspettato, sia a livello
individuale che di relazione, noi tendiamo molto più facilmente a fare una valutazione di tipo "distruttivo" piuttosto che "costruttivo". E ciò è strettamente legato a un "errore di attribuzione fondamentale"
che consiste in questo: quando valutiamo il comportamento aggressivo degli altri, tendiamo a giudicare
negativamente la persona, per esempio pensando: «Che persona meschina!» piuttosto che osservarne il
comportamento e riflettere: «Forse avrà avuto una brutta giornata» chiedendoci magari cosa nel nostro
comportamento può aver suscitato quel commento negativo nei nostri confronti. Seiji Takaku ha condotto vari esperimenti su come evitare questo tipo di "errore". Nel caso dell'esperimento sulla "collera
stradale" ha sottoposto due gruppi a un evento simulato; il primo gruppo ha immaginato che qualcuno
tagliava loro la strada in macchina, mentre il secondo ha simulato che poco prima che gli venisse tagliata
la strada udiva il suono di un clacson segnalante che stava inavvertitamente tagliando la strada a qualcun
altro. I membri del secondo gruppo dimostravano una reazione meno collerica, più "costruttiva" e indulgente nei confronti dell'altro automobilista. Ma perché, si chiede Takaku, l'essere consapevoli dei
propri sbagli rende le persone più disponibili a perdonare quelli degli altri? Le spiegazioni possono essere molteplici ma di recente molti psicologi sono stati attratti dalle differenze fra il modo di pensare e di
spiegare i fatti della vita tipico del pensiero occidentale e quello delle filosofie orientali e del Buddismo
in particolare.
DUE CONCEZIONI DEL MONDO
Volendo semplificare la differenza tra queste due visioni potremmo dire che l'approccio occidentale si
basa sui seguenti princìpi: La legge di identità: una cosa non può che essere identica a se stessa, così in
un conflitto se qualcuno è il carnefice o la vittima non può essere altro che questo. La legge di non contraddizione: nessuna affermazione può essere al tempo stesso vera e falsa. Quindi se "quella persona è il
colpevole", è impossibile pensare al tempo stesso che "quella persona non è il colpevole", perché sarebbe una contraddizione. È facile vedere come questa logica, tipica della filosofia occidentale, tenda a darci una visione della realtà dicotomica, in cui qualcosa "o è bianco o è nero" e una persona "o ha ragione
o ha torto". Il pensiero orientale tende invece a una visione della causalità più olistica che segue questi concetti: Il principio di cambiamento, secondo il quale la realtà muta continuamente; in un conflitto
anche chi è considerato il colpevole può diventare la vittima e viceversa. Il principio di contraddizione,
per cui siccome c'è un cambiamento costante, c'è anche una contraddizione costante. Vecchio e nuovo,
buono e cattivo, debole e forte, coesistono in tutte le cose. Così una persona può essere al tempo stesso
sia colpevole che vittima. Il principio di relazione o principio olistico, secondo il quale niente esiste in
modo isolato e indipendente, tutto è connesso. Perciò in caso di conflitto fra la persona A e la persona B
il conflitto è determinato da entrambe. Date queste premesse si capisce come spesso i conflitti non si
risolvono perché entrambe le parti sono convinte di aver ragione. Ma se entrambe le parti riuscissero a
ragionare in maniera meno egoistica, a vedere le cose anche secondo la prospettiva degli altri e diventare più consapevoli delle natura interdipendente delle proprie e delle altrui azioni, questa consapevolezza
farebbe crescere l'empatia, dando origine a varie motivazioni costruttive come la maggiore disponibilità
ad aiutare gli altri e a perdonare chi può averci fatto del male. La seguente analogia può illustrarci come
il Buddismo può essere d'aiuto nell'affrontare i conflitti: «Qualunque problema è un effetto prodotto
dalla combinazione di una causa interna e di una relazione. Prendiamo l'esempio di un bicchiere d'acqua. Supponiamo che nel fondo ci sia un sedimento: se si agita il contenuto, l'acqua diverrà torbida. In
questo caso il deposito costituisce la causa interna e l'atto dell'agitare, la relazione. Supponiamo che un
marito e una moglie siano come cane e gatto e che si accusino reciprocamente.
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Sarebbe come se dicessero: "L'acqua è diventata torbida perché tu l'hai agitata": ma in realtà, se non c'è
deposito, l'acqua rimarrà limpida anche se la si agita a lungo. Le persone [...] non si rendono conto che la
causa dell'infelicità è dentro di loro e che stanno semplicemente sperimentando l'effetto di una causa
attivata da qualcun altro» (La legge meravigliosa, esperia, pp. 63-64). Capire l'idea buddista che tutte le
cose sono collegate e interdipendenti è un passo cruciale per la costruzione della pace. Lo ha ribadito
spesso il presidente Ikeda nelle sue Proposte di pace. In quella scritta nel 2005 affermava: «È essenziale
sviluppare la capacità di discernere tale natura relativa e mutevole della realtà e al tempo stesso sviluppare una salda autonomia che non si faccia sopraffare da essa. Sulla base di tale discernimento e autononomia occorre accettare tutto ciò che è umano senza discriminazioni, rifiutando di circoscrivere le persone o stigmatizzarle sulla base dell'ideologia, della nazionalità o dell'etnia. Bisogna decidere di ricercare
attivamente ogni possibile occasione di dialogo e non permettere mai che le strade in questa direzione
vengano interrotte». E faceva notare che «quando ci rendiamo conto che tutto cambia all'interno di una
cornice di interdipendenza è ovvio considerare armonia e unità come espressioni della nostra interconnessione. Ma, allo stesso modo, possiamo giungere a riconoscere anche il valore della contraddizione e
del conflitto. La battaglia contro il male - una battaglia che scaturisce dallo sforzo interiore per padroneggiare le nostre stesse contraddizioni e conflitti - dovrebbe esser considerata una prova difficile ma
inevitabile a cui dobbiamo sottoporci per riuscire a creare un senso di connessione più grande e profondo. Questa connessione può essere vissuta positivamente come un aspetto di armonia e di unità ma possiamo viverla anche in termini negativi, come conflitto. Poiché entrambi sono aspetti di questa interconnessione, possiamo considerarli portatori del medesimo valore. Ma, proprio nella misura in cui riconosciamo che la realtà della vita è una lotta e che attraverso questa lotta la nostra umanità si tempra e si
rafforza, affrontare i conflitti con coraggio diventa ancor più vitale. Nella tradizione buddista questo
viene considerato il punto d'onore del bodhisattva. Se rifiutiamo di operare discriminazioni in base a
stereotipi o a limitazioni imposte, possiamo riconoscere l'unità che soggiace sia alla relazione positiva
che a quella negativa, e impegnarci con tutta la nostra energia vitale in un dialogo in grado di trasformare anche il conflitto in un legame positivo. In quest'impresa risiede l'autentico contributo che può dare
un umanesimo basato sul Buddismo» (BS, 110, 10-12).
con Parole mie / Guerra e pace
Lei si era comportata malissimo e io fremevo di sdegno. Non potevo però affrontare
l'argomento con lei perché dal 2003 ho adottato come guida personale il messaggio alle donne
italiane in cui Daisaku Ikeda ci esorta ad affermare le nostre ragioni "con un cuore che desidera
la pace", e io desideravo invece lo scontro aperto.
La recitazione del Daimoku mi dava un sollievo temporaneo, ma rimaneva in superficie e non
scioglieva la collera. Mi sentivo immersa in uno stagno, nel pantano della negatività, nel quale ho
sguazzato per due settimane. Di fiori candidi, neanche l'ombra.
Poi, esasperata, ho telefonato a qualcuno che mi potesse aiutare. Dopo essermi diffusamente
lamentata, ho dichiarato che non trovavo dentro di me né compassione né pace. Lei mi ha
invitata allora ad assumermi la responsabilità dei miei sentimenti. Il comportamento di quella
persona aveva risvegliato la mia oscurità, e quella dovevo combattere.
Conclusa la telefonata, ho cominciato a recitare Daimoku in questo modo, per trasformare la
cappa negativa che si era formata dentro di me. Recitando ho capito che il labirinto dei torti e
delle ragioni era tutto dentro di me. Era un luogo in cui questa persona era stata condannata
con sentenza definitiva per un'azione sbagliata. Davanti al Gohonzon ho ritrovato il cuore che
desidera la pace e poi, naturalmente, il dialogo e la collaborazione. Trasformare la collera mi ha
permesso di uscire dalla prigione del giudizio e di ritornare nella realtà.
Laura Barbieri
GRUPPO PROMONTORIO!
PAGINA 3
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