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Fabbriche e territorio: il ruolo dell`industria edilizia nel Mezzogiorno
/ 2-3 / 2011 / In Italia
Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
di Roberto Parisi
1. Produzione edilizia e paesaggi dell’industria
Da poco più di un decennio il comparto italiano delle costruzioni è al centro di un rinnovato interesse storiografico1. Per quanto difficile appaia al
momento una riflessione critica sulle cause e sulle eventuali motivazioni che
hanno innescato, a distanza di quasi quarant’anni, il reiterarsi di una specifica attenzione verso un ambito di studi così complesso in concomitanza di
una presunta o reale “crisi edilizia”, non è forse del tutto azzardato riconoscere in questa stagione storiografica, così come accadde in quella degli anni
settanta del secolo scorso2, la necessità di una riflessione di lungo periodo
sul ruolo dell’industria nella trasformazione del territorio alla scala nazionale
e dell’impatto dell’industrializzazione sulle comunità regionali.
Secondo quanto ha sottolineato Paolo Frascani in un recente contributo
sull’imprenditoria delle costruzioni nel Mezzogiorno, «la storia del settore
edile deve consistere nel tentativo di misurare l’evoluzione di competenze,
strumenti e forme organizzative che concorrono nel processo produttivo realizzando manufatti che non rimangono eguali a se stessi» e da questo punto
di vista si tratta di «una storia ancora in gran parte da scrivere»3, soprattutto,
a nostro avviso, in una prospettiva di giudizio multidisciplinare.
Raramente, infatti, la fabbrica dello storico dell’architettura coincide con
quella dello storico dell’industria, così come è ancora più difficile che in entrambi i domini epistemologici i rispettivi racconti interagiscano con lo spa1
Si veda, per un quadro degli studi sul tema, Michela Barbot, Andrea Caracausi, Paola Lanaro (a cura di), Lo sguardo della storia economica sull’edilizia urbana, numero monografico
di «Città & Storia», 2009, 1.
2
Carlo Olmo, Architettura edilizia ipotesi per una storia, Eri, Torino 1975; Lando Bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia. Proprietà, imprese edili e lavori pubblici dal primo
dopoguerra ad oggi (1919-1970), Editori riuniti, Roma 1978; Carlo Olmo, Riccardo Roscelli,
Produzione edilizia e gestione del territorio, Stampatori, Torino 1979.
3
Paolo Frascani, Costruttori e imprenditori a Napoli tra Otto e Novecento: il farsi di un identità, «Annali di Storia dell’Impresa», 2007, 18, pp. 365-383.
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zio storico delle macchine, dei processi produttivi, della vita dei lavoratori e
degli imprenditori, come delle loro comunità di appartenenza. In gran parte
disatteso, infine, è il confronto dialettico tra questi settori disciplinari e quello degli storici sociali sui temi dell’ambiente, specialmente quando l’indagine sulla fabbrica riguarda direttamente dinamiche e strategie di abuso e di
contaminazione delle risorse naturali e antropiche.
Anche con riferimento ai modi di produzione (a domicilio, accentrato, ad
automazione rigida, etc.), alle tipologie di lavoro salariato (a cottimo, a tempo, a turni, flessibile, etc.) e ai contesti territoriali e paesaggistici (pedemontani, rurali, urbani, costieri, etc.), storie costruite per ambiti specialistici, ma
separati (dall’architettura all’economia, dalla geografia all’urbanistica, dalla
sociologia all’ambiente), non sempre concorrono in maniera condivisa e
comparabile a scandire i tempi e a decodificare i modelli e le pratiche che
hanno determinato le caratteristiche ubicazionali, formali e funzionali di manifatture, opifici e fabbriche.
Statistiche e cronologie sul passaggio dal mercante all’imprenditore, dal
verlagsystem alla “Grande Industria”, dal taylor-fordismo al toyotismo, non
appaiono sufficienti per comprendere il luogo fisico nel quale si produce e si
lavora nell’età della proto-industria come in quella dell’industrializzazione.
Analogamente, letture tipologico-formali elaborate esclusivamente sulla
scansione genealogica di correnti linguistiche e figurative o sull’evoluzione
lineare e progressiva delle innovazioni tecnologiche introdotte nelle macchine, negli impianti, nei materiali edilizi o nelle tecniche di prefabbricazione
forniscono spesso solo spunti o indizi per entrare nell’architettura della fabbrica e più in generale nel comparto industriale della produzione edilizia attraverso uno studio di progettazione o un’impresa di costruzione.
In tal senso, le osservazioni di Frascani sulla figura professionale dei costruttori attivi tra l‘Unità e il secondo dopoguerra a Napoli, considerata opportunamente «uno degli epicentri storici dell’espansione dell’industria edilizia nazionale», offre l’opportunità di avanzare qualche considerazione su alcuni aspetti e protagonisti della storia dell’industria edilizia del Mezzogiorno4.
In primo luogo, emerge la necessità di far rientrare a pieno titolo nel comparto delle costruzioni anche l’edilizia di carattere produttivo ovvero l’architettura
industriale, comprese le attrezzature ausiliari all’industria e le infrastrutture,
superando quell’idealistica antinomia tra “architettura” intesa come “opera
d’arte” e edilizia “comune” intesa come insieme indistinto di categorie di opere “minori”, per quanto formalmente e paesaggisticamente riconoscibili. La
fabbrica, intesa come luogo del lavoro e attraverso la quale si sono sperimenta4
Le riflessioni contenute in questo saggio fanno parte di un più ampio lavoro di ricerca ora
in corso di stampa: Roberto Parisi, Fabbriche d’Italia. L’architettura industriale dall’Unità
alla fine del secolo breve, Franco angeli, Milano 2011.
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Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
te nel lungo periodo pratiche di progettazione, di trasformazione e di controllo
dello spazio antropico sia alla scala architettonica, sia a quella territoriale, può
diventare una chiave di lettura in un certo senso ancora inedita, rispetto a studi
che generalmente prediligono l’affondo tematico sull’edilizia civile, pubblica
o privata (e soprattutto di carattere residenziale), religiosa o militare.
Attraverso questa chiave di lettura l’analisi dell’impatto ambientale e della
ricaduta economica derivanti dall’insediamento di un singolo impianto industriale o di un’intera area industriale consentono di recuperare uno dei tanti
possibili fili rossi che discontinuità socio-culturali, politico-economiche o militari non hanno lacerato del tutto: nel «Servizio costruzioni» della Fiat di Torino diretto dall’ingegnere Bonadè Bottino o nell’«Ufficio progetti» dell’Olivetti ad Ivrea, ad esempio, è possibile riconoscere le stazioni di partenza di una
direttrice che, attraversando l’intera penisola, conduce rispettivamente alla Fiat
Engineering (poi Maire Engineering) che ha realizzato negli anni 1990-92 tutto il sistema infrastrutturale e impiantistico di Melfi e alla Tekne spa che negli
anni del miracolo economico contribuì alla pianificazione di nuovi poli industriali in molte regioni dell’Italia meridionale. Lungo tale percorso tematico,
imprenditoria industriale e capitalismo edilizio possono incrociare, seppure in
tempi e contesti socio-economici diversi, medesimi luoghi, dove talvolta si reiterano e si rinnovano con ambigue circolarità dispositivi di accumulazione
fondiaria, strategie finanziarie e politiche di welfare state.
Anche riguardo alla figura dell’imprenditore edile è possibile riconoscere
in questa chiave di lettura una meno atipica sovrapposizione di ruoli tra
l’ingegnere, o l’architetto, e l’industriale, ma più in generale è possibile superare un’impostazione canonica che ancora oggi, spesso, ruota intorno al
paradigma del «principe e l’architetto», poco considerando invece lo stesso
ruolo del tecnico-intellettuale in quello che Aldo Castellano ha definito «terzo vertice» di un più articolato triangolo di cui fa parte, oltre al committente,
anche il costruttore5.
Pur imprescindibili per cogliere a pieno i meccanismi di interazione tra il
contesto socio-economico e antropologico locale e il sistema nazionale dell’imprenditoria edile, restano per il momento ancora poco integrati in una più
generale storia dell’industria edilizia dell’età contemporanea sia il mercato del
lavoro, con riferimento particolare al carattere prevalentemente precario o
quanto meno part-time di una parte consistente della manodopera impiegata
nel cantiere edile, anche e soprattutto attraverso le pratiche del sub-appalto, sia
quello della formazione professionale delle maestranze: dalla persistenza, ancora nel primo Novecento, dei criteri di tipo corporativo nei processi di trasfe5
Aldo Castellano, Il progettista e il committente. Un contributo alla storia di un rapporto
controverso, in Luciano Crespi, a cura di, Il Principe e l’architetto. Il rapporto complesso tra
progettisti e committenti, Alinea, Firenze 1990, p. 29.
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rimento del sapere tecnico al dibattito, nel secondo dopoguerra, sulla necessità
di un ordinamento nazionale delle scuole edili6.
Intersecandosi, la storia del lavoro edile e quella dell’industria edilizia inducono comunque ad una più matura riflessione anche su temi come la cementificazione selvaggia, la speculazione e l’abuso edilizio, aspetti forse più
scontati, ma raramente indagati attraverso il filtro di una sostenibilità culturale ed economica, prima ancora che ambientale7.
2. Prodromi edilizi della “questione meridionale”
Quasi come in un pirandelliano gioco delle parti, Pietrarsa, Sampierdarena
e Schio sono i tre luoghi produttivi attraverso i quali, nel corso di appena un
lustro dal plebiscito di Napoli del 21 ottobre 1860 cominciò a prendere forma uno dei paradigmi identitari più longevi del giovane Stato italiano, fondato sulla percezione di una contrapposizione netta tra l’endemico stato di
arretratezza del sistema economico meridionale e la naturale vocazione industriale di alcune specifiche aree produttive del Nord-Ovest e del Nord-Est
d’Italia8. In quel breve intervallo di tempo, infatti, in virtù del nuovo assetto
geo-politico che l’Italia in costruzione stava assumendo, la più meridionale
delle industrie metalmeccaniche del regno dei Savoia e la più settentrionale
di quelle presenti nel regno dei Borbone furono oggetto di una delle prime
soluzioni “dualistiche” ai problemi che la questione industriale poneva alla
scala nazionale nella lunga stagione postunitaria.
Nel luglio 1861, l’ingegnere-architetto piemontese Sebastiano Grandis, incaricato dal governo di analizzare i due più grandi complessi industriali ereditati
dal nuovo Stato italiano nel comparto metalmeccanico, sottopose ad un confronto diretto gli impianti del Real Opificio di Pietrarsa e della Gio. Ansaldo e
C. di Sampierdarena, per stabilire su quali dei due il governo dovesse investire
per lo sviluppo dell’intero settore nazionale delle costruzioni ferroviarie9.
6
Giuseppe Astorri, Il cantiere edile: tecnologia e organizzazione delle costruzioni civili, Enios,
Roma 1931; Libero Guarneri, Organizzazione razionale del cantiere edile, Gorlich, Milano 1950;
Ivone Grassetto, L’organizzazione del lavoro edile, Rotografica, Padova 1958; Guido Frison,
L’organizzazione del lavoro in edilizia: evoluzione e problemi, Nuove edizioni operaie, s.l. 1979.
7
Tra i contributi più significativi di quest’ultimo decennio su questi temi si veda Salvatore
Settis. Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2002; Vezio De Lucia,
Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia, Diabasis, Reggio Emilia 2010. Sul tema
specifico della speculazione edilizia si veda Paolo Berdini, Breve storia dell’abuso edilizio in
Italia dal ventennio fascista al prossimo futuro, Donzelli, Roma 2010.
8
Una valutazione critica più consapevole è in Luciano Segreto, Storia d’Italia e storia
dell’industria, in L’Industria. Storia d’Italia. Annali 15, a cura di Franco Amatori, Duccio
Bigazzi, Renato Giannetti, Luciano Segreto, Einaudi, Torino 1999, p. 7.
9
Sebastiano Grandis, Sullo stabilimento metallurgico e meccanico di Pietrarsa, Torino 1861.
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Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
Pur ritenendo i due impianti di pari importanza, ma superiore quello di Pietrarsa per abbondanza di macchinari e grandezza dei fabbricati, Grandis, valutò gli
spazi interni del complesso di «S. Pier d’Arena» più flessibili per futuri ampliamenti10 e dunque maggiormente idonei per avviare una politica di potenziamento del sistema ferroviario, precondizione necessaria per ottenere l’unità territoriale del paese. La dimensione edilizia dello spazio produttivo assunse in quella
scelta un ruolo determinante, legittimando le ragioni politiche che orientarono
strategicamente il futuro dei due rispettivi impianti e più in generale l’ambito
ferroviario del più ampio comparto delle costruzioni in Italia.
Pressoché contemporaneamente, nel comprensorio scledense di quella parte
del regno lombardo-veneto non ancora annesso allo Stato italiano, l’architetto
belga Auguste Vivroux11 avviava la prima fase di esecuzione della cosiddetta
“fabbrica alta” di Schio, attraverso la cui immagine architettonica l’imprenditore tessile Alessandro Rossi diede ampia dimostrazione di quanto potesse essere importante la componente edilizia nelle strategie di marketing politicoterritoriale di un’impresa. A distanza di soli tre anni dalla sua realizzazione
(1861-62), Rossi affidò all’amico Fedele Lampertico, futuro deputato e poi senatore a vita del giovane Stato italiano, la presentazione della “Fabbrica Alta”
su «Il Politecnico», una delle riviste tecniche di architettura e di ingegneria più
prestigiose d’Italia. Lampertico la descrive come un «bell’edificio [che] si appalesa subito a quale uso serva ed è opportunissimamente collegato alla fabbrica vecchia; ha il vero lusso, quello della luce e dello spazio; è svelto e costrutto con saggia economia»12.
Non si trattava di una particolare sensibilità estetica del Lampertico, né di
un’attenzione specifica verso la componente strutturale del complesso architettonico, quanto, piuttosto, di una ben ponderata presentazione “politica” di
un edificio destinato a diventare un’icona, sulla base di alcune osservazioni
tecniche e funzionali che all’economista erano state suggerite dallo stesso
Rossi, convinto assertore che la sua nuova fabbrica sarebbe potuta «servire
di modello per simili costruzioni poco note in Italia»13.
10
Su Pietrarsa e sulla perizia Grandis si veda anche Silvio de Majo, Manifattura e fabbrica,
in Augusto Vitale, Silvio de Majo, Napoli e l’industria. Dai Borboni alla dismissione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 45-48.
11
Franco Barbieri, Da Verviers a Schio: l’architetto Auguste Vivroux e i suoi progetti per il
lanificio Rossi, in Antonello Negri, Franco Barbieri, a cura di, Archeologia industriale. Indagini
sul territorio in Lombardia e Veneto, Milano 1989, pp. 51-58; Giovanni Luigi Fontana, Formazione imprenditoriale all’estero e quadri stranieri nell’innovazione tecnico-produttiva: il caso
del Lanificio Rossi, in Enrico Decleva, Carlo G. Lacaita, Angelo Ventura, a cura di, Innovazione
e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, Franco Angeli, Milano 1995, pp. 317-331.
12
Fedele Lampertico, L’industria dei pannilani nel Vicentino, in «Il Politecnico - Giornale
dell’ingegnere architetto», 103, 1865, p. 103.
13
Un brano significativo della lettera di Rossi a Lampertico del 22 aprile 1863 è riproposto
in G. Fontana, Formazione imprenditoriale all’estero …, cit., p. 326.
41
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A parte alcuni concetti chiave come «economia e solidità, luce, spazio», lo
«stile industriale», cui alludeva Rossi in una lettera del 1863 indirizzata a
Lampertico, è un aspetto che, in sintonia con la cultura del tempo, riguardava
non solo lo spazio fisico della fabbrica, ma l’ambiente socio-economico e
politico nel quale essa si collocava.
Adottare uno stile industriale, come aveva sostenuto ad esempio nel 1861
l’architecte-entrepreneur Emmanuele Melisurgo per ottenere il permesso di
investire nella trasformazione urbana di una delle piazze storiche più importanti
di Napoli14, significava «introdurre un modo di edificazione secondo i nuovi
trovati dell’architettura industriale, che se da un lato permette la economia della
spesa, la facilità, e la sollecitudine della costruzione, dall’altro non difetta della
solidità voluta dalla scienza, della bellezza voluta dall’arte, ed è più atta a dare i
comodi richiesti dai bisogni e dagli usi della moderna civiltà»15.
Quel paradigma identitario, cui si alludeva in apertura di questo contributo,
trova una ragione d’essere nella contrapposizione semantica dello spazio fisico delle due fabbriche di Pietrarsa e di Schio. Esse rappresentano di fatto i
poli estremi di un dualismo – in questa chiave non più solo geografico e socio-economico – costruito sull’ambigua antinomia tra pubblico e privato.
Considerato ancora oggi uno stabilimento pubblico «troppo paternalistico e
antieconomico»16, Pietrarsa costituisce nell’immaginario collettivo, che già
allora si andava delineando, il simbolo più evidente di una grande industria
del passato, vincolata alle «vecchie bardature protezionistiche», alla quale si
stava contrapponendo un sempre più crescente numero di stabilimenti privati
sorti «con grande dispendio di mezzi e di capitali»17.
Ciò che tuttavia riveste particolare interesse è che questa chiave interpretativa si riflette nella lettura di esperienze che nel corso dei primi decenni postunitari caratterizzarono lo specifico comparto delle costruzioni nel Mezzogiorno. Benché il rapporto tra grandi imprese straniere o nazionali e piccole
e medie imprese locali sia particolarmente complesso e manchi ancora una
lettura di lungo periodo attraverso le dinamiche di sviluppo della città e del
territorio italiano innescate nei primi decenni post-unitari, la Società Veneta
per Imprese e Costruzioni Pubbliche costituisce senz’altro uno degli esempi
più trasparenti dell’ingresso dell’imprenditoria capitalistica in un comparto
produttivo per certi versi ancora “preindustriale” come quello edilizio.
14
Sull’intervento del Melisurgo a Napoli si veda Roberto Parisi, Un «Genio» in crisi tra
«ragion di stato» e logiche di mercato. Ingegneri militari e trasformazioni urbane a Napoli
nell’Ottocento, in «Città & storia», 2, 2009, pp. 469-483.
15
Il brano è ripreso dalla relazione presentata dal Melisurgo al Ministero dell’Interno del
Regno d’Italia e conservata nell’Archivio di Stato di Napoli (Prefettura, fs. 311, inc. 11).
16
S. de Majo, Manifattura e fabbrica, cit., p. 46.
17
Valerio Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, Mondadori, Milano 1990
(1980), p. 27.
42
Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
Fondata dall’industriale tessile Alessandro Rossi nel 1872 e considerata
una «delle prime esperienze imprenditoriali italiane sul versante delle costruzioni generali e delle pubbliche infrastrutture»18, la Società Veneta fu
diretta da Vincenzo Stefano Breda, suo maggiore azionista e per tradizione
di famiglia già impegnato nel settore degli appalti edilizi. Prima di specializzarsi nel settore ferroviario e grazie alla sua strategica presenza in qualità
di deputato presso il Parlamento, nel corso dei decenni successivi Stefano
Breda ottenne con la Società veneta numerosi appalti pubblici in molte città
italiane: a Roma, dove realizzò il palazzo del ministero delle finanze e sviluppò, con Alessandro Rossi, alcune operazioni speculative attraverso una
serie di lottizzazioni per case operaie all’Esquilino 19; a Terni, dove l’appoggio del ministro e ingegnere Benedetto Brin gli diede l’opportunità di
realizzare, insieme al maître des Forges Cassian Bon, le «Acciaierie di Terni»20 e infine a Napoli, dove ebbe in appalto i lavori del nuovo acquedotto e
più in generale alcune opere del “Risanamento”, incidendo in maniera sensibile, tramite la partecipazione finanziaria con istituti bancari in operazioni
immobiliari, sulle dinamiche insediative di infrastrutture, quartieri residenziali e spazi di carattere pubblico21.
La Società veneta operò, dunque, in quella che allora fu uno dei principali
laboratori nazionali di sperimentazione della logica del piccone demolitore,
come «un gruppo finanziario […] che aveva costituito un formidabile centro
di potere»22, imponendosi autorevolmente su un sistema culturale e imprenditoriale debole, più che arretrato.
Se, infatti, si riflette sulla tempistica e sulle modalità con cui il risanamento
di Napoli fu recepito come modello di intervento edilizio in alcuni centri minori del Mezzogiorno anche molto periferici – come ad esempio nella piccola
città di Termoli, dove pressoché in tempo reale, quel modello fu adottato
dall’ingegnere Giuseppe Figliola per proporre l’adeguamento igienico dell’impianto urbano esistente ed il suo opportuno ampliamento – appare legittimo
ricercare oltre che possibili sovrapposizioni tra imprese nazionali e imprese
18
Cfr. Giorgio Roverato, L’età contemporanea, in Giuseppe Gullino, a cura di, Storia di
Padova, Cierre edizioni, Sommacampagna (VR) 2009, p. 257.
19
Maria Rosa Protasi, Evoluzione socio-demografica e insediamento della popolazione
all’Esquilino e a San Lorenzo dall’Unità al 1991, in Roberta Morelli, Eugenio Sonnino, Carlo
Maria Travaglini, a cura di, I territori di Roma. Storie, popolazioni, geografie, Università degli Studi di Roma - La Sapienza - Tor Vergata - Roma Tre, Roma 2003, pp. 565-566.
20
Franco Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962,
Einaudi, Torino 1975; Renato Covino, Gino Papuli, a cura di, Le Acciaierie di Terni, catalogo
regionale dei beni culturali dell’Umbria, Electa Editori riuniti umbri, Milano 1998.
21
. Sul “Risanamento” di Napoli si veda Giancarlo Alisio, Napoli e il Risanamento. Recupero di una struttura urbana, Esi, Napoli 1980.
22
G. Roverato, L’età contemporanea, cit., p. 256; F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia …, cit., p. 12 nota 1.
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locali, anche eventuali strategie e dinamiche di cooperazione o addirittura di
competizione e di conflitto imprenditoriale.
Un ruolo che a Napoli appare con evidenza nell’opera di due società sorte
pressoché contemporaneamente alla Veneta di Rossi e Breda. La prima fu costituita nel 1871 dall’architetto Errico Alvino come Società d’ingegneriintraprenditori Giura-Alvino e C.I e fu impegnata a Napoli fino al 1876, quando in seguito alla morte dello stesso Alvino e a ostacoli di tipo amministrativo
e giudiziario fu costretta ad abbandonare l’appalto per i lavori di riqualificazione urbanistica dell’antico Largo del Castello, nell’attuale piazza del Municipio23, che, nell’ambito dei lavori del Risanamento, furono riappaltati in parte
proprio alla società Veneta. Ma l’aspetto forse più interessante è che l’impresa
meridionale si configurava come un’associazione cooperativa e di mutuo soccorso tra i soci (dall’architetto all’operaio): una formula che apparve allora tra
le più efficaci per una società «edificatrice», secondo modelli già sperimentati
ad esempio a Londra da Antony Shaftsbury ed Edwin Chadwick e poi applicati a Milano attraverso le «Società edificatrici di case operaie» e a Firenze dallo
stesso Alvino, ma che, tuttavia, anche a Napoli trovava un corrispettivo nell’opera condotta, attraverso una «Società Filantropica», dal medico igienista
Marino Turchi e dall’ingegnere-architetto Giustino Fiocca24.
Dotata di un ufficio tecnico all’avanguardia, con biblioteca, archivio e
«collezioni di materie prime e manufatte» e di una moderna officina meccanica, la società appare come una struttura piramidale, organizzata, attorno ad
un esiguo gruppo di soci, con un «buon numero d’ingegneri disegnatori e
tracciatori […] ed una massa operante di capimaestri, agenti, operai e manuali» ed aperta, infine, anche a quegli «ingegneri allievi, taluni giovani, che
avendo lodevolmente compiuti i loro studi teorici, han dimandato di acquistare la pratica dell’arte».
Questa moderna società d’ingegneri ed imprenditori, in definitiva, intendeva imporsi sul mercato nazionale dell’edilizia offrendo una sorta di “pacchetto” integrato di servizi, dalla progettazione («per qualunque lavoro
d’ingegneria e d’architettura») all’esecuzione diretta «di opere pubbliche per
conto proprio e dei terzi». Nel sistema organizzativo dell’impresa Alvino
non aveva neanche trascurato la necessità di cooptare figure professionali
(ingegneri ferroviari e militari) in grado di penetrare efficacemente i gangli
della burocrazia e degli apparati politico-istituzionali, sia alla scala locale sia
presso il Parlamento, ma mancava, almeno ufficialmente, il diretto impegno
23
Sull’«attività imprenditoriale» dell’Alvino, con riguardo alla sistemazione del Largo del
Castello, si rimanda a Roberto Parisi, Un «Genio» in crisi tra «ragion di Stato» e logiche di
mercato. Ingegneri militari e trasformazione urbane a Napoli nell’Ottocento, in «Città e Storia», n. 2, 2009, pp. 205-219.
24
Cfr. Roberto Parisi, Verso una città salubre. Lo spazio produttivo a Napoli tra storia e
progetto, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», n. 42, 2001, pp. 56-58.
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Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
di istituti bancari e gruppi finanziari. Si trattava comunque di un organigramma di tipo aziendale che trovava un diretto precedente (di cui probabilmente costituiva anche una diretta filiazione) in quella «Società anonima da
farsi […] con i suoi ingegneri e architetti» che nelle intenzioni avanzate nel
1861 dal citato Melisurgo al Governo italiano, proprio nell’area dell’attuale
piazza Municipio avrebbe potuto mettere a punto in quattro mesi un progetto
di sistemazione urbanistica, da realizzarsi in quattro anni, richiedendo in
cambio la cessione gratuita delle aree fabbricabili, alcune facilitazioni fiscali
ed una esenzione dall’imposta fondiaria per 45 anni.
Tuttavia, rispetto a tale modello aziendale, più vicino ad una società d’ingegneria, che ad una vera e propria impresa costruttrice, quella creata dall’ingegnere napoletano Alfredo Cottrau nel 1870-71 a Castellammare di Stabia e attiva in Italia per quasi un ventennio, soprattutto nel settore delle infrastrutture ferroviarie, presentava caratteristiche specifiche e capacità di penetrazione nel mercato nazionale delle costruzioni di ben altro spessore aziendale.
Del resto, proprio in occasione dell’esposizione internazionale di Milano del
1881, ingegneri come Giuseppe Colombo e Luigi Mazzocchi tennero a precisare quanto quell’industria metalmeccanica che alle soglie dell’Unità poteva
contare solo su due poli produttivi di maggiore importanza come l’Ansaldo di
Sampierdarena in Liguria e gli stabilimenti Guppy e Pietrarsa in Campania,
poiché «nel resto del Piemonte, nella Lombardia e nel Veneto l’industria delle
macchine era lontana dal potersi paragonare collo stato attuale. Era un’industria ancora bambina»25, grazie all’attività condotta dall’Impresa Italiana per
costruzioni metalliche del Cottrau, vanto dell’industria nazionale, fosse finalmente «libera da ogni ingerenza estera»26.
3. Acque e cemento. Percorsi edilizi verso la modernizzazione assistita
Nel 1909, in un censimento condotto dall’ingegnere americano Albert
Ladd Colby sulle industrie del cemento armato presenti in Europa, il comparto italiano era considerato in forte ritardo rispetto ai principali paesi nordeuropei, a causa dell’assenza di un univoco processo di standardizzazione
degli elementi metallici necessari per armare il calcestruzzo27. Tuttavia, quel
25
Giuseppe Colombo, Le gallerie delle macchine, del lavoro e del materiale ferroviario. I.
L’industria della costruzione delle macchine in Italia nel 1861 e nel 1881, in Id., L’ingegneria alla Esposizione industriale italiana in Milano, 1881, vol. 2 Le gallerie delle macchine del lavoro e del materiale ferroviario all’Esposizione nazionale di Milano 1881, 3 voll.,
B. Baldini, Milano 1882, pp. 6-7.
26
Luigi Mazzocchi, Le costruzioni all’esposizione, ivi, p. 258.
27
Albert Ladd Colby, Reinforced Concrete in Europe, South Bethlehem [Pennsylvania]
1909, p. 70.
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censimento testimoniava la presenza in Italia di nove imprese, tutte dislocate
nel nord del paese (Torino, Milano, Brescia e Pavia), tranne la Società romana di Costruzioni, la cui sede era appunto nella capitale.
Nell’elenco prodotto da Colby rientravano in particolare l’impresa dell’ingegnere sardo Giovanni Antonio Porcheddu, concessionaria per l’Italia
settentrionale della società francese di produzione di strutture in conglomerato cementizio armato dell’ingegnere François Hennebique28 e la Società Italiana Chini. Viceversa ne era esclusa la Ferrobeton, sorta l’anno prima a Genova, né molto probabilmente quel censimento poteva tenere conto del fatto
che la prima società concessionaria Hennebique a Strasburgo era stata creata
dall’«architetto industriale» Eduard Zueblin, figlio di industriali tessili svizzeri, ma nato a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, dove nel
1885 aveva già fondato un’impresa di costruzione specializzata nella progettazione e nella realizzazione di stabilimenti industriali29.
Tuttavia, pur in un panorama imprenditoriale che andrebbe indagato soprattutto con riferimento alle diverse realtà ed esperienze regionali dell’ancora
giovane stato italiano, la storiografia italiana ha riconosciuto nella società Porcheddu una delle principali imprese di costruzione impegnate in Italia nell’applicazione e nella diffusione del cemento armato30.
Da questo punto di vista, ad esempio, anche solo seguendo la distribuzione
geografica degli interessi della Hennebique in Italia è possibile delineare
percorsi professionali e imprenditoriali che si innescarono attraverso sinergie
tra università e impresa in tutto il territorio italiano, da Torino a Bologna, da
Napoli all’intero Mezzogiorno.
28
Cfr. Riccardo Nelva, Bruno Signorelli, Avvento ed evoluzione del calcestruzzo armato in
Italia: il sistema Hennebique, Aitec, Torino 1989.
29
Alexander Kierdorf, Why Hennebique Failed in Germany. Strategies and Obstacles in the
Introduction of a New Construction Technology, in Karl Eugen Kurrer, Werner Lorenz,
Volker Wetzk, a cura di, Proceedings of the Third International Congress on Construction
History, (Cottbus, Germania, 20-24 maggio 2009), 3 voll., Cottbus, May 2009, Neunplus1,
Berlin 2009, vol. 3, pp. 897-901. Su Zueblin e la comunità svizzera nel Mezzogiorno d’Italia
si veda Daniela Luigia Caglioti, Industria, organizzazione e cultura imprenditoriale nel Mezzogiorno dell’Ottocento, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée»,
1, 2000, pp. 125-150.
30
Antonella Sanna, Prime applicazioni del calcestruzzo armato in Sardegna. Le opere cagliaritane dell’ing. G. A. Porcheddu, Cuec, Cagliari 2003; Daniela Ferrero, Dagli archivi
Porcheddu: l’impiego del brevetto Hennebique, in Giuliana Mazzi, Guido Zucconi, a cura di,
Daniele Donghi. I molti aspetti di un ingegnere totale, Marsilio, Venezia 2006, pp. 171-185.;
Elena Francisetti, La Società Nebiolo e l’industrializzazione torinese, in «Studi Piemontesi»,
XXIX, 2000, pp. 559-561; Sulla Porcheddu si veda ancora Riccardo Nelva, Typologies of the
reinforced concrete industriaol buildings in North Italy at the beginning of the 20th Century:
examples of Hennebique System realizations, in Agostino Catalano, Camilla Sansone, a cura
di, Concrete 2009. Technological development of concrete. Tradition, actualities, prospects.
The Builging techniques. I International congress, Liguori, Napoli 2009, pp. 65-73.
46
Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
Oltre ad Enrico Bonicelli, docente presso il Politecnico di Torino, con il
quale la Porcheddu realizzò le note Officine di Savigliano (1917-18) e diversi altri impianti industriali nel Piemonte, Attilio Muggia a Bologna e Francesco Paolo Boubèe a Napoli, sono certamente alcuni dei tecnici di maggiore
prestigio che operarono all’interno di un tessuto socio-economico e culturale
fortemente radicato nel territorio.
Muggia, docente di Architettura tecnica e poi di Costruzioni civili presso la
scuola di applicazione di Bologna, fu uno dei più influenti tecnici attivi in
Emilia Romagna, con forti interessi professionali anche in Toscana31. In virtù anche della concessione Hennebique per l’Italia centrale, il suo studio professionale e le sue imprese di costruzione costituirono un laboratorio di
grande importanza per la formazione di tecnici come Pier Luigi Nervi, protagonista internazionale dell’architettura in cemento negli anni del boom economico e titolare di un’impresa di costruzioni che operò in tutta Italia in
diversi comparti pubblici (dall’industria aeronautica ai monopoli di Stato).
Boubèe, tra i maggiori rappresentanti della cultura tecnico-scientifica italiana
tra Otto e Novecento, era docente di costruzioni meccaniche all’università di
Napoli e direttore dell’Impresa italiana Cottrau, nella quale lavorava peraltro
l’ingegnere Pietro Martorelli, a sua volta – insieme all’ingegnere Zueblin –
concessionario per tutto il Mezzogiorno della Hennebique32.
Ma a parte le concessionarie di quest’azienda francese, a Napoli e nel
Mezzogiorno, soprattutto dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria del
190833, operarono molte altre società di costruzioni specializzate nell’edilizia
in cemento armato, tra le quali la Società Anonima Italiana Ferrobeton. La
ditta genovese era rappresentata a Napoli dall’ingegnere Mario Viscardini34,
31
Maria Beatrice Bettazzi, Bologna e l’innovazione tecnologica fra Otto e Novecento: note
attorno al carteggio Attilio Muggia-François Hennebique, in Storia dell’ingegneria, atti del
1° Convegno Nazionale (Napoli, 8-9 marzo 2006), 2 voll., Cuzzolin Editore, Napoli 2006,
vol. I, pp. 557-563; Maria Beatrice Bettazzi, Paolo Lipparini, Attilio Muggia. Una storia per
gli ingegneri, Editrice compositori, Bologna 2010.
32
Secondo il Donghi (Manuale dell’architetto, vol. I, parte I, ed. 1923, p. 398) la società Hennebique era rappresentata dalla Porcheddu per l’Italia settentrionale, da Muggia per l’Emilia; da Italo
Chiera per il Lazio; da Edoardo Zueblin e Pietro Martorelli per le province meridionali, questi ultimi fin dal 1896-98. Vi sarebbe da approfondire il ruolo di Zueblin anche nei rapporti tra Hennebique e Porcheddu, considerato che nella fase iniziale delle attività svolte in Italia dalla società francese, i calcoli e i disegni esecutivi venivano eseguiti dalla casa madre o dall’agenzia di Napoli, R.
Nelva, B. Signorelli, Avvento ed evoluzione del calcestruzzo armato in Italia …, cit., pp. 20-24.
33
Tullia Iori, La costruzione moderna italiana e l’influenza del terremoto, in Ornella Fiandaca, Raffaella Lione (a cura di), Il sisma. Ricordare prevenire progettare, Alinea editrice, Firenze
2009, pp. 103-106. L’autrice cita tra le principali aziende costruttrici attive in Sicilia e in Calabria dopo il sisma del 1908, oltre la Ferrobeton e la Porcheddu (Hennebique), anche la Gabellini,
Società anonima Romana Cemento Armato, la Böllinger, la Vitali, la Visetti e la Chini. Ibidem.
34
Emil Morsch, Teoria e pratica del cemento armato: con ricerche ed esempi costruttivi
della Wayss & Freytag A.G. e della società anonima italiana Ferrobeton Genova-Milano-
47
/ 2-3 / 2011 / In Italia
al quale si deve il progetto delle strutture portanti dei primi «silos da grano e
da sale» realizzati nel porto di Castellammare di Stabia nel 191135 e poi riproposti nel porto commerciale di Napoli36, dove la Ferrobeton avrebbe realizzato negli anni trenta la nuova stazione marittima su progetto di Cesare
Bazzani, già autore, per la società Terni, della centrale idroelettrica di Galleto (1927-1929), allora considerata la più grande d’Europa37.
A testimonianza della consistente circolarità di imprese presenti nel settore
delle costruzioni in molte aree regionali del paese e della mobilità di mezzi e
quadri tecnici, proprio dalle Acciaierie di Terni proveniva l’ingegnere bresciano Giuseppe Domenico Cangia, cooptato nel 1904 dell’Ente Autonomo Volturno (EAV). Azienda a carattere pubblico, ma dotata di autonomia amministrativa e patrimoniale38, l’Eav sorse nel 1904 per la produzione e la distribuzione di energia elettrica, in virtù della legge nittiana sul «Risorgimento economico» di Napoli e in seguito ai lavori di una commissione governativa di cui
facevano parte, tra gli altri, Giovanni Battista Pirelli, Angelo Salmoiraghi e Luigi Lombardi, tutti direttamente interessati alla «questione elettrica» nazionale.
In qualità di direttore tecnico dell’Eav, Cangia non si preoccupò solo di organizzare l’intero settore dell’azienda pubblica e di disciplinare la conduzione delle opere di costruzione degli impianti elettrici, ma fu direttamente impegnato nella progettazione architettonica e della direzione dei lavori, ideando per gli aspetti impiantistici anche innovative soluzioni tecniche.
Per i servizi di distribuzione di energia che l’Eav avrebbe assicurato agli
stabilimenti sorti in virtù della citata legge del 1904 nella nuova zona industriale di Napoli, Cangia progettò gli impianti idroelettrici di Capo Volturno,
in Molise e tutto il sistema di distribuzione e trasporto fino a Napoli39.
Un complesso di interventi alla scala territoriale che Cangia era riuscito a
concepire nonostante i contrasti e l’acceso conflitto d’interessi che la nascita
dell’azienda pubblica, e soprattutto il suo ruolo nelle logiche di mercato
connesse alla distribuzione dell’energia elettrica, aveva innescato tra gli imNapoli, a cura di Mario Viscardini, Hoepli, Milano 1910; Ferrobeton impresa generale di costruzioni, Roma 1908 1933 Archetipografia, Milano 1933; Celebrazione del cinquantesimo
anno della Società Ferrobeton, Arte della stampa, Roma 1958.
35
I silos da grano e da sale in Castellammare di Stabia, «L’Ingegneria Moderna», 3, 1911,
pp. 29-30; Il cemento armato nelle costruzioni marittime. Lavori eseguiti dalla società anonima italiana ferrobeton, Off. Poligrafica Ed. Subalpina, Torino 1914.
36
I silos nel Porto di Napoli, «L’Ingegneria Moderna», 4, 1911, pp. 37-39.
37
Loreto Di Nucci, Fascismo e spazio urbano: le città dell’Umbria, Il Mulino, Bologna
1992, p. 182.
38
Augusto De Benedetti, La Campania industriale. Intervento pubblico e organizzazione
produttiva tra età giolittiana e fascismo, Athena, Napoli 1990, pp. 215-270.
39
Sull’opera di Cangia cfr. Pierluigi Totaro, Giuseppe Domenico Cangia, un ingegnere bresciano per l’avvenire industriale di Napoli, «Archivio Storico per le Province Napoletane»,
CXXIII, 2005, pp. 447-477.
48
Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
prenditori privati direttamente coinvolti, tra i quali anche Giovan Battista Pirelli, e le forze sociali e politiche favorevoli ai processi di municipalizzazione dei servizi pubblici.
Anche in un Molise, che come entità regionale ancora «non c’era»40, eccellenze e ambiguità di un’Italia elettrica in costruzione potevano dunque rispecchiarsi: come l’Eav, anche altre società come la SAIE, attraverso
l’ingegnere Robert Holtmann, e poi i due potenti gruppi della Sme di Maurizio Capuano e della Unes di Ettore Conti, furono protagonisti di un processo
di esautoramento dell’imprenditoria locale e di dominio extra-territoriale
delle risorge energetiche41. Un processo che fece scaturire un acceso conflitto per la proprietà fondiaria, l’uso della risorse territoriali e la loro cantierizzazione e nel quale, per tali motivi, assunsero un ruolo non secondario anche
piccole e medie società di costruzione locali, come la «Michele Di Penta»,
alla quale si deve la realizzazione di impianti industriali, di opere infrastrutturali e di edilizia residenziale a Campobasso, lungo il Biferno, ma anche
fuori del Molise. Un’azienda poi confluita nell’impresa romana fondata
dall’ingegnere Sante Astaldi, attiva dal 1922 nelle opere dell’agro pontino e
dal 1936 nell’Africa orientale e destinata a diventare una delle più grandi
holding italiane impegnate a livello mondiale nell’industria edilizia42.
4. L’edilizia “organizzata” per la costruzione totale del paesaggio
e delle comunità
Risale agli anni ottanta del secolo scorso una più sistematica riflessione teorica
tesa a definire le caratteristiche dell’«organizzatore della produzione», un protagonista della storia industriale italiana allora «ancora sconosciuto e vestito di
panni di volta in volta diversi: il tecnico e l’ingegnere con a fianco l’operaio
specializzato prima, lo specialista in scientific management poi, per giungere –
attraverso i primi teorici dell’impresa – sino ai manager dei nostri giorni»43.
Ad una prima fase di sviluppo dell’organizzazione moderna dell’impresa,
che si innesta sul primato tecnico-scientifico e su un sistema cresciuto su basi
40
Gino Massullo, Il Molise che non c’era, in Id., a cura di, Il Molise in età contemporanea,
Donzelli, Roma 2006, pp. 3-98.
41
I. Zilli, Dall’energia idraulica all’energia idroelettrica: le trasformazioni tecnologiche
nelle industrie molisane fra ’800 e ’900, in Massimo Franco, a cura di, La Flessibilità per
l’Europa del Sud, Franco Angeli, Milano 2002, pp. 533-563.
42
Pia Toscano, Per un profilo dell’imprenditore romano tra 1870 e 1980, in Carlo Maria
Travaglini, a cura di, Imprese e imprenditori, numero monografico di «Roma moderna e contemporanea», 3, 2004, p. 483.
43
Giulio Sapelli, Gli «organizzatori della produzione» tra struttura d’impresa e modelli
culturali, in Corrado Vivanti, a cura di, Intellettuali e potere. Storia d’Italia. Annali 4, Einaudi, Torino 1981, p. 591.
49
/ 2-3 / 2011 / In Italia
oligopolistiche, nel quale si individua il lungo «monopolio direttivo degli ingegneri»44, segue un momento di rottura caratterizzato appunto dall’avvio della taylorizzazione della produzione. Sapelli, infatti, individuò nella «rottura
tayloristica» l’avvio di un processo di rifondazione «su basi nuove» del monopolio degli ingegneri nella razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro,
che coincise con gli anni della prima guerra mondiale e giunse ad un primo
stadio di consolidamento durante gli anni venti e trenta del Novecento: militarizzazione della vita di fabbrica, ristrutturazione post-bellica e stabilizzazione
fascista scandirono i tempi per la messa in campo dei dispositivi di costruzione
del modello italiano di organizzazione scientifica dell’impresa.
Appunto all’organizzazione scientifica di una delle più grandi società di
progettazione impegnate nell’edilizia industriale italiana si lega la figura
dell’ingegnere Bonadè Bottino e il ruolo che egli svolse, a partire dal 1927,
all’interno della Fiat, come «uomo di fiducia di Agnelli», ma soprattutto come tecnico di quel «Servizio costruzioni» che l’azienda istituì ufficialmente
nel 193745. Si trattò di un Servizio direttamente connesso alla società Impresit, sorta nel 1929 come «Imprese Italiane all’Estero», che la Fiat assorbì nel
1936 e di cui Bonadè divenne presidente, traghettandone in definitiva il passaggio alla futura holding Fiat Engineering46.
Risale al 1951 uno dei suoi rari scritti a stampa sul Servizio costruzioni,
che allora aveva assunto la nuova denominazione di Divisione Costruzioni e
Impianti della Fiat. Si trattava di «un grande ufficio di progettazione, direzione operativa e controllo» composto da «52 ingegneri e architetti» e da oltre centocinquanta tra periti industriali, geometri, disegnatori e tecnici di vari
rami47. Una «macchina» organizzativa legittimata nel 1951 dallo stesso Bonadè Bottino, per la mancanza di grandi uffici tecnici preposti a quella che
egli definì una «progettazione completa» della fabbrica.
Proprio con riferimento al «ritratto quantitativo» costruito sui censimenti
statistici compresi tra il 1951 ed il 197148, si potrebbero riconoscere come
tappe significative di quel “ventennio” postbelico, caratterizzato dalla lunga
stagione dell’Intervento straordinario per il Mezzogiorno, l’emanazione della
legge n. 634 del 1957, nota come legge Pastore, e l’elaborazione nel 1969
del documento di programmazione economica integrata del Ministero del Bi44
Ivi, p. 600.
Cristina Banfo, Dal Lingotto a Mirafiori. Bonadè Bottino e l’organizzazione del Servizio
Costruzioni della Fiat, «Le culture della tecnica», 1, 1997, pp. 85-104.
46
Giovanni Vigo, Fiatimpresit 1929-1989, Relazioni esterne Fiat Impresit, Torino 1989,
pp. 125-126.
47
Vittorio Bonadè Bottino, Criteri di impostazione delle costruzioni industriali, «Atti e rassegna tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino», 10, 1951, pp. 289-294.
48
Albert Carreras, Un ritratto quantitativo dell’industria italiana, in L’Industria. Storia
d’Italia. Annali 15, cit., pp. 181-272.
45
50
Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
lancio, meglio noto come «Progetto Ottanta», che fissava per gli anni 197175 indirizzi di sviluppo territoriale a lungo termine, spostando i principi di
pianificazione dai poli Asi alle città-regioni sulla base di un nuovo paradigma identitario: «L’Italia, società industriale»49.
In questo secondo quadro cronologico può emergere, infatti, l’importanza
che assunse nelle politiche di crescita industriale del paese la creazione dei
consorzi per la progettazione e l’esecuzione delle aree di sviluppo industriale
previste dalla legge Pastore, che introdusse in Italia i principi di François
Perroux sullo sviluppo polarizzato50. Se fino ad allora (1951-1957) la Casmez (Cassa per lo sviluppo del Mezzogiorno) aveva finanziato e guidato il
processo di infrastrutturazione del territorio per favorire lo sviluppo della
meccanizzazione dell’agricoltura meridionale, con la legge Pastore le attività
dell’ente subirono una svolta in chiave industrialista di grande impatto ambientale e socio-economico, per tutto il paese51.
In meno di vent’anni, tra il 1957 e la metà degli anni ottanta, quando la Casmez aveva oramai portato a compimento il proprio mandato, furono realizzati nell’Italia centro-meridionale circa 50 poli di sviluppo industriale, tra
Asi e Ni52. Se si tiene conto che il 60 % delle attività produttive innescate
tramite questo meccanismo di industrializzazione assistita era controllato direttamente o indirettamente da grandi e medie aziende settentrionali53, appare evidente che un qualsiasi ragionamento sulla storia dell’edilizia italiana
negli anni del cosiddetto boom economico non può prescindere anche dalle
caratteristiche geografiche e spaziali dei poli realizzati nel Mezzogiorno.
Con la logica dello sviluppo polarizzato, nell’Italia del Sud cambia profondamente il rapporto storicamente determinatosi tra città e industria e sul pia49
Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Progetto 80. Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-1975, Roma, aprile 1969, p. 9.
50
Cfr François Perroux, Théorie générale du progrès économique, Cahiers de l’Institut de
science économique appliquée (I.S.E.A.), Paris 1957.
51
Per una lettura, anche autobiografica, della Casmez si veda Gabriele Pescatore, La Cassa
per il Mezzogiorno. Un’esperienza italiana per lo sviluppo, Il Mulino, Bologna 2008.
52
Cfr. Vezio De Lucia, Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, Donzelli Mediterranea, Roma 2006 (Editori riuniti 1989), p. 97. Due erano le tipologie di
insediamento previste: le Asi permettevano agglomerati con una popolazione di almeno
200.000 abitanti e la loro scelta cadeva su territori con un elevato potenziale di sviluppo, dove
era possibile garantire un adeguato sistema infrastrutturale; i Ni (Nuclei Industriali) erano invece aggregati di più piccola dimensione, per popolazioni fino a un massimo di 75.000 abitanti. La legge stabiliva, inoltre, l’onere da parte degli enti locali di riunirsi in consorzi e di provvedere al piano regolatore dell’area, facilitando infine l’investimento delle imprese interessate
con sgravi fiscali e altre facilitazioni finanziarie.
53
Raffaele Cercola stimava a quella data che il 60 % degli addetti nel Mezzogiorno d’Italia
(635.000) dipendeva per il 25 % da imprese pubbliche, per un altro 25 % da gruppi nazionali
e per il restante 10 % da aziende straniere; Raffaele Cercola, L’intervento esterno nello sviluppo industriale del Mezzogiorno, Guida, Napoli 1984, p. 7.
51
/ 2-3 / 2011 / In Italia
no non solo ideologico assume un certo significato il modello fordista “Village Industries Program” dell’industrializzazione decentrata54.
Su quest’aspetto delle attività promosse e finanziate dalla Casmez, una delle più evidenti sollecitazioni, ancora poco colte nell’ambito non solo della
storiografia architettonica, proviene dal saggio di Roberto Guiducci sull’architettura industriale italiana pubblicato nel 1962 su «Zodiac», dove si fa
esplicito riferimento ai programmi allora «in corso in Italia […] per i piani di
sviluppo industriale nel Nord e soprattutto nel Sud Italia, basati su consorzi
di Enti pubblici ed operatori economici»55.
Ricordando, tra i primi piani, quello in fase di elaborazione per Taranto
«affidato alla società di progettazione Tekne con la consulenza urbanistica di
Giovanni Astengo e quella economica di Giorgio Fuà», Guiducci giudicò la
legislazione in merito «molto interessante» e pur non potendo esprimere ancora un giudizio sugli esiti di quei piani56, sottolineò la loro importanza in
quanto «essi prospetta[va]no per la prima volta in Italia la possibilità di uno
studio e di una realizzazione di insediamenti industriali in correlazione con i
tutti i problemi dell’area interessata».
Ciò che tuttavia Guiducci non chiarì in quella circostanza è che di quella
«società di progettazione» egli era parte integrante e che alla stessa società
furono affidati diversi altri piani analoghi nel Mezzogiorno d’Italia, alcuni
dei quali per insediarvi nuovi impianti della Olivetti, dove lo stesso Guiducci
aveva lavorato a lungo come direttore dei lavori.
Programmi e finalità della Tekne appaiono comunque chiaramente in un articolo pubblicato nel 1963 su «Edilizia moderna». Al centro di quell’articolo
non è tanto lo stabilimento della Ceramica Pozzi realizzato a Sparanise, in
provincia di Caserta, ma un tema più ampio e più significativo che sembra
54
Sull’azzeramento delle vocazioni produttive preesistenti indotte dalla logica “fordista” del
processo di industrializzazione innescato con l’intervento speciale per il Mezzogiorno si veda
anche, con specifico riguardo al polo petrolchimico della provincia Siracusana, Salvatore Adorno, Il polo industriale di Augusta-Siracusa. Risorse e crisi ambientale, in Gabriella Corona, Simone Neri Serneri, a cura di, Storia e ambiente: città, risorse e territori nell’Italia contemporanea, pp. 1196-1199. Nel contesto più generale del dibattito degli anni settanta si veda
Marcello Vittorini, Indirizzi strategici di assetto territoriale per l’inquadramento di programmi di intervento nel Mezzogiorno, «Urbanistica», 57, 1971, pp. 63-74.
55
Roberto Guiducci, Presente e futuro dell’architettura industriale in Italia, «Zodiac», 9,
1962, pp. 142-143.
56
Il piano fu presentato dalla Tekne al Consorzio per l’Area di Sviluppo industriale di Taranto il 9 luglio 1962. Nell’estate dell’anno prima era stato presentato il primo schema del
piano. Si veda Federico Pirro, Il laboratorio di Aldo Moro. DC, organizzazione del consenso
e governo dell’accumulazione in Puglia, 1945-1970, Dedalo, Bari 1983, pp. 226-227. Si veda
anche Tekne [s.p.a.], Il piano di Taranto. Il piano regolatore territoriale dell’area di sviluppo
industriale di Taranto redatto dalla Tekne, Leonardo da Vinci, Bari 1965. Il volume contiene,
oltre ad una introduzione dei consulenti Giovanni Astengo e Giorgio Fuà, saggi e testo dei
progettisti della Tekne: Umberto Dragone, Roberto Guiducci e Paolo Radogna.
52
Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
presentarsi quasi come l’esito naturale – nella fase di piena maturità italiana
dei principi taylor-fordisti applicati alla mass production – dell’evoluzione di
due modelli di gestione progettuale, l’uno basato sui principi dell’architetto
integrale concepito da Gustavo Giovannoni, l’altro desunto dalle pratiche oramai note della società di progettazione Kahn inc. di Detroit. In apertura
all’articolo, immediatamente sotto una veduta fotografica dell’immensa piana
casertana con i nuovi impianti in linea della Pozzi-Ginori, così veniva presentata la nuova opera: «la Tecke, che si propone compiti di progettazione integrale, cerca di svolgere, ogni volta che le è possibile, il ciclo progettuale dal
piano d’insieme alla determinazione del singolo oggetto costruttivo»57.
In un linguaggio tecnico che sostituiva concetti chiave come “razionalizzazione” e “organizzazione scientifica” con matrici a doppia entrata e tecniche
grafiche di project management basate su algoritmi, veniva presentato ufficialmente un piano programmatico da realizzarsi in tempi predeterminati alla
scala territoriale e architettonica: «praticamente tutte le operazioni dai primi
sondaggi sul terreno alle fasi di progettazione di massima, dalla progettazione
esecutiva allo studio dell’impiantistica, dalla definizione dei tempi esecutivi
all’insediamento dei macchinari, dalla direzione dei lavori fino al collaudo»58.
Sulla base di tali istanze programmatiche, la Tekne prevedeva per l’area
casertana «il progetto completo […] con prospettive a scala ventennale che
comportano la creazione di circa 60.000 nuovi posti di lavoro per industria e
quasi altrettanti nelle attività terziarie portando il tasso di occupazione di
questo settore dal 9% attuale al 35% circa, cioè al livello nazionale»59.
Anche se Guiducci aveva lavorato a lungo per l’ufficio tecnico dell’Olivetti,
soprattutto attraverso la direzione dei vari cantieri aperti dall’azienda d’Ivrea
in Italia, la diretta filiazione della Tekne dal know-how e più in generale dalla
filosofia imprenditoriale olivettiana è ovviamente tutta da verificare ed eventualmente da mettere in discussione, anche nella consapevolezza di un passaggio di non secondaria importanza che una soluzione del genere assunse sul piano delle strategie di controllo e di espansione della produzione, sempre più
vincolata alla programmazione ed alla pianificazione territoriale. Certamente
le già cospicue commesse che quella moderna società d’ingegneria cominciò
ad ottenere fin dai primi anni sessanta costituiscono un aspetto di particolare
importanza nella storia post-adrianea dell’Olivetti.
57
Stabilimento della Ceramica Pozzi a Caserta, «Edilizia moderna», 82-83, 1963, p. 84; Manifatture Ceramica Pozzi a Sparanise, «L’architettura cronache e storia», 108, 1964, pp. 375-385.
58
Ivi, p. 85.
59
Patrizia Bonifazio, Il progetto di Olivetti, «Casabella», 766, 2008, p. 52. La Tekne prevedeva per l’area casertana «il progetto completo […] con prospettive a scala ventennale che
comportano la creazione di circa 60.000 nuovi posti di lavoro per industria e quasi altrettanti
nelle attività terziarie portando il tasso di occupazione di questo settore dal 9% attuale al 35%
circa, cioè al livello nazionale»; Stabilimento della Ceramica Pozzi a Caserta, cit., p. 84.
53
/ 2-3 / 2011 / In Italia
Tuttavia, resta al momento ancora nell’ombra la figura di Roberto Guiducci,
ingegnere e critico di architettura, direttore del Dipartimento Progetti e Costruzioni dell’Olivetti, «sociologo della città futura»60, tecnico-intellettuale, ma
militante politico, insieme alla moglie Armanda Giambrocono61 e per questo
talvolta molto criticato su alcune riviste nazionali, come «il Mulino»62, e in alcune interrogazioni parlamentari per gli incarichi di pianificazione territoriale
ottenuti dalla Tekne in quegli anni in diverse regioni italiane63.
Sorta nel 1958, sulla base di una preesistente struttura tecnico-organizzativa diretta dall’ingegnere e architetto Giulio Rusconi Clerici, la Tekne era presieduta
alla fine degli anni sessanta dall’ingegnere Aldo Bassetti, già direttore tecnico
del Cotonificio di Conegliano, del Linificio e Canapificio Nazionale e della Birra Poretti, ma soprattutto esponente del gruppo industriale fondato da Giannino
Bassetti, che nel 1961 aveva fondato la Edilda (Edilizia Lombarda spa), società
della quale era direttore dei lavori lo stesso Rusconi Clerici.
Per conto della Tekne, di cui era dirigente, e insieme all’ingegnere Giuseppe Valtolina, cofondatore nel 1962 dello studio di ingegneria Vcr (Valtolina
Rusconi Clerici), Rusconi Clerici fu inoltre protagonista di alcune importanti
opere di edilizia industriale, di infrastrutture territoriali e di impianti e attrezzature per lo sviluppo turistico del Mezzogiorno, come ad esempio il villaggio turistico di Vieste e il progetto per un centro turistico a Campomarino
(1967), nel basso Molise.
Quest’ultimo progetto si collocava nell’ambito di un programma nazionale
di sviluppo turistico predisposto dall’Asta (Associazione di Studi per lo sviluppo del Turismo colle infrastrutture Autostradali)64, una società costituita
60
Guido Vergani, “Addio a Guiducci, sociologo della città futura”, Corriere della Sera, 10
aprile 1998, p. 33.
61
Armanda Giambrocono fu direttrice della rivista politica «Ragionamenti», fondata nel
1955 da Guiducci insieme a Franco Fortini e Luciano Amodio e alla quale collaborarono anche Franco Momigliano e Alessandro Pizzorno; Donatella Ronci, Olivetti, anni ’50: patronalsocialismo, lotte operaie e Movimento Comunità, Franco Angeli, Milano 1980, pp. 52-53;
Piero Lucia, Intellettuali italiani del secondo dopoguerra. Impegno, crisi, speranza, Guida,
Napoli 2003, pp. 221-226.
62
Si veda ne «Il Mulino», 3, 1969, la rubrica “Il Dibattito” sul tema I programmatori falliti:
urge un riesame autocritico, pp. 273-273, con saggi di Carlo Cavallotti, Come non si aiuta la
pianificazione territoriale, pp. 274-275, Claudio Simonelli, Un dibattito male impostato, 276276 e Roberto Guiducci, Come si aiuta la pianificazione territoriale, pp. 277-279.
63
Roberto Guiducci, Piani territoriali nel sud. Piano nazionale e partecipazione democratica, «Casabella», 292, 1964, pp. 22-23.
64
Archivio Centrale dello Stato (ACS), R 161, Asta. Associazione di studi per lo sviluppo
del turismo in collegamento con le autostrade, Verbale del comitato tecnico, n. 3 del 20 giugno 1967, pp. 9-10. Dallo studio «eccellente» di Valtolina per Campomarino emersero molti
elementi negativi come la carenza di aree, una disordinata e scadente urbanizzazione, l’alto
costo dei terreni. Cova suggerì in quella circostanza di spostare l’ipotesi di uno sviluppo turistico da Campomarino al tratto di litorale compreso tra Ortona a Mare-San Vito e Termoli.
54
Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
appositamente che avrebbe favorito l’elaborazione di un complesso e sofisticato piano di sviluppo per la creazione a Trieste e a Rivalta di due grandi
centri di raccolta per l’esportazione dei prodotti ortofrutticoli del sud-Italia
nell’Europa del nord e dell’est, un grande «autoporto» a Bologna, un sistema
di «turistmarkets» da collocare nelle aree di sosta autostradali per incrementare la vendita di prodotti artigianali e agro-alimentari locali, lo studio per un
«centro turistico pilota» affidato ad alcuni grandi studi di progettazione, tra i
quali i gruppi Valtolina-Rusconi Clerici e Ratti, per la creazione di centri attrezzati sul Terminillo, a Campomarino e a Metaponto65.
Negli anni sessanta e settanta, società di progettazione integrale come la
Tekne o la Edilda e studi di ingegneria come la Valtolina Rusconi Clerici
non erano tuttavia una rarità nell’ambiente tecnico italiano, caratterizzato da
un più vasto mosaico di combinazioni societarie nelle quali si intersecavano
gli interessi di gruppi industriali, di imprese edili e di associazioni professionali di ingegneri e architetti, che nel settore specifico dell’edilizia industriale
e dell’urbanistica a servizio dell’industria trovarono un ambito quasi privilegiato di pratiche. Un ambito, tuttavia, limitato sul piano giuridico da una legislazione vincolata alle norme del 1939, che – come si osservava ancora nel
1986 – vietando la costituzione di società di progettazione, agivano «in contrasto con la realtà che vede al contrario progettare numerose società
d’ingegneria per lavori da svolgere all’estero, ma non in Italia»66.
Tuttavia, l’assenza di un più chiaro quadro giuridico di riferimento non ostacolò affatto lo sviluppo di tali iniziative e non è mancata l’osservazione
critica di qualche studioso che ha individuato nella crescita esponenziale di
questo tipo di società, soprattutto dopo la crisi petrolifera del 1973, uno spostamento degli interessi imprenditoriali di alcuni grandi gruppi finanziari
dalla grande industria – soprattutto dai settori metalmeccanico, automobilistico e petrolchimico – al comparto edilizio67.
L’incremento dell’intero comparto edilizio, dalla scala architettonica a quella
urbanistica, dalle case e dai quartieri operai alle infrastrutture stradali e portuali, era un prerequisito necessario per innescare un più rapido processo di diffu65
ACS, R 161, Asta. Associazione di studi per lo sviluppo del turismo in collegamento con
le autostrade, Verbale del comitato tecnico, n. 3 del 20 giugno 1967. Il comitato tecnico
dell’Asta. (Associazione di Studi per lo sviluppo del Turismo colle infrastrutture autostradali)
era così costituito: ing. Fedele Cova (Autostrade e Iri), Enrico Barsighelli (MontecatiniEdison), Luciano Ciminelli (Imi), Ing. Giuseppe De Dominicis (Fiat), Ing. Alberto Grandi
(Agip), Attilio Jacoboni (Efim), Leopoldo Macciardi (Credit Oo.Pp.), ing. Giorgio Pellegrini
(Iri), ing. Piero Verani Borgucci (Shell italiana), ing. Luigi Voglino (Esso Standard italiana),
Ilario Pedretti (Iri), Carlo Piazza in sostituzione di Renato Bisignani (Pirelli).
66
E. Gugliemi, S. Pace, L’organizzazione dello studio di architettura, in Pasquale Carbonara, Architettura Pratica, 6 voll, Torino 1986, vol. 6, p. 416.
67
Manlio Venditelli, Uso capitalistico del territorio e valore della forza lavoro, «Sociología», 3, 1974, pp. 379-399.
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/ 2-3 / 2011 / In Italia
sione della mass production e ciò legittima, almeno in parte, l’individuazione
di strategie decisionali e la creazione di strumenti operativi ben prima della fine del miracolo economico. Del resto, negli stessi anni in cui si crea e si sviluppa la Tekne, molte imprese pubbliche e private si muovono nella stessa direzione: L’Italstat spa costituisce per esempio l’evoluzione societaria della Sisi, così come la Technimont spa, sorta nel 1973, è il risultato di un progressivo
processo di affinamento di competenze e risorse professionali nel campo
dell’ingegneria edile avviato a partire dalla prima metà del secolo con il Settore Progetti e Studi della Montecatini e proseguito nel 1966 con la Divisione
ingegneria e sviluppo della Montedison, mentre negli stessi anni si riunisce un
primo cospicuo numero di quei gruppi di professionisti che daranno vita nel
corso di circa un decennio all’Oice (Organizzazione Ingegneri Consulenti operanti all’Estero)68.
Tutte iniziative di rilevante peso finanziario e imprenditoriale che caratterizza
il contesto politico-economico nel quale si innesta il già citato “progetto 80”.
Nella natura «ideologica» di tale programma nazionale e dei problemi «della
casa e dell’assetto territoriale [posti] dai nuovi modi di lotta del movimento operaio organizzato», Manfredo Tafuri colse i prodromi di un nuovo patto sociale tra Stato e Impresa «per l’introduzione di una situazione di monopolio nella
produzione dei servizi sociali», nell’ambito della quale «imprese edili integrate» costruite in sinergia dall’Ance e da Confindustria, sanciscono l’impegno
dell’industria pubblica e privata nel settore delle costruzioni69.
Un scenario che alla metà degli anni ottanta sembrava delinearsi con chiarezza: di fronte allo smantellamento dei grandi stabilimenti del Nord ed al crescente calo degli addetti al settore industriale, in un contesto come quello della
Triennale di Milano, destinato storicamente a favorire l’interazione tra architettura, industria e arti applicate, la Fiat offriva un quadro sintetico, ma esauriente del proprio programma di sviluppo, dichiarando ufficialmente di volersi
collocare «all’avanguardia sino al punto di realizzare soluzioni che a tutt’oggi
restano uniche e le più avanzate al mondo». Automazione, robotica, computerizzazione, flessibilizzazione, logistica ed handling dei materiali erano le parole d’ordine di un nuovo programma che faceva intravedere, «a più larga prospettiva, la visione finale della fabbrica come sistema integrato».
Un modello di fabbrica all’avanguardia che l’azienda torinese aveva effettivamente messo a punto in quindici anni a Termoli, all’interno del Nucleo
industriale della Valle del Biferno: «a Termoli infatti tutto è sistema (anzi il
sistema è Termoli stessa); è un insieme di macchine utensili, di robot, di manipolatori, di trasferte, di mezzi di movimentazione, di stazioni di controllo e
68
Si veda Oice, Le società d’ingegneria italiane, Giuffrè, Milano 1991.
Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Einaudi, Torino 1986
(1982), pp. 131-136.
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Parisi, Fabbriche e territorio: il ruolo dell’industria edilizia nel Mezzogiorno
di computer di gestione che da soli, in automatico, lavorano i pezzi, controllano che siano in quota, li trasportano all’appuntamento con altri particolari,
li montano tra loro, ne verificano la funzionalità e sfornano motori pronti per
la spedizione»70.
In questa esperienza, infatti, l’architettura della fabbrica non si esaurì nella
progettazione e nella realizzazione dello spazio del lavoro e del suo immediato contorno ambientale, ma si estese ad una scala territoriale che interessò
appunto una buona parte della regione, con interventi che riguardarono sia il
sistema delle infrastrutture e le attrezzature di servizio alla mobilità, sia quello legato all’housing sociale. In tale conteso politico-territoriale, prima ancora della svolta toyotista di Melfi71, la Fiat Engineering72 sperimentò il ruolo
di general contractor nella pratica della progettazione totale del paesaggio e
delle sue comunità, trasformando un comprensorio sostanzialmente ancora
legato al mondo rurale in un tipico, neoliberista «prato verde»73.
70
Fiat, La fabbrica dell’automobile, in Aldo Castellano, Roberta Sommariva, a cura di, Il
Luogo del Lavoro. Dalla manualità al comando a distanza, XVII Triennale di Milano, catalogo della mostra (Milano, maggio-settembre 1986), Electa, Milano 1986, p. 152.
71
Domenico Cersosimo, Ford si è fermato a Termoli, in Id., Viaggio a Melfi. La Fiat oltre
il fordismo, Donzelli, Roma 1994, pp. 92-100.
72
Roberto Parisi, Architetture e centri urbani. Modelli, pratiche e scenari, in G. Massullo, a
cura di, Storia del Molise in età contemporanea, cit., p. 268. Per un primo approccio storicocritico, sensibile all’impatto urbano e urbanistico della Fiat termolese si veda Felice Costantino, La città e la fabbrica: l’insediamento della Fiat, in Felice Costantino, Angelo Pasqualini,
Sergio Sorella, Termoli. Storia di una città, Donzelli, Roma 2009, pp. 274-277. Si segnala,
inoltre, l’intervento di Ilaria Zilli Lo spazio dell’industria nella città post-fordista al convegno
L’Archeologia Industriale in Italia 1978-2008. Ricerca, Didattica, Formazione organizzato
dall’Università del Molise il 5-6 dicembre 2008, ai cui atti in corso di pubblicazione a cura di
chi scrive si rimanda.
73
Serafino Negrelli, a cura di, Prato verde prato rosso. “Produzione snella” e partecipazione dei lavoratori nella Fiat del duemila, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000.
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