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dispenselogica2014-2015 - Università Kore di ENNA
DISPENSE DI LOGICA E METODOLOGIA GIURIDICA ANNO ACCADEMICO 2013/2014. Lucia Corso Materiale didattico. Non citare senza il consenso dell’autrice. I. INTRODUZIONE 1. Obiettivi del corso Gli obiettivi di un corso di logica e metodologia sono parecchi: I. OBIETTIVO: ragionamento giuridico e ragionamento comune. Il primo è quello di indurre ad una riflessione sul modo di ragionare dei giuristi. Questo implica che vi sia un modo di ragionare tipicamente dei giuristi che è diverso dal modo di ragionare comune. Noi però non dobbiamo dare nulla per scontato e procederemo chiedendoci in che modo ragionano i giuristi, se ragionano in modo diverso da chi ragiona al di fuori del diritto, se vi sia una forma mentis specifica dei giuristi. Questo primo obiettivo presuppone un’indagine di tipo descrittivo, ma non solo. Si terrà infatti conto anche della percezione che hanno i giuristi – ognuno nel proprio ruolo – nell’interpretazione e applicazione del diritto. Ci chiederemo in altri termini: come ragiona il giudice quando redige una sentenza? Come ragiona il giurista che scrive un commentario al codice civile? E in che modo ragiona l’amministratore comunale che pone in essere l’atto amministrativo? ES: Ho contratto un mutuo con un amico: mi ha prestato 1000 euro e vuole che glieli restituisca mensilmente (100 euro) per i prossimi dieci mesi. Mi applica anche un piccolo tasso di interesse (due euro al mese). Io sono d’accordo. Le cose filano liscio per i primi mesi. Poi succede qualcosa fra noi. La mia ex ragazza diventa la sua. Io sono furioso. Smetto di pagare. Lui mi manda una diffida: pretende il pagamento. In più, comincia ad applicare interessi moratori. Cosa ci dice il ragionamento comune e cosa il ragionamento giuridico? II. Obiettivo: Che tipo di giudice o giurista voglio essere? Ci sono, si vedrà, vari modi di interpretare il diritto, ma anche di essere giuristi. C’è il giudice che sta molto attento al testo di legge e ai precedenti giudiziari. C’è il giudice che invece guarda alla società nel suo complesso e magari si spinge a disapplicare una legge quando è caduta in desuetudine. C’è un giudice che non vuole farsi troppe domande morali e c’è invece un giudice che pensa che se così non facesse la sua vita sarebbe miserrima. Es: c’è una prassi diffusa in molti paesi – specie di origine anglosassone – che è quella che consente ai giudici che non condividono l’opinione di maggioranza di esprimere un’opinione dissenziente. Se sono giudice all’interno di un collegio e non condivido la tesi della maggioranza, devo mettere per iscritto il mio dissenso? O devo tenerlo per me? Alcuni ritengono – specie in Italia – che il dissenso va taciuto. Infatti l’Italia non ammette l’opinione dissenziente. Altri, specie negli Stati Uniti, dicono che la vita sarebbe senza senso se non si potesse autenticamente esprimere la propria opinione. III. Obiettivo: apprendere regole e principi che regolano il ragionamento giuridico Si tratta di regole e principi di tre tipi: 1) di tipo giuridico; 2) di tipo logico; 3) di tipo argomentativo. Per ora queste tre nozioni non significano granché ma nelle lezioni che seguiranno chiariremmo in che modo si parla di logica giuridica e che significa ragionare e argomentare. IV. Obiettivo: mettere in atto le nozioni apprese. Il quarto obiettivo è quello di mettere in atto le nozioni apprese: guardando a sentenze, atti amministrativi e magari provvedimenti di legge cercheremo di verificare se il nostro modo di ricostruire (per via descrittiva) le modalità più tipiche del ragionamento giuridico trovi conferma nella realtà. Guardando alla giurisprudenza costituzionale ci chiederemmo anche se le teorie che via via abbozzeremo siano plausibili, alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento. V. Un sguardo particolare: l’interpretazione costituzionale. Come si interpreta la costituzione? Karl Engisch, pensatore tedesco che scrive negli anni ’60, comincia la propria opera sull’introduzione al pensiero giuridico con un’amara costatazione. La scienza giuridica è una scienza ostica, nei cui confronti il profano si tiene a distanza. Troveremo nei salotti, dice Engisch, libri di musica e di arte, romanzi, libri di critica letteraria, ma mai troveremo nella biblioteca di un non giurista un codice o un commentario. Mai ci verrebbe in mente di regalare ad un amico un trattato di diritto commerciale. Perché? Tuttavia il diritto è dappertutto. Riguarda l’esistenza umana molto più della poesia o della musica o dell’arte. Sarà possibile vivere una vita senza mai leggere una poesia o senza leggere un brano di critica letteraria, ma possiamo mai pensare alle nostre esistenze al di fuori del diritto? La diffidenza – per non dire la ostilità – nei confronti della scienza giuridica è di norma associata all’arbitrarietà, all’artificiosità del pensiero giuridico. Fino a qualche anno fa il codice civile tedesco prevedeva che il padre illegittimo ed il figlio illegittimo non fossero parenti. E qualcosa di simile era previsto anche nel codice civile italiano. 2. Tre questioni da cui partire a) Verità giuridica / verità scientifica Tre sono le questioni su cui riflettere. Si tratta di questioni complesse che presuppongo tempo e maturazione. La prima è questa: che rapporto c’è fra verità giuridica e verità scientifica o fattuale? Noi ad esempio sappiamo che per ottenere la condanna dell’imputato la pubblica accusa deve portare delle prove. Qualora ciò non avvenga, può capitare che benché un individuo abbia di fatto commesso un reato debba, tuttavia, essere assolto. Questo è il principio dell’onere della prova: che può portare ad una divaricazione fra verità processuale e verità fattuale – scientifica. C’è poi un altro principio che conduce allo stesso risultato: quello in virtù del quale il giudice non può far uso della propria scientia privata. La verità contenuta nella sentenza può essere raggiunta solo sulla base di quanto emerge durante la fase processuale. Il giudice non può, ad esempio, fare ricerche per conto proprio, pedinare l’imputato, fare esperimenti scientifici (sul DNA): ma deve attenersi alla ricostruzione dei fatti che è emersa durante la fase dibattimentale. Anzi, qualora il giudice sia troppo informato della questione – magari ha assistito al fatto – deve astenersi o può essere ricusato. Il giudice arriva al processo – in linea di massima – senza opinioni preconcette e deve raggiungere la decisione solo sulla base delle risultanze processuali. Vi sono poi innumerevoli regole che spingono verso una divaricazione fra verità processuale e verità scientifica. Si pensi ai termini di decadenza, alle norme in materia di ammissibilità delle prove, alle norme in materia di prescrizione, etc… A ciò si può aggiungere la legge che può introdurre le cd. finzioni giuridiche: ad esempio nel codice civile tedesco il padre del figlio naturale – nato fuori dal matrimonio non era padre. Anzi . ai sensi della legge - non esisteva alcun rapporto di parentela. Al contrario, oggi, se un uomo decide di ricorrere alla fecondazione eterologa, non può più esperire l’azione di disconoscimento di paternità di cui all’art. 235 c.c. Per molti anni, cambiare nome ad un’imbarcazione è stato considerato reato. Il reato si fonda sulla presunzione che se si cambia nome ad un’imbarcazione appena acquisita esiste un ragionevole dubbio che l’imbarcazione sia stata rubata (presunzioni iuris et de iure). Torneremo sul concetto di verità processuale quando ci occuperemo del garantismo. b) Decisione secondo diritto / decisione secondo giustizia L’altra questione su cui riflettere è questa: che rapporto c’è fra una soluzione secondo diritto e una soluzione secondo giustizia? Il diritto, ad esempio, impone un termine di decadenza per proporre ricorso. Io sono stata ingiustamente esclusa da un concorso (riservato ai soggetti con altezza pari o superiore a 1.65 e io sono 1.66). Tuttavia ho lasciato decorrere 60gg per impugnare il provvedimento di esclusione. Non ho alcun rimedio. Un filosofo del diritto americano – Frederick Schauer – racconta che durante le prime lezioni sul ragionamento giuridico, i suoi studenti hanno una reazione di sconcerto. “This is wrong”, “questo è sbagliato”, si sente dire frequentemente. Ora, nostro obiettivo è quello di verificare fino a che punto la decisione secondo diritto può essere una decisione contro giustizia. Noi possiamo pensare ad una sentenza di un tribunale civile o di un tribunale amministrativo ingiusta – secondo i canoni di giustizia tradizionali. Ma si vedrà che è più difficile distinguere le cose, ad esempio, a livello costituzionale. c) Autointegrazione / eterointegrazione La terza questione è questa: il ragionamento giuridico è un ragionamento secondo diritto. Cioè, il giudice si trova di fronte ad una serie di fatti (X ha urtato con la macchina contro la bicicletta di Y; la PA ha escluso A da un concorso pubblico; Tizio ha percosso la moglie Caia; Fido, il cane di X ha morso la gamba di Bimbo, figlio di Y; la società Y – produttrice di Silicone – ha messo in commercio protesi mammarie che hanno favorito l’insorgere del cancro alla mammella; etc…). Per orientarsi, deve innanzitutto individuare la norma giuridica da applicare (danno civile, art. 2043 c.c.; percosse, c.p.; etc…). Ma certe volte questa operazione non è semplice: la norma sembra mancare, o sembra in contrasto con un’altra norma; ovvero sembra in contrasto con la Costituzione. Che deve fare il giudice? Non può semplicemente dire: sono confuso, non so decidere, il caso non mi interessa. Il nostro ordinamento fa divieto di non liquet. Il giudice deve necessariamente emettere una pronuncia. Ora, la questione è: nel decidere, può ricorrere ad argomenti extra giuridici, o deve necessariamente rimanere all’interno del diritto? Ancora una volta: se si riconosce solo la possibilità di AUTOINTEGRAZIONE: e cioè il diritto contiene già tutte le soluzioni, basta guardare bene, allora il ragionamento giuridico sembrerà avere una logica propria: una logica chiusa. Se al contrario si riconosce che il diritto deve attingere dal mondo esterno (dal senso comune; dalla morale; dall’economia, etc….) allora si parla di ETEROINTEGRAZIONE. A questo punto il ragionamento giuridico tornerà ad avvicinarsi a quello comune o a quello pratico generale. *** Quanto più si afferma che vi sia una divaricazione fra verità giuridica e verità scientifica e fra decisione secondo diritto e decisione secondo giustizia, tanto più si asserisce che il ragionamento giuridico ha una sua specificità, regole proprie. E non ha nulla a che fare col modo di ragionare comune. Questo in quanto studenti di giurisprudenza ci rincuora e ci riempie di orgoglio – diventare giuristi significa imparare un’arte del tutto nuova: imparare a pensare in modo diverso da come pensa la gente comune. Ma in quanto cittadini, la cosa ci può anche spaventare: se il diritto ha una sua logica propria – accessibile solo agli addetti ai lavori, non c’è il rischio che i cittadini siano alla mercé di avvocati, giudici, amministratori, o per dirla con Jeremy Bentham – di gente che parla dallo scranno ed indossa la parrucca? 3. Specificità del ragionamento giuridico Assumiamo che vi sia una specificità del ragionamento giuridico. Questo del resto sembra l’assunto delle scuole di diritto, che mirano appunto ad insegnare il modo di ragionare dei giuristi: sia perché possa essere replicato se e quando si svolgeranno certe professioni (in qualità di avvocati, giudici, operatori giuridici o semplici cittadini che si mettono dalla parte del diritto), sia perché possa essere individuato e compreso quando applicato da terzi (studio delle sentenze o delle motivazioni contenute in atti amministrativi o in ricorsi o atti di citazione). Uno dei principali obiettivi della facoltà di giurisprudenza è quello di formare giuristi, e cioè di imparare a ragionare da giuristi. Ciò implica naturalmente l’apprendimento delle regole e di norma questo modus procedendi si impara per osmosi (una volta appresa la regola spontaneamente imparo a ragionare applicandola). Un filosofo del diritto americano dei primi del Novecento – Karl Lewellyn – (May 22, 1893 – February 13, 1962) ci ha dato una descrizione del processo che conduce lo studente a “pensare da giurista”1: Lo studente deve essere educato alla freddezza e alla sterilizzazione dell’emotività attraverso l’acquisizione di capacità analitiche. Tale stile pedagogico, continua Llewellyn, può risultare doloroso in quanto richiede l’apprendimento a mettere da parte il senso comune, a riporre il senso di giustizia in una anestesia temporanea2, a sopprimere il pensiero complesso e dubitativo (The hardest job of the first year is to lop off your common sense, to knock your ethics into temporary anesthesia. Your view of social policy, your sense of justice – to knock these out of you along with woozy thinking, along with ideas all fuzzed along their edges). 1 2 Karl Llewellyn, The Bramble Bush, New York, Oceana, 1996, p. 116. (edizione originaria del 1930). Ibidem, p. 116. Sebbene Llewellyn riconosca i rischi di questo percorso – in quando il giurista nascente non è un buon giurista, mancando ancora di capacità di comprensione e giudizio (insight and good judgment) –, ritiene la deumanizzazione dello studente di legge di vitale importanza almeno nei primi anni di studio. Sarà poi l’esperienza post-laurea, conclude Llewellyn a far sì che il sapiens (il neo giurista) divenga nuovamente homo: ma questo ulteriore passaggio non è affatto scontato3. Pensiamo alle Scuole sull’interpretazione giuridica che si sono cominciate a diffondere nell’Ottocento in Francia ed in Germania. Sia la Scuola dell’Esegesi che la Scuola Storica assumono una specificità del ragionamento giuridico. E’ Scuola delle Esegesi che afferma per prima che lo studio del diritto è una questione tecnica (vedi ultra). Anche la Scuola Storica (Savigny) riconosce una specificità del ragionamento giuridico: il ragionamento giuridico segue il modo di procedere dalla dogmatica (vedi ultra). In America le prime elaborazioni sulla formazione dei giuristi sono state effettuate da Christopher Columbus Langdell, preside di Harvard nella seconda metà dell’Ottocento. L’insegnamento delle varie discipline giuridiche comincia dall’analisi delle decisioni giudiziarie, procede per astrazione alla formulazione di principi e di dottrine che poi vengono classificate nelle varie branche del diritto dei contratti, della responsabilità civile, del diritto penale4. Il cosiddetto metodo socratico che formalmente caratterizza il rapporto docente e studenti, in realtà, a dire di Martha Nussbaum, non ha nulla di veramente socratico in quanto tende a premiare risposte veloci, precise, assertive e a penalizzare l’introspezione e il dubbio5. Il modo di procedere logico analitico è quello prevalente, cosicché già dal secondo anno di corso comincia a forgiarsi una forma mentis dello studente di legge più formalista e meno incline all’approfondimento6. Oggi, l’impostazione delle Facoltà di giurisprudenza non è mutata molto rispetto a quella Ottocentesca. In Italia – e nei Paesi di Civil Law – si comincia dallo studio delle norme: 3 Ibidem, p. 101. Catherine Pierce Wells, Langdell and the Invention of Legal Doctrine, in Buffalo Law Review 58, 2010, pp. 551 ss.. 5 Martha C. Nussbaum, Cultivating Humanity in Legal Education, 70 U. CHI. L. REV. 265, 272-73 (2003). 6 William M Sullivan et. Al., Educating Lawyers: Preparation for the Profession of Law, Jossie Bass, San Francisco Ca, 2007, pp. 5-6 (d’ora innanzi il “Carnegie Report”‖)). 4 dalla Costituzione; dal Codice Civile; dal Codice Penale; dalle Procedure; dalle leggi sul procedimento amministrativo. Il giurista deve innanzitutto conoscere la legge. Però non c’è solo questo: lo studio della filosofia del diritto, dell’economia politica; delle materie comparatistiche dovrebbe sollecitare una riflessione più profonda non solo su come il giurista ragiona, ma anche su come dovrebbe ragionare per svolgere al meglio il proprio ruolo nella società. 4. Diritto come attività interpretativa Assumere una specificità del ragionamento giuridico significa partire da una premessa. Occorre presupporre che una parte essenziale dell’essere giurista è di ragionare attraverso il diritto, e cioè che il diritto sia essenzialmente un’impresa interpretativa. Non avrebbe senso chiedersi se esista un modo di ragionare degli ingegneri, dei medici, degli imbianchini, perché in queste attività il ragionamento seppure estremamente importante non coglie l’essenza dell’attività (e cioè: il medico cura, l’ingegnere progetta, l’imbianchino dipinge, e il ragionamento è semmai ausiliare). Il giurista al contrario, per definizione e in modo preponderante se non esclusivo, ragiona, argomenta, deduce (da certe premesse certe conclusioni, da certe regole generali, certe regole particolari, etc…). Il diritto, come sappiamo già, non è fatto solo dalle norme scritte che troviamo nei codici, nelle leggi o nei regolamenti, ma è un’attività ben più complessa che è essenzialmente interpretativa. Indagare sulla natura del ragionamento giuridico può significare due cose: O chiedersi come i giuristi effettivamente ragionano (APPROCCIO DESCRITTIVO). Qui la risposta non può che avere natura empirica: e cioè c’è – nella realtà – un modo di ragionare che è tipico dei giuristi e che è quindi diverso dal modo di ragionare di coloro che giuristi non sono? Questo va verificato empiricamente, non guardando alla psicologia dei giuristi – cosa che pure potrebbe avere qualche interesse, ma non per il nostro corso, ma guardando agli argomenti che tipicamente utilizzano i giuristi per arrivare a certe conclusioni. Parlare di forma mentis specifica o di modo di ragionare peculiare non significa che i medesimi argomenti non possano essere utilizzati al di fuori del diritto, ma che nel diritto essi sono preponderanti. Ad esempio, se si dice che l’argomento di autorità è di frequente utilizzato dai giuristi (il vincolo di legge, il vincolo del precedente, etc…) non si esclude che esso possa essere utilizzato altrove (nell’esercito o in famiglia: “fa quello che ti dice la mamma senza fare domande”). Ma si afferma soltanto che questi argomenti vengono utilizzati più spesso dai giuristi che nel modo di ragionare comune. O chiedersi in che modo dovrebbero ragionare: APPROCCIO NORMATIVO. Così ad esempio, si può sostenere che tipicamente i giuristi adottano una logica chiusa, speciale, ma che così facendo spesso sbagliano. Ad esempio, i tribunali dovrebbero essere più coraggiosi e di fronte a lacune di legge riconoscere l’influenza di fattori esterni al diritto. 5. Lord Coke contro Thomas Hobbes La questione se il ragionamento giuridico sia specifico non è nuova, perché da secoli esiste un dibattito che investe le due seguenti tematiche: 1) Il ragionamento giuridico è simile/identico al ragionamento comune? 2) Se invece il ragionamento giuridico è di un tipo particolare in cosa consiste la sua specificità? La discussione se vi sia una specificità nel ragionamento giuridico è molto antica. Se tradizionalmente la riflessione giuridica veniva vista come un modo di pensare del tutto peculiare, assistito da una ragione artificiale (l’artificial reason di Lord Coke), dal 1600 questo postulato viene messo in discussione e comincia a serpeggiare l’idea che il ragionamento giuridico può essere condotto sulla base della sola ragione naturale. Le due posizioni possono essere in modo esemplificativo riassunte nel Dialogo fra il Filosofo e lo Studente di common law scritto da Thomas Hobbes nel 1681. Nel dialogo il filosofo impersona Hobbes mentre lo studente di common law evoca Lord Coke, un giurista che all’inizio del Seicento aveva presieduto l’Alta Corte Inglese e si era opposto al potere di Giacomo I. Hobbes invece aveva difeso il potere degli Stuart e l’assolutismo nel suo scritto più importante, il Leviatano del 1640. Sin dall’inizio il dialogo verte sul rapporto fra diritto e ragione (law and reason). Lord Coke difende una tesi cara alla tradizione medioevale: il ragionamento giuridico si serve di una ragione particolare, un’artificial reason che non si possiede per natura, né si apprende in poco tempo, ma è il risultato di un modo di argomentare che si apprende con anni di studio ed esperienza. Esso presuppone conoscenze tecniche particolari, un’arte oratoria e retorica, dimestichezza con la dialettica ma anche abilità con questioni morali. Perché la soluzione di un caso giuridico presuppone ragionevolezza ed equità. Coke si pone sul solco della tradizione aristotelico – tomista transitata nella cultura di common law attraverso le opere di Bracton – redattore di una raccolta di casi e principi del diritto inglese. Simile opera monumentale viene redatta da Coke e poi nel Settecento da William Blackstone. Sicché l’idea che sta alla base di queste opere (dei commentari ma anche delle fonti di diritto vere e proprie) è che non a tutti è dato ragionare da giuristi, perché il diritto è un sapere specialistico che richiede studi compositi – storici, giuridici, retorici, morali. Hobbes – per bocca dello studente di common law obietta che il funzionamento del diritto si fonda su un meccanismo naturalistico: l’uomo non è mosso dalla carta (della legge o dei commentari) ma dalla spada (la paura della sanzione). Sicché compito del giurista è ricostruire la volontà del sovrano, di colui che ha fatto la legge. Lo studente addirittura, sfidando l’autorità di Coke e dei giuristi che costui rappresenta, arriva ad affermare che chiunque studi per qualche mese i testi di leggi sia in grado di risolvere i casi che gli si presentano davanti. Anzi, dice Hobbes, la ragione che sta dietro al diritto non è affatto una ragione artificiale – accessibile a pochi, ma è la ragione strumentale, di cui tutti coloro dotati di senno dispongono. Questo dialogo si riproporrà in modo pressoché identico un secolo dopo: qui i due antagonisti sono un maestro ed un allievo: William Blackstone e Jeremy Bentham. Anche qui abbiamo un giurista vecchio stampo che redige un’opera poderosa (Commentaries of the Laws of England) e un “filosofo” utilitarista. Nel libro dei Sofismi obiettivo di Bentham è quello di mettere in luce come molti degli argomenti utilizzati dai giuristi siano in realtà delle fallace: dei modi di argomentare pieni di salti logici e che in modo più o meno occulto perseguono obiettivi diversi da quelli dichiarati. Così ad esempio l’argomento di autorità (è così perché lo dice la tradizione) in realtà nasconde l’assenza di argomenti reali per sostenere una certa tesi. Lo stesso può dirsi dell’argomento del dubbio – che è uno strumento per prendere tempo. Bentham è innanzitutto un riformatore. L’idea di Bentham è quella di redigere un corpus di leggi scritte che siano intellegibili a chiunque. Nonché quello di educare il popolo (catechismo del popolo) alla conoscenza della legge. Con questi due espedienti, Bentham ritiene, il ruolo dei giuristi viene enormemente ridotto. Una certa diffidenza nei confronti dei giuristi si ritrova anche in Locke, il quale nel Saggio Sull’Intelletto Umano afferma: “Più d’uno che aveva a prima vista creduto di comprendere un passo della Bibbia o una clausola del codice che ha smarrito completamente l’intelligenza dopo aver consultato dei commentatori le cui spiegazioni hanno aumentato o fatto sorgere in lui dei dubbi e hanno sprofondato il testo nell’oscurità”7. Nonostante questi attacchi il ceto dei giuristi non ha mai perso importanza. Anzi, oggi nell’età della tecnica – il ceto dei giuristi continua ad avere un peso enorme nella società. Ecco perché è importante imparare a ragionare da giuristi. 7 J. Locke, Essay Concerning Human Understanding, Libro III, cap. IX. INTERPRETARE: CHE SIGNIFICA? INTERPRETAZIONE E DIRITTO 1. Interpretazione (Da Alexy, Interpretazione giuridica) L'interpretazione giuridica è un caso particolare di un'attività che ricorre in diverse discipline scientifiche e in numerosi contesti della vita quotidiana: l'interpretazione. Il termine 'interpretazione' è ambiguo e ha quindi bisogno di essere a sua volta interpretato. È opportuno distinguere tra l'interpretazione in senso amplissimo (largissimo sensu), in senso lato (sensu largo) e in senso stretto (sensu stricto) (v. Wróblewski, 1979, pp. 75 s.). L'interpretazione in senso amplissimo indica la comprensione del significato di tutti gli oggetti prodotti da soggetti capaci di attribuire un significato a tali oggetti. La gamma degli oggetti possibili comprende quindi le opere d'arte, i testi religiosi e scientifici, gli strumenti, le azioni e le espressioni della vita d'ogni giorno. Non è necessario che l'oggetto dell'interpretazione sia creato da un unico soggetto. È possibile anche che sia stato prodotto da più soggetti. Così una prassi comune, un'istituzione sociale o un sistema giuridico nel suo complesso possono essere oggetto di interpretazione. È controverso se anche la cosiddetta autointerpretazione si debba definire 'interpretazione' (contro questa tesi v. Betti, 1955, pp. 243 ss.). In questo caso infatti l'interprete non è solo oggetto di interpretazione ma anche soggetto che produce quest'oggetto, e l'interpretare è parte del processo attraverso il quale viene creato l'oggetto dell'interpretazione. L'interpretazione in senso lato è un caso particolare dell'interpretazione in senso amplissimo. Essa non si riferisce alla comprensione di qualsiasi oggetto cui è attribuito un significato, ma solo alla comprensione di espressioni linguistiche. In ambito scientifico si tratta essenzialmente della comprensione di testi. Esistono numerose situazioni in cui le espressioni linguistiche vengono comprese senza che affiorino dubbi o perplessità. In questi casi si può parlare di una 'comprensione immediata'. Se invece affiorano dubbi o perplessità, allora è possibile una comprensione solo se questi vengono risolti. Si tratta in questo caso di una 'comprensione mediata'. Un esempio della comprensione immediata è il caso in cui qualcuno vede un cartello con la scritta 'vietato fumare' e di conseguenza spegne la sua sigaretta. Esempi della comprensione mediata sono tutti i casi in cui i giudici considerano i diversi significati possibili di una norma e, per via argomentativa, decidono per uno di essi. Il concetto di interpretazione in senso lato include sia la comprensione immediata che quella mediata. Depone a favore dell'impiego di questo concetto ampio la flessibilità del confine tra la comprensione immediata e quella mediata, in quanto una comprensione immediata può sempre essere posta in dubbio, cosicché rimane possibile solo una comprensione mediata. Depone invece contro di esso il fatto che nonostante alcune affinità sussistono differenze fondamentali tra la comprensione immediata e quella mediata. Ciò induce a formulare un concetto di interpretazione in senso stretto che si riferisca esclusivamente alla comprensione mediata. L'interpretazione in senso stretto è un caso particolare dell'interpretazione in senso lato. Essa si rende necessaria quando un'espressione linguistica ammette diversi significati e non è certo quale sia quello corretto. L'interpretazione in senso stretto comincia con una domanda (v. Gadamer, 1960, pp. 351 s.) e termina con una scelta tra i diversi significati possibili (v. Larenz, 1991⁶, p. 204). L'interpretazione in senso stretto è al centro del problema dell'interpretazione giuridica. 2. Il concetto di interpretazione giuridica L'interpretazione giuridica si distingue dagli altri tipi di interpretazione per il suo carattere pratico e istituzionale. Essa ha un carattere pratico in quanto riguarda sempre, direttamente o indirettamente, ciò che in un sistema giuridico viene prescritto, vietato o permesso e ciò che esso autorizza. Invece che di carattere 'pratico' si può parlare anche di carattere 'normativo'. Il carattere istituzionale dell'interpretazione giuridica deriva sia dal suo oggetto che dal suo soggetto. Nelle codificazioni giuridiche moderne oggetto primario dell'interpretazione è la legge, compresa la legge costituzionale e le norme emanate secondo le leggi (per esempio decreti-legge e regolamenti). Le leggi vengono prodotte attraverso atti istituzionali, oggi in particolare attraverso deliberazioni del parlamento. È questo il fondamento della loro validità giuridica. Oltre alla legge, costituiscono ulteriori oggetti dell'interpretazione i precedenti, i contratti di diritto privato, amministrativo, pubblico e internazionale, nonché il diritto consuetudinario. Escluso il diritto consuetudinario, di scarso rilievo negli Stati moderni, anche questi oggetti dell'interpretazione sono il prodotto di atti istituzionali. Lo stesso vale per il diritto primario e secondario della Comunità Europea. Per quanto concerne il soggetto, l'interpretazione viene distinta tradizionalmente in: interpretazione autentica/autorizzata, dottrinale, popolare e comune. L'interpretazione autentica è l'interpretazione fornita dagli organi autorizzati dall'ordinamento giuridico a determinare in modo vincolante il significato di una norma: il legislatore e, secondo una concezione diffusa, anche la giurisprudenza nella misura in cui questa produce in ultima istanza decisioni vincolanti e con valore di precedente. In entrambi i casi l'interpretazione ha un carattere istituzionale non solo in virtù del suo oggetto ma anche in forza del suo soggetto. L'interpretazione dottrinale è l'interpretazione data dalla dottrina giuridica. Non avendo efficacia vincolante essa non possiede carattere istituzionale, ma si può avvicinare a esso quando si forma un'opinione dominante. l'interpretazione popolare è l'interpretazione fornita dai cittadini sottoposti al diritto. L'interpretazione comune, ossia l'interpretazione di una norma tramite il diritto consuetudinario, è un caso particolare dell'interpretazione popolare. Per quel che concerne il soggetto, anch'essa è priva di carattere istituzionale. Ciò tuttavia non inficia il carattere istituzionale complessivo dell'interpretazione giuridica, poiché, qualora si giunga a un grave dissidio nell'ambito dell'interpretazione dottrinale, popolare o comune, nei sistemi giuridici moderni è prevista un'istanza che decide con effetto vincolante. Questo spiega il ruolo particolare dell'interpretazione giudiziale o giurisdizionale. II. TRE TESI Intuitivamente comprendiamo che un conto è pensare ad una questione in termini giuridici, un conto è giudicarla con parametri diversi. La divaricazione fra modo di ragionare comune e modo di ragionare da giuristi in certi casi è particolarmente accentuata. Io non sono stato ammesso ad un concorso, notizia che trovo pubblicata su un sito internet. Ma non ho accesso ad alcun computer. Vengo a sapere della notizia 61 gg- dopo la pubblicazione del risultato. Credo di aver subito un’ingiustizia (ad esempio sono stata esclusa su presupposti errati di fatto – non è vero che sono alta 1,62m ma 1.64 sicché rientro nei requisiti; ovvero per errori di diritto: è illegittimo fissare dei requisiti che discriminano fra uomini e donne, etcc…), e tuttavia non ho alcun rimedio: sono decorsi i termini per impugnare e devo accettare l’esclusione, seppure ingiusta. In altri casi la sfumatura è più sottile: mi dicono che una coppia di miei amici sposati è in procinto di separarsi. Posso cercare di ricostruire quello che è successo in vari modi: posso ad esempio cercare di ricordare le interazioni della coppia in mia presenza, ovvero posso rispolverare le confidenze che mi ha fatto uno dei due, ovvero posso chiedermi: chi se ne è andato di casa? Chi ha fatto cosa? Questo modo di procedere – che per inciso fa infuriare i diretti interessati – è tipicamente legale. E’ un modo di procedere un po’ ottuso che però ha il pregio di inibire una ricerca più profonda dei fatti (che se sempre consentita potrebbe trasformare il diritto in una macchina invasiva e vischiosa). Questo modo di procedere per (certi) fatti, vedremo essere tipico del diritto. Ad esempio, ricostruire la catena di responsabilità sulla base di regole generali (nel caso della separazione: c’è stato un tradimento? Abbandono di tetto coniugale?) ovvero guardando in prevalenza alla condotta esteriore (in diritto penale si parla di materialità del reato), ovvero al bene giuridico che è stato leso, al danno. Anzi, si può cominciare ad affermare che il ragionare da giuristi significa: a) Ragionare sulla base di regole di diritto (si vedrà in seguito cosa questo significa); b) attribuire oneri, responsabilità e vantaggi in base a regole generali di un certo tipo (di cui si è discusso al corso di filosofia) c) presupporre una certa distanza fra almeno tre poli: le parti fra cui ripartire le responsabilità e le parti ed il giudice (sia il giudice istituzionale che l’osservatore giurista) che ripartisce le responsabilità. La distanza è ribadita dal fatto che il diritto guarda essenzialmente – sebbene non esclusivamente – a condotte esteriori e propone delle soluzioni senza ricostruire all’infinito o comunque in profondità le cause prime dell’evento. Di questo stato di cose vi è un lato negativo, ma tanti lati positivi. Ragionare da giuristi è una forma un po’ superficiale di ragionamento – se paragonata al ragionamento morale ovvero al ragionamento in termini psicologici o filosofici o storici (si noti che superficiale non significa semplice, perché si vedrà che i giuristi funzionano in modo molto contorto, spesso). E tuttavia il ragionare da giuristi contiene una sorta di self restraint: il giudizio non può andare troppo in fondo, ma è contenuto entro certi limiti (limiti di forma – ad esempio non posso giudicare fatti non gravi avvenuti vent’anni fa; devo rispettare l’onere della prova, etc.. –) e limiti di sostanza (devo per lo più limitarmi a guardare le azioni esterne delle parti coinvolte e cercare di frenare un giudizio complessivo sulla personalità dei soggetti interessati; devo mettere da parte sentimenti di disgusto ma anche di umana compassione, etc…). Se questa operazione riesca sempre, è cosa da verificare in pratica. Ma già in via preliminare si può dire che il ragionare da giuristi si distingue per almeno tre caratteristiche: - Per la tendenza a ragionare in termini di responsabilità (Chi è stato? Chi ha causato cosa; chi aveva un obbligo nei confronti dell’altro? Chi poteva rivendicare un diritto?): e cioè in termini di diritti e doveri in qualche modo discendenti da norme giuridiche; - Per la tendenza a giudicare senza andare totalmente a fondo della questione: e cioè senza comprendere pienamente i fatti ma dando un giudizio sulle componenti esteriori delle azioni; - Per la tendenza a ragionare nei termini di regole generali. (La conclusione Y discende dalla regola X). Alcuni filosofi del diritto americani formulano queste considerazioni nei seguenti termini: Mentre il ragionamento pratico generale (ad esempio, il ragionamento morale), presuppone che la decisione venga presa all things considered e cioè sulla base di tutte le circostanze rilevanti; il ragionamento giuridico funziona in modo diverso (cfr. F. Schauer e J. Raz). Questa ossatura preliminare – che enfatizza l’aspetto formale del ragionamento giuridico – formale proprio perché superficiale (nel bene e nel male) – deve fare i conti però con una circostanza di non poco conto: e cioè che il diritto è un’attività essenzialmente umana – intersoggettiva – e che dunque, come ogni attività umana complessa, non può reggere un modo di funzionamento di tipo meccanicistico e formalistico. Come ogni attività umana, la prassi giuridica è impregnata di valori: per cui l’idea del ragionamento giuridico come di una modalità di applicazione al caso concreto di regole generali a prescindere da una valutazione più profonda dei fatti di causa spesso si scontra con l’inclinazione tipicamente umana di lasciar scorrere giudizi di valore nella soluzione dei casi concreti. Siamo partiti dal caso Scazzi dicendo che esiste un modo di ragionare tipicamente giuridico distinto dagli altri modi di ragionare: ma è veramente possibile che chi esprime un giudizio giuridico sulla vicenda metta da parte qualsiasi altra considerazione – psicologica, morale, sociale -? E’ veramente possibile decidere senza comprendere? Ancora più spinosa diventa la questione quando l’interpretazione coinvolge non soltanto sentimenti di indignazione morale ma anche principi e valori: per esempio, nell’interpretazione costituzionale si può veramente pensare il ragionamento giuridico come di una forma di ragionamento sospeso nel vuoto? Proprio sul tasso di formalismo che contraddistingue il ragionamento giuridico si sono avuti i dissidi più vigorosi fra i teorici del diritto: - All’estremità dello spettro stanno i formalisti che, muovendo proprio dalla componente formale del ragionamento giuridico, tendono a far coincidere la logica giuridica con la logica formale: e negli anni più recenti addirittura arrivano ad assimilare la logica giuridica a procedimenti di tipo informatizzato: sul presupposto che in un futuro non lontano l’attività dei giuristi possa essere sostituita da quella dei computer. Il formalismo di solito si accompagna al cognitivismo epistemologico; ma può prendere anche strade diverse. Esso, a mio avviso, si contraddistingue per il modo in cui sottolinea la separatezza dei giudizi di diritto da altre tipologie di giudizi che coinvolgano non solo fatti da ricostruire ma valori da dare. In altri termini, il formalismo enfatizza gli aspetti del diritto che inibiscono una valutazione troppo approfondita (e magari troppo vischiosa) oppure troppo dispendiosa (in termini di tempo e denaro), e mette l’accento su quelle soluzioni che sebbene appaiono ingiuste per il caso concreto possono però rispondere alla logica complessiva del sistema. Ad esempio, le norme in materia di inammissibilità del ricorso (perché proposto fuori termine, anche di un solo giorno) possono dar luogo a risultati ingiusti eppure trovano giustificazione nell’esigenza di non ingolfare eccessivamente la macchina della giustizia. Il formalismo plaude all’idea che il diritto non vada fino in fondo alla questione. Esso viene espresso nelle massime di frequente circolazione: “la mia valutazione giuridica dei fatti non implica alcuna valutazione morale o sociale”; “io la penso in modo diverso, ma il diritto mi impone di decidere in questo modo”; o in modo paradossale: “le conclusioni a mio avviso sono ingiuste, ma secondo il diritto la decisione deve essere questa”. b) All’estremità opposta stanno i realisti, che ritengono che il ragionamento giuridico non sia tanto diverso dal modo di ragionare comune, come quest’ultimo condizionato da emozioni, umori, atteggiamenti più o meno razionali del giudice e del giurista. Il realismo giuridico americano è espressione di questo modo di vedere il diritto. Un giudice costituzionale americano nonché esponente di questa corrente di pensiero – Oliver Wendell Holmes – affermava che le sentenze dipendono in larga parte da ciò che ha mangiato il giudice a colazione. c) Vi sono poi tante posizioni intermedie, tra cui la posizione di Chaim Perelman – che vedremo più da vicino – le quali ritengono che il ragionamento giuridico sia un’attività molto più complessa della logica formale e che la logica giuridica si contraddistingue per componenti “spurie” che fanno appello ad emozioni, ma anche principi, e suggestioni dell’uditorio coinvolto. Pur nelle diversità di queste posizioni in tutte vi è l’idea che il ragionamento giuridico sia una porzione del ragionamento pratico: e che seppur sottoposto a vincoli di ogni tipo (procedura, contenuto, etc.), il ragionamento giuridico non può trascurare le ragioni che stanno dietro le norme, né può esimersi di esprimere giudizi di valore sia nella ricostruzione dei fatti, sia nella determinazione delle norme da applicare. In altri termini, il ragionamento giuridico contiene una oscillazione costante fra conservazione del passato (rispetto delle norme, vincolo dei precedenti, ricorso al principio di autorità), e spinta in avanti attraverso il riconoscimento di nuovi diritti e l’ampliamento di posizioni soggettive per gli individui più svantaggiati nella società. Se non si coglie questo aspetto del diritto e cioè la sua funzione di difesa e ampliamento delle posizioni dei meno avvantaggiati, il ruolo dei giudici e dei giuristi si ridurrebbe alla difesa di prerogative e privilegi: e di conservazione (fino alla stasi) della società. Si può subito anticipare l’idea di fondo di questo corso: il ragionamento dei giuristi si contraddistingue per certe caratteristiche. Da un punto descrittivo, se guardiamo al modo in cui i giuristi concepiscono la loro attività – cosa che vi capiterà quando vi troverete a difendere un cliente oppure a redigere un atto amministrativo o a pronunciare una sentenza – il sentimento più comune è quello di applicare una norma che preesiste all’attività interpretativa. Il formalismo sembra cogliere questo aspetto. E tuttavia se diamo uno sguardo alla giurisprudenza o ad altre prassi interpretative vedremo che vi è anche nel ragionamento giuridico una spinta a far vivere principi, valori, prese di posizioni morali. Come dice Robert Alexy, il diritto avanza una pretesa di correttezza: cosa che implica che un giudice non può a cuor leggero affermare: “questo è sbagliato ma è la decisione secondo diritto”. Ciò implica che nel ragionamento giuridico – che come vedremo segue regole proprie ma anche regole tratte dall’ordinario ragionamento pratico – l’oscillazione fra decisioni di tipo formalistico – in cui il libero convincimento del giudice gioca una parte ridotta – e decisioni di tipo valoriale – è costante. Il punto di vista di questo corso è che il diritto è un’attività essenzialmente interpretativa che si va facendo attraverso l’opera dei suoi interpreti e che dunque le norme non stiano semplicemente lì, in un mondo che precede l’opera dell’interprete, ma che si costruiscano nella prassi. In questa opera di costruzione non si può prescindere da alcuni valori o prese di posizioni, sebbene sia compito degli operatori del diritto rimanere disponibili al confronto con valori e posizioni diverse8. 8 Per questa posizione, cfr. F. Viola, Diritto come pratica sociale, Jaca Book, Milano, 1990; e F. Viola & G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, il Mulino, Bologna, 2003. \ III. FORMALISMO 1. Formalismo e scissione Torniamo dunque alle tre tesi da cui siamo partiti: il formalismo, il realismo e la tesi intermedia. Daremo una scorsa a tutte e tre, perché tutte e tre ci aiutano a comprendere le varie componenti del ragionamento giuridico. Tuttavia le prime due tesi si dimostrano incapaci di comprendere a pieno la natura del ragionamento secondo diritto. L’idea che il modo di ragionare dei giuristi sia impregnato di formalismo corrisponde ad un sentimento piuttosto diffuso. Cominciamo dalla seguente affermazione di Tocqueville: Men who have made a special study of the laws derive from this occupation certain habits of order, a taste for formalities, and a kind of instinctive regard for the regular connection of ideas . . . . [T]hey are the masters of a science which is necessary, but which is not very generally known . . . . Add to this that they naturally constitute a body; . . . the analogy of their studies and the uniformity of their methods connect their minds as a common interest might unite their endeavors. (La DEMOCRAZIA IN AMERICA – 1835). Tocqueville rintraccia nella forma mentis del giurista – di colui che ha studiato legge per anni - una certa abitudine all’ordine; - un gusto per le forme; - un rispetto istintivo per l’associazione regolare di idee. Il formalismo non è un approccio nuovo al diritto. Esso si combina all’idea che il ragionamento giudiziario sia essenzialmente cognitivo (un atto di conoscenza) e presuppone che il diritto – che in questa ottica si fa coincidere con l’enunciato di legge – sia sempre – o il più delle volte – intellegibile. In altri termini, il formalismo presuppone che l’attività del giudice sia un’attività non tanto diversa da quella dello scienziato: il giudice ricostruisce i fatti, individua le norme da applicare e poi applica le norme al fatto concreto. In linea generale, i formalisti ritengono che l’interpretazione giuridica sia un’attività prevalentemente cognitiva: Il giudice conosce la regola, conosce i fatti, ed applica la regola ai fatti. Il nocciolo del formalismo tuttavia non è la capacità epistemologica dei giudici e dei giuristi quanto piuttosto l’idea della sostanziale scissione fra modo di pensare da giurista e modo di pensare comune. Si noti che questa idea della sostanziale scissione fra pensare giuridico e pensare comune può avere due conseguenze opposte: Essa può significare che i giuristi hanno un campo di indagine più limitato – molto più limitato – di molti altri individui chiamati ad esprimere giudizi sui fatti umani (ed in particolare sui conflitti). Ad esempio, può significare che i giudici quando decidono non devono metterci nulla di personale ma devono limitarsi ad applicare regole fatte da altri. L’imparzialità del giudizio consiste essenzialmente nella distanza del giudice dalle parti ma anche dai fatti del giudizio (il giudice non deve aver alcun sentimento nei confronti delle parti né nei confronti dei fatti di causa). Questo modo di ragionare sembra più figlio di Hobbes e i suoi discendenti che di Lord Coke – che pure aveva difeso la specificità del ragionamento giuridico - . Esso culminerà nelle ideologie interpretative elaborate dalla Scuola dell’Esegesi. Ma il formalismo può avere anche l’effetto opposto: assegnare ai giuristi la chiave di accesso alla verità giuridica significa anche attribuire ai giuristi un potere enorme. Questa era l’idea di Lord Coke che enfatizzava l’autonomia del diritto dalla politica. E questa sembra essere oggi l’idea dominante anche nella cultura giuridica moderna e tecnologizzata. 2. Formalismo e importanza del testo. Tuttavia durante l’età della codificazione del diritto (dai primi dell’Ottocento) il formalismo si accompagna all’auspicio per un ruolo limitato di giudici e giuristi. Una chiara esemplificazione di questo modo di pensare si ebbe all’indomani dell’entrata in vigore del Codice Napoleonico. Per sfuggire al rischio che il codice venisse manipolato dal ceto dei giuristi, Napoleone aveva provveduto a riorganizzare gli studi giuridici nella linea adottata dai monarchi assoluti. La riforma napoleonica infatti mira a conferire all’università di diritto un carattere eminentemente tecnico: le facoltà giuridiche dovevano trasformarsi in scuole professionali, dalle quali non solo restavano escluse le materie estranee al diritto positivo, come il diritto naturale, ma dove il diritto positivo andava insegnato in modo catechistico – e nozionistico: seguendo pedissequamente l’ordine dei codici. In questo contesto nasce la cd. SCUOLA DELLE ESEGESI (Mourlon, Demolombe, Troplong): che praticava un metodo esegetico che, nel privilegiare rigidamente l’interpretazione logico – grammaticale dei singoli enunciati normativi, venerava in modo feticistico i testi di legge, di per sé considerati sempre sufficienti a prevedere e regolare tutti i casi possibili dell’esperienza concreta del diritto. In tale prospettiva l’interpretazione è mera ricognizione e riproduzione di un diritto legislativo preesistente. Si diffuse lo stile sillogistico delle sentenze, invocato prima da Montesquieu e Beccaria, e poi da introdotto dal ricorso di legittimità di fronte alla Corte di Cassazione. Il diritto naturale non viene negato, ma ne viene negata rilevanza pratica (Mourlon 1852). Le opere della Scuola dell’Esegesi si risolvono in parafrasi del codice napoleonico: sia che assumano la forma del commentario, sia che assumano la forma del trattato. Gli aderenti alla scuola dell’Esegesi prediligono l’interpretazione letterale ed in caso di dubbio ricorrono all’argomento interpretativo cd. psicologico, consistente nell’attribuire al testo il significato corrispondente all’intenzione del legislatore, accertata sulla base dei lavori preparatori. Il massimo dell’audacia interpretativa viene raggiunto con la tecnica del combinato disposto. Ciò con l’interpretazione di una norma alla luce non di uno ma di due articoli. L’art. 4 del titolo preliminare del codice napoleonico prevedeva che “il giudice che ricuserà di giudicare allegando il silenzio, l’oscurità o l’insufficienza della legge, dovrà risponderne come colpevole di denegata giustizia”. L’intento dei redattori era comunque di autorizzare il giudice a trovare una soluzione: non solo all’interno del codice (auto integrazione) ma anche all’esterno (etero integrazione). All’interno delle facoltà di legge tuttavia si affermò il principio che non si sarebbe potuto fare ricorso al diritto universale o all’equità o ai principi di diritto naturale, ma che la soluzione andava ricercata esclusivamente all’interno del codice. Il primo aspetto del formalismo è dunque l’importanza del testo. L’importanza del testo nell’interpretazione è accolta anche dal nostro codice civile. L’articolo 12 delle preleggi al codice civile così stabilisce: Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato. Quindi, in prima battuta il giudice deve guardare al significato letterale (il senso fatto palese dal significato delle parole) ovvero il senso che emerge dalla connessione fra le parole. I due argomenti, come si vedrà si chiamano linguistici: il primo è semantico (si guarda cioè al significato di ogni singola parola); il secondo viene detto sintattico, (si guarda cioè al significato delle parole nel contesto della frase in cui sono inserite). Facciamo qualche esempio: L’art. 235 c.c. consente al coniuge che all’atto del concepimento fosse affetto da impotenza di proporre azione di disconoscimento di paternità. Qualche anno fa, una coppia ricorse alla fecondazione eterologa. Entrambi i coniugi acconsentirono a che la donna ricorresse ad una Banca del Seme per la fecondazione. Nacque un bambino. Dopo qualche anno le cose andarono male fra i coniugi e il marito decise di proporre azione di disconoscimento di paternità. Il giudice fu chiamato a decidere sulla questione: Può un padre che ha dato consenso al ricorso della fecondazione eterologa poi “ripensarci” e proporre azione di disconoscimento di paternità? La questione ebbe un iter processuale molto lungo, ma sia in primo che in secondo grado i giudici affermarono un principio che si desumeva dall’interpretazione letterale: Siccome l’art. 235 c.c. consente di proporre azione di disconoscimento di paternità qualora si sia affetti da impotenza generandi al momento del concepimento, nel caso di specie tale diritto va riconoscimento all’individuo che aveva prestato consenso alla fecondazione eterologa. Il Tribunale penale di Roma, con la sentenza del 10 maggio 2005, ha condannato a dieci giorni di reclusione due responsabili di Radio vaticana per aver provocato inquinamento elettromagnetico sulla base dell‟ art. 674 del Codice penale riguardante il “Getto pericoloso di cose” che così dispone: “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l‟ arresto fino a un mese o con l‟ ammenda fino a 206 euro”. Orbene, la produzione di onde elettromagnetiche in quali termini è riconducibile al gettare o versare cose oppure all‟ emettere gas, vapori o fumo? Se si dovesse accedere all’interpretazione letterale l’immissione elettromagnetiche non dovrebbe rientrare nella fattispecie di cui all’art. 674. di onde L’idea che il giudice deve fedelmente attenersi al testo di legge quando interpreta non è privo di implicazioni politiche e ideologiche. i) Innanzitutto esso presuppone che il diritto sia essenzialmente legge. Noi oggi abbiamo un sistema delle fonti stabilito all’art- 1 delle preleggi al nostro codice civile – che recita: Sono fonti del diritto: 1) leggi; 2) i regolamenti; 3) (abrogato); 4) gli usi. L’idea che il diritto coincida essenzialmente con la legge non è per noi sorprendente. Eppure si tratta di un’idea relativamente recente (affermatasi durante l’illuminismo) e che peraltro oggi è posta in discussione da fenomeni socio politici che hanno una profonda influenza sul diritto, come ad esempio l’internalizzazione delle fonti del diritto, la globalizzazione, etc. ii) La seconda implicazione è che la lettura diretta del testo di legge consente di bypassare il ceto dei giuristi. Anche i cittadini possono leggere direttamente la legge, diceva Bentham, secondo cui i giuristi e i giudici sarebbero progressivamente spariti. Qualcosa di simile successe intorno al cinquecento in Europa con la Riforma protestante. Anche in quel caso la lettura diretta del testo – della Bibbia – ebbe l’effetto di mettere in discussione la dottrina della chiesa e le gerarchie ecclesiastiche. La lettura diretta della Bibbia consente un rapporto diritto uomo Dio. La lettura diretta dei testi di leggi, presuppone un rapporto diretto fra uomo e Stato. I cittadini contano di più. Sappiamo però che siccome la lettura del testo presuppone un bagaglio di conoscenze tecniche, il ceto dei giuristi non scomparirà affatto, anzi si rafforzerà. Il giurista diventerà sempre più tecnico e, di conseguenza, sempre più necessario. iii) Il testo va interpellato ma con cautela. Siccome l’obiettivo è di rimanere fedeli alla volontà di chi ha redatto il testo, l’interpretazione deve essere letterale. Il letteralismo, però, sappiamo essere un ideale difficile da raggiungere e spesso comunque fortemente contradditorio. Se da un lato la fedeltà al testo è anche fedeltà all’autore del testo (il legislatore, il Dio che si è rivelato, il profeta), dall’altro non è raro che sorgano conflitti molto aspri proprio fa chi rivendica la verità del testo. Pensiamo ai conflitti religiosi – certe volte molto violenti – che sorgono sull’interpretazione di un versetto del Corano o su un Salmo o su un passo del libro dell’Esodo. Tutto questo implica che anche qualora si sposi l’ideale del letteralismo non per questo si rinuncia all’idea di una sola interpretazione ufficiale; iv) La logica giuridica acclamata da questo modo di procedere coincide essenzialmente con la logica formale. Si vedrà nella parte dedicata alla logica del ragionamento giuridico cosa questo significhi. Adesso basterà dire che lo schema di riferimento dei formalisti è il sillogismo deduttivo. v) Corollari dell’idea secondo cui la logica giuridica è una logica chiusa – autonoma sono i principi di coerenza e completezza dell’ordinamento giuridico. a. Coerenza b. Completezza Sulla coerenza e la completezza si fa rinvio all’articolo di Roberto Bin: Le Fonti del Diritto nell’Ordinamento attuale ovvero al capitolo sulle fonti del Manuale Bin-Pitruzzella. 3. Formalismo concettuale Si è detto che il formalismo tende a privilegiare l’interpretazione letterale su interpretazioni volte a cogliere la ratio della legge ovvero addirittura a discostarsi dal testo per ricorrere ad argomenti non strettamente giuridici. Vi è tuttavia un’altra forma di formalismo – anch’essa espressione del pensiero ottocentesco – che però non trova le sue radici nella Scuola dell’Esegesi e nel metodo semantico – sintattico, ma che piuttosto trova i suoi precedenti nel metodo storico di Savigny. O meglio, se ancora Savigny era legato al metodo storico – e quindi concepiva il diritto come espressione dello spirito del popolo in un determinato periodo storico – la scuola da lui fondata gradualmente si dissociò dallo storicismo per diventare sempre più concettuale. La Pandettistica di Puchta (Georg Friederich Puchta (Kadolzburg, 31 agosto 1798 – Berlino, 8 gennaio 1846) è stato un giurista tedesco) o il primo Jhering sono espressioni di questo modo di pensare. Il metodo interpretativo prediletto è il metodo sistematico - ma il presupposto è comune a quello della Scuola dell’Esegesi. L’ordinamento è coerente e completo, sebbene la coerenza e la completezza sono l’opera di giuristi più che del legislatore. Questo metodo transiterà nel mondo anglosassone con l’idea della razionalità della giurisprudenza (il rispetto del precedente, l’analogia) e verrà attaccato dai movimenti anti-formalisti sia in Francia (Hariou), che in Germania (Jhering) che in America (Oliver Wendell Holmes). 4. Interpretazione e deduzione Il formalismo sostiene che il ragionamento giuridico si avvalga fortemente del ragionamento deduttivo. La struttura della motivazione giuridica è controversa. Secondo una concezione diffusa si deve distinguere tra un nucleo deduttivo e una giustificazione argomentativa delle premesse impiegate nella deduzione. La terminologia varia nonostante vi sia un accordo sulla sostanza. Si parla così di una distinzione tra 'giustificazione interna' ed 'esterna' (v. Wróblewski, 1974, pp. 39 ss.; v. Alexy, 1991², pp. 273 ss.), tra 'giustificazione di prim'ordine' e di 'second'ordine' (v. MacCormick, 1978, pp. 19 ss. e 100 ss.), e tra 'schema principale' e 'schemi secondari' (v. Koch e Rüssmann, 1982, pp. 48 ss.). Che cosa si intenda con ciò viene chiarito dal seguente esempio. Le costituzioni moderne contengono normalmente un diritto fondamentale all'inviolabilità del domicilio. Si supponga che nella decisione di un caso si tratti unicamente di stabilire se il laboratorio del falegname sia tutelato da questo diritto fondamentale oppure no, e che nella letteratura e in tribunale vengano sostenute due interpretazioni diverse: una ristretta e una ampia. Secondo l'interpretazione ristretta solo i locali che costituiscono il centro della vita privata sono domicilio nel senso della costituzione. Di conseguenza, il laboratorio del falegname non gode della tutela costituzionale dell'inviolabilità del domicilio. Secondo l'interpretazione ampia tutti i locali cui è vietato l'accesso al pubblico sono da considerare come domicilio nel senso della costituzione. Di conseguenza, la falegnameria gode della tutela costituzionale suddetta. Si supponga ora che il giudice scelga l'interpretazione più ampia. La motivazione della sua decisione può essere ricondotta allora alla seguente struttura deduttiva: 1) ogni domicilio gode della tutela costituzionale; 2) tutti i locali cui è vietato l'accesso al pubblico sono domicili; 3) tutte le falegnamerie sono ambienti cui è vietato l'accesso al pubblico; 4) il locale di a è una falegnameria; 5) il locale di a gode della tutela costituzionale. Il concreto giudizio giuridico di dovere (5) che decide il caso segue logicamente dalle premesse 1-4. Questa deduzione corrisponde a ciò che viene designato come 'giustificazione interna' o con le altre espressioni menzionate. Essa non è una motivazione completa. Infatti la premessa (2), decisiva per il caso considerato, esprime l'interpretazione più ampia del concetto di domicilio e viene solo impiegata nella giustificazione interna ma non viene motivata. Il compito peculiare dell'interpretazione consiste proprio nella motivazione di premesse di questo tipo. Ciò deve avvenire nella giustificazione esterna. Contro il modello di motivazione deduttivo, che rappresenta uno sviluppo della teoria tradizionale del sillogismo giuridico, viene obiettato che una deduzione non è una motivazione (v. Neumann, 1986, pp. 19 ss.) e che il modello non coglie adeguatamente la vera struttura della motivazione giuridica (ibid., pp. 22 e 25; v. Atienza, 1991, pp. 240 ss.). In difesa del modello deduttivo si può sostenere che in esso dovrebbe essere rappresentato solo il nucleo della motivazione, mentre la motivazione vera e propria dovrebbe avvenire nella giustificazione esterna. Non deve essere ricostruito neppure il ragionamento seguito effettivamente dal giudice (context of discovery) ma solo la struttura in cui la sua motivazione (context of justification) deve poter essere trasformata per essere razionale. Il postulato della completezza delle premesse contenuto nel modello deduttivo assicura che sia chiaro ciò che deve essere motivato e ciò che può essere criticato. Questo impedisce l'intrusione indebita di premesse nascoste. Diversamente dalle teorie sostenute nel XIX secolo sul ruolo della deduzione nella giurisprudenza, il modello deduttivo non offusca il contributo creativo dell'interprete, ma al contrario lo mette in evidenza come nessun altro modello. Il postulato della natura esplicita delle premesse è funzionale inoltre alla certezza del diritto. La pretesa di universalità delle premesse corrisponde alla prescrizione del pari trattamento e risulta così funzionale alla giustizia. Infine, il postulato secondo il quale la distanza tra norma e situazione concreta deve essere superata mediante una concatenazione completa di premesse contribuisce a vincolare l'attività del giudice alla legge (v. Alexy, 1991², pp. 274 ss.; v. Koch e Rüssmann, 1982, pp. 112 ss.). 5. Formalismo e regole generali Il Formalismo non si contraddistingue solo per la fiducia nella capacità epistemologica che ragionamento giuridico; né per la fedeltà al testo di legge. Il formalismo plaude all’idea che la decisione vada presa sulla base di regole generali. L’idea che il ragionamento giuridico si contraddistingua per il suo frequente ricorso a regole generali è stata di recente illustrata da un filosofo del diritto americano, Frederick Schauer9. La Generalità: è la tendenza a decidere casi concreti attraverso regole generali. Ciò significa che sebbene il conflitto riguardi parti determinate e situazioni determinate il diritto impone di risolvere la questione semplificando: sfrondando, cioè, da molti elementi contestuali e decidendo con regole generali. L’idea, contro intuitiva, è che è meglio decidere male un caso singolo per mantenere intatta una regola generale, e cioè per evitare che magari un numero maggiore di casi successivi sia deciso applicando una regola sbagliata. Coke espresse pressappoco questo concetto: “It is better saith the Law to suffer a mischiefe (that is particular to one) than an inconvenience that may prejudice many.”10 9 F. Schauer, Thinking like a Lawyer. A New Introduction to Legal Reasoning, Harvard University Press 2009. Schauer menziona l’esempio della sentenza della Corte Suprema: United States v. Locke,11 in cui la Corte fu chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di una richiesta di rinnovo di concessione presentata il 31 dicembre 1982. L’ufficio competente aveva rigettato la richiesta perché la legge richiedeva che fosse presentata prima del 31 dicembre di ogni anno. E sebbene il linguaggio della legge fosse viziato – in quanto si sarebbe dovuto dire: il 31 e prima del 31 …. – la Corte concluse che i particolari diritti di Locke e gli altri ricorrenti erano meno importanti della regola generale, secondo cui la corte non può correggere errori, sia pure formali o maldestri, del congresso. Questo modo di procedere sembra peraltro più conforme al principio del rule of law: il principio per cui deve essere il diritto (le regole) a governare e non gli uomini. Dice Schauer: When the Rule of Law is described, as it traditionally was, in contrast to the rule of men, the idea was that the Rule of Law was a principle that was wary of individual judgment and reluctant to rely too heavily on the unguided judgments and whims of particular people. So although it may sometimes seem unfair to take the existence of a clear rule or a clear precedent as commanding a result the judge herself thinks wrong, following even a rule or precedent perceived by the judge to be erroneous is what, under the traditional understanding, the law often expects its decision-makers to do.12 In altri termini: per il diritto è preferibile sacrificare la giustezza di un caso per salvare un regola piuttosto che sacrificare la regola per raggiungere la giustezza di un caso. Questo, per Schauer, costituirebbe l’essenza della rule of law. 10 Sir Edward Coke, as quoted in J.R. Stoner, Common Law and Liberal Theory: Coke, Hobbes, and the Origins of American Constitutionalism 25 (1992). 11 471 U.S. 84 (1985). Si guardi ad esempio alla tesi di Justice Louis Brandeis’s famous observation that “in most matters it is more important that the applicable rule of law be settled than that it be settled right.” Burnet v. Coronado Oil & Gas. Co., 285 U.S. 393, 412 (1932) (Brandeis, dissenting). 12 “quando il concetto di rule of law (governo della legge) viene definito – come tradizionalmente si fa – in contrasto alla rule of men (al governo degli uomini) – l’idea è che la rule of law è indipendente dal giudizio individuale e resistente alle modifiche che possono essere apportate dal capriccio degli individui particolari. Per cui, se possa sembrare ingiusto qualche volta ritenere che una regola chiara e precisa o un precedente vincolino il giudice nei risultati seppure il giudice ritenga la conclusione sbagliata, il seguire una regola o un precedente che il giudice ritenga errato è ciò che il diritto si attende che i decisori facciano”. 4.1. Come funzionano le regole? Come funzionano le regole? Prendiamo il caso del cartello stradale che fa divieto di superare 80 km orari in autostrada. La regola vale sia in caso di pioggia che di bel tempo, sia per macchine di grossa cilindrata che per piccole. Lo scopo della regola è che la guida sia prudente. Ora supponiamo che ci sia una bella giornata, io non abbia mai preso multe, l’autostrada è in perfette condizioni, la mia macchina è stata appena revisionata. Decido di andare a 100km orari e vengo fermata dalla polizia. Cerco di spiegare i miei argomenti: sto guidando prudentemente, non ho mai avuto incidenti, la macchina è a posto, etc… ma tutti noi sappiamo cosa succede. Il vigile mi indica il cartello e mi dice: 80 km orari significa 80km orari e non quello che a me sembra essere una guida prudente. Dopodiché, verosimilmente, mi fa la multa. Qualche anno fa in Montana hanno eliminato i limiti orari numerici per rimpiazzarli con una norma così formulata: il limite di velocità è quello che appare più adeguato e prudente. La regola fu introdotta perché le strade del Montana sono in prevalenza deserte e piuttosto sicure. Ma quello che successe fu che cominciarono a fioccare multe che sanzionavano comportamenti del tutto disparati (in alcuni casi il limite di 55 miglia orari in altri di 75 etcc..): fino a quando la corte suprema del Montana dichiarò la legge incostituzionale perché eccessivamente vaga. Che significa decidere secondo le regole? Gli esempi sopra citati seppure banali chiariscono una prima caratteristica del decidere secondo le regole: a) Opacità: le regole il più delle volte trovano applicazione a prescindere dalla ragioni per cui sono state introdotte. Le regole hanno una qualche giustificazione: le regole sui limiti di velocità sono ad esempio dettate per evitare incidenti, e dunque per definire una condotta di guida prudente. Ma la caratteristica delle regole, e delle regole giuridiche in particolare, è che esse trovano applicazione in modo indipendente (o in una certa misura indipendente) dalle ragioni per cui sono state emanate. Un filosofo del diritto americano Joseph Raz ha enfatizzato questo concetto affermando che le regole sono content independent : e cioè, sebbene introdotte per qualche ragione, trovano applicazione indipendentemente dalla ragione per cui sono state introdotte e addirittura talvolta contro la ragione per cui sono state introdotte. Si è già fatto l’esempio del limite di velocità inappropriato alle circostanze: e tuttavia la regola si applica anche se la violazione non sia espressione di una guida poco prudente o pericolosa (ho superato 80km orari con una macchina solida e appena revisionata e quando fuori c’è una bella giornata). Vedremo più oltre che questa caratteristica trova però non poche eccezioni. b) Nucleo e penombra. Il primo presupposto perché si possa decidere secondo le regole è che le regole siano chiare: siano facilmente distinguibili. E tuttavia sappiamo che spesso il linguaggio giuridico è ambiguo. Il filosofo del diritto inglese Herbert Hart ha distinto nella regola un nucleo centrale - chiaro – ed una zona di penombra. L’esempio fattoci dal Hart è quello del divieto di veicoli nel parco. Il divieto chiaramente si applica ad automobili o a camion. Ma si applica anche alle carrozze, o alle biciclette o ai passeggini? Si applica ai pattini o alle macchinine elettriche? Ci si può chiedere se la ragione dietro la norma sia di evitare il rumore (allora le macchinine elettriche telecomandate dovrebbero essere parimenti vietate) ovvero di evitare pericolo alla circolazione (allora probabilmente anche i rollerblades dovrebbero essere vietati). Vi è in sostanza un’ambiguità nel linguaggio delle regole che renderebbe difficile l’applicazione letterale della regola. E tuttavia, questa è la tesi di Schauer, complessivamente le regole sono più chiare che ambigue. La gente sa, pressappoco, cosa è vietato e cosa è permesso. I casi che arrivano in tribunale, ovvero nei libri accademici, sono casi ambigui che tuttavia sono stati selezionati attraverso meccanismi che non rispecchiano pienamente la realtà (selection effect). Se si assumesse al contrario che il linguaggio giuridico è irrimediabilmente ambiguo e che non esistono regole prima che vengano formulate nella sentenza, allora affermare che il diritto consiste essenzialmente nel decidere secondo le regole sarebbe errato: in quanto il decidere secondo regole non avrebbe mai luogo. In sintesi, secondo Schauer: vero è che il linguaggio giuridico è ambiguo ma è anche vero che i casi semplici sono più numerosi dei casi difficili. c) Regole generali e Formalismo procedurale: una variante del decidere secondo le regole è il cd. formalismo procedurale. Le regole sono dettate per casi generali (per tutti i soggetti indistintamente o per categorie indifferenziate di soggetti e per fattispecie astratte). Questo implica che la regola molto spesso non sembra adattarsi al caso concreto. Schauer ci mostra alcuni esempi tratti dalla giurisprudenza americana (tipo il caso sopra menzionato United States v. Locke), ma i casi tratti dalla giurisprudenza italiana sono egualmente numerosi. Si pensi alla nullità del mandato di perquisizione perché l’indirizzo indicato dal mandato era lievemente diverso da quello che i poliziotti hanno effettivamente perquisito, ovvero i termini di decadenza per impugnare o i termini di prescrizione o moltissime norme procedurali. Il formalismo comunemente si accompagna all’interpretazione letterale della legge ma il formalismo non è la semplice difesa della tecnica sulla prassi, ma persegue esso stesso dei valori. Ad esempio, se io propongo ricorso il 61 gg. successivo all’ordine di demolizione della mia abitazione abusiva, non potrò far nulla per bloccare la demolizione, anche qualora l’ordine fosse affetto da qualche vizio di legittimità. Questo sembra penalizzare il cittadino. Pensate al timore con cui presentiamo qualche istanza di fronte alla p.a. e alla preoccupazione di aver dimenticato qualche adempimento formale. In questi casi il formalismo sembra penalizzarci. Eppure il formalismo ha anche dei meriti. Si pensi al formalismo nel processo penale che è posto a garanzia dell’imputato (la regola che prescrive che l’indirizzo da perquisire deve essere esattamente indicato nel mandato è posta per evitare che la polizia inquirente abbia molto margine di discrezionalità). La tesi di Schauer è che il diritto è prevalentemente formalista. E cioè le decisioni prese dal diritto sono in prevalenza formali – applicazione pedissequa delle regole anche quando tale applicazione sembra stridere col senso di giustizia. Vedremo che anche il formalismo ha estese eccezioni nel diritto. d) Interpretazione letterale o spirito della legge?. Le regole decidono per casi generali (astratti e per classi di individui indifferenziate). Non deve stupire pertanto che può accadere che la regola mal si adatta al caso concreto. Qualche anno fa fu emanata una legge negli Stati Uniti che faceva divieto di pagare il viaggio negli Stati Uniti al lavoratore immigrante che si intendeva assumere. La norma era stata introdotta per evitare che i datori di lavoro americani assumessero in massa manodopera a basso costo che avrebbero attratto pagando il viaggio. Una chiesa, la Church of the Holy Trinity assunse un pastore che proveniva da un territorio straniero e gli pagò il viaggio e fu accusata di aver violato la legge anti-immigrazione clandestina. Il pastore tuttavia era in regola con il permesso di soggiorno. La chiesa fu condannata ma si appellò alla Corte Suprema che concluse che la legge non andava applicata alla lettera in questo caso perché la legge si fondava sull’assunto che il datore di lavoro frodasse il governo facendo sbarcare negli Stati Uniti una massa cospicua di lavoratori. Non poteva dunque trovare applicazione il divieto qualora si trattasse di un solo individuo (United States v. Church of the Holy Trinity). Il modo di operare della legge per generalità è visibile nelle norme che fanno divieto di guida con il cellulare (a prescindere dal fatto se l’utilizzo altera o meno la guida) ovvero le norme sulla ricettazione che sanzionano l’attività a prescindere dal fatto che si sia o meno consapevole di acquistare una refurtiva. La tesi di Schauer è che il decidere sulla base di regole generali è tipico del diritto, sebbene anche in questo caso non manchino le eccezioni. Aristotele ad esempio era consapevole che la generalità della regola andava contemperata col ricorso all’equità. Anche a questo riguardo vedremo che il diritto funziona spesso in modo diverso dalla pura e semplice generalizzazione. In sintesi la tesi di Schauer è che il diritto è quella modalità di risoluzione del conflitto che funziona attraverso regole generali, spesso grossolane rispetto al caso concreto, le cui ragioni sono spesso opache e comunque irrilevanti per la decisione. Una modalità di risoluzione del conflitto più sbrigativa e più approssimativa di quella che si avrebbe se si valutassero tutti gli argomenti a disposizione. E tuttavia questo modo di procedere persegue i valori della prevedibilità e della certezza, che sono necessari per stabilizzare la fiducia e per ridurre l’ansia che ci accompagna da quando entriamo nella società. 5. Formalismo e conservazione: il ragionamento giuridico è essenzialmente conservatore? La tesi secondo cui il ragionamento giuridico è essenzialmente formalista si accompagna a quella secondo cui il ragionamento giuridico è essenzialmente conservatore. Questo aspetto è confermato dal frequente ricorso agli argomenti di autorità. L’autorità – di altri – risiede sia nelle regole dettate dalle leggi – oppure, specie nei sistemi giuridici anglosassoni, ma in realtà anche nei sistemi di civil law – nella giurisprudenza pregressa. In questi casi si parla di precedente giudiziario. Le regole ed il precedente hanno qualcosa in comune: sono entrambi rivolti al passato (backward looking) (Wassestrom 1961). Questa caratteristica di regole e precedenti – questo loro volgere al passato – è strettamente connessa al concetto di autorità. Sia le regole che il precedente non solo ci vincolano a guardare al passato e a risolvere la questione prescindendo dalle conseguenze migliori che la decisione avrebbe se si considerassero tutti gli argomenti. In sintesi ci inibiscono di prendere quella che per noi sarebbe la decisione migliore in assoluto (se non esistesse la regola o il precedente). Quando un tribunale segue una regola non si chiede se la regola sia giusta o sbagliata. Al contrario, le regole funzionano proprio per soppiantare le ragioni per fare qualcosa piuttosto che un’altra (Raz). I giudici che seguono una regola non guardano ai meriti del caso. I precedenti funzionano allo stesso modo. Nuovamente, il punto su cui il formalismo insiste è la presunta scissione nella persona del giudice o del giurista o del cittadino che deve ragionare secondo diritto. Facciamo qualche esempio: Negli anni ‘50 del Novecento la Corte Suprema americana affermò che la segregazione razziale nelle scuole era incostituzionale. In altri termini, i regolamenti scolastici – delle scuole bianche – che facevano divieto di ingresso ai bambini neri erano contrari al principio di eguaglianza stabilito al quinto e al quattordicesimo emendamento della Costituzione americana. Con la sentenza Brown v. Board of Education la Corte suggerì che i comuni predisponessero dei servizi di scuola bus gratuiti per facilitare lo spostamento dei bambini neri nei quartieri bianchi e porre fine alla segregazione. La sentenza suscitò enormi reazioni: sia fra razzisti, che fra liberali vecchio stampo, che fra conservatori che erano spaventati del potere della Corte Suprema, ma soprattutto nei cittadini comuni, inclusi coloro che sedevano nei consigli scolastici. In breve, furono parecchi i casi in cui le prescrizioni della sentenza furono disattese. Il presidente Eisenhower era dichiaratamente contrario alla sentenza e tuttavia mandò l’esercito nella scuola dell’Arkansas, per farne applicare il contenuto. Ancora una volta, l’idea dei formalisti è che il diritto consiste essenzialmente in una forma di coazione esterna a cui si soggiace nonostante si dissenta nel profondo. Sia le regole che i precedenti sono autoritativi nel senso che sono content independent e cioè vincolano a prescindere dalle ragioni che vi stanno dietro. Il vincolo, precisa Schauer, non è assoluto. Ma è preponderante – ha un certo peso. Questo significa che per essere superato occorre che vi sia una ragione – un peso – maggiore. La conseguenza è che la differenza fra autorità vincolanti ed autorità facoltative è solo una questione di grado. 5.1. Qual è il posto che l’argomento di autorità occupa nel ragionamento? Intuitivamente l’argomento di autorità è piuttosto blando. Anzi, l’argomento di autorità a rigor di logica è una fallacia. Nel Libro di Sofismi Bentham definisce l’argomento di autorità come un sofisma volto ad evitare che si entri nel merito della questione. Pensiamo alle discussioni sull’aborto: Tizio sostiene che la vita umana è sacra fin dal concepimento; Caio sostiene che la sacralità è connessa all’individualità (all’unicità) che quindi consentirebbe l’aborto entro i quattordici giorni dal concepimento (termine prima del quale placenta ed embrione sono indistinti); Sempronio sostiene che il diritto ad una maternità libera e responsabile è il presupposto per il benessere psichico della madre ma anche del nascituro; Y sostiene che siccome i gameti fanno parte del corpo della madre la madre ne può disporre pienamente, così come può disporre dei propri capelli o del resto del proprio corpo. Tutti questi sono argomenti sul merito. Ma mettiamo che arriva un partecipante, che dice: l’aborto è sbagliato perché la Chiesa dice che è sbagliato, perché il Papa dice che chi abortisce andrà all’inferno. Questo argomento sposta il dibattito su un terreno diverso. Anzi, evita che si discuta sul merito. Per cui Bentham definiva l’argomento di autorità un sofisma: una strategia per evitare di andare al nocciolo della questione, aggirandola. Ora, noi però sappiamo che il diritto non avrebbe senso se non ammettessimo nel ragionamento giuridico gli argomenti di autorità. Tipicamente quando il giudice decide lo fa facendo riferimento alla legge o al precedente. Facendo dunque riferimento all’autorità. L’argomento di autorità non sopprime qualsiasi decisione sul merito della questione ma costituisce, per così dire un filtro. Evita che la discussione perduri all’infinito segnando i confini oltre i quali la discussione non può andare. L’argomento di autorità non è così peregrino dal modo di ragionare comune. Spesso è utilizzato anche al di fuori del diritto. Il vincolo del precedente è osservato dai burocrati o da impiegati di vario tipo (di banca, ad esempio). L’argomento di autorità è utilizzato in famiglia: si fa così perché lo dico io, fai quello che dice la mamma, le generalizzazioni valgono in quasi tutti i ragionamenti scientifici. E tuttavia, e questa è la tesi di Schauer, il diritto utilizza più spesso queste forme che hanno una strana caratteristica: fanno sì che non venga raggiunta la migliore decisione – quella che verrebbe raggiunta se tutti gli argomenti a disposizione fossero tenuti in conto (all things considered). Secondo il formalismo, vi sarebbe dunque una differenza sostanziale fra il ragionamento morale – che mira a raggiungere il risultato migliore possibile – e il ragionamento giuridico che mira piuttosto a raggiungere la pacificazione del conflitto e che è dunque costretto da vincoli di ogni tipo (il rispetto del precedente, l’osservanza della regola, le norme procedurali, etc…). Spingendo le cose all’estremo, secondo il formalismo il ragionamento secondo diritto sarebbe spesso e volentieri un ragionamento che rimane sordo alla coscienza del giudice. *** IV FORMALISMO E GARANTISMO Un filosofo del diritto italiano, Luigi Ferrajoli, nell’opera monumentale Diritto e Ragione. Teoria del Garantismo penale, ci dà una ricostruzione teorica della teoria del diritto garantista. Dice Ferrajoli: secondo un primo significato, garantismo indica un modello normativo di diritto: E precisamente, per quanto riguarda il diritto penale, il modello di stretta legalità proprio dello stato di diritto, che sul piano epistemologico si caratterizza come un sistema cognitivo e di potere minimo, sul piano politico come una tecnica idonea a minimizzare la violenza e a massimizzare la libertà, e sul piano giuridico come un sistema di vincoli imposti alla potestà punitiva dello stato a garanzia dei diritti dei cittadini. In sostanza un diritto penale garantista è quello che assicura che l’imputato riceva le massime garanzie e che il diritto penale si solo finalizzato a prevenire che qualcuno arrechi danno ad altri. Ferrajoli asserisce che il diritto penale garantista è espressione del pensiero Illuminista – e che presuppone non solo una teoria filosofica ed etico politica, ma altresì una teoria epistemologica. Epistemologia: I diversi principi garantisti si configurano, innanzitutto, come uno schema epistemologico di identificazione della devianza penale diretto ad assicurare il massimo grado di razionalità e di attendibilità di giudizio, e quindi la limitazione della potestà punitiva e di tutela della persona contro l’arbitrio (p. 6). a) Il primo di questi elementi è il convenzionalismo penale: quale risulta dal principio di stretta legalità. Nella determinazione in astratto di ciò che è punibile. Questo principio richiede due condizioni: i) Il carattere formale legale del criterio di definizione della devianza; ii) E il carattere empirico fattuale delle ipotesi di devianza legalmente definite. La devianza punibile, secondo la prima condizione, non è quella che per caratteristiche intrinseche o ontologiche, sia volta a volta riconosciuta come immorale, o naturalmente abnorme, o socialmente dannosa o simili. Essa è bensì quella formalmente indicata dalla legge come presupposto necessario dell’applicazione di una pena, secondo la classica formula nulla poena ed nullum crimen sine lege. D’altra parte, in base alla seconda condizione, la definizione legale della devianza deve avvenire con riferimento non già a figure soggettive di status o d’autore, ma solo a figure empiriche ed oggettive di comportamento secondo l’altra classica massima nulla poena sine crimine e sine culpa. La prima condizione equivale al principio della riserva di legge in materia penale e della conseguente soggezione del giudice alla legge: in base ad essa il giudice non può qualificare come reati tutti (o solo) i fenomeni da lui reputati immorali o comunque meritevoli di sanzione, ma solo ( e tutti) quelli che, indipendentemente dalle sue valutazioni, sono formalmente nominati dalla legge come presupposti di una pena. La seconda condizione comporta per di più il carattere assoluto della riserva di legge penale, in forza del quale la soggezione del giudice è soltanto alla legge: solo se dotate di precisi riferimenti empirici e fattuali le definizioni legali delle ipotesi di devianza sono infatti in grado di determinare in maniera tendenzialmente esclusiva ed esaustiva il loro campo di applicazione. Dice Ferrajoli: “Chiamerò principio di mera legalità la riserva di legge, che è una norma rivolta ai giudici cui prescrive l’applicazione delle leggi comunque formulata; ed userò l’espressione di stretta legalità per designare la riserva assoluta di legge, che è una norma rivolta al legislatore cui prescrive la tassatività e la determinatezza empirica delle formulazioni legali. Il principio di stretta legalità si propone pertanto come una specifica tecnica legislativa diretta a precludere, in quanto arbitrarie e discriminatorie, le convenzioni penali non riferite a fatti ma direttamente a persone e quindi aventi carattere costitutivo e non regolativo di ciò che è punibile: come le norme che perseguitavano le streghe, gli eretici, gli ebrei, i sovversivi o nemici del popolo; oppure quelle esistenti nel nostro ordinamento contro i vagabondi, i proclivi a delinquere, i dediti ai traffici illeciti, i socialmente pericolosi, e simili. Il principio di stretta legalità non ammette norme costitutive ma solo norme regolative della devianza punibile: non quindi norme che creano o costituiscono ipso iure le situazioni di devianza senza prescrivere alcunché, ma solo regole di comportamento che istituiscono un divieto, cioè una modalità deontica il cui argomento non può che essere un’azione, di cui si aleticamente possibile sia l’omissione come la commissione, l’una esigibile, l’altra non necessitata e perciò imputabile alla colpa o responsabilità del suo autore. Il senso e la portata garantista del convenzionalismo penale risiede precisamente in questa concezione al tempo stesso nominalista ed empirista della devianza punibile, che rimanda alle sole azioni tassativamente denotate dalla legge escludendone ogni configurazione ontologica o comunque extra legale. Auctoritas non veritas facit legem, è la massima che esprime questo fondamento convenzionalistico del diritto penale moderno che è altresì costitutivo del positivismo giuridico. Non è la verità, né la giustizia, né la morale, né la natura, ma solo ciò che dice autoritativamente la legge che conferisce ad un fenomeno rilevanza penale. E la legge non può qualificare come penalmente rilevante qualunque ipotesi indeterminata di devianza, ma solo comportamenti empirici determinati, come tali esattamente identificabili e insieme ascrivibili alla colpevolezza di un soggetto. A questa concezione si collegano due fondamentali acquisizioni della teoria classica del diritto penale e della civiltà giuridica liberale. La prima è la garanzia per i cittadini di una sfera intangibile di libertà, assicurata dal fatto che essendo punibile solo ciò che è proibito dalla legge, tutto ciò che la legge non proibisce non è punibile, ma libero e permesso. La seconda è l’eguaglianza giuridica dei cittadini di fronte alla legge: i fatti commessi sono descritti a prescindere dal tipo cui appartiene colui che ha commesso il fatto. b) Cognitivismo processuale e stretta giurisdizionalità: Il cognitivismo processuale attiene alla fase di accertamento della devianza. Esso è assicurato, dice Ferrajoli, dal principio di stretta giurisdizionalità che a sua volta richiede due condizioni: i) La verificabilità o falsificabilità delle ipotesi accusatorie in forza del loro carattere assertivo ii) La loro prova empirica in forza di procedure che ne consentano sia la verificazione che la confutazione. I due principi vengono espressi nei due brocardi latini: nulla poena et nulla culpa sine iudicio; nullum iudicium sine probatione. Ne risulta un modello teorico e normativo di processo penale come processo di cognizione o di accertamento, ove la rilevazione del fatto configurato dalla legge come reato ha il carattere di procedimento di tipo induttivo, che esclude quanto più è possibile valutazioni ed ammette solo, prevalentemente, asserzione o negazioni di cui siano predicabili la verità o la falsità processuale. Se al livello legislativo vale la massima: auctoritas non veritas facit legem; a livello giurisdizionale vale la massima inversa: veritas non auctoritas facit iudicium. Questo tipo di epistemologia si fonda su due presupposti: innanzitutto che uno dei fondamentali valori della teoria penale garantista è la certezza nella determinazione della devianza punibile. Questo significa che la devianza non può essere affidata a determinazioni post factum ma esclusivamente alla tassativa formulazione legale e giudiziaria di fattispecie generali ed astratte. In secondo luogo la separazione fra diritto e morale e per altro verso fra diritto e natura. E’ solo per convenzione giuridica, e non per intrinseca immoralità o anormalità, che un determinato comportamento costituisce reato; e non è un giudizio morale, né una diagnosi sulla natura abnorme o patologica del reo, la condanna di chi ne è provato responsabile. Ne risulta anche esclusa ogni funzione etico-pedagogica della pena, concepita come afflizione tassativamente ed astrattamente prestabilita dalla legge, che non è consentito alterare con trattamenti differenziati di tipo terapeutico o correzionale. Ferrajoli riconosce che il modello epistemologico sopra tracciato è un modello limite, in quanto il potere giudiziario di compone di quattro tipi (potere di denotazione: interpretazione o verificazione giuridica; potere di accertamento probatorio: di verificazione fattuale ; potere di connotazione: o di comprensione equitativa; potere di disposizione: o di valutazione etico-politica). E tuttavia, asserisce Ferrajoli, il modello garantista è quello a cui approssimarsi. Ferrajoli descrive modelli epistemologici opposti a quello garantista: il modello inquisitorio; il modello sostanzialistico, il modello cognitivista etico, etc… E’ interessante notare quale sia l’opinione di Ferrajoli sul rapporto fra verità formale e verità processuale. Ferrajoli prospetta quello che, a suo dire, può sembrare un paradosso (p. 17): se nella concezione giusnaturalista il diritto coincide con la ragione – veritas non auctoritas facit legem – il risultato è che a livello giurisdizionale deve essere lasciata un’ampia discrezionalità: cosicché la verità processuale è carpita dalla massima opposta: auctoritas non veritas facit iudicium. Al contrario nella concezione giuspositivista dove vige un rigoroso convenzionalismo, ma dove anche la giurisdizione deve essere concepita come attività cognitiva e non decisionale, allora vigono le massime opposte. Per la legge vale il principio, auctoritas non veritas facit legem, ma per la giurisdizione vale il principio opposto: veritas non auctoritas facit iudicium. Il problema della verità processuale (p. 18) Il giudizio penale come ogni attività giudiziaria è un sapere potere: cioè una combinazione di conoscenza (veritas) e decisione (auctoritas). Quanto maggiore in tale intreccio è il sapere, tanto minore il potere e viceversa. Fu merito dell’Illuminismo l’aver messo in relazione: a) Garantismo; b) Convenzionalismo legale; c) Cognitivismo giurisdizionale Da un lato e dall’altro: dispotismo, sostanzialismo extra-legale e decisionismo. In sintesi: garanzie di libertà e garanzie di verità vanno di pari passo. La concezione semantica della verità processuale come corrispondenza. Verità fattuale e verità giuridica (p. 20). La tesi di Ferrajoli è che la verità processuale (specie in materia penale) poggia su una concezione semantica della verità come corrispondenza. In altri termini, la proposizione: “Tizio ha (non ha) colpevolmente commesso il tale fatto denotato dalla legge come reato” è predicabile nei termini di vero o falso. Questa proposizione può poi essere scomposta in due proposizioni (o giudizi): l’una fattuale o di fatto; l’altra giuridica o di diritto. La prima è che Tizio ha colpevolmente commesso il tale fatto (ad esempio, ha colpevolmente cagionato a Caio una ferita guaribile in due mesi); la seconda è che “il tale fatto è denotato dalla legge come reato” (secondo il nostro codice penale, lesioni gravi). Entrambe queste proposizioni si diranno assertive o empiriche o cognitive nel senso che ne è predicabile la verità o la falsità (ovvero sono verificabili o falsificabili) sulla base dell’indagine empirica. Precisamente, la verità della prima è una verità fattuale, in quanto sia accertabile tramite la prova dell’accadimento del fatto e della sua imputazione al soggetto incriminato; la verità della seconda è una verità giuridica in quanto sia accertabile tramite l’interpretazione del significato degli enunciati normativi che qualificano il fatto come reato. I dieci assiomi del diritto penale garantista: Nulla poena sine crimine Nullum crimen sine lege Nulla lex (poenalis) sine necessitate Nulla iniuria sine actione Nulla actio sine culpa Nullum iudicium sine accusatione Nulla accusatio sine probatione Nulla probatio sine defensione Principio di retributività o della consequenzialità della pena al reato; principio di legalità in senso lato o in senso stretto; principio di necessità o di economia del diritto penale; principio di offensività o della lesività dell’evento; principio di materialità o dell’esteriorità dell’azione; principio di colpevolezza o della responsabilità personale; principio di giurisdizionalità anch’esso in senso lato ed in senso stretto; principio accusatorio o di separazione fra giudice e accusa; principio dell’onere della prova o di verificazione; principio del contraddittorio, o della difesa, o di falsificazione. Quali sono i poteri del giudice? Ferrajoli distingue quattro dimensioni del potere giudiziario. Muovendo dal presupposto che il giudice non è una macchina a gettoni e che l’idea del sillogismo giudiziario perfetto corrisponde ad un’illusione metafisica (p. 10), F. riconosce che esistono nell’ambito dell’attività giudiziaria degli spazi di potere insopprimibili: il potere di denotazione: o di interpretazione o di verificazione giuridica il potere di accertamento probatorio o di verificazione fattuale il potere di connotazione o di comprensione equitativa il potere di disposizione o di valutazione etico-politica FORMALISMO: luci e ombre Nonostante il formalismo si presenti come quella teoria che bada alla forma più che alla sostanza e che specialmente fotografa il giudice e il giurista nell’atto di prendere le distanze da se stesso per pronunciarsi secondo diritto, esso tuttavia tradisce precise opzioni valoriali. Alcune di queste non sono biasimabili. 1. Formalismo e rule of law (e stato di diritto) Si è prima menzionato che il formalismo sembra essere in sintonia con l’idea del governo della legge sul governo degli uomini. Perché? Il formalismo in estrema sintesi pone l’accento sull’aspetto eteronomo del diritto. In altri termini, il formalismo insiste nell’affermare che il giudice che applica il diritto sta decidendo il caso secondo una regola fissata da altri. Che la regola preceda il giudizio è una delle ambizioni dello stato di diritto. Se governo del diritto significa soggezione del potere pubblico (e privato entro certi limiti) alle regole di diritto, allora il giudice che decide secondo diritto – anziché – secondo coscienza è il giudice che osserva il principio imposto dalla rule of law. L’alternativa sarebbe un giudice che crea diritto ad ogni caso concreto: ma questo trasformerebbe il governo del diritto in governo degli uomini. Questa seconda opzione esporrebbe le parti all’arbitrio del giudice e, nel migliore dei casi, all’incertezza. Pensiamo a cosa succederebbe se non ci fossero regole in materia di contratto e inadempimento. Tizio presta qualcosa a Caio gratuitamente fino al giorno X. Al giorno convenuto Caio si rifiuta di restituire la cosa a Tizio perché asserisce di essersi abituato ad utilizzarla e che non la ritiene sua, di proprietà. Le parti comincerebbero a litigare e magari deciderebbero di adire un giudice. Il giudice dovrebbe decidere secondo saggezza. Non ci sono regole generali. Non esiste la regola generale di restituire l’oggetto ricevuto in prestito. Anzi lo stesso concetto di prestito non avrebbe senso. Il giudice potrebbe dire che Caio gli è simpatico e decidere in suo favore. Oppure dire che Tizio era colui che aveva posseduto il bene e che ha diritto alla restituzione, ovvero potrebbe dire che sebbene riconosca che Tizio era il proprietario del bene, dal momento che Tizio è piuttosto benestante e Caio ha una vita molto più grama la cosa andrebbe lasciata a Caio. Cosa costa a Tizio rinunciare ad un oggetto che può facilmente sostituire comprandone un altro? Per Caio la situazione sarebbe molto più dolorosa. Governo del diritto – o stato di diritto – : in un’accezione minima significa che la regola preesiste al conflitto, così che il conflitto possa essere risolto attraverso la regola e non attraverso una decisione arbitraria (sia pure saggia) del giudice chiamato a dirimere la controversia. In questo senso il formalismo coglie nel segno: se l’essenza del ragionamento giuridico è la decisione secondo diritto anziché secondo coscienza allora il formalismo è un’ottima sponda del concetto di rule of law. Seguire una regola è meglio dell’incertezza per almeno due motivi: a) Primo, perché riduce l’ansia e consente le comunicazioni umane (presterei qualcosa a qualcuno se non sapessi a cosa potrebbe succedermi?) b) Secondo, perché diffonde un certo senso di equità: la decisione secondo le regole è una decisione che prescinde dalle caratteristiche personali delle parti. Di fronte alla regola, le parti sono uguali. Un esempio, può chiarire meglio questo concetto. Sono genitore è ho dato al mio primo figlio il permesso di ritornare dopo le 9 di sera al compimento del 14mo anno di età. Il mio primo figlio è un ragazzino accorto, attento, timido e per la verità non esce quasi mai e rientra quasi sempre prima delle 9. Il mio secondo figlio – tipo molto più estroverso al limite dell’incoscienza e più ribelle – compie 14 anni e viene a “riscuotere” il suo permesso. Gli obietto che le situazioni sono diverse, ma lui non vuole sentire ragione. La regola che vale per il primo deve valere anche per il secondo. Io, genitore, capitolo: non perché ritenga che la regola sia giusta – anzi per il secondo figlio è sbagliatissima – ma perché il governo secondo regole (e non caso per caso) risponde al desiderio comprensibile dei miei figli di essere trattati in modo uguale. c) Terzo: perché mantiene la misura della sanzione sempre costante. Senza oscillazioni verso il basso ma neppure verso l’alto. Si pensi all’esempio di Schauer sulla modifica del codice stradale in Montana. d) Quarto: perché sgonfia le questioni. Il diritto, infatti, da un lato offre lo strumento per far vivere il conflitto (anche in modo teatrale), dall’altro però in qualche misura lo sgonfia. Io so che è stata promossa un’azione contro di me sulla base di una regola giuridica e non per un difetto relativo alla mia persona. Le cose, però, non sono semplici come appaiono. Due sono almeno i problemi che si possono porre: a) Il primo attiene alla possibilità che la regola da applicare non sia chiara (o perché la formulazione della regola è espressa in un linguaggio ambiguo ovvero perché il caso nuovo non è esattamente identico a quello precedente) b) La seconda attiene invece alla circostanza che la regola sia ingiusta o porti a risultati palesemente errati se applicata al secondo caso. Per entrambe le questioni, il formalismo non dà risposte adeguate. 2. Formalismo e opacità del diritto Il formalismo esonera l’interprete da un giudizio profondo sulla questione. Chi giudica secondo diritto – secondo i formalisti – non esprime giudizi morali. Anzi, ed è questa la tesi dei formalisti radicali, non di frequente, giudica contro i propri giudizi morali. Si è visto che secondo i formalisti il ragionamento in base a regole esonera l’interprete da un giudizio sulle ragioni che stanno dietro le regole. Quante volte sentiamo giudici e giuristi affermare: io non sono un moralista, sto solo dicendo cosa stabilisce il diritto nel caso concreto. Il rapporto fra opacità del diritto e formalismo è stato brillantemente descritto da un filosofo del diritto italiano che ha in profondità illustrato la cd. teoria del garantismo giuridico (Luigi Ferrajoli). La tesi di Ferrajoli è che a partire dall’illuminismo cambia l’idea del diritto: cambiamento che corrisponde all’affermazione sia a livello teorico che a livello normativo assiologico della separazione fra diritto e morale. Il diritto penale garantista (ma principi simili possono estendersi anche ad altri rami del diritto) si contraddistingue per un diritto improntato, fra le altre cose, ai principi del convenzionalismo (nullum crimen sine lege); del cognitivismo (nulla poena sine iudicio); della stretta legalità (una legge può prevedere un fatto come reato nella misura in cui descriva il fatto nei termini di condotta esteriore – cd. materialità - ; nella misura in cui la condotta sia lesiva di un bene giuridico – (cd. offensività - ) e di stretta giurisdizionalità (il fatto deve essere accertato da un giudice terzo, imparziale; grava sull’accusa l’onere della prova; il diritto di difesa è inviolabile). In altri termini, la teoria del garantismo penale di Ferrajoli condivide con il formalismo di cui abbiamo discusso in precedenza parecchie aspirazioni: a) l’aspirazione a che il legislatore definisca la condotta criminosa sottostando a vincoli di vario tipo (stretta legalità): la fattispecie di reato deve consistere in un fatto – in una condotta esteriore – che abbia effetti lesivi nei confronti di beni giuridici altrui e che sia imputabile all’autore in ragione di criteri di colpevolezza. In altri termini, il legislatore non può punire l’indole di un individuo o una categoria di individui (principio della materialità) né tanto meno intenzioni che non si sostanziano in condotte esteriori. Il legislatore non può poi sanzionare una condotta che non produca alcun danno (principio di offensività: ad esempio, l’eresia, o il reato di sodomia o il divieto di utilizzo di anticoncezionali, il reato di omosessualità, etc…). b) l’aspirazione a che giudice si limiti a ricostruire i fatti con un metodo quanto più possibile accurato senza che sia chiamato a pronunciarsi su elementi ambigui che lascino un margine a forte discrezionalità. Questo presuppone che la fattispecie di reato sia descritta in termini fattuali e più precisamente nei termini di una condotta esteriore: con la conseguenza che i reati che si fondano sulla personalità del presunto colpevole anziché sulla condotta offensiva (pensiamo al reato di “essere nemico del popolo” previsto dal codice penale sovietico, o a condotte antiamericane, diffuso in America durante il maccartismo) non sono conformi all’impianto garantista; (la stretta giurisdizionalità presuppone un elevato grado di cognitivismo giudiziario). c) l’aspirazione alla neutralità del giudizio. L’idea di fondo è che il giudizio del giudice deve per quanto possibile avvicinarsi a quello di uno scienziato (pur rimanendo differenze invalicabili) in modo tale che il giudizio non si sostanzi in un’accusa nei confronti della persona dell’imputato ma abbia ad oggetto esclusivamente fatti, condotte esteriori. Questa idea ci solletica: pensiamo a quante volte preferiremmo essere criticati per quello che facciamo anziché per quello che siamo. La condanna dei fatti è molto meno vischiosa della condanna della personalità. In secondo luogo, da un’accusa sui fatti ci si può difendere, ma come difendersi da un’accusa sulla personalità? Leggiamo questo passo tratto da un romanzo di Vasilij Grossman uno scrittore russo detenuto per qualche tempo in un gulag. Si sta parlando dei prigionieri del gulag: “Ben di rado gli era successo di incontrare nei lager gente che si fosse effettivamente battuta contro il potere sovietico. Ex ufficiali zaristi erano finiti nei lager non per aver messo su un’organizzazione monarchica, ma solo in previsione del fatto che avrebbero potuto farlo. Nei lager scontavano la loro pena socialdemocratici e socialisti rivoluzionari. Molti erano stati arrestati nel momento in cui – da quei piccoli borghesi che erano – si erano mostrati lealisti e politicamente inattivi. Li avevano messi dentro non perché si erano battuti contro lo Stato sovietico, ma solo perché v’era la possibilità che lo facessero. Contadini venivano spediti nei lager non perché si battevano contro i kolchoz. Ci mandavano quelli che in determinate condizioni, avrebbero potuto opporsi ai kolchoz. [….]. Il terrore era rivolto non contro i criminali, ma contro coloro che, secondo gli organi repressivi, avevano una probabilità solo un poco maggiore di diventarlo”13. Nel brano viene descritta una macchina giuridica vischiosa e pervasiva. Il terrore non colpisce fatti, ma personalità: non sanziona i reati, ma punisce una presunta predisposizione a commettere reati contro lo Stato. Questa situazione si ripercuote sulla la psicologia della vittima del terrore che perde il senso del giusto e dell’ingiusto. Perde la capacità di giudicare la colpevolezza propria o altrui. “Ma lo straordinario era che la gente condannata per una causa, per aver effettivamente lottato contro lo Stato sovietico, riteneva che tutti gli zek, i detenuti politici, fossero innocenti, tutti senza esclusione meritevoli di essere rimessi in libertà. Chi invece era detenuto per colpe fasulle, per cose inventate, montate – e ce n’erano milioni – tendeva ad amnistiare solo se stesso e si sforzava di dimostrare l’effettiva colpevolezza di spie, kulaki, parassiti, come lui accusati senza ragione, giustificando la crudeltà dello Stato”14. Ci sono tanti altri meriti del formalismo: per esempio, le norme in materia di prescrizione, di improcedibilità del giudizio, di inammissibilità, di decadenza, se da un lato sembrano infastidirci per l’ampia divaricazione fra decisione giusta e decisione secondo diritto (pensiamo a quando proponiamo ricorso fuori termine per un giorno o due), dall’altro però perseguono l’encomiabile obiettivo di ridurre il tasso di litigiosità di una società. L’opacità del diritto su cui il formalismo insiste ha indubbi meriti. Ma anche in questo caso abbiamo parecchie ombre. Il primo dubbio è di natura teorica, il secondo è di tipo ideologico. 13 14 V. Grossman, Tutto scorre, Adelphi, 2005, pp. 102-103. Ibidem, p. 103. Da un punto di vista teorico: Ci si può chiedere se da un punto di vista teorico sia possibile creare una cesura netta fra fatti e intenzioni. Il diritto ha ad oggetto i comportamenti umani dove la linea di confine fra condotte esteriori, intenzioni, inclinazioni è piuttosto vaga. Si aggiunga che il diritto – anche in un’impalcatura garantista – ritiene rilevante la colpevolezza dell’autore della condotta. Per cui una valutazione sull’elemento psicologico del reato – o sulle intenzioni delle parti di un contratto – è imprescindibile. E’ veramente possibile ridurre la valutazione di un omicidio o di un furto o di uno stupro al semplice accertamento di fatti? Da un punto di vista normativo o assiologico: Ci si può chiedere se sia il formalismo a garantire un certo grado di libertà dell’individuo ovvero non siano i valori a cui il formalismo di norma si ispira che perseguono questo obiettivo. In altri termini, forse è meglio rendere espliciti i presupposti morali di alcune strutture formali del diritto. L’idea che è la condotta esteriore che va sanzionata e non l’intenzione malvagia non è semplicemente il risultato di un’impostazione formalista – sebbene si accompagni di regola a quest’ultima – ma è piuttosto il corollario (già intuito da Kant che di certo non può definirsi formalista) di un sistema giuridico che fa della libertà uno dei principali valori da difendere. 3. Formalismo e scissione Uno dei principi a cui il formalismo si lega è quello della neutralità dell’organo giudicante. Questo tipo di neutralità è più radicale dell’imparzialità di cui si discuteva nel pensiero giuridico greco, romano e medioevale e che è transitata nel pensiero giuridico moderno attraverso le opere di Lord Coke. La natura della neutralità dell’organo giudicante ci è descritta da Hobbes il quale spiega che il buon giudice è colui che: a) Disprezza le ricchezze non necessarie e le promozioni; b) Possiede la capacità nel giudicare di deporre passioni come rabbia, compassione e amore; c) Possiede pazienza ed attenzione nell’ascoltare, memoria nel trattenere, assimilare ed utilizzare quello che si è ascoltato. La neutralità è la capacità del giudice di prendere le distanze dalle proprie opinioni più profonde. Non si tratta soltanto di una posizione di equidistanza dalle parti, ma di reale distanza anche dalla controversia. Ad esempio, il giudice nel nostro ordinamento non può utilizzare la propria scienza privata (e cioè le conoscenze che ha del caso per altre vie, magari per averle lette sui giornali) nel giudizio, ma deve necessariamente arrivare alla conclusione sulla base dei fatti che vengono ricostruiti durante il processo (attraverso le prove). Il diritto prevede molte misure a garanzia dell’imparzialità e della neutralità del giudizio. Ad esempio il giudice che si trovi in una posizione di contiguità con una delle parti (è parente, amico, etc..) deve astenersi, mentre qualora una parte sospetti una certa vicinanza ovvero pregiudizi o opinioni preconcette può anche ricusare il giudice adito. Proprio in ragione della neutralità si spiega il principio del giudice naturale precostituito per legge, previsto dall’art. 25 della nostra Costituzione. Il processo si svolge di fronte al giudice naturale: il quale è un giudice competente in ragione di criteri prestabiliti dalla legge. Non possono essere stabiliti, dice la Costituzione, tribunali speciali, creati ad hoc. Questo impianto si spiega proprio sulla base del timore che il giudice sia colluso con la politica – magari col regime, ma anche col timore che le parti siano esposte all’arbitrio dell’ordinamento qualora dovesse sorgere un conflitto. Cosa succederebbe se dopo che il fatto si è verificato (ad esempio un furto), venisse creato un tribunale speciale incaricato di giudicare solo dei furti? La cosa sarebbe ancora più grave se venissero istituiti tribunali speciali ad esempio per reati politici, o reati d’opinione. In altri termini, l’imparzialità, la neutralità sono garantiti da parecchie misure giuridiche che si trovano nella nostra Costituzione o nei nostri codici di procedura ovvero nelle altre leggi. Tuttavia non si deve commettere l’errore di sopravvalutare la neutralità. Ancora una volta si pongono due obiezioni: la prima teorica e la seconda normativa. Da un punto di vista teorico ci si può chiedere: E’ veramente possibile nel giudizio prescindere dalle proprie convinzioni etiche più profonde? E’ veramente possibile prescindere da opinioni sul fatto o magari conoscenze acquisite per altre vie? E, ammesso che sia possibile, il giudizio che prescinde da valori, emozioni, sentimenti (ivi incluso il sentimento di giustizia) è veramente superiore a quello che invece ammette elementi spuri nella valutazione dei fatti di causa? 4. Formalismo e legalismo Si è detto che il formalismo risponde all’esigenza meritoria di tracciare una linea di confine fra diritto e morale, fra valutazione secondo regole generali (dettate sulla base di criteri condivisi e discussi) e giudizi estemporanei dettati da saggezza ma spesso arbitrio dei giudici. Tuttavia, sebbene il formalismo si fondi su una divaricazione – psicologica ancor prima che morale – fra opinioni profonde del giudice e giudizio meccanizzato – può trasformarsi in modo grottesco nel suo esatto opposto. Abbiamo detto che l’atteggiamento psicologico che sta dietro al formalismo si esprime in formule piuttosto semplici: “io non valuto la questione dal punto di vista morale, sto solo applicando il diritto”. “Io non esprimo giudizi sulla persona dell’imputato, mi limito ad applicare la legge”. Queste frasi spesso esprimono lo sforzo genuino di giudici e giuristi di sottomettersi al vincolo di legge mettendo a freno i naturali impulsi (inclusi gli impulsi morali) che si attivano allorquando si esprime un giudizio (pensiamo al giudice chiamato a giudicare di un crimine efferato compiuto a danno di un minore). La scissione giurista / uomo però può (ma non per questo deve necessariamente) avere due esisti piuttosto sgradevoli se non addirittura nocivi: Il primo è l’ottusità del giudizio, il secondo è il legalismo. Ottusità del giudizio: si è visto che l’impalcatura teorica del formalismo (almeno nella sua versione radicale) è compatibile con l’idea di un giudizio di tipo meccanizzato, dove l’uomo giudice – con le sue emozioni, passioni, prese di posizione morali – sia messo a tacere. Ora, la reiterata soppressione del punto di vista morale di fronte a quello giuridico può degenerare in un’atrofia del giudizio morale. L’uomo macchina applica il diritto con massima neutralità, con estrema fedeltà ai principi formali prima illustrati. Ma che tipo di decisioni vengono fuori? Questo stato di cose viene descritto da Charles Dickens: Tom Gradgrind – inflessibile padre di famiglia – esprime il possibile sviluppo grottesco di una conoscenza che si fondi solo sui fatti ed espunga qualsiasi altro elemento di valutazione. “Ora, quel che voglio sono Fatti. Solo Fatti dovete insegnare a questi ragazzi”. Un giorno, il sig. Gradgrind sentendo la figlia sospirare: “A volte immagino…”, la interruppe dicendo: “Louisa, mai immaginare!”. “Qui stava, appunto, la molla segreta del misterioso meccanismo con cui educare la ragione senza piegarsi a coltivare sentimenti e affetti. Mai usare l’immaginazione! Sistemare tutto in qualche modo, ricorrendo ad addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, ma senza mai usare l’immaginazione”15. C’è un’ampia letteratura psichiatrica sugli enormi disturbi della personalità che colpiscono zone del cervello che controllano gli effetti e le emozioni. Quello che viene fuori da questi studi è che le azioni (e dunque anche le decisioni) di chi non prova nulla, manca di empatia, non si lascia coinvolgere, sono quasi sempre sconnesse, sbagliate, da un punto di vista morale. Ora, se ritorniamo al nostro tema, si può seriamente dubitare che una decisione giuridica – che comunque comporta il più delle volte una distribuzione di responsabilità - possa essere presa attraverso un giudizio che atrofizzi gli aspetti affettivi. Legalismo: (Judith Shklar) In un saggio del 1964 Judith Shklar definì il legalismo come quell’atteggiamento mentale, molto diffuso fra i giuristi, che ritiene che il diritto sia lì fuori e cioè dato una volta e per 15 C. Dickens, Tempi difficili, Einaudi, 1999, p. 62. tutte e precostituito rispetto al giudizio. A dire di Judith Shkalr sia le teorie giuspositiviste che le teorie giusnaturaliste possono essere tacciate di legalismo nella misura in cui assumono un diritto preesistente al giudizio e che funziona con una modalità radicalmente eteronoma. Noi daremo una definizione più circoscritta di legalismo. Il legalismo è quel fenomeno che si verifica quando – a seguito dell’atrofia del giudizio morale (dovuto a varie cause, ma soprattutto alla rinuncia a formulare tesi personali per conformismo o per paura di esporsi o per reale profondo cinismo) – il giudizio secondo diritto soppianta il giudizio morale e si sostituisce totalmente a quello. Il diritto, la legge diventano regole morali. Di solito il legalismo viene associato alla fede nel potere, nello Stato (si pensi al fascismo, al nazismo, etc…), ma, a mio avviso, succede qualcosa di diverso. Il regime totalitario uccide il giudizio morale: è solo allora che il diritto prende piede, perché riempie un vuoto. Il legalismo consiste nell’attribuire colpe e responsabilità con un rinnovato moralismo: non il moralismo di chi dissente dalla legge, ma il moralismo piatto di chi ha abiurato alla propria coscienza in favore della coscienza collettiva o dello Stato o del diritto. Ancora una volta, il formalismo sembra contenere questo rischio: se il formalismo presuppone la soppressione del giudizio morale di fronte al giudizio giuridico, non può capitare che il giudizio morale gradualmente si atrofizzi e quello giuridico ne prenda il posto? Quante volte ci troviamo di fronte ad individui che si scandalizzano per crimini – privi di reale offensività – solo perché si tratta della trasgressione di una legge. Il legalismo è il lato oscuro dei principi – per altro verso sacrosanti – di legalità, stato di diritto, rule of law. Bobbio qualifica la fede nella legge dello stato con l’espressione positivismo ideologico. In realtà il legalismo è un fenomeno leggermente diverso perché prescinde dal rispetto nei confronti del potere politico che ha emanato la legge. In realtà il legalismo è più il risultato di ottusità che di fede (più o meno inconsapevole): e’ legalista colui che prendendo talmente sul serio il proprio posto nella società (giudice, cittadino coscienzioso che sporge denuncia, condomino attento al rispetto delle regole condominiali) finisce per non interrogarsi più sulle ragioni dietro alle regole. Sicché mentre il giuspositivismo ideologico assume una fede nel potere politico (la legge è giusta perché espressione della volontà statale), il legalismo è la cieca fiducia nella legge anche contro il potere dello stato. Il legalismo, infatti, presuppone una certa autonomia del diritto dalla politica. E questo spiega perché i regimi più tirannici, quelli totalitari, volevano sbarazzarsi del ceto dei giuristi: in quanto i giuristi erano visti come concorrenti. Hitler, ad esempio, proclama che uno dei suoi primi obiettivi è quello di sbarazzarsi degli avvocati – e poi del diritto nel suo insieme. E posizione abbastanza simile è quella del regime sovietico in cui il diritto è espressione della classe borghese e per questo da sradicare. V REALISMO GIURIDICO La tesi realista contesta i presupposti formalisti della sostanziale capacità direzionale del diritto. I realisti al contrario segnalano che le decisioni giudiziarie sono il risultato di fattori extra legali spesso imponderabili, dalla personalità di chi giudica, alla affiliazione politica, all’ideologia, alla simpatia nei confronti delle parti, alle conoscenze di fondo (non solo giuridiche). I realisti segnalano che spesso la decisione è frutto di fattori inconsci: vi è un hunch (Hutcheson), un’intuizione sulla conclusione del caso, mentre la forma giuridica è tipicamente un rivestimento ex post. Non sono dunque le regole che indicano la soluzione giusta ma piuttosto l’intuizione inconscia. Le regole non sono nient’altro che una forma di razionalizzazione (Schauer segnala che tuttavia l’intuizione – e ciò il giudizio irriflesso – può essere l’effetto dell’interiorizzazione delle regole, sicché l’hunch non è necessariamente escludente della tesi formalista). Alcune delle tesi dei realisti sembrano trovare conferma in recenti teorie neuro scientifiche che affermano che le nostre azioni non sono il risultato di ragioni ponderate, ma di fattori chimici e che di norma precedono il momento giustificativo. Ad esempio, un neuro scienziato americano – di origine italiana – Michael Gazzaniga – ci descrive il comportamento di pazienti ipnotici. Se l’ipnotizzatore dice intima al paziente di chiudere la finestra, il paziente sotto ipnosi si alza e chiude la finestra e poi aggiunge “ho freddo”. Ma si sa che la giustificazione addotta per l’azione (l’avere freddo) è solo una giustificazione fasulla – ex post. L’azione del chiudere la finestra è stata compiuta perché l’ipnotizzatore ha intimato al paziente di agire e l’ipnosi funziona come una suggestione profonda. Questa non è la sede di testare la forza scientifica di queste teorie, tuttavia, è evidente che queste tesi sovvertono un sentimento che ogni essere umano – almeno di tanto in tanto – sperimenta: e cioè il senso di libertà, di padronanza delle proprie azioni. Si può semplicemente affermare che si tratti di mere illusioni? Il realismo giuridico americano si comincia a diffondere alla fine dell’Ottocento: Ai giuristi realisti interessa il diritto nella sua componente fattuale: come al realismo politico non interessano i governi quali dovrebbero essere, ma quali sono, così al realismo giuridico non interessano le norme come dovrebbero essere, ma come sono. Ciò, in concreto, significa studiare l’efficacia delle norme: e parlare di efficacia vuol dire porre l’accento su un aspetto esterno del fenomeno giuridico, ossia sul fatto che ci siano la regolarità dell’osservanza delle norme e la sanzione dell’inosservanza. Così, una norma può essere molto efficace in quanto molto osservata, a tal punto che non è necessario che l’inosservanza venga sanzionata: ma possono esserci norme poco osservate proprio perché manca la sanzione. Un caso paradigmatico di bassa efficacia della norma è stato quello del “finanziamento ai partiti” nell’Italia degli anni ’80, a causa della mancanza della sanzione concreta: quando si risvegliò l’attenzione della magistratura e la punizione divenne attiva, ecco allora che la norma diventò immediatamente efficace. Oltre all’aspetto “esterno” dell’efficacia, coincidente con l’osservanza della norma, v’è un aspetto “interno”: esso riguarda la motivazione all’osservanza, ossia che cosa concretamente spinga un soggetto a rispettare la norma e che cosa spinga un giudice a far sanzionare l’inosservanza della medesima. Questo aspetto è stato largamente affrontato sul finire dell’Ottocento, anche grazie all’introduzione del concetto di riconoscimento: è stato detto che la motivazione all’osservanza della norma è stato infatti individuato in un processo di riconoscimento (o interiorizzazione) della norma stessa. Il realismo giuridico (“Legal realism”) si sviluppa eminentemente in area americana già a partire dalla fine dell’Ottocento: in particolare, un riferimento imprescindibile è Roscoe Pound (1870-1964), benché egli non impieghi ancora l’espressione “realismo giuridico”. Egli distingue tra “law in action” e “law in books”: la prima corrisponde al diritto in azione, ossia al diritto come fatto, contrapposto a quello astratto delle dotte trattazioni (appunto, il diritto nei libri, “law in books”). Pound articola bene un fenomeno americano assai diffuso a quel tempo: la “rivolta” contro il formalismo giuspositivistico, rivolta che negli Stati Uniti trova un ambiente particolarmente accogliente anche grazie al “pragmatismo” di James e di Dewey. Ma Pound non può ancora definirsi un realista in senso stretto. Roscoe Pound Opere: Justice according to law - 1914; The Spirit of the Common Law, 1921; Introduction to the philosophy of law 1922; Uno dei principali filosofi del diritto del Novecento. Come studioso, professore, riformatore, preside della Facoltà di giurisprudenza di Harvard, Pound persegue l’obiettivo di rafforzare la connessione fra diritto e società e di migliorare l’amministrazione giudiziaria. E’ ritenuto il fondatore della cd. giurisprudenza sociologica. All’inizio del Novecento, Pound fu ritenuto un pensatore radicale per aver asserito che il diritto non è statico ma si deve adattare ai bisogni della società. Negli anni ’30 tuttavia fu definito un conservatore in quanto contrastava la crescita del governo federale. Pound nacque il 27 ottobre del 1870 a Lincoln, Nebraska. Figlio di un giudice, Pound frequentò l’Università del Nebraska dove ottenne un laurea in botanica nel 1888. Il padre lo convince a iscriversi all’Università di Harvard dove, però, vi rimase per un solo anno. Alla morte del padre, Pound ritornò a Lincoln dove superò l’esame di avvocato dello stato del Nebraska nel 1890. Dal 1890 al 1903 Pound esercitò l’attività forense, insegnò all’Università del Nebraska, conseguì un dottorato in botanica. Studente dotato, Pound avrebbe potuto distinguersi anche nelle scienze naturali, ma la sua carriera subì un’accelerazione verso la giurisprudenza quando fu nominato funzionario presso la Corte Suprema del Nebraska. Espletò frequentemente le funzioni di giudice d’appello: attività questa che esercitò prediligendo la sostanza sulla forma, con l’obiettivo anche di ridurre drasticamente il carico di lavoro arretrato (relativo ai giudizi pendenti). Le sue decisioni tradiscono un approccio ricorrente: e cioè l’attenzione agli effetti che esse producono nella società. Nel 1903 fu nominato preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università del Nebraska: mettendo insieme interessi accademici ad un pronunciato interesse per gli scopi pratici del diritto. Nel 1906 durante la convention dell’American Bar Association pronunciò un discorso “Sulle ragioni della insoddisfazione popolare nei confronti dell’amministrazione della giustizia” in cui dà un primo abbozzo della teoria che farà di lui il precursore del realismo giuridico e cioè: la giurisprudenza sociologica. Fra gli aforismi pronunciati in quell’occasione che rimarranno famosi: "THE LAW MUST BE STABLE, BUT IT MUST NOT STAND STILL." —ROSCOE POUND Dopo qualche anno cominciò ad insegnare ad Harvard di cui diventò preside. Pound contestava l’idea che alla base della common law vi fosse un diritto naturale inflessibile ed immutabile. Credeva fermamente che nella common law vi fossero dei principi costanti – specialmente relativi al metodo – cui diede il nome di “tradizione giuridica appresa” (taught legal tradition). Pound credeva fermamente che l’applicazione della taught legal tradition da parte di giudici saggi ed esperti di common law avrebbe gradualmente modificato il diritto adattandolo alla società. Il compito dei giudici di common law è quello di valutare gli effetti delle proprie decisioni e di contribuire al progresso sociale. La giurisprudenza sociologica si oppone – in Pound – alla giurisprudenza meccanica. Con questo secondo termine, Pound intendeva la rigida applicazione del precedente senza aver alcun riguardo alle conseguenze che tale applicazione comporta. Nonostante il desiderio di adattare il diritto ai bisogni della società Pound non riteneva che il diritto dovesse anticipare ma piuttosto seguire i cambiamenti sociali. La certezza del diritto, specialmente in quelle aree come il diritto commerciale o il diritto di proprietà, è più utile che il pragmatismo applicato caso per caso. Pari perplessità Pound manifestò nei confronti della legge del Congresso (o dei Parlamenti statali): i cambiamenti graduali della giurisprudenza erano più convenienti dei cambiamenti repentini del legislatore. Dall’esperienza di botanico, Pound ereditò la percezione del diritto come di una rete senza semi (e cioè senza che fosse possibile rintracciarne le origini): allo stesso modo di quanto non avviene in natura. Con la conseguenza che qualsiasi mutamento di una parte dell’organismo si riflette anche sulle altre senza che tali effetti fossero voluti o previsti. Quando il realismo giuridico prese una piega più radicale, Pound affermò insistentemente che sia la logica che le regole giuridiche svolgessero un ruolo preminente nella giurisprudenza. Si oppose pertanto alle tesi di Frank e di Holmes che enfatizzavano la psicologia dei giudici rispetto al ragionamento esteriore. 4.3 Critiche all’inefficienza del sistema giudiziario Qualche anno dopo il saggio di Holmes sui difetti della giurisprudenza, Roscoe Pound tiene un discorso di fronte all’associazione nazionale degli avvocati illustrando le cause del malcontento della popolazione nei confronti dell’amministrazione della giustizia (Pound, 1906). Anche Roscoe Pound, come Holmes, è noto per la critica al formalismo dominante e per la proposta di una giurisprudenza sociologica (Pound, 1921); ma a differenza di Holmes Pound ritiene che le cause del malcontento vadano ricercate nei vizi del sistema giudiziario nel suo complesso e non nell’atteggiamento di singoli giudici. Nel discorso tenuto di fronte all’associazione nazionale degli avvocati, Pound distingue tre critiche ricorrenti nei confronti dell’amministrazione della giustizia. Le critiche del primo tipo hanno ad oggetto in generale il sistema giuridico e trascendono tempi e luoghi concreti. Le critiche del secondo tipo riguardano più specificamente il sistema giuridico anglosassone. La critiche del terzo tipo sono piuttosto dirette allo stato della giustizia americana negli anni in cui Pound si trova a scrivere. Cominciando dalle prime, Roscoe Pound ricorda come il ragionamento giuridico sia in ogni tempo esposto ad alcune accuse ricorrenti che hanno radici nei seguenti quattro fattori: (1) la necessaria natura meccanica del funzionamento delle regole e dunque del diritto; (2) l’inevitabile scarto in termini di progresso fra la legge e l’opinione pubblica; (3) l’opinione diffusa che l’amministrazione della giustizia sia un compito facile, accessibile a tutti anche a non esperti; (4) l’impazienza popolare per i vincoli e per le procedure (Pound, 1906: 397). Sebbene Pound sia noto per aver opposto la giurisprudenza meccanica a quella sociologica e per aver sostenuto la flessibilità interpretativa sulla rigidità, davanti all’associazione degli avvocati difende il modo classico di ragionare dei giuristi, segnalando come costoro debbano mediare fra l’esigenza di uniformità che richiede l’applicazione di regole generali e l’esigenza di equità. L’inevitabile meccanicità del ragionamento giuridico è il prezzo dell’uniformità. Pound riconosce che vi sono certi momenti in cui il divario fra ragionamento giuridico e ragionamento morale viene percepito con maggiore vigore, ma afferma anche che in linea generale, la capacità di mediazione del diritto non va sottovalutata. Pound poi liquida gli altri tre atteggiamenti che radicano le critiche del primo tipo. Riguardo allo scarto fra diritto ed opinione pubblica, l’autore ricorda i pregi della lentezza delle procedure giuridiche mentre ridimensiona le innovazioni dell’opinione pubblica. Pound non mostra poi particolari simpatie per le ultime due idee, e cioè per lo scetticismo nei confronti della tecnica giuridica e la speculare credenza in un giudizio dei profani del diritto e l’impazienza popolare nei confronti del formalismo giuridico. Non solo Pound si mostra scettico nei confronti delle decisioni delle giurie e della commonsense jurisprudence, ma ritiene l’insofferenza nei confronti del legalismo espressione di un atteggiamento infantile. Le critiche di questo primo tipo riecheggiano temi populisti e prendendone le distanze Pound intende ribadire il proprio dissenso rispetto al movimento politico dei Populisti. Del resto già prima del 1896, Pound aveva attaccato le posizioni di costoro e nella campagna presidenziale del 1896 si era schierato con il Repubblicano McKinley (Friedman 2007: 1195) contro il populista Bryan. Pound si mostra più benevolo nei confronti delle critiche del secondo tipo, quelle rivolte nei confronti del sistema di common law anglo-americano e che, a dire dell’autore, hanno di norma cinque cause: (1) Lo spirito individualista della nostra common law che mal si concilia con un’epoca collettivista; (2) la dottrina di common law della procedura antagonista, che trasforma i casi giudiziari in un gioco; (3) l’invidia politica sollecitata dai limiti imposti al sistema giuridico dalla dottrina della supremazia della legge; (4) la mancanza di idee generali o di una filosofia del diritto, così tipica del diritto Anglo-Americano, che preclude una base teorica alle riforme; (5) un difetto di forma e classificazione dovuto alla circostanza che il sistema legale ruota intorno al caso concreto (Pound 1906: 400). In questo caso, Pound riconosce come legittima l’irritazione della gente comune nei confronti della giurisprudenza che viene percepita come ostile a qualsiasi tentativo di riforma sociale e come un potere che prevarica quello politico. “Anche nel mio stato, afferma Pound, “negli ultimi anni abbiamo assistito alla sospensione delle tariffe sulle merci o delle tasse dovute dalle compagnie di trasporto per effetto di provvedimenti giudiziari. La tensione che tali decisioni determinano all’interno delle istituzioni giudiziarie è piuttosto grande” (Ibidem). Tuttavia, Pound tiene a sottolineare come i difetti non riguardino singoli giudici, ma il sistema nel suo complesso. In relazione alle critiche rivolte alla giustizia del suo tempo, Pound asserisce che il sistema giudiziario americano dei primi del Novecento “è arcaico sotto tre aspetti. (1) Per l’esistenza di troppe corti; (2) perché mantiene giurisdizioni concorrenti; (3) per lo spreco del potere giudiziario dovuto all’inefficiente distribuzione dei carichi pendenti (Ibidem: 402). Sono queste ultime critiche, a dire di Pound, che colgono nel segno ed è quindi all’inefficienza dell’organizzazione della giustizia che va attribuita l’impopolarità del giurisprudenza. La soluzione non viene dunque da un ricambio generazionale dei magistrati, né da un nuovo orientamento giurisprudenziale, ma piuttosto dalla riforma dei codici di procedura civile e da un piano di razionalizzazione della giustizia a livello federale. Pound riconosce che il suo è un periodo di “transizione sociale ed industriale” (Pound 1906: 446) e che è facile che il diritto non stia al passo con i tempi e venga percepito come un rudere e tuttavia contesta quella politica che vuole restringere gli ambiti del sindacato di legittimità ed affidare a commissioni amministrative il compito di interpretare i provvedimenti legislativi. Come per Holmes, è la teoria giuridica che gli viene in soccorso. Nello Spirito della Common Law, Pound descrive la filosofia del diritto dell’Ottocento per segnalarne la limitatezza (Pound, 1921: 130) mentre continua a difendere i giudici, a suoi dire, irresponsabili della crisi del diritto. L’interpretazione che della giurisprudenza [di oggi] danno i profani è superficiale. La differenza fondamentale fra il diritto dell’Ottocento ed il diritto del periodo di cambiamento in cui siamo entrati non è affatto dovuto al dominio di sinistri interessi su avvocati e giuristi. Non è dovuto a uomini cattivi nelle corti o a nemici intenzionali della società approdati nelle professioni legali. E’ un conflitto di idee, non di uomini; un conflitto fra concezioni che sono penetrate nella carne e nel sangue delle nostre istituzioni e le concezioni giuridiche moderne nate da un movimento nuovo in tutte le scienze sociali (Pound 1921: 191). E’ lo studio dei problemi fondamentali e non l’auspicio per una giustizia senza diritto […] la via per la socializzazione del diritto (Ibidem). Pound attribuisce le idee radicate nelle istituzioni giuridiche che spiegherebbero il tradizionalismo della giurisprudenza a lui contemporanea alle scuole giusfilosofiche che hanno dominato nel corso dell’Ottocento. Pound ne individua cinque (la scuola metafisica, la scuola storica, gli utilitaristi, i positivisti e i sociologi meccanicisti) ma segnala come tutte abbiano condotto a medesimi risultati: “Si tratta di un esempio evidente di come le più diverse scuole filosofiche siano giunte alla fine alle stesse opinioni giuridiche da strade completamente diverse” (Pound, 1921: 151). Ad esempio, l’idea che esistano diritti naturali immutabili, astratti, connessi alla libertà individuale (idea che sta alla base di molte pronunce del costituzionalismo liberista) è tipica della scuola metafisica, di derivazione Kantiana; ma in realtà trova conforto anche nella scuola storica penetrata in America nella seconda metà dell’Ottocento quando gli studenti americani cominciano a confrontarsi con i colleghi tedeschi. In effetti, spiega Pound, sia la scuola metafisica che quella storica postulano l’esistenza di un diritto ideale: la prima ritiene di trovarlo attraverso lo sviluppo logico di idee astratte, la seconda attraverso il metodo storico. Ma non è stato difficile conciliare questi due punti di vista. Sia il filosofo che lo storico concordano sul fatto che il diritto è trovato e non creato. Ma il vero punto in comune fra le due scuole, specie nella versione che ne ha fornito il pensiero giuridico americano, risiede nella concezione dell’individuo, segnala Pound. Se si adotta un’interpretazione idealista della storia giuridica e si concepisce lo sviluppo del diritto come la graduale affermazione dell’idea del diritto di Kant nell’esperienza umana e nell’amministrazione della giustizia, noi possiamo capire il nocciolo della scuola storica (Pound 1921: 153). Savigny infatti portò avanti una delle due idee che avevano dominato nella teoria del diritto settecentesca. L’elemento nel diritto che i giuristi medioevali avevano riposto nella teologia, che i giuristi del seicento avevano derivato dalla ragione, e la scuola della legge di natura del Settecento ha dedotto dalla natura dell’uomo, Savigny pensò potesse essere scoperto attraverso la storia (Ibidem). Ma l’idealismo di Savigny, continua Pound, fu recepito in America anche attraverso gli scritti di Henry Maine. Il passaggio, descritto dallo storico inglese, dallo status al contratto fu interpretato come la conferma che quelli che erano stati i principi di diritto naturale per la scuola metafisica avevano anche un riscontro nella storia. Insomma, l’individualismo che fino alla prima metà dell’Ottocento era stato dominio della scuola di diritto naturale, diventa il credo comune anche dei giuristi della scuola storica. La scuola utilitarista facente capo a Jeremy Bentham a prima vista si oppone radicalmente al metodo sia dei metafisici che degli storici. Gli utilitaristi sono legislatori, riformatori, e contestano il principio secondo cui il diritto esista in natura o nella storia opponendovi l’idea che non si tratti altro del frutto di un atto di volontà. Sembrerebbe, segnala Pound, correre una differenza abissale fra i metafisici e gli storici da un lato e gli utilitaristi dall’altro. Eppure anche costoro finiscono per approdare a conclusioni simili ai primi e a difendere innanzitutto l’idea che lo stato sia funzionale al benessere dell’individuo. Bentham non mise in discussione l’individualismo. Egli oscillava fra l’utilità nel senso della più grande felicità dell’individuo e nel senso della più grande felicità per il maggior numero. E’ verosimile che quanto più vicina fosse stata la scelta, tanto più si sarebbe pronunciato per l’idea che la massima felicità consiste nella capacità di autoaffermazione dell’individuo. In linea a queste premesse, il principio giuridico fondamentale non era tanto distante dalle posizioni dei giuristi metafisici. Ognuno, Bentham affermava, è il miglior giudice della propria felicità. Con la conseguenza che la legislazione deve essere orientata a rimuovere tutti i vincoli sulle azioni individuali che non sono necessarie per garantire una pari libertà nel suo vicino”. In pratica, il principio di Bentham era di consentire la massima libertà individuale possibile compatibile con una generale capacità di altri individui. In sintesi tale idea sul fine del diritto era la stessa dei metafisici e degli storici (Ibidem: 159-160). Poi Pound passa in rassegna le ultime due scuole, quella positivista e quella sociologica meccanicista, segnalandone intanto la identità di vedute. Ancora una volta, sembra ci si trovi di fronte a premesse filosofiche radicalmente diverse dalle altre appena illustrate. I positivisti e i sociologi meccanicisti sono infusi, almeno a partire da un certo momento, di darwinismo sociale e credono nel parallelismo fra leggi di natura e leggi che riguardano la società (Ibidem: 161). E tuttavia anche gli esponenti di queste ultime scuole di pensiero approdano ai medesimi risultati degli aderenti alle prime tre. I giuristi positivisti pensavano di trovare le leggi della morale e del diritto e dell’evoluzione giuridica e sociale analoghe alle leggi sulla gravitazione o sulla conservazione dell’energia e si aspettano di individuarle attraverso l’osservazione e l’esperienza. Ma l’osservazione e l’esperienza li portò agli stessi risultati a cui i metafisici e i giuristi filosofici avevano condotto i giuristi storici. Innanzitutto essi reperirono i dati dai giuristi storici e dunque guardarono a costoro non in via diretta ma attraverso la mediazione dei giuristi metafisici. In più, l’intero secolo era inconsciamente sotto l’influenza di Kant (Ibidem: 162). […] Così le tesi dei positivisti erano specialmente congeniali al pensiero americano. Gli scritti di Spencer ebbero grande risonanza negli Stati Uniti e molte decisioni in cui gli effetti di queste idee sono evidenti possono essere menzionate. Su queste basi, la sociologia meccanista resistette fra i giuristi americani più di quanto non sopravvivere altrove, proprio perché le sue idee sembravano confermare quelle della scuola storica. […] Come i giuristi storici, i sociologi meccanicisti della fine dell’Ottocento guardavano al diritto e alla sua evoluzione in stadi successivi e pensarono di connettere tali stadi ai cambiamenti della società. I giuristi storici trovarono leggi metafisiche dietro questi cambiamenti. I sociologi meccanicisti le sostituirono con leggi fisiche. […] Non è troppo affermare che tale combinazione dell’interpretazione economica con il positivismo diede origine ad una sorta di diritto naturale fatalista. Il vecchio diritto naturale postulava una ricerca di un corpo di principi eterno a cui le leggi positive avrebbero dovuto conformarsi. Questo nuovo diritto naturale postulava la ricerca di un corpo di leggi che governassero sullo sviluppo del diritto e a cui il diritto si sarebbe dovuto conformare (Ibidem: 163). Se Pound riconosce i limiti di una giurisprudenza cristallizzata sul vecchio diritto naturale, tuttavia non mostra neanche particolare entusiasmo per i riformatori sociali che vogliono sbarazzarsi del diritto. Pound deplora l’eccessivo individualismo di certa giurisprudenza ma teme ancora di più l’idea di ridurre gli ambiti del sindacato giudiziario di legittimità per deferire le questioni ad agenzie amministrative. L’autore stigmatizza l’atteggiamento di ostilità nei confronti del diritto a vantaggio del potere politico / amministrativo e teme l’idea che la società possa essere regolata dall’alto. Nel capitolo conclusivo dello Spirito della Common Law, Pound invoca maggiore flessibilità interpretativa, auspica una più spiccata sensibilità nei giudici a confrontarsi con i mutamenti sociali ed addirittura suggerisce che gli uffici giudiziari si dotino di strutture amministrative capaci di reperire dati sociali su cui fondare le decisioni (Ibidem: 214). Il compito della filosofia del diritto, dice Pound, è quello di illuminare sul fine del diritto in una data epoca e l’epoca in cui l’autore si trova a vivere segna il passaggio da un ragionamento giuridico che “pensa in termini astratti su come armonizzare le volontà umane” ad un’attività che si chiede come “assicurare in concreto o realizzare interessi dell’uomo” (Ibidem: 196). Il giurista deve essere un ingegnere sociale e decidere a partire dalle circostanze di fatto concrete. Da un punto di vista mondano, la tragedia centrale dell’esistenza umana è dovuta alla scarsità delle risorse materiali […]; e mentre le pretese degli individui, le loro volontà e desideri sono infinità, i mezzi materiali per soddisfarli sono finiti; mentre ciascuno di noi vuole la terra, ci sono molti di noi ma una sola terra. Quindi dobbiamo pensare che una delle funzioni dell’ordine giuridico è quella di evitare frizioni ed eliminare sprechi […]. Mettendo le cose in questo modo, cerchiamo di assicurare quanto più possibile i desideri ed interessi umani, col minor sacrificio di tali interessi (Ibidem: 196). Pound, però, rimane un uomo dell’Ottocento: convinto assertore dell’idea che la lentezza della giurisprudenza metta al riparo la società da scelte politiche avventate ed illiberali (Ibidem: 165), continua a sostenere che sono i giudici i migliori interpreti dei cambiamenti sociali. Per questo Pound prende le distanze dal coro di critiche molto più aspre che investono il potere giudiziario nei primi decenni del Novecento. Non solo dissente da un collega come Hand sulla natura faziosa e partigiana di molte corti, ma in modo ancora più veemente si oppone alle polemiche politiche contro i magistrati e contro il ceto dei giuristi. Il diritto, sostiene l’autore, si sviluppa gradualmente: prima a livello inconscio e solo dopo a livello consapevole. E’ compito della filosofia del diritto percepire lo spirito della common law di un certo periodo storico ed esplicitarlo in modo da consentire un’interpretazione che ne realizzi la piena vitalità. Spetta ai professori di diritto iniettare delle innovazioni nel sistema, mentre i politici è meglio che rimangano alla larga dall’organizzazione degli uffici giudiziari. In un certo senso, le tesi di Pound sulla funzione illuminante della teoria riecheggiano quelle di Holmes. In entrambi gli autori, la risposta alla crisi del diritto non consiste affatto nel fare largo alla politica o addirittura nel riformare gli uffici giudiziari rendendone le cariche elettive. I giudici più capaci di capire dove va la società, per entrambi gli esponenti del realismo giuridico, non sono uomini vicini alla gente comune, ma sono al contrario uomini di particolare cultura capaci di elevare le proprie menti al di sopra dell’interesse personale e di comprendere attraverso la filosofia lo spirito del tempo. . Oliver Wendell Holmes (1841-1935) Oliver Wendell Holmes nacque a Boston, nel Massachusetts. Fu il maggiore di tre figli. Il padre, chiamato come lui, era medico e fondatore di un’importante rivista The Atlantic Monthly. La madre, Amelia Jackson, era un’abolizionista. Holmes ebbe una relazione controversa col padre, che spesso tuonava contro il figlio dalle colonne dell’Atlantic Monthly, mentre acquisì la sua proverbiale autostima dalla madre, di cui era il favorito. Frequentò il College di Harvard all’inizio del 1857. Poco prima che si laureasse scoppiò la Guerra Civile. Holmes lasciò Harvard per arruolarsi nel Ventesimo Reggimento del Massachusetts. Fu ferito più volte durante il conflitto, ma riuscì a laurearsi. La partecipazione alla guerra influenzò pesantemente la sua visione del mondo. Prima del conflitto Holmes partecipava alla Società Cristiana di Harvard ed era ardente sostenitore della causa abolizionista. Dopo la guerra, credeva in poco. Ritornò ad Harvard e diventò avvocato nel 1867. La pratica forense non era particolarmente brillante sebbene scrivesse articoli per l’American Law Review e avesse curato i Commentari del Chancellor James Kent sul Diritto Americano. Poco prima del quarantesimo compleanno fu invitato a tenere le Lowell Lectures. Il libro che ne risultò dalla pubblicazione di queste lezioni fu The Common Law che gli portò il successo da sempre agognato. Poco dopo, Holmes accettò di insegnare alla facoltà di giurisprudenza di Harvard, sebbene già durante il primo anno di corso lasciò la facoltà perché nominato giudice della Corte Suprema del Massachusetts, dove rimase fino al 1902. Poi diventò giudice della Corte Suprema, su nomina di Theodore Roosevelt. Rimase alla Corte Suprema per 29 anni, fino all’età di 90 anni. Era sposato ma senza figli. Prima nel suo The Common Law e poi in the Path of Law afferma che la scienza giuridica dovrebbe dotarsi di strumenti empirici e che l’attività principale per avvicinarsi al materiale giuridico è la previsione: “the life of law has not been logic; it has been experience”16. In altri termini, occorre dotarsi di strumenti che ci consentano di fare delle previsioni su 16 O. W. Holmes, Common Law, 1881, p. 1. come i giudici risolveranno un certo caso. Holmes però riconosce che una parte rilevante degli strumenti a disposizione di chi deve fare una previsione è data dalla dottrina giuridica – sul presupposto che di norma i giudici seguono la dottrina. Ben più radicali di Holmes furono i suoi successori, da Jerome Frank a Joseph Hutcheson a Karl LLewellyn. Nel 1881, con l’uscita del Common Law, l’attacco di Holmes andò al formalismo insegnato a Harvard – secondo l’impostazione di Christopher Columbus Langdell. La sua ampia conoscenza filosofica e storia (faceva parte del Club dei Metafisici – un gruppo di pragmatisti nascenti come Charles S. Pierce, Nicholas Green a William James) e la sua devozione per il Darwinismo Sociale di Herbert Spencer17, lo condussero ad 17 Cfr. voce Pragmatismo, Enciclopedia delle Scienze Sociali di Tiziano Bonazzi Pragmatismo sommario: 1. Origini e significato. 2. Il contesto storico-sociale: il 'decollo' americano e i suoi problemi (18701900). 3. Pragmatismo ed epistemologia: C. Wright e C. Peirce. 4. Il pragmatismo come conciliazione di scienza e filosofia: W. James. 5. Pragmatismo, democrazia ed educazione: lo strumentalismo di J. Dewey. 6. Pragmatismo e psicologia sociale: G.H. Mead. 7. Pragmatismo e scienza politica: A.F. Bentley. 8. Osservazioni conclusive. □ Bibliografia. 1. Origini e significato Il pragmatismo è un movimento filosofico che, sorto negli Stati Uniti negli ultimi decenni dell'Ottocento, vi ha conosciuto una vasta fortuna fino alla seconda guerra mondiale, soprattutto attraverso l'opera di William James e John Dewey, per poi subire un'eclisse dalla quale lo hanno ultimamente riscattato filosofi morali e della politica come Richard Rorty.Il pragmatismo ebbe origine nelle discussioni fra gli amici che nel 1871-1872, a Cambridge nel Massachusetts, diedero vita al 'Metaphisical club', una delle molte associazioni culturali sorte nel periodo di irruenta trasformazione e di acuta crisi che gli Stati Uniti attraversarono nei decenni successivi alla guerra civile. Le figure principali di quello che più che un club era un gruppo informale di amici erano sei, tre scienziatifilosofi, Chauncey Wright, Charles Peirce e William James, e tre giuristi, Oliver Wendell Holmes jr., Nicholas St. John Green e Joseph Bangs Warner. Giovani - Wright, il più anziano, aveva una quarantina d'anni - , appartenevano all'élite intellettuale bostoniana e avevano tutti studiato a Harvard. Fu nel corso dei loro dibattiti che - sotto la spinta dell'evoluzionismo di Wright, leader intellettuale riconosciuto del gruppo, e alla luce della 'teoria predittiva del diritto', sostenuta sia da Green che da Holmes come applicazione delle teorie dello psicologo britannico Alexander Bain - Peirce formulò e presentò agli amici la 'massima pragmatica'. La cosa non ebbe un seguito diretto, in quanto il club ben presto si sciolse e nella memoria stessa dei protagonisti quanto era avvenuto divenne uno sbiadito e incerto ricordo; ma il metodo di indagine sorto a Cambridge continuò a svilupparsi, ad opera sia degli iniziatori - personaggi pur molto distanti fra loro per interessi e mentalità -, che di altri intellettuali come i filosofi di Chicago John Dewey e George H. Mead, che completano il nucleo storico dei pragmatisti dei quali si intende trattare in questa sede. 2. Il contesto storico-sociale: il 'decollo' americano e i suoi problemi (1870-1900) La guerra civile del 1861-1865 segna uno spartiacque nella storia americana sia perché, oltre che alla fine della schiavitù, portò alla sconfitta e all'acrimonioso isolamento del Sud, sia soprattutto in quanto il trionfo del Nord significò il trionfo del capitalismo nordista, che negli ultimi decenni del secolo fece degli Stati Uniti la prima nazione industriale del mondo. Un paese che si era venuto costruendo su migliaia di comunità locali autocentrate e su regioni socioeconomiche fortemente autonome e che non aveva classi sociali omogenee assistette, in soli quarant'anni, all'unificazione e alla verticalizzazione sia del mercato che della società. Ai primi del Novecento l'economia era ormai dominata da grandi gruppi oligopolistici industriali e finanziari, la lotta di classe era divenuta una realtà, le vecchie élites venivano soppiantate da geniali 'uomini nuovi' legati al più scoperto arrivismo economico; negli stessi anni l'opinione pubblica scopriva lo squallore e la miseria degli slums proletari nelle grandi città divenute simbolo della nuova età e si sentiva messa in pericolo dalle ondate di immigrati provenienti dall'Europa sudorientale e, nell'estremo ovest, dalla Cina e dal Giappone.In tale situazione entrò in crisi la cultura politica e sociale prebellica, incentrata sull'idea che gli Stati Uniti fossero una nazione prediletta da Dio, destinata a restare immune dai mali dell'Europa, e il cui progresso economico - fondato sui principî protestanti dell'etica del lavoro, dell'uguaglianza delle possibilità e dell'individualismo - implicava un continuo progresso morale. Uno dei sintomi più evidenti di questa crisi fu il feroce dibattito sull'evoluzionismo che si sviluppò durante gli anni sessanta e settanta. Accettare il darwinismo implicava negare quel ruolo di guida verso Dio, attraverso lo studio empirico della natura, che la cultura americana, con la mediazione della filosofia del realismo scozzese, aveva assegnato alla scienza e che era anche alla base della visione morale dello sviluppo economico. L'evoluzionismo darwiniano, infatti, era una scienza senza assoluti, non riconducibile a una visione religiosa e teleologica del mondo, insopportabile, quindi, non solo per l'opinione pubblica colta, ma per gli stessi scienziati, tanto legati all'empirismo baconiano e milliano quanto profondamente religiosi.Il darwinismo poté essere accolto solo quando si riuscì a ricondurlo, servendosi soprattutto di Herbert Spencer, a una sorta di metafisica positivistica in cui l'evoluzione diveniva una legge dello sviluppo storico tendente al progresso civile e morale dell'uomo e alla realizzazione di un disegno divino. Teorie di questo genere conciliarono scienza e religione e diedero un senso al caos sociale e morale del periodo; a vennero anche usate dai cosiddetti 'darwinisti sociali' per sostenere l'ordine capitalistico esistente contro ogni tentativo di riforma, che a loro parere in realtà finiva, aiutando gli emarginati, con l'aiutare i 'non adatti', coloro che il processo della selezione naturale giustamente eliminava.Fra i membri della 'nuova classe media' - ossia tra gli esperti e i tecnici indispensabili a una matura società industriale - si verificò una dura reazione contro questa vulgata evoluzionistica. Eredi dei valori dell'etica protestante, ma educati al metodo scientifico, molti di loro ritenevano che il caos sociale ed economico non fosse il prodotto dell'evoluzione, ma il frutto di quella concezione che - interpretando le leggi scientifiche come meccanismi automatici sui quali non era dato intervenire - aveva finito per separare scienza e morale, giustificando in tal modo le pretese di dominio e l'egoismo dei più forti. Di conseguenza essi abbracciarono progetti di riforma per lo più a sfondo tecnocratico e contribuirono in modo decisivo alla nascita del 'movimento progressista', che culminò nelle presidenze di Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson agli inizi del Novecento. Momento essenziale di questo moto riformatore, che rappresentò anche una fase di ricostruzione di strumenti intellettuali, fu la nascita e la rapida affermazione delle scienze sociali. La storia del pragmatismo classico va dunque situata nel quadro di quelle innovazioni intellettuali che permisero di superare la crisi sociale e culturale che caratterizzò gli Stati Uniti sul finire dell'Ottocento. Se non l'autocoscienza del riformismo progressista del primo Novecento, il pragmatismo potrebbe essere considerato almeno il suo frutto migliore, quello che fornì al progressismo il modello sociale più innovativo e al tempo stesso maggiormente in grado di riallacciarsi ai valori e ai miti fondatori della nazione americana. Ciò non significa, tuttavia, che il pragmatismo possa essere considerato l'ispiratore del progressismo o la filosofia delle scienze sociali fra i due secoli; sia l'uno che le altre sono infatti fenomeni molto complessi di cui il pragmatismo non rappresenta che uno degli elementi, anche se forse si tratta di quello che meglio ne esprime lo spirito e gli ideali. A ciò si aggiunga che il pragmatismo, come il progressismo, dovette soccombere all'ondata politicamente conservatrice degli anni venti, mentre le scienze sociali si incamminavano verso un sempre più rigido scientismo che non poteva certo riconoscere nel pragmatismo una fonte di ispirazione diretta. 3. Pragmatismo ed epistemologia: C. Wright e C. Peirce Le caratteristiche del pragmatismo nei primi anni settanta, quando le trasformazioni che abbiamo appena illustrato erano nella loro fase iniziale, sono del tutto interne ai travagli dello scontro sull'evoluzionismo. Lo dimostra il pensiero di Chauncey Wright (1830-1875), le cui idee e la cui posizione nel Methaphysical club consentono di considerarlo l'ispiratore del pragmatismo. Wright era una personalità ribelle e singolare che non riuscì mai a inserirsi nel mondo accademico. Valente matematico, positivista convinto, avversario del trascendentalismo di cui non comprendeva le spinte mistiche e l'intuizionismo, impostò le problematiche che furono poi alla base della "massima pragmatica" definita da Peirce. Wright si inserì nel complesso dibattito sulla critica di John Stuart Mill a William Hamilton - il filosofo del realismo scozzese più seguito negli Stati Uniti di metà Ottocento - a proposito dei limiti del conoscere, giungendo alla conclusione che, data l'impossibilità di arrivare al noumeno, la conoscenza è limitata agli effetti di questo su di noi. La filosofia non può, quindi, essere che 'filosofia dell'esperire'. Una posizione con cui egli intese separare - e al tempo stesso garantire reciprocamente - religione e scienza, in quanto il metodo scientifico costituisce l'unica forma corretta di esperienza, ma l'esperienza non riguarda i problemi della fede. L'associazionismo, su cui si fondavano sia la psicologia dei filosofi scozzesi che quella dell'utilitarismo, non gli consentiva, però, di spiegare adeguatamente il passaggio dalle sensazioni primarie alla coscienza e metteva in forse tutti i suoi sforzi. Da qui la sua entusiastica adesione al darwinismo, che gli permise di formulare in termini scientificamente più soddisfacenti la tesi secondo cui conosciamo solo gli effetti della 'cosa in sé'. Alla luce dell'evoluzionismo, infatti, le idee non sono degli assoluti, bensì dei 'piani di azione' essenziali alla lotta per la sopravvivenza, che nascono in risposta alle sfide ambientali e si evolvono a partire da fenomeni psichici elementari attraverso la mediazione delle funzioni 'segniche' della memoria e dell'immaginazione. Charles Peirce (1839-1914) andò oltre Wright, criticandone quello che considerava un residuo dell'empirismo classico e della psicologia associazionista, vale a dire la tesi secondo cui nell'intraprendere una ricerca filosofica o scientifica occorre avere una totale neutralità rispetto a ogni ipotesi o teoria o pregiudizio precedente, una sorta di tabula rasa mentale. A suo parere un simile agnosticismo è impossibile, perché gli esseri umani esistono immersi nei fatti e ogni atto conoscitivo consiste nell'inserirsi in un processo di esperienze in corso che analizziamo interpretandole. Peirce non ritiene accettabile la neutralità di Wright perché non esiste un punto di partenza assoluto del processo conoscitivo, né a livello psicologico - i dati sensoriali primari degli associazionisti sono irrintracciabili - né logico, in quanto ogni atto di conoscenza è un'analisi di fenomeni che per essere compresi debbono essere concettualizzati sulla base di fenomeni precedenti, i quali rimandano alla concettualizzazione di altri in una regressione infinita che non giunge mai a un primum. A partire da ciò Peirce costruì una logica svincolata da ogni considerazione ontologica e basata invece sulle relazioni segniche che ci consentono di concettualizzare i dati sensoriali - una semiotica che costituisce il retaggio forse più fecondo della sua filosofia. Tale logica è però anche uno dei passaggi essenziali per la formulazione della massima pragmatica. Da un punto di vista epistemologico esperire significa conoscere per mezzo di una costruzione concettuale effettuata attraverso la mai terminata catena segnica; ma si tratta di una costruzione che muove necessariamente dalla realtà empirica, in quanto a essere compresi sono fenomeni che hanno conseguenze pratiche. Il conoscere è un processo che all'infinito tende al vero, in quanto, al di là di ogni fenomeno conosciuto, ve ne sono altri sconosciuti, ma conoscibili; l'essere, per Peirce, coincide con la conoscibilità. In base allo stesso ragionamento la nostra conoscenza di un fenomeno è conoscenza dei suoi effetti pratici; da qui la massima pragmatica secondo cui "la nostra concezione di questi effetti è l'intera concezione dell'oggetto": la realtà è l'insieme degli effetti dei fenomeni che esperiamo. Peirce, figlio di uno dei più illustri matematici americani, ricevette un'accurata educazione scientifica e i suoi lavori in campo geodetico e astronomico gli diedero notorietà internazionale. Sebbene dubitasse delle conclusioni dell'evoluzionismo, egli riteneva che Darwin avesse impostato il discorso scientifico in modo tale da consentire quasi un'identificazione fra filosofia e scienza, facendo in ogni caso di quest'ultima il baluardo contro ogni forma di soggettivismo. Il conoscere, infatti, è individuale e processuale, interminabile e non ancorabile all'essere, onde non esistono metri assoluti con cui verificarne il grado di verità; tuttavia il metodo scientifico ci consente di controllare la conoscenza e, attraverso il consenso della comunità dei ricercatori, ci dà l'unica forma - una forma pubblica - di verifica del fatto che il nostro "pensiero in azione" procede in direzione del vero. Scopo della filosofia è stabilire i modi corretti del belief, del credere. Essa ci assicura che la scienza fornisce una garanzia dell'adeguatezza delle nostre norme e abitudini di vita, ma anche una ragione per modificarle quando si forma un nuovo e diverso consenso scientifico. È questo il meccanismo di quell'infinita approssimazione al vero che Peirce pone al centro dell'epistemologia pragmatista e di cui parla come di un evolutionary love che pervade l'intero universo. L'austero pragmatismo di Peirce appare legato al dibattito sulla natura del conoscere filosofico e scientifico più che a quello sul ruolo di filosofia e scienza nella vita individuale e sociale; tanto che lo stesso Peirce si affrettò a chiamare la propria teoria "pragmaticismo" quando, sotto la spinta di James, il pragmatismo prese direzioni che non condivideva. È tuttavia innegabile che egli propose una teoria in cui la capacità umana di verificare nella pratica il proprio agire sostituiva ogni ricerca di verità assolute e proponeva il modello di una società aperta costantemente autoriformantesi. 4. Il pragmatismo come conciliazione di scienza e filosofia: W. James Con William James (1842-1910) ci veniamo a trovare, in effetti, in un universo intellettuale del tutto diverso. Scienziato anch'egli, ma in campo medico, non fisico-matematico, James accettava le idee di Peirce nell'ambito delle scienze fisiche; ma riteneva che, per quanto riguarda l'esperire e il conoscere quotidiano, le conclusioni cui giungere dovessero essere diverse. Lo scienziato, infatti, interviene in una realtà che è 'piena' per portarvi ordine; ma per farlo deve selezionare e scegliere dati, finendo di necessità col cogliere solo un frammento della verità. Per di più, egli parte da ipotesi di lavoro che sono 'atti di fede' non diversi da quelli che regolano la vita di ognuno di noi. Di conseguenza, pur se il metodo scientifico è essenziale, la scienza non è l'unico strumento del conoscere e non può essere elevata a 'idolo della tribù' umana. William James, cresciuto in una famiglia patrizia bostoniana, fratello del famoso scrittore Henry James, ricevette dal padre, un eccentrico intellettuale-gentleman, un'educazione fondata sull'unione di fede e scienza in una visione religiosa legata al misticismo di Swedenborg. Per vari anni egli fu soggetto a gravissime crisi psicologiche che nascevano dal suo senso di impotenza di fronte ai problemi del rapporto fra religione e scienza, in particolare al dilemma del come l'agire possa essere libero e avere valore morale in un mondo che la scienza interpreta senza far ricorso alla religione e quindi, così gli pareva, in modo deterministico. Qualunque fosse la natura delle sue crisi, James cominciò a uscirne quando, sulle orme di Renouvier, il maggior filosofo kantiano francese, riuscì a compiere l'atto di volontà di credere nel proprio libero volere. La sua personale esperienza, il postkantismo di Renouvier, le lunghe discussioni con Wright e Peirce, assieme agli studi medici e alla lunga pratica scientifica in campo psicologico, costituiscono le basi del pensiero di James. Per quanto riguarda la pratica scientifica, occorre notare che negli Stati Uniti fino agli anni sessanta la psicologia veniva trattata come parte della filosofia morale, vale a dire come una sorta di scienza dell'anima che, attraverso l'analisi delle sensazioni, delle emozioni e della volontà, serviva a corroborare empiricamente i principî etici che dovevano guidare il comportamento individuale e sociale. A fondamento della psicologia venivano inoltre poste teorie associazioniste dei processi mentali, che portavano a considerare la mente come uno strumento passivo, azionato dal meccanismo stimolo-risposta. Era questa passività della mente, e la conseguente immagine dell'uomo come un automaton privo di libero volere, che James intese combattere a livello scientifico, servendosi della nuova psicologia sviluppata in Germania. Studiosi quali Wilhelm Wundt e Hermann Helmholtz avevano separato la psicologia dalla filosofia, fondandola sulla fisiologia umana e facendone così una branca delle scienze naturali. La psicologia scientifica a base fisiologica consentiva di interpretare l'attività mentale, in chiave evolutiva, come uno strumento dell'adattamento umano all'ambiente, che aveva sviluppato, con la formazione della coscienza, la capacità strategica di scegliere fra comportamenti alternativi. Su queste basi James poté fare della mente un organo attivo, capace di volere e di conoscere ai fini pratici della sopravvivenza. A questo punto la psicologia torna, per James, a incontrarsi con la filosofia e serve a costruire un'epistemologia di tipo pragmatista. Non è un caso che, dopo avere per qualche tempo insegnato fisiologia, nel 1875 James desse vita a Harvard al primo corso americano di psicologia scientifica, per passare successivamente alla filosofia - disciplina che insegnava quando, nel 1890, apparve il suo opus magnum, i Principles of psychology.La psicologia scientifica, fondata sull'analisi empirica del singolo, diede un indirizzo individualista al pensiero di James, che si allontanò da Peirce, anche se i suoi bersagli polemici furono per tutta la vita la metafisica naturalista di Spencer e il sensismo meccanicistico. Entrambe queste teorie, a suo parere, impedivano una corretta interpretazione dei modi e dei fini del conoscere, in quanto legavano il singolo a leggi universali e a processi automatici annullandone ogni autonomia. Da una prospettiva pragmatista, invece, l'evoluzione coinvolge sì la specie, ma è l'individuo che, selezionando i dati dell'esperienza per ottenere una conoscenza che gli consenta di sopravvivere, crea nuovi fini e risultati evolutivamente utili. Nei Principles James affermò che il cervello è un organo il cui equilibrio interno muta continuamente, soggetto com'è a un'incessante corrente di stimoli che ne alterano fisiologicamente la struttura cellulare, la composizione neurologica e le onde cerebrali. Tale mutazione comporta anche un continuo processo di selezione fra gli stimoli, operata dal cervello sia a livello di attività non coscienti come la respirazione, che a livello cosciente. La 'coscienza', anzi, ricomprende entrambi e manipola tutte le percezioni per elevarle a concetti e idee in grado di pianificare l'azione a beneficio del soggetto. È questo lo stream of consciousness, il flusso della coscienza in cui il soggetto è immerso e che al tempo stesso gli dà continuità e identità.La coscienza non è tuttavia sufficiente. Essa prepara l'azione, individua fini utili alla sopravvivenza elaborando le impressioni ricevute dall'esterno, consente di concepire un mondo più adatto di quello presente ai nostri fini; ma non è il momento 'telico' più alto della mente, che consiste nella volontà. La volontà, che ha fondamento empirico in quanto è legata all'intero processo della coscienza, è libera nel momento in cui compie la scelta finale fra i piani d'azione predisposti ai livelli precedenti o addirittura formula nuovi fini e ordina di agire. In questo senso è "volontà creativa".A partire dagli ultimi anni dell'Ottocento, James sviluppò su tali basi il principio del practicalism, che riagganciò alla massima pragmatica. Ogni individuo, per James, può infatti autonomamente ottenere una 'perfetta chiarezza' di pensiero se considera gli effetti pratici che un determinato oggetto ha su di lui e le sensazioni e le reazioni che ne derivano. Con questo procedimento James fece della descrizione scientifica del processo psicologico del conoscere la risposta al quesito filosofico cosa sia la verità e superò al tempo stesso il dualismo mente-corpo, ponendo l'accento sul primato della persona che, agendo, definisce se stessa e il proprio ambiente.Il pragmatismo di James non contraddice la linea epistemologica di Peirce, anche se ne costituisce uno sviluppo più che un'applicazione. Dal punto di vista di Peirce l'individualismo jamesiano corre il rischio del relativismo, perché non può servirsi - e non si serve - del principio regolatore del consenso della comunità degli studiosi. Ciò che interessa James, tuttavia, è fondare la conoscenza sulla volontà creativa del singolo, una volontà libera che pone a rischio se stessa - perché le idee possono provocare conseguenze addirittura deleterie -, ma che dà vita a un universo umano aperto e pluralistico, il quale cerca la propria validazione nell'intreccio dei piani d'azione degli individui. A suo parere, d'altronde, il pragmatismo non è affatto relativista, in quanto è legato sia ai fondamenti empirici della coscienza che al postulato evolutivo dell'adattamento.L'influenza di James sulla cultura americana fu enorme e con lui il pragmatismo acquistò una visibilità nazionale, anche se non ebbe conseguenze dirette sul movimento riformatore progressista, perché James non aveva preoccupazioni politiche o sociali. Egli si considerava un filosofo che aveva trovato il modo di coniugare scienza e filosofia e che, in Varieties of religious experience (1902), aveva individuato la base empirica del bisogno di fede religiosa dell'uomo dando alla fede un ruolo nel processo del conoscere. Ciononostante il suo pensiero fornì l'orizzonte teorico entro il quale si mosse buona parte dei progressisti, poiché concetti quali la centralità dell'individuo che agisce e il 'migliorismo' giustificavano l'idea che la società va continuamente adeguata ai bisogni dei singoli dall'interagire degli individui sulla base del mutare delle circostanze ambientali. 5. Pragmatismo, democrazia ed educazione: lo strumentalismo di J. Dewey È, però, attraverso John Dewey (1859-1952) e la cosiddetta 'Scuola di Chicago' che il pragmatismo divenne parte attiva del pensiero riformatore. Dewey proveniva dal Vermont, ottenne il dottorato in filosofia alla nuovissima e innovativa Johns Hopkins University di Baltimora e insegnò per diversi anni all'Università del Michigan prima di approdare all'appena fondata Università di Chicago nel 1894. In questo periodo aveva dovuto affrontare, come i pragmatisti di Boston, il lacerante problema del divorzio fra scienza e religione e fra scienza e morale, oltre a quelli ereditati dalla cultura calvinista del New England - in particolare i dualismi mente-corpo e Dio-natura.Da questi travagli Dewey ereditò quell'avversione per ogni forma di dualismo che caratterizza tutto il suo pensiero e che nel periodo giovanile risolse servendosi dell'idealismo hegeliano. Il neoidealismo del suo insegnante alla Johns Hopkins, G. Sylvester Morris, era però influenzato dall'evoluzionismo e attento agli sviluppi scientifici, il che spinse Dewey a seguire i corsi di psicologia di Stanley Hall e a convertirsi alla nuova disciplina. Nel Michigan 'scoprì' poi la psicologia di James e il pragmatismo di Peirce, che gli consentirono quella che egli chiama la sua "transizione dall'assolutismo allo sperimentalismo". Fu però negli anni di Chicago che Dewey sviluppò la propria versione del pragmatismo, lo strumentalismo, che venne formulata nel 1903, poco prima del suo trasferimento alla Columbia University a New York, nel saggio Logical conditions of a scientific treatment of morality e nel manifesto della nuova scuola filosofica, il volume collettaneo Studies in logical theory da lui curato.Lo strumentalismo nacque dal bisogno di superare i dualismi di teoria e pratica, scienza e morale. Risultato che Dewey intese ottenere dimostrando che il giudizio scientifico è uguale nella sua struttura logica a quello etico e, più precisamente, che non è vero che la scienza si serva di giudizi universali mentre la morale si serve di giudizi particolari. Coerentemente pragmatista nel suo approccio, egli sostenne che i due tipi di giudizio non possono essere trattati in astratto, ma vanno contestualizzati nel concreto mondo dell'azione e che, se considerati da questo punto di vista, essi appaiono come ponti che consentono di passare da un'esperienza particolare a un'altra. I giudizi della scienza servono a forgiare strumenti per l'esperienza, e quelli etici sono piani d'azione per risolvere problemi. Al centro della logica, per Dewey, vi è pertanto l'inquiry, la ricerca, vi sono uomini concreti che scelgono problemi e costruiscono strumenti per risolverli. Il valore logico e scientifico di una proposizione dipende allora da ragioni pratiche che comportano scelte e sono quindi morali: la verità, anche per lui e in modo più cogente che per gli altri pragmatisti, è 'verificazione'. Dewey fa discendere dalla logica strumentalista conseguenze storiche e sociali molto precise. La nascita della scienza moderna, egli scrive, basata sull'unità di teoria e pratica e sul fondamento etico di tale unità, ha posto fine alla contrapposizione di origine greca fra mondo delle idee e mondo dei fenomeni, fra contemplazione e lavoro, che non era solo errata, ma portava a un'organizzazione sociale gerarchica incapace di far fruttare le potenzialità umane. La democrazia è una conseguenza necessaria dello sviluppo scientifico e il pragmatismo può renderla cosciente dimostrando che conoscere non è contemplare, ma richiede un coinvolgimento nella modificazione della realtà. Conoscere significa partecipare con gli altri a rendere il mondo un luogo meno precario per l'uomo, è una continua opera di riforma dell'ambiente, cioè della società. La teorizzazione dello strumentalismo andò di pari passo con la creazione di un nuovo metodo pedagogico, che costituisce il contributo più noto e durevole di Dewey alle scienze sociali. A Chicago, infatti, egli istituì presso l'Università una scuola elementare, che divenne il luogo in cui sperimentò le sue teorie psicologiche e pedagogiche, servendosene al tempo stesso per sviluppare la logica dell'azione. Al centro della pedagogia di Dewey vi era l'applicazione di quelli che sarebbero diventati i principî dello strumentalismo, vale a dire l'uso dell'impulso del bambino ad agire per insegnargli a risolvere problemi e, al tempo stesso, per insegnargli a farlo assieme agli altri, perché sono il rispetto per gli altri e la collaborazione con gli altri che consentono al bambino di esprimere se stesso. La scuola diventa così una sorta di comunità fondata sul lavoro, il modello di quell'individualismo socializzato che costituisce il nucleo del pensiero democratico e dell'azione politica di Dewey. Non si può a tal proposito non ricordare che questo è il modello comunitario che ritroviamo in molta parte del progressismo e che costituisce un Leitmotiv della cultura sociale statunitense, con origini che risalgono al calvinismo settecentesco del New England, successivamente incrociatosi con il protestantesimo evangelico della frontiera. Un comunitarismo che intende recuperare le radici sia emotive che spirituali della socialità, della quale sono responsabili gli individui stessi, e non lo Stato, sempre visto come potenzialmente tirannico, in un difficile equilibrio fra individualità e società, dove la seconda è chiamata a fornire ai singoli il supporto di una cultura e di una struttura dei rapporti umani in grado di spingerli a realizzare se stessi. Questo ideale, espresso in modo definitivo in Democracy and education del 1916, trova riscontro nell'insistente rifiuto di ogni etica utilitarista e nella concezione globale e unitaria dell'esperire che Dewey sviluppò negli anni fra le due guerre mondiali, quando rafforzò lo strumentalismo con una coerente prospettiva naturalistica. Nelle opere del periodo - di cui Logic, the theory of inquiry (1938) rappresenta il culmine - Dewey recupera la logica di Peirce e la sua teoria del belief anche se preferisce l'espressione "asseribilità giustificata" - per teorizzare il carattere pubblico del conoscere fondato sulla convergenza dei risultati delle indagini. È questo carattere pubblico, e pertanto sociale, la garanzia non solo pratica, ma logica della teoria pragmatica secondo la quale sono i risultati operativamente efficaci a verificare la verità delle proposizioni. Pur lontanissimo dallo scientismo, così come dall'utilitarismo, Dewey andò progressivamente individuando una profonda unità di metodo fra scienza e filosofia, e fra scienze fisiche e umane (Theory of valuation, 1939), giungendo a fare della filosofia una sorta di scienza sociale orientata alla prassi, in grado di esercitare un controllo razionale sulla vita umana. In contrasto con molti scienziati sociali, che da prospettive di questo tipo traevano conseguenze tecnocratiche, egli vide nella scienza un'applicazione specializzata dell'intelligenza pragmatica disponibile a tutti e capace di diventare il fulcro del processo democratico, attraverso quello che egli chiamava "social sensorium", la cosciente e paritaria interazione tra individui mediata dal linguaggio.A causa del loro specifico approccio teorico, Dewey e gran parte dei pragmatisti furono attivi sia nel campo delle scienze sociali che dell'azione pubblica. Lo strumentalismo deweyano, ad esempio, è incomprensibile se non si pone attenzione sia allo stretto rapporto di collaborazione che Dewey instaurò a Chicago con Jane Addams - una delle figure chiave del progressismo, fondatrice dell'importantissimo movimento dei social settlement, i centri sociali che operavano negli slums urbani - sia alla sua successiva, intensa attività in campo pedagogico e sociale a New York. Lo strumentalismo sfociò pertanto in una teoria politica che conteneva gli elementi essenziali della democrazia americana del Novecento: una visione progressista della storia, un modello di società aperta in cui individuo e comunità si armonizzano, e una teoria dinamica dei processi sociali che tende a sottovalutare strutture e istituzioni a favore di un approccio psicosociologico al problema della piena realizzazione di una società armonica. Sebbene definitivamente formulata solo negli anni venti e trenta, e nonostante in questi anni l'influsso diretto del pragmatismo nel campo delle scienze sociali fosse ormai tramontato, la spinta democratica intrinseca allo strumentalismo consentì a Dewey di assurgere al ruolo di saggio della democrazia americana, anche se i suoi tentativi di costituire un nuovo movimento politico che andasse al di là del New Deal conobbero una cocente sconfitta. 6. Pragmatismo e psicologia sociale: G.H. Mead La tendenza del pragmatismo a incarnare aspetti centrali della cultura democratica americana del Novecento trova conferma nella psicologia sociale del meno noto (ma per le scienze sociali probabilmente del più importante) tra i membri del gruppo storico dei pragmatisti, George Herbert Mead (1863-1931). Nato nel Massachusetts, egli studiò a Harvard con James e Josiah Royce, per poi specializzarsi a Berlino ove subì l'influenza della psicologia di Wilhelm Wundt; all'Università del Michigan strinse una forte e duratura amicizia con Dewey e andò con lui a Chicago, dove rimase per tutta la vita. Mead fu un pensatore sotto molti aspetti assai avanzato rispetto ai propri tempi, tanto che la sua originalità sia come filosofo che come psicologo sociale venne riconosciuta solo negli ultimi anni della sua vita, pur essendo nota la profonda influenza che egli aveva esercitato su Dewey.Mead prese le mosse dalla psicologia sociale genetica di James M. Baldwin e si dedicò per tutta la vita al problema dell'emergere dell'intelligenza - la mente - dal comportamento irriflesso. Il suo approccio è quindi di tipo comportamentista, anche se non nel senso restrittivo di John B. Watson.In linea con i fondamenti del pragmatismo, Mead non ritiene che la mente sia un presupposto dell'esperienza, ma che si formi con questa a partire dal "gesto", vale a dire attraverso la comunicazione sociale. Un gesto è un movimento o un suono che indica agli altri le intenzioni o le emozioni di una persona e che, quando acquista per loro significato, diventa un simbolo. L'attività comunicativa per mezzo di simboli, il più importante dei quali è il linguaggio, dà vita a un "atto sociale". L'esperienza è quindi un processo comunicativo costituito da atti sociali, che ha natura teleologica in quanto ogni atto tende a eliminare la sensazione di disturbo - che Mead chiama 'impulso' - provocata da un mancato aggiustamento fra il singolo e il suo milieu. La natura sociale degli atti implica che l'individualità si sviluppi socialmente, in quanto gli impulsi di ognuno non possono trovare soluzione se non con la cooperazione degli altri e quindi attraverso un ruolo attivo nel gruppo. Ciò è sperimentalmente riscontrabile nello sviluppo del bambino, che comincia ad assumere ruoli immaginari imitando gli adulti nel gioco (play), ma sviluppa la propria individualità solo quando partecipa a giochi organizzati (game) in cui assume ruoli impersonali guidati da regole. Giochi, cioè, in cui impara a rappresentarsi la risposta dell'altro, vale a dire a far proprio un punto di vista generale e comune a ogni membro del gruppo - il cosiddetto "altro generalizzato" (generalized other). In termini teorici, secondo Mead, la coscienza del Sé emerge quindi attraverso una serie di aggiustamenti in cui ognuno risponde a impulsi sia propri che altrui, in un processo in cui passa da una percezione convenzionale e astratta di sé (il 'me') a una concreta ('io'), reagendo in modo pratico agli impulsi ai quali il 'me' viene sottoposto dall'ambiente. È questa la teoria dell'interazionismo simbolico, che ha avuto grande importanza per lo sviluppo della psicologia sociale, nonché per la pedagogia, la sociologia e la linguistica, e che si fonda su una esatta comprensione e approfondimento dei principî del pragmatismo. Mead, infatti, usa la teoria del segno di Peirce riconoscendo la natura nominalistica del simbolo; ma correttamente ritiene che ogni simbolo fa parte di un atto che assurge a 'oggettività sociale' attraverso il consenso generato dall'assunzione di ruoli impersonali e quindi dalla cooperazione che così si instaura per la soluzione di problemi concreti dei singoli. Tale oggettività, indipendente dal punto di vista di ciascuno anche se non di natura metafisica, costituisce il nucleo del metodo scientifico, che diviene così garante della correttezza del pensare anche al di fuori delle scienze fisiche e addirittura momento di partenza della riflessione morale. 7. Pragmatismo e scienza politica: A.F. Bentley Il pragmatismo, come si è detto all'inizio, non fu una scuola, ma un movimento la cui influenza sulla cultura sociale americana fu più di indirizzo che di contenuti. Se possiamo infatti ritenere l'epistemologia pragmatista quasi il modello, se non addirittura l'autocoscienza e al tempo stesso il limite, del moto riformatore che gettò le basi del Novecento americano, di questo moto essa fu solo una componente, perché il pluralismo della cultura statunitense impediva a una singola teoria di assumere un ruolo egemone.Nel campo specifico delle scienze sociali, inoltre, a partire dagli anni venti si venne affermando un sempre più rigido scientismo che considerava il pragmatismo debole nel metodo ed eccessivamente vago nelle conclusioni. In effetti, se il pragmatismo aveva fornito la giustificazione filosofica di una società aperta che aveva la scienza come principale strumento regolatore, le esigenze di controllo e di ingegneria sociale che esso evocava, e che affidava alla scienza piuttosto che alla politica, rendevano necessari metodi e tecniche che lo scavalcavano. Ciò è riscontrabile nella scienza politica, ove l'innovatrice opera di Arthur F. Bentley (1870-1957) ebbe un influsso tanto vasto quanto lontano dalla sua ispirazione originaria. Laureato in economia e influenzato dal marginalismo di Carl Menger, Bentley, per molti anni giornalista a Chicago, intese individuare la più semplice unità sociale osservabile per costruire su di essa una teoria sociale empirica. Molto legato a Dewey, egli definì i fenomeni sociali in puro stile pragmatista come delle 'attività' socialmente situate e aventi un fine pratico. L'elemento unificatore della ricerca sociale è pertanto l'attività sociale e, dal momento che essa è sempre attività di gruppo, i gruppi vengono a essere le unità primarie di analisi, da studiare empiricamente esaminandone la composizione, le tecniche e i rapporti.In The process of government (1908), opera che ebbe un effetto culturale dirompente, Bentley mise i gruppi al centro dell'analisi politica. Essi agiscono in vista di fini che sono i loro 'interessi' ed esercitano l'uno sull'altro delle 'pressioni' che costituiscono l'essenza della vita politica. In ogni società, ma soprattutto in quelle democratiche, i gruppi politici sono mutevoli e intessono una rete di rapporti che può essere studiata solo come un processo, al pari della società. La teoria di Bentley, realista e del tutto antinormativa, fa dello Stato un semplice momento organizzativo del processo politico e afferma l'impossibilità di individuare un 'bene pubblico' comune a tutti i gruppi. Il che non provoca un'anarchia istituzionale o di valori, in quanto l'interazione fra i gruppi, se libera, dà automaticamente vita a un sistema in grado di mantenersi in uno stato di equilibrio dinamico. L'aumentare degli interessi con lo sviluppo della società fa crescere l'attività dei gruppi accrescendo l'interazione e l'individualità, in quanto permette agli individui di partecipare attivamente a una pressoché infinita serie di 'sfere sociali', vale a dire di associazioni e raggruppamenti volontari. In questo modo il processo politico partecipa del processo sociale e con esso si sviluppa evolutivamente.La scienza politica americana si rifece a Bentley per teorizzare la interest groups politics, la politica dei gruppi di interesse, all'interno della quale la democrazia finì per essere identificata con un sistema di regole procedurali diretto a permettere la libera attività dei gruppi. Si trattava di una teoria realista, che consentiva analisi empiriche in chiave comportamentistica; ma inficiata dall'idea che, almeno negli Stati Uniti, la costituzione di gruppi di pressione fosse collegata solo alle capacità e alla volontà dei singoli e non limitata dalle strutture di potere economico e sociale effettivamente esistenti. 8. Osservazioni conclusive Dewey, Mead e Bentley indicano che nella prima metà del Novecento la spinta delle scienze sociali americane a trasformare le teorie fondate sulle strutture sociali in altre rette dall'idea di processo è almeno in parte riconducibile all'influenza del pragmatismo, anche se forse sarebbe più corretto dire che esso incarnò e specificò la tendenza della cultura americana a dare la precedenza ai rapporti interpersonali rispetto alle istituzioni. In ogni caso il pragmatismo è nato al centro di una complessa temperie storica in cui gli Stati Uniti riuscirono a risolvere con successo una difficile transizione che li avrebbe potuti portare a una vera e propria crisi. Giudicare tale soluzione positivamente come una "rivolta contro il formalismo", secondo la suggestiva e fortunata formula di Morton White, uno storico che si iscrive nella tradizione progressista, oppure negativamente come una riaffermazione dell'eccezionalismo americano legata all'egemonia capitalista - si veda la storiografia della scuola corporatista e quanto recentemente scritto da Dorothy Ross - non è compito di queste pagine. Qui occorre rilevare come l'influenza e l'interscambio fra pragmatismo e scienze sociali furono una necessità intrinseca alla metodologia dell'uno e delle altre e come il panorama della cultura sociale americana ne uscì profondamente mutato. Basti pensare, ad esempio, alla sociological jurisprudence di Roscoe Pound (1870-1964), basata sul superamento del formalismo giuridico attraverso la teoria giuridica degli 'interessi', o alla sociologia urbana della Scuola di Chicago di William I. Thomas (1863-1947) e Robert Park (1864-1944), che si rifaceva alla visione processuale di Dewey e Bentley. Il pragmatismo negli Stati Uniti ha avuto una funzione cospicua nella formulazione di una cultura sociale che superò il trauma del 'disincantamento del mondo' e accettò il confronto con il mutamento considerandolo umanamente controllabile, anche se non intelligibile, attraverso l'uso del metodo scientifico. Un confronto probabilmente viziato da forti limiti ideologici, ma i cui risultati, soprattutto per quanto riguarda i fondamenti epistemologici di una società aperta e la natura sociale e storica del conoscere, continuano a essere utili e suggestivi anche nell'odierno dibattito sull'avvento della società postmoderna. 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Greenlee, D., Peirce's concept of sign, The Hague 1973. essere del tutto scettico sull’esistenza del diritto naturale e di diritti naturali. La questione allora è: cosa prende il posto del diritto naturale e dei diritti naturali? Per Holmes, la risposta iniziale fu quella del costume e della tradizione oggettive: si trattava del cd. community standard esemplificato nelle decisioni giudiziali. Ma nel 1897, all’uscita del saggio The Path of Law, alcune delle opinioni di Holmes cambiarono. L’intensificarsi dei conflitti fra lavoratori e dirigenti nella prima metà degli anni 1890, lo sgretolamento della compattezza sociale su cui Holmes radicava i community standards lo portarono a Hickman, A.L., John Dewey's pragmatic technology, Bloomington, Ind., 1990. Hinkle, R.C., The founding theory of American sociology, 18811915, London 1980. Jonas, H., G.H. Mead: a contemporary reexamination of his thought, Cambridge 1985. Kloppenberg, J.T., Uncertain victory. 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Gore (531 U.S. 98), per la grande quantità di polemiche suscitate. Con questa sentenza, la Corte Suprema presieduta da Melville Fuller – redattore dell’opinion of the Court fu il giudice Rufus Peckham – dichiarò incostituzionale per contrasto con il XIV Emendamento il Bakeshop Act (1895) dello Stato di New York, che fissava in 60 ore settimanali e in 10 ore giornaliere l’orario massimo di lavoro dei fornai. L’opinione di maggioranza fu scritta dal giudice Peckam il quale affermò che in virtù del principio della libertà contrattuale non potesse essere imposto al proprietario di una panetteria di assumere più lavoratori di quanto volesse. Oliver Wendell Holmes, che peraltro è considerato un grande dissenziente, si dissociò dall’opinion di maggioranza affermando che la Costituzione non detta alcuna teoria economica e che dunque il Parlamento dello Stato di New York è legittimato a fissare dei criteri di intervento dello stato nell’economia privata. Holmes è altresì famoso per aver introdotto il cd. Puke Taste: E cioè qual è lo standard per stabilire se una sentenza è incostituzionale? Holmes naturalmente rifiutava delle teorie compiute sulla costituzione, sicché introdusse uno standard del tutto peculiare: se la sentenza fa vomitare è sicuramente in costituzionale! (Puke, infatti, è proprio l’atto del vomitare). Jerome Frank: in Law and Modern Mind mise l’accento sugli elementi psicologici e sui tratti della personalità del giudice e sul loro influsso sulla decisione. Frank è noto per l’applicazione delle sue vaghe nozioni di psicoanalisi al ragionamento giuridico (es. il desiderio di stabilità e coerenza è tipico del bisogno del padre). Ed è altresì noto per aver affermato che la decisione dipende anche da cosa ha mangiato il giudice a colazione (sebbene non vi sia conferma di questa affermazione). Frank non nascose mai la propria avversione nei confronti degli avvocati – e del diritto tout court -. A suo avviso la decisione giusta era quella che rendeva le parti più felici di quando avessero cominciato a litigare. La posizione di Frank tuttavia si discosta dalle tesi realiste pure: secondo il realismo giuridico il giudice crea diritto in modo pressoché imprevedibile. L’attacco del realismo va alla certezza del diritto. Jerome Frank colora lo scetticismo dei realisti per la certezza del diritto di disprezzo. Il desiderio di disprezzo, a detta di Frank, sarebbe il desiderio infantile di chi ha bisogno del padre: e cioè di chi ha bisogno di una regola chiara per vivere. E tuttavia Frank sostituisce al giurista esperto di diritto, un altro tipo umano – egualmente ideale: il giurista evoluto psicologicamente e dunque libero di scegliere nel migliore dei modi. Ora, la tesi di fondo è che vi sia un modo migliore di scegliere. Che la risposta corretta sia soltanto una. Da qui l’allontanamento di Frank dal realismo delle origini. *** Il realismo è diventato un approccio molto diffuso al diritto negli Stati Uniti. Ecco, come descrive uno studioso americano del diritto il ruolo che l’avvocato ha assunto negli Stati Uniti. Most important of all, [lawyers] must have the ability to suspend judgment, to see both sides of a case that is presented to them, for they may be called on to argue either side. The task of the law professor is often to change a student's mind, and then change it back again, until the student and the class understand that in many situations that will come before them professionally they can with a whole heart devote their skills to either side. Then they have to block out much of that part of their mind that saw the other side, finding ways to diminish and combat what they once considered the strong points of the opponent's argument18. CRITICHE AL REALISMO Le critiche al realismo possono essere mosse su due fronti opposti: sia dal fronte formalista, che da quello delle teorie che sottolineano una contiguità fra ragionamento giuridico e ragionamento pratico. Schauer, ad esempio, obietta al realismo giuridico Americano almeno tre colpe: 1) si fonda su un’errata valutazione del procedimento giudiziario che a suo dire sarebbe – nella stragrande maggioranza dei casi (almeno nelle giurisdizioni inferiori) guidato da regole giuridiche molto più che da fattori extragiuridici; 2) in secondo luogo sottovaluta la circostanza che sebbene fattori extralegali possano influenzare la psiche del giudice la motivazione ha sempre una veste giuridica, con la conseguenza che un buon avvocato non può esimersi di conoscere la legge se vuole avere ragioni sebbene possa anche solleticare il giudice in altro modo (vestendosi bene, se il giudice è un tipo formale; facendo riferimento più o meno esplicito all’ideologia del giudice, etc..); 3) in terzo luogo trascura la circostanza che nella stragrande maggioranza dei casi non ci sono conflitti intorno alle norme giuridiche e anzi il diritto trova applicazione pressoché spontanea mentre solo dopo vari filtri (selction effect) si arriva di fronte a giurisdizioni che hanno 18 SOL M. LINOWITZ WITH MARTIN MAYER, THE BETRAYED PROFESSION: LAWYERING AT THE END OF THE TWENTIETH CENTURY 116 (1994). un margine discrezionale più elevato (tipo la corte suprema che decide di pronunciare 70 decisioni all’anno su più di 9000 richieste di giudizio). Sul fronte opposto, e cioè dal punto di vista della teoria del ragionamento giuridico come ragionamento pratico, si può dire che il realismo omette di considerare almeno due circostanze: la prima, che nel ragionamento giuridico non si può disconoscere che le norme giuridiche esercitino un certo grado di vincolatività. Se così non fosse non vi sarebbe alcuna differenza fra le decisioni del giudice e le massime della mia vecchia zia sul litigio fra vicini. La seconda è che le componenti umane del giudizio non compromettono necessariamente il carattere razionale del discorso giuridico. Anzi, si vedrà che l’umanità del giudice è il presupposto per un giudizio corretto. IL REALISMO OGGI: Analisi economica del diritto: Posner e il giuspragmatismo (da P. Chiassoni, Richard Posner: pragmatismo e analisi economica del diritto, in (G. Zanetti – a cura di - Filosofi del diritto contemporanei, pp. 183-220) L’analisi economica del diritto è quella teoria secondo cui la valutazione del complesso di norme, sentenze e quant’altro si suole chiamare “diritto” con strumenti economici. Più in particolare, secondo la prospettiva dell'Analisi economica, i problemi giuridici debbono essere analizzati e risolti attraverso una comparazione tra i diversi gradi d'efficienza economica delle molteplici soluzioni ipotizzabili. Da questo confronto, effettuato con modalità analitiche “prese a prestito” dalla scienza economica (in particolare, dalla Microeconomia), emergerà la scelta più efficiente, ossia quella in grado di garantire a ciascun soggetto coinvolto il maggior numero possibile di vantaggi. Le teorie economiche a cui l’analisi economica del diritto si ispira sono diverse, ma l’approccio che si ispira alla teoria economica neoclassica (Milton Friedman, Ronald Coase) è stato per molti anni il prevalente. In estrema sintesi l’approccio neoclassico è tendenzialmente contrario all’intervento pubblico nell’economia e sottolinea le relazione fra politica monetaria ed economica del sistema. Ad esempio, Partendo da Milton Friedman, è sempre circolata l'idea che la Grande Depressione – che ha investito l’America negli anni’30, fu il prodotto di una politica monetaria inetta e che avrebbe potuto essere evitata se solo la Fed non avesse frenato il credito. La Scuola di Chicago esemplifica queste posizioni. Quello che si tende generalmente ad identificare come l'approccio della scuola di Chicago è sostanzialmente un pesante scetticismo riguardo all'azione governativa e una decisa fiducia nella capacità del mercato di autoregolamentarsi. Questa è, in essenza, la prospettiva della scuola di Chicago. In più, c'è la progressiva e crescente "matematicizzazione" dell'economia (Quest'ultimo fenomeno non è necessariamente stato guidato dagli economisti di Chicago. Anzi, in passato, Chicago ha cercato di resistere a questa tendenza - con persone come Ronald Coase e George Stigler). Il teorema di Coase – di solito preso a modello nei primi scritti di analisi economica del diritto, in prevalenza relativi al diritto privato, (e frutto degli studi di Ronald H. Coase che lo pubblicò nel 1960 nell'articolo The Problem of Social Cost che gli valse il Premio Nobel per l'economia nel 1991), è un tentativo di dimostrare come attraverso il mercato si possa giungere ad un'efficienza, intesa come somma netta del benessere sociale (un succedaneo più facilmente misurabile della felicità) superiore rispetto a quella che si può ottenere con l'intervento dello stato o di altre regolamentazioni. Richard Posner – sebbene oggi in parte critico di alcuni sviluppi presi dalla Scuola di Chicago (specialmente l’ipermatematizzazione dell’economica) – è colui che con maggior vigore ha esteso gli sviluppi dell’analisi economica neoclassica al diritto. Le norme giuridiche – quelle che impongono obbligo o prescrivono divieti – sono incentivi sui destinatari. Se io azienda so che la sanzione prevista per una certa trasgressione X (ad esempio la produzione di gas inquinanti) è relativamente bassa o comunque più bassa di quanto non sarebbe la dismissione o riconversione dell’attività, continuerò a trasgredire: facendo solo dei calcoli sui costi-benefici dell’osservanza o della trasgressione. Stesso ragionamento può applicarsi all’intero sistema – e non soltanto dunque a questo o a quel cittadino-. Ad esempio: la comunità guadagna di più dalla chiusura di una fabbrica inquinante ovvero dal suo continuo funzionamento? Naturalmente la risposta cambia a seconda se si consideri il lungo o il breve periodo. Questo modo di ragionare è esattamente antitetico a quello deontologico – che muove dall’assunto che alcuni beni non sono negoziabili: neppure se dalla negazioni degli stessi ne deriverebbe vantaggio per la stragrande maggioranza della collettività (Ronald Dowrkin). L’analisi economica del diritto è una teoria descrittiva ma anche normativa e predittiva. Da un punto di vista descrittivo, l’analisi economica del diritto respinge la concezione formalista secondo cui il diritto è un sistema chiuso – di regole, principi, procedure – che precedono l’attività giuridica (e quella giudiziaria in particolare). Sulla falsariga della teoria predittiva di Holmes (“il diritto è la profezia di ciò che faranno i giudici e nulla di più pretenzioso”), Posner propone di concepire il diritto non già come un insieme, inerte, di regole, ma come “un’attività”: in particolare come l’attività di “professionisti autorizzati” e segnatamente dei giudici e degli avvocati. Se il “diritto” coincide con l’attività di giudici e di avvocati – e con i suoi risultati: le decisioni giudiziali delle concrete controversie e le relative motivazioni – che ne è della costituzione, delle leggi, dei precedenti? C’è inoltre spazio per il diritto naturale? La risposta di Posner a questi interrogati può così articolarsi: a) l’attività decisionale dei giudici – quanto meno in organizzazioni come le nostre – è soggetta a vincoli; b) tali vincoli sono essenzialmente di tre tipi: in primo luogo, i materiali giuridici positivi (leggi, precedenti, la costituzione, etc…); in secondo luogo i precetti di diritto naturale – intendendo con questa espressione non l’insieme di principi immutabili nel tempo ma come l’insieme di principi fondamentali della moralità politica (basic political morality), alcuni dei quali generalmente condivisi; in terzo luogo le idee sul modo professionalmente corretto di motivare e di decidere questioni giuridiche; c) in un lessico mutuato dalla teoria economica dell’impresa, diritto positivo e diritto naturale sono fattori di produzione (gli omologhi giuridici degli impianti, delle materie prime, dei semilavorati, ecc..) di cui i giudici si servono per stabilire i diritti, gli obblighi e i poteri delle parti. Il pensiero di Posner va collocato nel solco degli anti-formalisti (dal secondo Jhering a Hermann Kantorowicz che già nel 1906 distingueva fra diritto positivo e diritto libero). In sostanza, per l’esistenza di un sistema giuridico potremmo anche fare a meno dei legislatori, ma non possiamo fare a meno dei giudici. “Tendiamo, nel pensare al diritto, ad anteporlo cronologicamente alla risoluzione delle controversie giuridiche, ma così facendo commettiamo l’errore (derivato dalla fallacia di concepire il diritto come concetto anziché attività) di pensare che il diritto esista al di fuori del processo tramite il quale doveri giuridici e sanzioni sono imposti alle persone che vi sono soggette. La sequenza inversa è più illuminante. Una società di esseri umani ribolle di conflitti e di dispute, e per certi tipi di controversia trova conveniente dotarsi di un corpo permanente di funzionari che risolvano le controversie in conformità a norme statali. Questi funzionari sono i giudici, e il loro compito consiste nel risolvere le controversie in modo da far valere tali norme e, cosa più importante, da soddisfare le esigenze statali. Per conferire al processo la necessaria regolarità e prevedibilità, i legislatori producono regole che i giudici devono applicare, e i giudici producono regole per colmare le lacune (talvolta enormi) della produzione legislativa; e se non c’è legislatore, i giudici producono tutte le regole” (Posner, The Problem of Jurisprudence). Pragmatismo giudiziario Quale criterio – o quali criteri – devono ispirare l’attività giudiziale? Ponser infatti rifiuta l’irrazionalismo di certe espressioni dei realisti (alla Jerome Frank), così come rifiuta l’antilegalismo esasperato (l’auspicio di sbarazzarsi di avvocati e giudici) di alcuni dei realisti (Fred Rodell, 1939, Woe, unto You, Lawyers!). Ma rifiuta altresì alcuni assunti dei formalisti: ad esempio che l’attività giudiziale è un’attività conoscitiva ovvero che il diritto è un sistema autonomo dotato di strumenti argomentativi diversi da quelli utilizzati negli altri ragionamenti pratici. Il ragionamento dei giudici è un ragionamento eminentemente pratico. Ma la ragione che deve guidare le decisioni dei giudici è una ragione quasi empirica, strumentale, che cerca di approssimarsi a quella scientifica: il modello economico sotto questo riguardo offre buone soluzioni. Ma vediamo più in dettaglio: a) l’attività giudiziale non è attività meramente conoscitiva: viene rifiutata l’idea della giurisprudenza meccanica che segue il modello deduttivo b) l’attività giudiziale – pur in presenza di regole legislative o giurisprudenziali – è sempre creativa; c) la distinzione fra legislazione e giurisdizione è quantitativa e non qualitativa; d) l’integrazione delle lacune non è un’attività conoscitiva ma creativa Legislazione nel “pubblico interesse”? Sostiene Posner che farebbe parte del pensiero convenzionale che la legislazione è informata al pubblico interesse. Posner tuttavia ritiene, sulla base delle teorie della democrazia e delle assemblee legislative, nonché delle ricerche di economisti come George Stigler, James Buchanan, che tale idea sia falsa. In tutti i casi o in molti casi le leggi sarebbero redatte e approdate per soddisfare gli interessi privati di uno o più gruppi di pressione, dotati di elevate capacità di vedere accolte le proprie istanze. Tali gruppi, in particolare, userebbero il processo legislativo per ottenere da terzi – da categorie politicamente deboli o al limite da tutti i contribuenti e dalla generalità dei consociati – dei vantaggi, delle rendite. Così le leggi, realisticamente, dovrebbero essere classificate: a) come leggi private (o privilegia): rispondenti ad interessi particolari di uno o più gruppi di pressione; b) come leggi nel “pubblico interesse”: ciò si verifica di solito rispetto alle questioni su cui o vi è consenso o non vi sono gruppi di pressione così forti da poter influire; c) come leggi “miste”: che perseguono sia obiettivi privati che pubblici. Sulla base di questa ripartizione Posner contesta quelle teorie che suggeriscono di ricostruire l’obiettivo pubblico perseguito dalla legge: perché solo alcune leggi hanno un obiettivo pubblico. Dice Posner che se il giudice enfatizzasse l’aspetto pubblico di una legge mista alla fine non vi sarebbero più leggi miste ma solo leggi che chiaramente perseguono interessi privati. Sicché ricostruire l’intenzione del legislatore con l’obiettivo di adeguare la legge ad interessi pubblici è un errore tattico prima ancora che teorico. Dottrina pragmatista dell’interpretazione Posner attacca anche il suo mentore Oliver Wendell Holmes nella parte in cui questi suggeriva di interpretare un testo di legge partendo dal “significato comune e originario delle parole” (plain meaning). Holmes suggeriva di interpretare la legge secondo il significato che le parole avevano per un comune parlante (normal English speaker). Posner gli obietta due cose: innanzitutto il linguaggio è spesso vago e comunque mutevole; in secondo luogo fa notare che quelle teorie che invocano la fedeltà al testo (cd. originalismo di Robert Bork e di Antonin Scalia) in realtà sono anche essere intrise di certe prese di posizioni ideologiche (sia Bork che Scalia non nascondono la propria fede conservatrice). In altri termini: a) non esiste una sola risposta corretta per ogni caso (contro Ronald Dworkin) b) la fiducia nell’unica risposta corretta dipende o da formalismo tralatizio ovvero per inconfessate ragioni ideologiche; c) la specificità del ragionamento giuridico è un mito: infatti gli strumenti sono mutuati dalla logica, dalla retorica, o dal ragionamento pratico in genere e pertanto non hanno nulla di specificamente giuridico. d) La scelta di questo o di quello strumento è in vista del fine che si vuole ottenere; e) Meglio sbarazzarsi dell’ideologismo occulto e sostituirlo con un nuovo principio guida: un modo di ragionare pragmatico-economico. In cosa consiste la dottrina pragmatista dell’interpretazione? Si è detto che la dottrina di Posner rimane nell’alveo delle dottrine razionaliste. Oltre ad una pars destruens (che è stata descritta), Posner elabora una pars construens: una dottrina dell’interpretazione dei documenti legislativi e costituzionali, informata ad un principio, di chiaro stampo pragmatico economico, che potrebbe chiamarsi “principio del consequenzialismo sistemico”. Cos’è innanzitutto il pragmatismo? Il pragmatismo, ci dice Posner, è l’invenzione di tre filosofi americani, Charles Sanders Peirce, William James e John Dewey, (tra fra la fine del 1860 e l’inizio del 1950), e che affonda le sue radici nel pensiero aristotelico e in quello dei sofisti, e in tempi più recenti nel pensiero di Hume, Mill, Emerson. La cosa che accomuna i vari esponenti del pragmatismo è l’avversione nei confronti dell’aspirazione – dal sapore platonico - per la verità assoluta, per il rigore logico, per il regno dei concetti separato dalla realtà. I pragmatisti al contrario furono empiristi o sperimentalisti. Anche Holmes partecipò alle sessioni sul pragmatismo tenute da James e Peirce. Nell’espressione: the life of law has not been logic but experience, Holmes anticipa ciò che sarà un suo modo di vedere l’attività giudiziale. Il giudice non segue la logica deduttiva rigorosa quando decide i casi, ma nei casi difficili decide innanzitutto guardando alle conseguenze socio-economiche della propria decisione. Holmes non riteneva che i giudici fossero dei veri e propri policy makers, dei legislatori, ma era convinto che le loro idee politiche – come ad esempio la paura del socialismo – influenzassero le decisioni più che i precedenti. Il pragmatismo filosofico e quello giuridico progredirono di pari passo. Un celebre saggio di John Dewey (Logical method and law, 1924) faceva ampio rinvio agli scritti di Holmes. Ma il pragmatismo giuridico non è necessariamente ancorato a tesi filosofiche sebbene condivida con il pragmatismo filosofico una sostanziale avversione nei confronti delle mistificazioni che si nascondono nel linguaggio. Ad esempio, sostengono i pragmatisti che il linguaggio giuridico è ricco di espressioni legalistiche (il cd. legalese) del tipo: inammissibilità, decadenza, ne bis in idem, stare decisis,. E tuttavia il ragionamento giuridico, a dispetto delle forme pompose, è identico al ragionamento comune Il punto centrale del pragmatismo giuridico è l’attenzione alle conseguenze (sociali, economiche, politiche) che ogni decisione giuridica comporta. Questo implica che non solo il legislatore o l’amministratore, ma anche il giudice deve ragionare in termini principalmente consequenzialisti. Richard Posner sostiene ad esempio che i giudici – specie i giudici americani – non possono non essere pragmatisti. Sicché il pragmatismo è una teoria sia descrittiva (e cioè su come di fatto ragionano i giudici) che normativa (su come dovrebbero ragionare). Molte decisioni non sono dunque giuste o sbagliate: perché più di una decisione può essere corretta alla luce dell’interpretazione di un testo di legge (che appunto ammette più soluzioni). Ma ci sono decisioni che sono più pratiche di altre: ci sono decisioni che sono unpragmatic: scorrette non in ragione della motivazione, ma in ragione delle conseguenze che essere producono. Si noti che Posner quando parla di conseguenze lo fa in relazione non alle singole parti del caso, ma al sistema nel suo complesso. Sicché una decisione magari un po’ iniqua per le parti può tuttavia essere più pratica che una decisione che si limiti a decidere senza guardare agli effetti complessivi nel sistema. Una decisione è corretta da un punto di vista pragmatico se produce sul sistema un benessere superiore a quello che produrrebbe la scelta contraria. Si noti che questo modo di ragionare non nega l’importanza di altre forme di ragionamento giuridico (la fedeltà ai precedenti, l’interpretazione letterale, il ragionamento analogico, etc…) ma le ritiene utili solo se servono allo scopo del pragmatismo. In altri termini, può essere saggio da un punto di vista pragmatico rimanere fedeli ai precedenti, ovvero ribadire la sottomissione del giudice alla legge (e dunque la separazione dei poteri) o insistere sull’interpretazione restrittiva. Ma solo nella misura in cui questi argomenti non servono agli scopi ulteriori di cui le decisioni devono tendere conto. Ad esempio, un atteggiamento di deferenza alla lettera della legge (e dunque al volere del legislatore) è dettato non da considerazioni di principio (il legislatore è meglio del giudice) e che sarebbero nulla più che una petizione di principio, ma da considerazioni pragmatiche: prima di annullare una certa legge perché incostituzionale occorre vedere come funziona in pratica e se dunque riesce a produrre effetti positivi sulla società. Ad esempio, dice Posner sarebbe stato poco saggio dichiarare incostituzionali i programmi di azione affermativa (quelli che attribuiscono corsie di ingresso preferenziali all’università o nel pubblico impiego a certe categorie di cittadini) prima di vedere che effetto questi programmi avrebbero prodotto nella società (social experimentalism). L’analisi di Posner va arricchita di considerazioni mutuate dal mondo economico: sul presupposto che le leggi economiche possono aiutarci a comprendere e quantificare il benessere (o il malessere) che può derivare da una certa decisione. Siccome la decisione (sia legislativa che giudiziale) è una soluzione per almeno due interessi configgenti in gioco allora l’economia può servire allo scopo. Ad esempio: è legittimo prevedere diritti di autore che si protraggono per 70 anni ovvero brevetti remunerosissimi – anche per prodotti farmaceutici – che aumentano spaventosamente i prezzi di prodotti i cui costi di produzione sono bassi? Per decidere occorre chiedersi: cosa succederebbe se non vi fossero le leggi in materia di proprietà intellettuale? La ricerca scientifica – non remunerata – continuerebbe a questa velocità? Stesso discorso può applicarsi ai diritti civili e alle libertà fondamentali. Con l’obiettivo di un maggiore benessere complessivo, è legittimo comprimere qualche libertà (e magari reintrodurre la tortura?). Per inciso, un filosofo del diritto americano Ronald Dworkin – che sostiene tesi diametralmente opposte a quelle di Posner, afferma che i diritti fondamentali si contraddistinguono proprio per la loro non negoziabilità: perché non possono essere soppressi neanche se fosse nell’interesse generale farlo (Guantanamo ad esempio è illegittimo anche se la sicurezza degli americani dovesse aumentare). Il giudice, dice Posner, – come già diceva Roscoe Pound – deve essere esperto di economia, di statistica, oltre che di buon senso. Esempi concreti: Clinton v. Jones: e’ un caso di qualche anno fa che ha avuto molta risonanza nella stampa. Il Presidente Clinton era stato chiamato in giudizio dalla ex segretaria, Paula Jones che lo accusava di molestie. La questione che fu sollevata di fronte alla Corte Suprema fu: può un presidente legittimamente invocare la sospensione dei processi – anche civili – per fatti avvenuti prima che il mandato abbia avuto inizio? La Corte decise, che, ai sensi dell’art. II della Costituzione, non vi era alcun diritto del Presidente di invocare la sospensione dei processi. L’art. II, sez. IV della Costituzione stabilisce che per certi reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni il Presidente viene processato dal Congresso e non dalla giurisdizione ordinaria. La disposizione in particolare recita: II Presidente, il Vicepresidente e tutti i titolari di cariche pubbliche negli Stati Uniti saranno destituiti dal loro ufficio qualora, in seguito ad accusa mossa dalla Camera, risultino colpevoli di tradimento, di corruzione o di altri gravi reati. La questione che fu portata di fronte alla Corte era se la clausola potesse essere interpretata nel senso di garantire al Presidente immunità dai processi civili per tutta la durata della carica. La Corte all’unanimità affermò che non esiste immunità del Presidente dalle azioni civili proposte nei suoi confronti durante la carica. Il giudice Breyer – in un’opinione concorrente – affermò che la sospensione avrebbe potuto essere richiesta se il Presidente avesse dimostrato che il processo interferiva pesantemente con i suoi impegni. Posner afferma che da un punto di vista giuridico entrambe le soluzioni avrebbero potuto essere corrette: e tuttavia la decisione che la Corte negò l’immunità, fu, a dire di Posner assolutamente unpragmatic: infatti produsse effetti deleteri sulla politica americana degli anni successivi. Esempio di sentenza costituzionale pragmaticamente orientata: Nella sentenza n. 18/1989 la Corte Costituzionale è stata chiamata, fra le altre cose, a valutare la conformità alla Costituzionale dell’art. 16 della l. 117/1988 nella parte in cui fa obbligo ai tribunali collegiali di redigere processo verbale. L’obbligo di processo verbale della decisione previsto dall’art. 16 della l. 117 si inseriva piuttosto nel processo di burocratizzazione della giustizia che si accompagna per senso comune all’aumento di carta, ma soprattutto all’idea che l’identificazione dell’autore del provvedimento (o, come dirà qualche anno più tardi la legge sul procedimento amministrativo, del responsabile del procedimento) possa segnare i confini di responsabilità (civile e mai politica) di chi assume le decisioni. Il sottotesto della legge 117 – per altri versi rispondente all’esigenza meritoria di risarcire le vittime della giustizia – è una caricatura grottesca dei principi napoleonici. L’obbligo di processo sommario delle decisioni collegiali rispondeva all’esigenza di sapere chi aveva detto cosa in funzione essenzialmente punitiva. Non stupisce dunque che la Corte Costituzionale italiana con la sentenza n. 18 del 1989 abbia dichiarato incostituzionale l’art. 16 senza peraltro sconfessare principio del dissenso. Nella motivazione, la Corte respinge l’assunto secondo cui la segretezza della camera di consiglio è necessaria a garantire l’indipendenza della decisione. La norma piuttosto viene annullata, con un’interpretazione che il giudice Richard Posner definirebbe “pragmatic from a legally point of view” (Posner 2008), per gli effetti deleteri sull’ingolfamento della gi ustizia che essa avrebbe potuto comportare. La norma cui la Corte fa riferimento è l’art. 97 della Costituzione. “[…] in riferimento all'art. 97 della Costituzione, sotto il profilo che il sistema di verbalizzazione previsto dalla norma impugnata incide negativamente sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia. Il che comporta l'assorbimento degli ulteriori profili d'illegittimità prospettati in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Questa Corte ha già avuto modo di affermare che l'art. 97 della Costituzione, nello stabilire che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento dell'amministrazione, non ha inteso riferirsi ai soli organi della pubblica amministrazione in senso stretto, ma anche agli organi dell'amministrazione della giustizia (Corte cost. 7 maggio 1982, n. 86). L'art. 16 della l. n. 117 del 1988 prevede la compilazione di un sommario processo verbale, che deve contenere la menzione della unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, "su ciascuna delle questioni decise", con l'indicazione nominativa di ogni componente del collegio che lo abbia espresso. Il che comporta una continua attività di verbalizzazione da parte dei collegi giudicanti, in relazione a qualsiasi questione decisa, sia essa pregiudiziale, preliminare, di diritto o di fatto, a prescindere dall'esistenza del dissenso di alcuno dei membri del collegio, della rilevanza del dissenso ai fini di eventuali azioni di responsabilità e dalla richiesta di verbalizzazione da parte dell'interessato. Ciò implica un intralcio costante all'attività giudiziaria, incompatibile col principio del buon andamento dell'amministrazione della giustizia e non giustificato dalle finalità che la norma intende realizzare. Tale norma va dichiarata costituzionalmente illegittima, per contrasto con l'art. 97 della Costituzione, nella parte in cui prevede la compilazione obbligatoria del processo verbale in relazione ad ogni deliberazione del collegio, anziché la compilazione facoltativa di esso nelle sole ipotesi in cui la richiedano uno o più membri del collegio medesimo”. Sentenza 18/1989 Giudizio GIUDIZIO DI INCIDENTALE LEGITTIMITÀ Presidente SAJA - Redattore Udienza Pubblica del 29/11/1988 Decisione del 11/01/1989 Deposito del 19/01/1989 Pubblicazione in G. U. 25/01/1989 Norme impugnate: Massime: 12912 12913 12914 12915 12916 Atti decisi: N. 18 SENTENZA 9-18 GENNAIO 1989 COSTITUZIONALE IN VIA LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI; ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale della legge 13 aprile 1988, n. 117 ("Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati"), nella parte in cui disciplina la responsabilità civile dei magistrati, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 29 aprile 1988 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Maté Manlio e la Banca Nazionale del Lavoro, iscritta al n. 270 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale dell'anno 1988; 2) ordinanza emessa il 4 maggio 1988 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Marconi Francesco e l'I.A.C.P. della provincia di Roma, iscritta al n. 326 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 30, prima serie speciale dell'anno 1988; 3) ordinanza emessa il 10 maggio 1988 dal Tribunale di Biella nel procedimento civile vertente tra Machetti Mara e Cagnacci Massimo, iscritta al n. 327 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 30, prima serie speciale dell'anno 1988; 4) ordinanza emessa il 2 maggio 1988 dal Tribunale di Catanzaro nel procedimento civile vertente tra Rotundo Lorenzo e Senese Bentito, iscritta al n. 350 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 31, prima serie speciale dell'anno 1988; 5) ordinanza emessa il 2 maggio 1988 dal Pretore di Roma nel procedimento civile vertente tra Consorzio tenuta di Decima e Tordi Edmondo, iscritta al n. 358 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 31, prima serie speciale dell'anno 1988; 6) ordinanza emessa il 26 aprile 1988 dalla Corte d'Appello di Trieste nel procedimento penale a carico di Polojaz Danilo, iscritta al n. 382 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale dell'anno 1988; 7) ordinanza emessa il 2 maggio 1988 dal Tribunale di Bari - Sezione specializzata Tossicodipendenze - nei confronti di Ambruoso Nazario, iscritta al n. 396 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale dell'anno 1988; 8) ordinanza emessa il 28 aprile 1988 dalla Commissione tributaria di primo grado di Ravenna sul ricorso proposto da Vincenzi Umberto contro l'Ufficio IVA di Ravenna, iscritta al n. 422 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale dell'anno 1988; 9) ordinanza emessa il 3 maggio 1988 dalla Commissione tributaria di primo grado di Roma sul ricorso proposto dall'Associazione della Stampa romana contro il Secondo Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Roma iscritta al n. 448 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale dell'anno 1988; 10) ordinanza emessa il 12 maggio 1988 dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia Sezione di Catania sul ricorso proposto da Coco Giuseppe, iscritta al n. 460 del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale dell'anno 1988; Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 29 novembre 1988 il Giudice relatore Gabriele Pescatore; Udito l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per il Presidente del Consiglio dei Ministri; RITENUTO IN FATTO 1. - Il Tribunale di Roma, con ordinanza 29 aprile 1988 (R.O. n. 270 del 1988) ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 97, 101 e 104 della Costituzione, dell'art. 131, ultimo comma, c.p.c., aggiunto dall'art. 16, secondo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117. La rilevanza della questione è motivata in relazione al fatto che nel procedimento a quo, in sede di deliberazione, doveva farsi applicazione - con la redazione del processo verbale del provvedimento collegiale - della norma impugnata. Il giudice a quo afferma, in relazione alla dedotta violazione degli artt. 101 e 104 della Costituzione, che la compilazione del processo verbale dei provvedimenti collegiali, correlata alla possibilità della divulgazione delle posizioni assunte dai giudici in sede di deliberazione, ove il verbale sia acquisito nel giudizio di rivalsa, si pone in contrasto con il principio della segretezza della camera di consiglio stabilito all'art. 276, primo comma, c.p.c. Detto principio avrebbe "valenza costituzionale", in quanto "funzionale all'indipendenza dell'attività giurisdizionale (art. 104, primo comma, della Costituzione) ed alla soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, della Costituzione). Infatti, soltanto attraverso l'impersonalità della deliberazione, garantita dalla segretezza, ciascun componente del collegio sarebbe sottratto a condizionamenti. Argomento contrario a tali affermazioni non potrebbe trarsi dall'istituto della dissenting opinion, tipico della tradizione inglese, poiché l'espressione della dissenting opinion costituisce una facoltà del giudice dissenziente e può ben riguardare solo le ragioni della decisione e non anche il contenuto dispositivo del provvedimento. Inoltre, essa mira a tutelarne l'immagine esterna. Non vi sarebbe, inoltre, alcuna uniformità concettuale fra tale istituto e quello regolato dall'art. 16 della l. n. 117 del 1988, che prevede l'obbligo di dare atto del dissenso, e non già la mera facoltà del dissenziente di esternarlo. Nell'ordinanza di rimessione si sottolinea che nel verbale va annotata l'unanimità o il dissenso su ogni questione. Il che implica incertezze sulla riferibilità ai singoli componenti del decisum finale. L'unico risultato certo fra "tante incertezze e tante inutili rivelazioni" sarebbe "che i voti di ciascuno saranno stati dati in un contesto nel quale l'espressione di una o di un'altra opinione potrebbe essere stata indotta da considerazioni diverse o ulteriori rispetto a quelle che il giudice in sola scienza e coscienza avrebbe valutato davvero determinanti. Il che è l'esatto contrario degli scopi con la garanzia d'indipendenza perseguiti". In relazione alla dedotta violazione dell'art. 97 della Costituzione l'ordinanza rileva che la norma impugnata inciderebbe negativamente anche sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia. Infatti, da un lato la deliberazione collegiale è spesso il frutto di "mediazioni" tra difformi valutazioni in fatto e di diverse opinioni in diritto che non possono essere ostacolate senza compromettere la buona amministrazione della giustizia. D'altro lato, la rapidità della decisione, non è agevolata dall'esame analitico di tutti i fascicoli delle cause poste in deliberazione da parte di ciascun membro del collegio, come la possibile responsabilità per colpa da affermazione di fatto inesistente o da negazione di fatto esistente ex actis (art. 2, terzo comma, lettere b e c, l. cit.) richiederebbe. Irragionevole è poi, avere imposto la verbalizzazione anche per il caso di unanimità della decisione e non avere invece rimesso alla facoltà del dissenziente di far constare il suo dissenso (soluzione questa che, peraltro, secondo il giudice a quo, anche se più congrua di quella prescelta, contrasterrebbe anch'essa con gli artt. 101 e 104 della Costituzione). Nel prospettare l'illegittimità costituzionale della norma impugnata, il giudice a quo rileva, infine, che un'eventuale declaratoria d'illegittimità costituzionale di essa, comporterebbe l'impossibilità di provare, ignorandosi la posizione assunta da ciascun giudice in camera di consiglio, la responsabilità dei singoli membri del collegio. Potendo ciò comportare un deteriore trattamento, in materia di responsabilità, per il giudice monocratico, questa Corte potrebbe trarne le necessarie conseguenze ex art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87, ove non ritenesse giustificabile tale diverso trattamento. 2. - Davanti a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Nelle note depositate si premette che la estensione della nuova disciplina in tema di responsabilità agli organi giudiziari collegiali, è necessaria per garantire la parità di trattamento con gli organi giurisdizionali monocratici e che la conseguente disciplina della verbalizzazione dei provvedimenti giurisdizionali collegiali, è a sua volta necessaria per assicurare, in ossequio al precetto dell'art. 28 della Costituzione, la natura personale e diretta della responsabilità dei giudici, evitando di configurare una forma di responsabilità oggettiva. Quanto ai singoli profili d'incostituzionalità, si osserva che la singolarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziali, la stessa posizione super partes del magistrato giustificano una normativa differenziata, per i magistrati, in tema di responsabilità, rispetto a quella degli altri dipendenti dello Stato. Inoltre, l'obbligo di verbalizzare non costituirebbe un ostacolo alla funzionalità dell'organo collegiale, imponendo ai singoli membri del collegio l'esame analitico di tutti i fascicoli di causa, "trattandosi di decisione personale di ciascun giudice, da adottarsi in relazione al grado del rapporto di fiducia intercorrente con il relatore". Quanto al valore costituzionale del principio della segretezza delle deliberazioni degli organi giurisdizionali, nelle note depositate se ne contesta il fondamento, ricordando l'esistenza di giudici monocratici - non per questo ritenuti privi d'imparzialità e indipendenza - e l'espressa previsione dell'art. 118 disp. att. c.p.c. 3. - Questioni analoghe sono state sollevate con ordinanze 4 maggio 1988 del Tribunale di Roma (R.O. n. 326 del 1988); 2 maggio 1988 del Tribunale di Catanzaro (R.O. n. 350 del 1988); 3 maggio 1988 della Commissione tributaria di primo grado di Roma (R.O. n. 448 del 1988). In tutte tali ordinanze si sottolinea la connessione tra segretezza della deliberazione in camera di consiglio, indipendenza e imparzialità del giudice. Nell'ordinanza del Tribunale di Catanzaro si evidenzia anche che il legislatore ha riconosciuto piena tutela al segreto professionale (art. 351 c.p.p.), con la conseguente irrazionalità della disciplina disposta dalla legge impugnata riguardo al trattamento normativo riservato al segreto della camera di consiglio. Nei giudizi così promossi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate per le ragioni già esposte nel giudizio promosso con l'ordinanza 19 aprile 1988 del Tribunale di Roma. 4. - Questione in parte analoga è stata sollevata anche, nel corso di un procedimento penale, dalla Corte d'Appello di Trieste, con ordinanza 26 aprile 1988 (R.O. n. 382 del 1988). Con tale ordinanza è stata sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, primo comma, già citato, della l. 13 aprile 1988, n. 117. Si afferma nell'impugnativa, in relazione al profilo attinente all'art. 97 della Costituzione, che gli adempimenti connessi a tale norma comportebbero uno "spreco di attività", rallentando l'amministrazine della giustizia e così turbandone il buon andamento. La norma sarebbe anche irrazionale e concreterebbe un eccesso di potere del legislatore perché solo nelle ipotesi di provvedimento concernente la libertà provvisoria senza motivazione - e non anche nelle altre ipotesi previste dall'art. 2 della l. n. 117 del 1988 - potrebbe ragionevolmente ravvisarsi il dissenso di un componente del Collegio rispetto alla maggioranza. 5. - Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata. La disciplina della verbalizzazione dei provvedimenti giurisdizionali collegiali posta dall'art. 16 della l. n. 117 del 1988, risponderebbe all'esigenza di rendere applicabile, in ossequio al principio di eguaglianza, anche agli organi giurisdizionali collegiali la nuova disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati e ad assicurare, in ossequio al precetto dell'art. 28 della Costituzione, la natura personale e diretta della responsabilità dei giudici componenti il collegio. In relazione a tale esigenza la scelta operata dal legislatore non sarebbe sindacabile e del tutto oscure sarebbero le obbiezioni d'irrazionalità mosse con l'ordinanza di rimessione. 6. - Il Tribunale di Biella, con ordinanza 10 maggio 1988 (R.O. n. 327 del 1988), ha sollevato, a sua volta, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 28 della Costituzione, degli artt. 1, comma secondo, 2 e 16 della l. 13 aprile 1988, n. 117, nonché dell'art. 131 c.p.c., come modificato da detto art. 16. Nell'ordinanza si rileva che, nell'ordinamento processuale civile, la figura del relatore ha una funzione particolare in relazione alla formazione della volontà del collegio. Egli riferisce agli altri componenti sui fatti di causa e le questioni da decidere (art. 275 c.p.c.), assolvendo ad un compito essenziale ai fini del funzionamento della giurisdizione. Sarebbero, dunque, irrazionali le norme impugnate, in quanto non prevedono un differente grado di responsabilità, all'interno dell'organo collegiale, fra il relatore e gli altri membri non relatori. Ne deriverebbe la violazione dell'art. 3 della Costituzione, perché non è differenziata la responsabilità dei membri del collegio, con riguardo alla particolare loro posizione. Sarebbe, inoltre, violato l'art. 28 della Costituzione in quanto esso non consente la previsione di una responsabilità per fatto altrui. Dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, eccependo in via pregiudiziale l'inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, vertendo su norme che non formavano oggetto di applicazione nel giudizio a quo. In via subordinata ha dedotto l'infondatezza della questione, non ostando l'art. 28 della Costituzione, alla responsabilità prevista dalle norme impugnate per i magistrati e non essendo fondata la tesi secondo la quale i membri dei collegi giudicanti non sarebbero tenuti a controllare, consultando anche i fascicoli delle cause delle quali non siano relatori, i fatti e le risultanze processuali. 7. - Con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 358 del 1988), nel corso di un procedimento civile pendente dinanzi ad un pretore onorario di Roma, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 7, terzo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui prevede la responsabilità dei pretori onorari non solo per dolo, come per i conciliatori ed i giudici popolari, ma anche per la colpa di cui all'art. 2, terzo comma, lett. b) e c) della l. n. 117 del 1988. Secondo il giudice a quo tale differenza di trattamento non troverebbe alcuna giustificazione. Nel giudizio così promosso è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, perché essa non attiene né ad una norma che deve essere applicata nel giudizio, né a norme che ne regolano lo svolgimento. Nel merito, si afferma che la questione è manifestamente infondata, giacché la diversa disciplina dettata per il pretore onorario troverebbe razionale fondamento nella sua qualifica professionale e nella specifica formazione tecnica, per le quali egli ragionevolmente sarebbe esposto a responsabilità anche per violazione di legge. 8. - Con altra ordinanza, emessa il 2 maggio 1988 (R.O. n. 396 del 1988), il Tribunale di Bari sezione specializzata per le tossicodipendenze, composta dal presidente, un giudice e due esperti - ha sollevato, in riferimento agli artt. 101, 104, 107 e 108 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma terzo, della l. 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui limita la responsabilità dei cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali ai soli casi di dolo e colpa gravi di cui all'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c), con esclusione della "grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile". Secondo il giudice a quo la norma impugnata violerebbe gli artt. 101, 104 e 108 della Costituzione, implicando una disparità tra i componenti del collegio in ordine all'obbligo di osservare la legge e consentendo, assurdamente, "che i componenti c.d. laici possano, a differenza degli altri, violare la legge senza conseguenze personali", così alterandosi l'equilibrio interno del Collegio giudicante. Essa violerebbe anche l'art. 107, comma terzo, della Costituzione - a norma del quale i magistrati si distinguono soltanto per le funzioni esercitate - implicando una distinzione in rapporto alla diligenza e perizia alle quali i componenti del collegio sono tenuti. Dinanzi a questa Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza riguardando norme non applicabili nel giudizio a quo. Ha dedotto, comunque, nel merito, l'infondatezza della questione. In proposito, nelle note depositate, l'Avvocatura generale dello Stato osserva che la ratio dell'esclusione della responsabilità dei giudici laici per grave violazione di legge, è da ricercarsi sia nella loro particolare esperienza professionale, diversa da quella specifica nelle materie giuridiche propria dei giudici togati, sia nel diverso apporto ad essi richiesto in relazione alla decisione. 9. - La Commissione tributaria di primo grado di Ravenna, con ordinanza 28 aprile 1988 (R.O. n. 422 del 1988) - emessa nel corso di un giudizio promosso da un contribuente avverso l'Ufficio IVA di Ravenna - a sua volta ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, nonché all'intero titolo quarto della Costituzione, degli artt. 1, 7, terzo comma e 8, quarto comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117. Sulla rilevanza, nell'ordinanza di rimessione si afferma che le questioni attengono alla costituzione del giudice e che essa sussiste in quanto, ove le norme impugnate fossero illegittime, la decisione della Commissione tributaria sarebbe nulla. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo premette che la normativa della l. n. 117 del 1988 si applica anche alle Commissioni tributarie. Mette quindi in evidenza alcune irrazionalità che deriverebbero dal diverso regime di responsabilità al quale sarebbero sottoposti i membri delle commissioni tributarie, a seconda che siano magistrati o "membri laici". Questi ultimi infatti, a differenza dei primi, rispondono solo in caso di dolo e nelle ipotesi di colpa grave previsti dall'art. 2, comma terzo, lett. b) e c) della l. n. 117 del 1988, con esclusione dell'ipotesi della "grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile". Poiché i collegi giudicanti delle Commissioni Tributarie possono (ai sensi dell'art. 2 d.P.R. n. 636 del 1972) essere composti e presieduti da "magistrati" e da "estranei alla magistratura", secondo il giudice a quo, dalla normativa impugnata deriverebbe la violazione del principio di eguaglianza. La violazione del diritto dei cittadini a che controversie identiche siano decise da giudici di pari capacità o comunque tenuti allo stesso grado di diligenza, costituirebbe violazione anche di un principio generale desumibile dagli artt. 24 e 25 della Costituzione, e dall'intero titolo quarto della Costituzione. 10. - Dinanzi a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo in via pregiudiziale che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, riguardando norme che non dovevano essere applicate nel giudizio a quo. In via subordinata ha chiesto che siano dichiarate infondate. In proposito l'Avvocatura Generale dello Stato è tornata a sottolineare - come già in altri giudizi che la ratio della esclusione della responsabilità per grave violazione di legge del giudice estraneo alla magistratura, è da individuare nella diversa formazione culturale dei magistrati e dei laici. Quanto alla diversità di trattamento degli utenti del servizio di giustizia tributaria, essa deriverebbe non dalle norme impugnate, ma da quelle che stabiliscono la composizione delle Commissioni tributarie. Comunque, la partecipazione ai collegi giudiziari di cittadini estranei alla magistratura è espressamente prevista dall'art. 102 della Costituzione ed "alle diverse tendenze culturali dei singoli Collegi Giudiziari", sarebbe posto rimedio "col sistema delle impugnazioni e in definitiva con l'istituto del ricorso alla Corte Suprema di Cassazione". 11. - Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia sezione di Catania con ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 460 del 1988) ha sollevato, in riferimento agli artt. 101, 104, 108 e 110 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'intera l. 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui introduce e disciplina la responsabilità dei giudici per colpa grave, con esclusione degli artt. 10, 11, 12, 13, 14 e 15. In via subordinata ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 16 della stessa legge, nella parte in cui dispone la verbalizzazione di ogni provvedimento giurisdizionale collegiale, anche nel caso di decisione all'unanimità e di decisione a maggioranza per il dissenso del relatore. Affermata la rilevanza e la non manifesta infondatezza di tali questioni, l'ordinanza osserva che la normativa impugnata contrasta col principio di "terziarità" del giudice rispetto alle parti in causa, così ledendone l'indipendenza, che ad essa è strettamente collegata. Infatti la l. n. 117 del 1988 conferirebbe alle parti "strumenti per condizionare il comportamento del giudice nel processo", giacché la previsione di una responsabilità per colpa grave introdurrebbe "meccanismi di controprocesso" a carico del magistrato. Inoltre, la proposizione di un'azione di responsabilità verso lo Stato ai sensi della legge impugnata, costituirebbe, per il magistrato, un fattore di intimidazione preventiva in relazione alla sua futura attività giurisdizionale concernente la stessa parte che ha proposto l'azione o, comunque, a controversie analoghe a quella da cui tale azione è scaturita. L'esperibilità dell'anzidetta azione spingerebbe il magistrato alla totale adesione ai principi consolidati e segnerebbe la fine di ogni innovazione giurisprudenziale, nonché la "tendenza dei giudici a convergere verso valori medi e dominanti in tutti i casi in cui il giudizio si sostanzi in una scelta di valori". D'altro canto, la possibilità d'errore connaturata col processo (l'istituto del giudicato serve, appunto, ad escludere la rilevanza dell'errore dal momento in cui si forma) e l'esistenza, all'interno di esso, dei mezzi d'impugnazione, rendono incompatibile - secondo il giudice a quo - un sindacato, all'esterno del processo, alla stregua del criterio di colpa, sul modo in cui il giudizio si è svolto. A conforto di tali considerazioni - ed a sostegno del profilo d'incostituzionalità attinente all'art. 10 della Costituzione - nell'ordinanza di rimessione si deduce altresì che l'Assemblea generale dell'O.N.U., con una risoluzione adottata il 29 novembre 1985, ha ritenuto di dover pronunziarsi negativamente sulla ammissibilità di una responsabilità civile per colpa dei magistrati. Tale statuizione - secondo il giudice a quo - deve qualificarsi come norma di diritto internazionale generale, in quanto contenuta in un atto avente appunto natura di fonte di norme giuridiche internazionali di carattere generale. Quanto alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 della l. n. 117 del 1988 - sollevata in via subordinata alla eventuale declaratoria di non fondatezza delle questioni anzi dette - il giudice a quo contesta la ragionevolezza di esso nella parte in cui impone la verbalizzazione dei provvedimenti giurisdizionali collegiali anche nel caso di decisione all'unanimità e di decisione a maggioranza per il dissenso del relatore. Un ulteriore sospetto di incostituzionalità sotto il profilo del contrasto con il principio di ragionevolezza viene prospettato, infine, con riferimento all'assimilazione della responsabilità del giudice estensore della sentenza (normalmente coincidente con il relatore della causa) a quella degli altri componenti del collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione. In proposito, nell'ordinanza si sottolinea che soltanto il relatore-estensore, in quanto unico giudice a ricevere in consegna il fascicolo della causa per lo studio e la relazione al collegio, è in condizione di avere la diretta percezione di tutti gli atti e i documenti processuali; inoltre, a fronte della collegialità della deliberazione del dispositivo, la stesura della motivazione è opera esclusiva dell'estensore. 12. - Anche nel giudizio così promosso è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate. Nelle note depositate si osserva in proposito che l'affermazione di principio sulla quale si basa l'ordinanza di rinvio, che cioè la responsabilità del giudice per colpa grave sarebbe in contrasto con precetti della Costituzione, è stata già smentita dalla Corte costituzionale con la sentenza marzo 1968, n. 2, secondo la quale l'art. 28 della Costituzione ha fissato un principio generale valevole anche per i magistrati. La normativa impugnata, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, ponendo limiti alla responsabilità del giudice per colpa grave, darebbe appunto attuazione a tale principio, tenendo nel debito conto la peculiarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziali e la posizione super partes del magistrato. Inoltre, la specifica elencazione delle ipotesi che realizzano la colpa grave del giudice, diversificano chiaramente il giudizio di responsabilità da quello di impugnazione ed escludono che la responsabilità possa insorgere in relazione alla scelta di tesi giurisprudenziali. La prescrizione della verbalizzazione del provvedimento giurisdizionale, sia esso adottato all'unanimità ovvero a maggioranza, risponde alla esigenza di salvaguardare la segretezza della deliberazione collegiale fin quando questa non risulti in chiaro contrasto con l'esigenza - avente anch'essa rilievo costituzionale - di garantire la natura personale e diretta della responsabilità dei giudici componenti il collegio ed evitare ogni possibilità di configurare forme di responsabilità oggettiva. Considerato in diritto 1. - La Corte è chiamata a pronunciarsi su un insieme di questioni attinenti tutte al tema della responsabilità civile del giudice, accomunate dall'oggetto e da profili analoghi, cosicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza. 2. - La questione più generale, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione di Catania, con ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 460 del 1988), investe sotto un duplice profilo l'intera l. 13 aprile 1988, n. 117 nella parte in cui prevede e disciplina la responsabilità civile dei giudici per colpa grave sotto un duplice profilo. Secondo il Tribunale amministrativo regionale remittente, la previsione, in sé, di tale responsabilità contrasterebbe, innanzitutto, con gli artt. 101, 104 e 108 della Costituzione, compromettendo l'imparzialità della magistratura, con l'attribuire alle parti uno strumento di pressione idoneo ad influenzarne le decisioni. La possibilità di un "controprocesso, con finalità sanzionatorie a carico del magistrato, farebbe sorgere in lui, al momento della decisione di ogni controversia, un elemento d'interesse personale alla prudenza, al conformismo, alle scelte meno rischiose in relazione agl'interessi economici coinvolti nella causa", in contrasto con il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge. Ne deriverebbe la lesione della sua stessa indipendenza, che ha per presupposto uno status di piena libertà da ogni influenza e intimidazione esterna. Inoltre, la proposizione in concreto di azioni di danno verso lo Stato, esponendo il giudice all'eventuale rivalsa, inciderebbe sulla sua serenità - e quindi ancora sulla sua indipendenza - in relazione a giudizi analoghi a quelli che abbiano dato luogo a tali azioni, nonché ad altri proposti dinanzi a lui dalle stesse parti, esplicando una "forza psicologica di dissuasione dalla reiterazione di decisioni identiche o analoghe alla precedente". I giudici infine, sarebbero spinti all'adesione forzata a principi giurisprudenziali consolidati, per porsi al riparo da responsabilità, con la conseguente compromissione dell'indipendenza della magistratura e di ogni evoluzione giurisprudenziale. Nell'ordinanza di rimessione si rileva ancora che la possibilità di errore è connaturata al processo e l'esistenza, all'interno del processo, di appositi mezzi d'impugnazione finalizzati all'eliminazione dell'errore, costituiscono ragione d'incompatibilità fra processo e responsabilità del giudice a titolo di colpa. Prospettando un secondo profilo d'incostituzionalità, il giudice a quo deduce che l'Assemblea generale dell'O.N.U., tenendo conto della particolarità della funzione giurisdizionale, con una risoluzione adottata il 29 novembre 1985, ha affermato il principio secondo il quale i giudici devono godere d'immunità personale dalle azioni civili di risarcimento dei danni patrimoniali derivanti da atti impropri od omissioni nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali. Poiché detta risoluzione dovrebbe qualificarsi come norma di diritto internazionale generale, la legge impugnata violerebbe l'art. 10 della Costituzione, il quale stabilisce che l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. 3. - La questione è infondata sotto entrambi i profili. Va premesso che la legge 13 aprile 1988, n. 117 rappresenta il punto di arrivo di una lunga evoluzione che, in materia di responsabilità civile del giudice, ha conosciuto in Italia significativi mutamenti. Nei secoli dal XII al XV, prima del sorgere e dell'affermarsi dei tribunali supremi, l'interpretazione del diritto all'interno dei vari Stati italiani (spesso assai piccoli) era stata opera dei "dottori", glossatori o commentatori-consulenti. Ciò essi avevano fatto specialmente con i loro Consilia, basati sulla communis opinio e dati ai giudici dell'epoca, spesso inesperti del giure e sottoposti al sindacato di responsabilità, senza distinzione tra dolo e colpa. Da questa indicazione muove il sentiero normativo non sempre lineare, svoltosi, in un lungo arco di tempo, in parallelo con il vario configurarsi della posizione del giudice. L'affievolimento dell'idea dello Stato e della legge come volontà dello Stato, determinato dalle invasioni barbariche, si riflesse sull'idea della giurisdizione come funzione statale, funzione cioè di formulazione e di attuazione della volontà della legge. E quanto più la giurisdizione, dapprima con lo stabilimento delle istituzioni feudali, poi con il frazionarsi sempre crescente della sovranità, si venne polverizzando fra i giudici più diversi (popolari, regi, imperiali, feudali, ecclesiastici, comunali) e venne assumendo l'aspetto di una prerogativa del giudice, avente carattere patrimoniale, trasmissibile ed alienabile, tanto più il processo cessò di essere considerato come istituto pubblico di attuazione della legge, e si profilò esclusivamente come una contesa fra litiganti: il giudice non fu più considerato come l'organo pubblico di una funzione statale, ma come l'arbitro incaricato di dirimere questa contesa in base ai risultati delle prove. Poi, col sorgere e col consolidarsi della figura del giudice-funzionario, al quale era delegata l'amministrazione della giustizia, si aprì la via, da un lato, al delinearsi con maggiore precisione della responsabilità disciplinare, dall'altro, alla limitazione della sua responsabilità civile ai soli fatti dolosi. Su tali basi erano impostati la disciplina dell'art. 783 del codice di procedura civile del 1865, il quale già limitava, sostanzialmente, la responsabilità civile del giudice alle ipotesi di "dolo, frode o concussione" e "denegata giustizia", nonché gli artt. 55, 56 e 74 del codice di procedura civile del 1940. Questo assetto normativo privilegiava la responsabilità interna a carattere disciplinare - del giudice, rispetto alla responsabilità esterna, nel quadro di un ordinamento in cui non si erano ancora affermati i principi - frutto di lunga evoluzione e di progressivo ampliamento - relativi alla responsabilità in generale della Pubblica Amministrazione. Già prima della Costituzione repubblicana, dottrina e giurisprudenza concordavano nell'affermazione (che trovò maggiore ostacolo nei confronti dell'amministrazione militare e di quella ferroviaria) del principio che la lesione del precetto del neminem ledere determinava la responsabilità dell'ente pubblico. Svolgimento di tale principio, con connessa specificazione dei soggetti tenuti, è la regola enunciata nell'art. 28 della Costituzione, secondo la quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. Questo precetto è stato interpretato nel senso che la responsabilità dello Stato può esser fatta valere anteriormente o contestualmente con quella dei funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario (Corte cost. 8 giugno 1963, n. 88). Quanto al valore del riferimento alle "leggi penali, civili e amministrative", destinate a regolare in concreto la responsabilità dei dipendenti pubblici, è da richiamare il t.u. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3). Secondo gli artt. 22 e 23 di tale normativa, l'impiegato statale che "nell'esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalla legge o dai regolamenti cagioni ad altri un danno ingiusto" è personalmente obbligato a risarcirlo (art. 22, primo comma). È danno ingiusto (inquadrabile nella sfera dell'art. 2043 c. civ.) quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave "salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti" (art. 23, primo comma). L'azione di risarcimento nei confronti dell'impiegato statale può "essere esercitata congiuntamente con l'azione diretta nei confronti dell'Amministrazione, qualora in base alle norme ed ai principi vigenti dell'ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello Stato" (art. 22, primo comma). Nel caso che, in seguito all'esperimento dell'azione diretta, l'Amministrazione abbia risarcito il danno, è prevista l'azione in rivalsa contro il dipendente (art. 22, secondo comma e 18, primo comma d.P.R. cit.). 5. - Mentre per gl'impiegati civili dello Stato venne emanata tale normativa, che, in attuazione dell'art. 28 della Costituzione, li rendeva direttamente responsabili dei "danni ingiusti" cagionati nell'esercizio delle loro attribuzioni per colpa grave o dolo, per i magistrati restò ferma la previgente disciplina, nella sua consistenza di ius singulare, posta dagli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.. In base a questa il giudice era civilmente responsabile soltanto quando nell'esercizio delle sue funzioni fosse "imputabile di dolo, frode o concussione" o quando senza giusto motivo rifiutasse, omettesse o ritardasse "di provvedere sulle domande o istanze della parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero". Tali ipotesi si consideravano avverate solo ove la parte avesse depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l'atto e fossero decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito. L'azione di responsabilità del giudice non poteva essere proposta senza l'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia. Tale sistema determinava, in un certo senso, l'inversione della situazione normativa previgente all'entrata in vigore della Costituzione, poiché, mentre a quell'epoca soltanto per i magistrati era legislativamente sancita una responsabilità diretta - sia pure nelle limitate ipotesi anzi dette - con l'emanazione della Costituzione e poi del d.P.R. n. 3 del 1957, per gl'impiegati civili dello Stato venne ad essere sancita una responsabilità più ampia, diretta verso i terzi; in rivalsa, verso lo Stato. Tale normativa si caratterizza per un diverso ambito di operatività della responsabilità civile dello Stato verso i terzi: infatti, mentre si ritiene che l'art. 23 dello statuto degli impiegati civili dello Stato, stabilendo che il dipendente risponde verso i terzi danneggiati solo se abbia agito con dolo o colpa grave, non escluda che, anche fuori da tali ipotesi, il danneggiato possa agire contro lo Stato; viceversa, in tema di danni derivanti dall'esercizio di attività giudiziaria, è principio consolidato in giurisprudenza che la responsabilità dello Stato sussiste solo nei limiti in cui si è in presenza di una responsabilità del giudice a norma dell'art. 55 c.p.c. e, cioè, solo qualora il fatto produttivo di danno sia ascrivibile a dolo, frode o concussione del giudice e nell'ipotesi di "denegata giustizia". 6. - In tale contesto normativo e giurisprudenziale questa Corte, con la sentenza 14 marzo 1968, n. 2 - pronunciata quando erano in vigore gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. - ha fissato alcuni principi, in materia di responsabilità civile dei pubblici impiegati in generale; tali princìpi è opportuno richiamare prima di passare all'esame dei profili d'incostituzionalità prospettati con l'ordinanza del Tribunale amministrativo regionale remittente. Innanzitutto la Corte ha affermato che l'art. 28 della Costituzione, con l'espressione "funzionari e dipendenti" dello Stato, ha inteso riferirsi anche ai magistrati. In secondo luogo ha ritenuto che il principio generale, stabilito dall'art. 28, della responsabilità diretta dei pubblici dipendenti, compresi i magistrati, non esclude, stante il rinvio alle leggi ordinarie, che tale "responsabilità sia disciplinata variamente per categorie e per situazioni". Appunto la peculiarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziari, la stessa posizione super partes del magistrato, legittimano la previsione di "condizioni e limiti alla sua responsabilità"; senza, peraltro, giungere ad una negazione totale di essa, che si porrebbe in contrasto con l'art. 28 della Costituzione ed anche con l'art. 3, per l'irragionevole differenza di trattamento rispetto agli altri pubblici funzionari e dipendenti. A proposito, infine, della responsabilità dello Stato, la Corte ha statuito che, in materia di danni derivanti dall'attività giudiziaria, a norma dell'art. 28 della Costituzione, lo Stato deve rispondere necessariamente ove, secondo la disciplina vigente, debba rispondere il giudice, mentre, "quanto alle altre violazioni di diritti soggettivi", cagionate dal giudice fuori delle ipotesi in cui egli debba rispondere, "il diritto al risarcimento nei riguardi dello Stato non trova garanzia nel precetto costituzionale", ma può derivare da principi generali dell'ordinamento o da una specifica legge ordinaria. In epoca più recente la giurisprudenza, in più stretto collegamento con il principio stabilito dall'art. 2043 cod.civ., ritenuto ormai generalmente applicabile alla P.A. sulla base del rapporto organico corrente tra l'ufficio del giudice e lo Stato, era giunta all'affermazione di una responsabilità diretta di quest'ultimo anche al di fuori delle ipotesi in cui il giudice poteva essere chiamato a rispondere direttamente del danno. 7. - In questo quadro si è inserito il referendum del 1987 sugli artt. 55, 56 e 74 c.p.c., risoltosi con la loro abrogazione. A questa ha fatto seguito l'emanazione della l. 13 aprile 1988, n. 117, con la quale il Parlamento ha posto una nuova disciplina della materia, sorretta dalla considerazione della peculiarità della funzione giudiziaria che - come questa Corte aveva enunciato nella sentenza 3 febbraio 1987, n. 26, ammissiva del referendum - rende necessaria la previsione di condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, in considerazione "dei disposti costituzionali appositamente dettati per la magistratura (artt. 101-113) a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni". La legge impugnata si applica (art. 1) a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali che esercitano attività giudiziaria, ivi compresi i magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali, nonché "agli estranei che partecipano all'esercizio della funzione giudiziaria". Il legislatore, restringendo l'ambito della responsabilità diretta dei magistrati nei limiti consentiti dalla disposizione dell'art. 28 della Costituzione, ha previsto che essi rispondano direttamente nella sola ipotesi di danni derivanti da fatti costituenti reato, commessi nell'esercizio delle loro funzioni (art. 13, primo comma). Nelle altre ipotesi in cui è prevista la risarcibilità dei danni (art. 2 e 3) derivanti dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, il danneggiato può agire solo verso lo Stato, al quale è poi attribuita una limitata azione di rivalsa (artt. 7 e 8). 8. - Le ipotesi in cui è ammessa l'azione contro lo Stato - e quindi la rivalsa contro il magistrato sono tassativamente determinate dagli artt. 2 e 3 della legge. A norma dell'art. 2 "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Secondo l'espressa - e tassativa - statuizione dell'articolo: "costituiscono colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione". L'articolo precisa che "non può dare luogo a responsabilità l'attività d'interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove". L'altra tassativa ipotesi in cui è ammessa l'azione di responsabilità è costituita dal "diniego di giustizia", regolato dall'art. 3, a norma del quale "costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l'omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria". Tale termine può essere prorogato, con decreto motivato, dal capo dell'ufficio, mentre è ridotto a cinque giorni, ed è improrogabile, in tema di libertà personale dell'imputato. L'azione contro lo Stato, nei casi previsti dall'art. 2, può essere esercitata (art. 4) soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari d'impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, o quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. L'azione può comunque essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tale termine non si è concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto si è verificato. In ogni caso l'azione va esercitata, a pena di decadenza, nel termine di due anni ed è previsto un giudizio preliminare di ammissibilità della stessa, inteso (art. 5) a verificare che siano rispettati "i termini o i presupposti di cui gli artt. 2, 3 e 4" e che non sussista la manifesta infondatezza della domanda. L'art. 7 dispone che, entro un anno dall'avvenuto risarcimento, lo Stato esercita l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato. La misura della rivalsa (art. 8), esclusi i casi di responsabilità del magistrato per dolo, non può superare una somma "pari al terzo di un'annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità". L'esecuzione della rivalsa, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento di rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto. 9. - La disciplina posta dalla l. n. 117 del 1988 è caratterizzata dalla costante cura di predisporre misure e cautele idonee a salvaguardare l'indipendenza dei magistrati nonché l'autonomia e la pienezza dell'esercizio della funzione giudiziaria. È muovendo da questa constatazione di carattere generale che occorre procedere all'esame dei profili d'incostituzionalità della legge sollevati dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia in riferimento agli artt. 101, 104 e 108 della Costituzione. Come questa Corte ha affermato (sentenze 3 maggio 1974, n. 128; 27 marzo 1969, n. 60), il principio dell'indipendenza è vo'lto a garantire l'imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere. A tal fine la legge deve garantire l'assenza, in ugual modo, di aspettative di vantaggi e di situazioni di pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare l'obbiettività della decisione. La disciplina dell'attività del giudice deve perciò essere tale da rendere quest'ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a renderla "libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza". Peraltro (sentenza 14 marzo 1968, n. 2), "l'autonomia e l'indipendenza della magistratura e del giudice non pongono l'una al di là dello Stato, quasi legibus soluta, né l'altro fuori dell'organizzazione statale". Il magistrato deve essere indipendente da poteri e da interessi estranei alla giurisdizione, ma è "soggetto alla legge": alla Costituzione innanzi tutto, che sancisce, ad un tempo, il principio d'indipendenza (artt. 101, 104 e 108) e quello di responsabilità (art. 28), al fine di assicurare che la posizione super partes del magistrato non sia mai disgiunta dal corretto esercizio della sua alta funzione. 10. - La Corte ha già rilevato (cfr. nn. 3 e 4) che l'art. 28 della Costituzione pone la regola - valida per i funzionari e i dipendenti pubblici (e, quindi, anche per i giudici) - della loro responsabilità diretta per "gli atti compiuti in violazione di diritti", secondo "le leggi penali, civili ed amministrative". La legge impugnata - facendo corretta applicazione dei princìpi affermati da questa Corte nelle citate sentenze 14 marzo 1968, n. 2 e 3 febbraio 1987, n. 26 - secondo i quali, in relazione alla peculiarità della funzione giudiziaria, la responsabilità ex art. 28 della Costituzione va regolata con la previsione di condizioni e di limiti a tutela dell'indipendenza e dell'imparzialità del giudice - ha riferito la responsabilità diretta del giudice alla sola ipotesi di danni derivati da fatti costituenti reato. La responsabilità indiretta verso lo Stato con la quale si è inteso correggere tale ampia limitazione della responsabilità diretta del giudice, è, a sua volta, limitata a talune fattispecie rigidamente definite. La limitatezza e tassatività delle fattispecie in cui è ipotizzabile una colpa grave del giudice, rapportate a "negligenza inescusabile" in ordine a violazioni di legge o accertamenti di fatto, ovvero all'emissione di provvedimenti restrittivi della libertà fuori dei casi consentiti dalla legge o senza motivazione; la specifica e circostanziata delimitazione della responsabilità per "diniego di giustizia", non consentono di ritenere che esse siano idonee a turbare la serenità e l'imparzialità del giudizio, come afferma l'ordinanza del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia. Il giudizio, per definizione è, infatti, diretto all'accertamento dei fatti ed all'applicazione delle norme, attraverso un'attività di valutazione ed interpretazione, nella quale al giudice sono riservati ampi spazi. La garanzia costituzionale della sua indipendenza è diretta infatti a tutelare, in primis, l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto. Tale attività non può dar luogo a responsabilità del giudice (art. 2, n. 2 l. n. 117 cit.) ed il legislatore ha ampliato la sfera d'irresponsabilità, fino al punto in cui l'esercizio della giurisdizione, in difformità da doveri fondamentali, non si traduca in violazione inescusabile della legge o in ignoranza inescusabile dei fatti di causa, la cui esistenza non è controversa. Né può sostenersi - come fa il giudice a quo - che la legge impugnata spingerebbe il giudice a scelte interpretative accomodanti e a decisioni meno rischiose in relazione agl'interessi in causa, così influendo negativamete sulla sua imparzialità. Come si è ora rilevato, l'art. 2, comma secondo, della l. n. 117 esclude espressamente che possa dar luogo a responsabilità "l'attività d'interpretazione di norme di diritto" e quella di valutazione del fatto e delle prove. Tale statuizione rende parimenti priva di fondamento la censura, secondo la quale la proposizione di un'azione di risarcimento di danni verso lo Stato, riferita ad una determinata causa, potrebbe turbare l'imparzialità del giudice riguardo a cause analoghe o nelle quali sia parte colui che abbia promosso il giudizio di responsabilità. Ove ne ricorrano gli estremi, soccorre in tale caso il rimedio dell'astensione. Comunque, va sottolineato che la previsione del giudizio di ammissibilità della domanda (art. 5 l. cit.) garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni "manifestamente infondate", che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione. 11. - Per quanto riguarda la dedotta violazione dell'art. 10 della Costituzione, sotto il profilo del contrasto con la risoluzione dell'O.N.U. adottata il 29 novembre 1985 - che ha affermato il principio secondo il quale i giudici debbono godere di una immunità riguardo alle azioni civili per danni "derivanti da atti impropri od omissioni nell'esercizio delle loro funzioni giurisdizionali" - la questione va dichiarata non fondata. A norma dell'art. 10 della Costituzione "l'ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute" e tra queste non rientrano le statuizioni contenute nelle risoluzioni dell'O.N.U. in materia di dichiarazioni di principio alle quali, secondo la prassi internazionale, è negato carattere cogente. Esse, infatti, non costituiscono fonti di diritto, pur potendo avere influenza nella formazione di consuetudini e di accordi conformi al loro contenuto. Il principio anzi detto, comunque, si inserisce in un insieme di enunciazioni dirette a garantire l'indipendenza della magistratura e, in relazione a tale finalità, non sembra che esso implichi, necessariamente, il carattere totale dell'irresponsabilità, ben potendo l'indipendenza della magistratura essere garantita con apposite limitazioni e cautele, come ha ritenuto questa Corte, in riferimento all'art. 28 della Costituzione, e come ha, per quanto si è finora rilevato, rettamente disposto la l. n. 117. 12. - Passando gradatamente all'esame delle altre questioni, è da considerare quella, prospettata dal Tribunale di Biella con ordinanza 10 maggio 1988 (R.O. n. 327 del 1988), relativa agli artt. 1, comma secondo, 2 e 16 della l. n. 117 del 1988 cit., nonché all'art. 131 c.p.c., come modificato dall'art. 16 di questa legge. Secondo l'ordinanza le norme impugnate, in quanto non stabiliscono "un diverso grado di responsabilità", all'interno del collegio, tra il relatore e gli altri giudici, contrasterebbero con gli artt. 3 e 28 della Costituzione. Sarebbe irragionevole, infatti, che i membri del collegio diversi dal relatore rispondano nella stessa misura, in tal modo configurandosi, in alcuni casi, una responsabilità per fatto altrui. In proposito il giudice a quo - il quale ha sollevato la questione con riferimento ad un processo civile - osserva che, secondo le norme del codice di procedura civile (artt. 275 e 738 c.p.c.), il giudice relatore "fa la relazione della causa, esponendo i fatti e le questioni". Sarebbe da escludere che anche gli altri componenti del collegio siano tenuti ad esaminare gli atti di causa, a ciò ostando l'immensa mole di lavoro gravante sui tribunali, che a fatica e con tempi già lenti può essere svolto solo limitando il contributo, da parte dei membri del collegio, alla decisione delle questioni così come prospettate dal relatore. Ne deriverebbe che, riguardo alle singole ipotesi previste dall'art. 2 della l. n. 117 del 1988, la responsabilità del relatore e degli altri membri del collegio dovrebbe essere differenziata. In ordine alla rilevanza della questione, il Tribunale di Biella ha affermato che la decisione da assumere nel giudizio a quo "è concretamente e immediatamente produttiva di una responsabilità potenziale, potendo dar luogo ad un giudizio di responsabilità". Le norme impugnate, pertanto, influirebbero sulla serenità e indipendenza di giudizio dei membri del collegio e, sotto tale profilo, inciderebbero sull'esito del giudizio a quo. L'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha contestato la rilevanza della questione, in quanto attinente a norme che non vengono in applicazione nel giudizio a quo. Questione analoga è stata sollevata anche con la già citata ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 406 del 1988) del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia in riferimento all'art. 16 della l. 13 aprile 1988, n. 117, e con riguardo all'art. 3 della Costituzione. 13. - L'eccezione d'irrilevanza è infondata. L'art. 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87, stabilendo che la questione di costituzionalità proposta debba esser tale che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione" di essa, implica, di regola, che la rilevanza sia strettamente correlata all'applicabilità della norma impugnata nel giudizio a quo. Tuttavia, come questa Corte ha già implicitamente ritenuto in altre occasioni (cfr. Corte cost. 24 novembre 1982, n. 196; 4 luglio 1977, n. 125; 15 maggio 1974, n. 128), debbono ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non essendo direttamente applicabili nel giudizio a quo, attengono allo status del giudice, alla sua composizione nonché, in generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano il suo operare. L'eventuale incostituzionalità di tali norme è destinata ad influire su ciascun processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status, la composizione, le garanzie e i doveri: in sintesi, la "protezione" dell'esercizio della funzione, nella quale i doveri si accompagnano ai diritti. 14. - Nel merito la questione è infondata. La decisione emessa dall'organo giudiziario collegiale, nel nostro ordinamento, tanto in materia civile che penale, è un atto unitario, alla formazione del quale concorrono i singoli membri del collegio, in base allo stesso titolo ed agli stessi doveri. La disciplina del processo infatti, è caratterizzata da un complesso di regole, alla stregua delle quali la decisione, sia essa sentenza, ordinanza o decreto, non rappresenta la somma di distinte volontà e convincimenti dei membri del collegio, ma la loro sintesi - operata secondo la regola maggioritaria la quale rende la decisione impersonale e imputabile al collegio nel suo insieme. Per quanto concerne il processo civile, al quale specificamente si riferisce la questione sollevata del Tribunale di Biella, ciò emerge in maniera evidente dal disposto dell'art. 276 c.p.c., relativo al giudizio di primo grado - richiamato dagli artt. 359 per il giudizio di appello e 380 per quello di cassazione - secondo il quale "se intorno ad una questione si prospettano più soluzioni e non si forma la maggioranza alla prima votazione, il presidente mette ai voti la non esclusa e quella eventualmente restante e così successivamente finché le soluzioni siano ridotte a due, sulle quali avviene la votazione definitiva". Tale meccanismo comporta che la decisione possa essere, per il formarsi di maggioranze diverse sulle varie questioni, diversa da quella che ciascuno dei membri del collegio avrebbe adottato se fosse stato giudice monocratico. Coerentemente, la motivazione della sentenza (art. 132 c.p.c.) (e non rileva in questa sede il riferimento al complesso dei valori sociali e istituzionali che ne sorreggono l'obbligo ex art. 111, primo comma, della Costituzione), consiste nella esposizione dei motivi di fatto e di diritto "della decisione" e quindi nell'indicazione dell'iter logico che ha portato ad essa, senza che abbiano rilievo e necessità di menzione eventuali opinioni dissenzienti, tanto in relazione alle singole questioni che al decisum. Né la circostanza che essa sia estesa dal relatore o - in caso di suo dissenso - dal presidente o da altro giudice che abbia espresso voto conforme alla decisione (artt. 276 c.p.c.; 118 e 119 disp. att. c.p.c.), differenzia la posizione di questi da quella degli altri membri del collegio. Tale struttura della decisione collegiale è diversa da quella prevista in altri ordinamenti, nei quali è riconosciuta autonomia alla posizione assunta da ciascun membro del collegio, attraverso la documentazione, nella sentenza, delle motivazioni (eventualmente diverse) di ciascun giudice, o del suo dissenso (con le relative ragioni) sullo stesso decisum. Né può ritenersi che la struttura unitaria delle decisioni collegiali, nel nostro ordinamento, sia stata alterata (a prescindere dal problema della sua legittimità costituzionale, del quale ci si occuperà in seguito) dal disposto del comma aggiunto all'art. 131 c.p.c. dall'art. 16 della l. n. 117 del 1988, a norma del quale "dei provvedimenti collegiali è compilato sommario processo verbale, il quale deve contenere la menzione dell'unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna delle questioni decise". Quanto alla funzione del relatore, essa - secondo gli artt. 275 e 738 c.p.c. citati nell'ordinanza di rimessione - è caratterizzata da un'attività ulteriore rispetto a quella degli altri membri del collegio, costituita dal dovere di fare la relazione della causa, ma nessuna delle norme che regolano il giudizio collegiale, riserva a lui la disponibilità degli atti di causa e l'esame di essi ai fini del decidere. In tale contesto normativo, l'avere attribuito, in linea di principio, come il legislatore ha fatto, pari responsabilità ai membri del collegio, per le decisioni prese erroneamente, nelle ipotesi qualificate dall'art. 2 come fattispecie di "colpa grave", non appare affatto in contrasto né con l'art. 3, né con l'art. 28 della Costituzione. Infatti la pari responsabilità è correlata alla parità di doveri di ciascun membro del collegio - sulla quale non incide il compito specifico del relatore di fare la relazione al collegio - ed alla struttura unitaria della motivazione e del decisum degli organi giudiziari collegiali. È ovvio che tale affermazione presuppone l'agevole possibilità di accesso all'informazione e alla documentazione da parte di tutti i membri del collegio. 15. - Altra questione, prospettata dalla sezione specializzata per le tossicodipendenze del Tribunale di Bari, con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 396 del 1988), riguarda la legittimità costituzionale dell'art. 7, terzo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui limita la responsabilità dei cittadini "estranei alla magistratura" che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali, ai soli casi di dolo ed a quelli di colpa grave previsti dall'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c), così escludendo ogni loro responsabilità per l'ipotesi di grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, prevista dall'art. 2, lett. c). Secondo il giudice a quo la norma impugnata violerebbe gli artt. 101, comma secondo, 104, comma primo e 108, comma secondo, della Costituzione in quanto, implicando che "i componenti c.d. laici possano, a differenza degli altri, eventualmente violare la legge senza conseguenze personali, determina una inconcepibile alterazione dell'equilibrio interno del collegio giudicante, garantito dall'ordinamento con il sistema del voto di ciascun componente, espresso in piena e uguale libertà". La norma impugnata violerebbe l'art. 107, comma terzo, della Costituzione, in quanto differenzierebbe i giudici non già soltanto in base alla diversità delle funzioni esercitate - come prescrive l'art. 107, comma terzo ma anche in base alla diligenza alla quale i diversi componenti del collegio sono tenuti. Si porrebbe, infine, in espresso contrasto con l'art. 101, comma secondo, della Costituzione perché, assoggettando i giudici alla legge, vieterebbe che alcuni di essi possano essere esonerati dalla responsabilità prevista in via generale per "grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile" (art. 2, comma terzo, lett. a), l. n. 117 del 1988). Questione analoga è stata sollevata anche dalla Commissione tributaria di primo grado di Ravenna, con ordinanza 28 aprile 1988 (R.O. n. 422 del 1988) con la quale è stata dedotta l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, 7, terzo comma, e 8, quarto comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, sotto il profilo che essi, limitando la responsabilità dei "membri laici" delle commissioni tributarie ai soli casi di dolo o colpa grave previsti dall'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c) della l. n. 117 del 1988, con esclusione della grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile, contrasterebbero con gli artt. 3, 24, 25 e l'intero titolo quarto della Costituzione. Con l'art. 3 della Costituzione in quanto, all'interno del collegio, la disciplina differenziata in sede di rivalsa sarebbe incompatibile con l'esigenza della parità di trattamento fra quanti esercitano identici compiti ed identiche funzioni ed in quanto sussisterebbe una ingiustificata disparità di trattamento fra utenti della giustizia tributaria: non sarebbe possibile ammettere che controversie identiche vengano giudicate da giudici tenuti a maggiore o minor diligenza. Con gli artt. 24 e 25 e con l'intero titolo quarto della Costituzione, in quanto le norme impugnate violerebbero il diritto dei cittadini a che controversie identiche siano decise da giudici di pari capacità o comunque tenuti allo stesso grado di diligenza. Altra questione, che investe pure l'art. 7, terzo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, è stata sollevata sotto altro aspetto dal Pretore onorario di Roma, con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 358 del 1988). In tale ordinanza il giudice a quo deduce il contrasto con l'art. 3 della Costituzione dell'art. 7, terzo comma, su detto "nella parte in cui prevede la responsabilità dei Pretori onorari, non solo per dolo ma anche per colpa grave, limitatamente ai casi di cui alle lett. b ) e c), terzo comma, dell'art. 2 della stessa legge", in quanto porrebbe in essere una irragionevole disparità di trattamento rispetto ai giudici popolari ed ai giudici conciliatori, che rispondono solo per dolo. 16. - L'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha eccepito l'irrilevanza delle questioni sollevate, investendo esse norme non applicabili nei giudizi a quibus. L'eccezione, peraltro, va disattesa per le stesse ragioni indicate, in relazione ad analoga eccezione, sub n. 12. 17. - Passando all'esame del merito, va preliminarmente dichiarata la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 8 della l. n. 117 del 1988 sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Ravenna, in quanto erroneamente il giudice a quo ha ritenuto che essi escludano, per i "membri laici" delle Commissioni tributarie, la responsabilità per grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile. Detta esclusione, infatti, è prevista unicamente ed espressamente nel terzo comma dell'art. 7 della l. n. 117 del 1988 (anch'esso impugnato), sul quale ci si soffermerà appresso, mentre nessun accenno ad esclusione, né diretto né indiretto, è contenuto negli artt. 1 e 8. Va pure preliminarmente rilevato che l'ordinanza del Pretore onorario di Roma non è puntuale nell'impugnare l'art. 7, terzo comma, della l. n. 117 del 1988 "nella parte in cui prevede la responsabilità dei pretori onorari, non solo per dolo ma anche per colpa grave, limitatamente ai casi di cui alle lett. b ) e c), terzo comma, dell'art. 2 della stessa legge". Infatti l'art. 7, terzo comma, della l. n. 117 del 1988 statuisce: "I giudici conciliatori e i giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo. I cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo e nei casi di colpa grave di cui all'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c)". Non essendo i vicepretori onorari - organi monocratici - "cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali", è evidente che il giudice a quo erroneamente ha ritenuto applicabile la limitazione di responsabilità prevista dall'art. 7, terzo comma, per i "cittadini estranei" anche ai vicepretori onorari. Questi rispondono, invece, ex art. 7, primo comma, in sede di rivalsa, come tutti gli altri giudici monocratici - escluso il giudice conciliatore - in tutte le ipotesi, dolose o colpose, previste dagli artt. 2 e 3 della l. n. 117 del 1988. Poiché, tuttavia, dalla motivazione dell'ordinanza risulta chiaro che il giudice a quo ha inteso impugnare l'art. 7, terzo comma, in quanto non limita la responsabilità dei vicepretori onorari al solo caso di dolo, come è previsto invece per i giudici conciliatori e i giudici popolari, la questione - una volta precisata - può essere esaminata nel merito. 18. - Tutte le anzidette questioni, relative all'art. 7, terzo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, sono infondate. La normativa dettata nel terzo comma dell'art. 7 rappresenta il punto di arrivo di una faticosa elaborazione legislativa. In proposito il disegno di legge presentato dal Ministro di grazia e giustizia prevedeva che "i giudici conciliatori, i giudici popolari, nonché i cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare organi giudiziari collegiali rispondono di colpa grave esclusivamente nelle ipotesi di cui alle lettere b ) e c) del comma terzo dell'art. 2". Tale disposizione fu modificata dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati, nel cui testo era previsto unicamente che "gli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giurisdizionali rispondono soltanto in caso di dolo": ciò - si legge nella relazione - "per evitare il rischio di una fuga degli estranei dalla partecipazione a funzioni giudiziarie". Sul testo della Commissione, si accese un vivace dibattito e la Camera approvò una nuova stesura della norma, secondo la quale "i giudici conciliatori, i giudici popolari, nonché i cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono soltanto in caso di dolo". Passato il disegno di legge al Senato, questo testo ottenne il parere favorevole della Commissione affari costituzionali, considerato che i soggetti anzi detti "non svolgono professionalmente attività giurisdizionali ed è quindi equo che si richieda ad essi un diverso grado di conoscenza della legge e, di conseguenza, di diligenza". La Commissione giustizia del Senato, peraltro, modificò ancora la formulazione della norma, proponendo quello che è divenuto il suo testo definitivo, ora impugnato dai giudici remittenti. La rivalsa nei confronti dei giudici conciliatori e dei giudici popolari - come si legge nella relazione - fu limitata alla sola ipotesi di dolo, ritenendosi che essi non posseggano "quelle cognizioni di diritto e quella specializzazione in materia di fatto che possano fondare la responsabilità per colpa grave". Viceversa, per i cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali, fu stabilita una responsabilità, in sede di rivalsa, anche nelle ipotesi indicate dalle lett. b ) e c) dell'art. 2, riguardanti i più macroscopici errori di fatto, in quanto detti giudici "laici" sono da considerare esperti nelle materie in cui esercitano la funzione giurisdizionale, cosicché una loro totale irresponsabilità, in relazione agli errori di fatto, sarebbe apparsa ingiustificata. Giustificata fu ritenuta, invece, una loro completa irresponsabilità per gli errori, anche macroscopici, commessi nell'interpretazione della legge "non trattandosi di giuristi professionisti". Dall'assemblea fu approvato quest'ultimo testo, sia pur con discussioni. Pertanto, tra la normativa proposta dal Ministro di grazia e giustizia (che prevedeva per i giudici conciliatori, i giudici popolari e gli "esperti" chiamati a comporre gli organi collegiali una responsabilità solo per dolo e colpa grave per travisamento dei fatti) e quella adottata in un primo tempo, dalla Camera (che prevedeva per essi solo una responsabilità per dolo), è prevalsa una soluzione normativa intermedia, che ha previsto per i giudici conciliatori e i giudici popolari la sola responsabilità per dolo e per gli esperti chiamati a far parte degli organi collegiali, una responsabilità per dolo e travisamento dei fatti ai sensi dell'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c). 19. - Come emerge dall' esame degli atti parlamentari, sul tema in oggetto sono possibili scelte diverse da quelle adottate dal legislatore. Deve comunque riconoscersi la non irragionevolezza della previsione di una più circoscritta area di responsabilità per coloro che non hanno una specifica professionalità in relazione alle materie giuridiche. La legge n. 117 del 1988, limitando alle sole ipotesi di dolo e colpa grave di cui all'art. 2, comma terzo, lett. b ) e c), la responsabilità in sede di rivalsa dei "cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali", ha inteso riferirsi ad una vasta categoria di soggetti, chiamati a partecipare, occasionalmente o per periodi di tempo determinati, ad organi giudiziari collegiali, senza avere lo status di magistrato. Tali soggetti sono chiamati a comporre collegi che giudicano in materie, in relazione alle quali è necessaria una particolare preparazione tecnica: di regola non è richiesta, tra i requisiti in loro possesso, la laurea in giurisprudenza. Non è perciò irragionevole - come è stato osservato durante i lavori parlamentari - che essi siano responsabili dei più macroscopici errori di fatto, in quanto le loro particolari conoscenze tecniche sono richieste proprio in relazione agli accertamenti di fatto, e non è parimenti irrazionale che, non essendo provvisti di specifiche conoscenze di diritto, siano responsabili per le violazioni di legge solo in caso di dolo. Esaminando specificamente la questione sollevata dal Tribunale di Bari, va rilevato che la sezione specializzata per le tossicodipendenze, competente a disporre gl'interventi coattivi previsti dall'art. 100 della l. 22 dicembre 1975, n. 685, al fine della cura e del recupero delle persone dedite all'uso di sostanze stupefacenti o psicotropiche, è composta da un consigliere di corte d'appello che la presiede, da un giudice di tribunale e da due "esperti" designati dal consiglio superiore della magistratura (art. 101, secondo comma, l. cit.). Erroneamente il giudice a quo ritiene che la mancata previsione di una pari responsabilità, in sede di rivalsa, per tutti i membri del collegio violi gli artt. 101, comma secondo, 104, comma primo, 107, comma terzo e 108, comma secondo, della Costituzione, alterando l'equilibrio del collegio, differenziando i giudici in base ad un elemento diverso dalle funzioni e sottraendo alcuni di essi allo specifico obbligo di osservanza della legge, al quale è correlata la responsabilità ex art. 2, comma terzo, lett. c) della l. n. 117 del 1988. L'istituzione di sezioni specializzate per determinate materie presso gli organi giudiziari ordinari, "con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura", è prevista, infatti, dalla stessa Costituzione all'art. 102, comma secondo, con il quale si è inteso confermare espressamente la legittimità dei collegi "misti", di magistrati e di esperti, già esistenti nel nostro ordinamento. La previsione costituzionale delle sezioni specializzate - come quella istituita dall'art. 101, secondo comma, della l. n. 685 del 1975 - delle quali fanno parte soggetti aventi una preparazione professionale ed uno status differenziati, implica che non può essere messa in dubbio di per sé la legittimità costituzionale di tali collegi. Parimenti, se del collegio possono legittimamente far parte soggetti con uno status ed una posizione professionale differenziata, debbono ritenersi legittime le norme che ne differenziano lo status in relazione alla diversa situazione professionale. Unico limite al riguardo è dato dalla necessità che anche lo status degli "esperti" che fanno parte del collegio sia tale da garantirne l'indipendenza (art. 108, comma secondo, della Costituzione). Ma con questa esigenza non confligge la norma impugnata, la quale, regolando un aspetto dello status dei membri del collegio "estranei alla magistratura", ne disciplina il regime di responsabilità in maniera diversa rispetto a quello previsto per i giudici "togati", in coerenza con le rispettive attitudini tecniche, senza incidere minimamente sulla indipendenza di ciascun membro del collegio. Neppure può ritenersi che la norma impugnata sostanzialmente sottragga gli "esperti" allo specifico dovere di osservare la legge, poiché essa introduce soltanto una diversa - e non irrazionale diversificazione del regime di responsabilità, conseguente alla violazione di quell'obbligo. Neppure, infine, essa crea illegittime differenziazioni tra giudici, vietate dall'art. 107, terzo comma, della Costituzione, giacché il principio ivi stabilito, secondo il quale i giudici si distinguono solo "per diversità di funzioni", implica che tra essi non si possono stabilire rapporti di gerarchia e non differenze, razionalmente non ingiustificate, nel regime di responsabilità. 20. - Parimenti non fondata è la questione sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Ravenna relativamente all'art. 7, terzo comma, della l. n. 117 del 1988. In proposito va precisato che - per attenersi ai limiti di rilevanza rispetto al giudizio a quo - la questione va esaminata con esclusivo riferimento ai componenti delle commissioni tributarie di primo grado. Queste, a norma dell'art. 2 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, possono essere composte da uno o più sezioni, a ciascuna delle quali sono assegnati un presidente, un vicepresidente e quattro membri. Il presidente della commissione è scelto tra i magistrati, ordinari o amministrativi, in servizio o a riposo o fra gl'intendenti e gl'intendenti aggiunti di finanza a riposo. I presidenti delle sezioni e i vicepresidenti, oltre che fra tali categorie, possono essere scelti anche tra i laureati in giurisprudenza o in economia e commercio. Gli altri membri della commissione sono scelti dal presidente del tribunale tra le persone designate dai consigli comunali dei comuni della circoscrizione, o inserite in elenchi formati dall'amministrazione finanziaria ed, eventualmente, in elenchi formati - a richiesta del presidente del tribunale - dalle camere di commercio e dai consigli degli ordini professionali degli avvocati, ingegneri, dottori commercialisti e ragionieri. Costoro debbono essere forniti (art. 4 d.P.R. n. 636 del 1972) di diploma d'istruzione secondaria di secondo grado di qualsiasi tipo. Il collegio giudicante decide con l'intervento del presidente o del vicepresidente e di due membri (art. 7, comma secondo, d.P.R. n. 636 cit.). L'art. 10 del già richiamato d.P.R. n. 636 del 1972 statuisce che "i componenti delle commissioni tributarie hanno tutti identiche funzioni, indirizzate unicamente all'applicazione della legge in base all'obbiettivo apprezzamento degli elementi di giudizio, esclusa ogni considerazione d'interessi territoriali, di categoria o di parte". La ratio di questa normativa va ricercata, oltre che nell'opportunità di integrare la composizione delle commissioni tributarie con "esperti" provenienti dall'amministrazione finanziaria, nella volontà del legislatore di realizzare, in materia di giustizia tributaria - attraverso la nomina di metà dei membri della commissione tra le persone inserite in elenchi formati dai consigli comunali - una varietà di provenienza dei membri, idonea a garantire l'adeguato esame delle questioni in una materia nella quale gli enti locali sono portatori di interessi particolarmente qualificati. Questa Corte, investita in passato di questioni di legittimità costituzionale relative alla disciplina della composizione delle commissioni tributarie, in relazione agli artt. 102 e 108 della Costituzione, le ha ritenute non fondate (sentenze 7 giugno 1984, n. 154 e 24 novembre 1982, n. 196), affermando che le commissioni tributarie sono organi di giurisdizione speciale (sentenza 3 agosto 1976, n. 215), che la disciplina di esse, nel suo complesso, garantisce adeguatamente l'indipendenza dei componenti; che il meccanismo di nomina di questi ultimi - ancorché suscettibile di opportuni miglioramenti - è tale da fornire sufficienti garanzie della idoneità alle funzioni da svolgere. Deve ritenersi - come già si è rilevato a proposito delle sezioni specializzate previste dall'art. 102, comma secondo, della Costituzione - che alla legittimità del carattere composito delle commissioni tributarie di primo grado consegue la non illegittimità di quelle differenze che, nella disciplina della responsabilità dei componenti del collegio, per gli errori compiuti nell'esercizio delle loro funzioni, si connettano allo status di magistrati in servizio o di estranei all'amministrazione della giustizia. La differenza di status, alla quale si ricollega una specifica professionalità non soltanto in relazione agli accertamenti di fatto ma anche a quelli di diritto, giustifica infatti una differenziazione della responsabilità in relazione agli errori di fatto e all'applicazione della legge. Pertanto, l'art. 7, comma terzo, della l. n. 117 del 1988 - applicabile ai membri delle commissioni tributarie di primo grado che, non essendo magistrati in servizio, rientrano nella categoria degli "estranei alla magistratura" legittimamente differenzia il regime di responsabilità dei componenti delle commissioni tributarie di primo grado che non siano magistrati in servizio, da quello previsto in generale per questi ultimi. Appare tutt'altro che irrazionale, infatti, che i membri delle commissioni tributarie, i quali non siano magistrati in servizio, rispondano in via di rivalsa solo nei casi di dolo e colpa grave di cui all'art.2, comma terzo, lett. b ) e c), essendo tale normativa giustificata all'esigenza di trattare in maniera differenziata situazioni differenti. Né ciò dà luogo ad incongruenze e discriminazioni tra gli utenti della giustizia tributaria, rispondendo comunque, nei loro confronti, in via diretta lo Stato in tutte le ipotesi previste dall'art. 2 della l. n. 117 del 1988. Vaga e imprecisata è la dedotta violazione del titolo quarto della Costituzione, mentre non pertinente è il profilo riguardante l'asserito contrasto della norma impugnata con gli artt. 24 e 25 della Costituzione, non limitando essa il diritto di agire e di difendersi in giudizio, né distogliendo alcuno dal giudice naturale precostituito per legge. In conclusione, la censura promossa dalla Commissione tributaria di primo grado di Ravenna è infondata sotto ogni profilo. 21. - Infondata è anche la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma terzo, della l. n. 117 del 1988, sollevata dal Pretore onorario di Roma, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, in quanto non limita la responsabilità dei vice pretori onorari ai soli casi di dolo, come prevede, invece, per i giudici conciliatori ed i giudici popolari. Infatti, la differenza di trattamento appare giustificata dai diversi requisiti richiesti per la nomina a vice pretore onorario rispetto a quelli richiesti per la nomina a giudice conciliatore e giudice popolare. A norma del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, possono essere nominati vice pretori onorari solo i laureati in giurisprudenza, i notai ed i procuratori legali. Viceversa, per la nomina dei giudici popolari delle Corti di assise (artt. 9 e 10 l. 10 aprile 1951, n. 287) non è necessario il possesso di specifiche cognizioni di diritto, essendo sufficiente l'aver conseguito un diploma di scuola media di primo grado o di secondo grado (a seconda che si tratti di Corte d'assise di primo grado o di appello). Lo stesso dicasi per la nomina dei giudici conciliatori, prescrivendo al riguardo l'art. 23 R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 unicamente che la scelta debba cadere "su elementi capaci di assolvere adeguamente, per requisiti d'indipendenza, carattere e prestigio, le funzioni di magistrato onorario". Il possesso di specifiche conoscenze giuridiche da parte dei vice pretori onorari, che non sono richieste per la nomina a giudice popolare o a giudice conciliatore, costituisce un elemento di differenziazione rilevante rispetto al tema della responsabilità per gli errori compiuti nell'esercizio delle rispettive funzioni: esso, pertanto, è idoneo a giustificare la previsione, per i vice pretori onorari, di una più ampia responsabilità rispetto a quella stabilita per i giudici popolari ed i giudici conciliatori. 22. - Vanno esaminate da ultimo le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto il primo e secondo comma dell'art. 16 della l. n. 117 del 1988 che hanno rispettivamente aggiunto all'art. 148 c.p.c. e all'art. 131 c.p.p. un comma contenente la seguente disposizione: "Dei provvedimenti collegiali è compilato sommario processo verbale, il quale deve contenere la menzione dell'unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna delle questioni decise. Il verbale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso, è conservato a cura del presidente in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio". Tale disposizione (a norma dell'art. 16, comma terzo) si applica a tutti i provvedimenti dei giudici collegiali, aventi giurisdizione in materia penale e di prevenzione nonché ai provvedimenti dei giudici collegiali aventi giurisdizione in ogni altra materia. In caso di proposizione dell'azione di rivalsa da parte dello Stato nei confronti dei componenti del collegio, a norma dell'art. 16, comma quinto, il tribunale dinanzi al quale l'azione è proposta chiede la trasmissione del plico sigillato contenente la verbalizzazione della decisione alla quale essa si riferisce e ne ordina l'acquisizione agli atti del giudizio. 23. - Il Tribunale di Roma, con ordinanze 29 aprile 1988 (R.O. n. 270 del 1988) e 4 maggio 1988 (R.O. n. 326 del 1988), e il Tribunale di Catanzaro con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 350 del 1988), hanno dedotto l'illegittimità costituzionale dell'art. 16 anzi detto, nella parte in cui ha aggiunto all'art. 131 c.p.c. la disposizione relativa alla verbalizzazione dei provvedimenti collegiali. Secondo i giudici a quibus l'art. 16, prevedendo tale verbalizzazione, contrasterebbe con gli artt. 101 e 104 della Costituzione. Infatti, essendo la verbalizzazione correlata alla divulgazione - in caso di giudizio di rivalsa dello Stato - delle posizioni assunte dai giudici al momento della deliberazione, la disposizione impugnata lederebbe il principio della segretezza della camera di consiglio (art. 276, comma primo, c.p.c.), il quale avrebbe rilievo costituzionale, perché diretto a garantire l'indipendenza del giudice, assicurando l'impersonalità della decisione, ritenuta una delle ragioni della collegialità. Analoga questione è stata sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Roma, con ordinanza 3 maggio 1988 (R.O. n. 448 del 1988) in riferimento al terzo comma dell'art. 16, che come si è visto - estende la normativa sulla verbalizzazione dei provvedimenti a tutti gli organi giurisdizionali collegiali, ivi comprese le commissioni tributarie. Il giudice a quo, peraltro, mentre motiva la non manifesta infondatezza della questione in riferimento agli artt. 101 e 104 della Costituzione, menziona, nel dispositivo, quali parametri gli artt. 3, 97, 101 e 108 della Costituzione. Il Tribunale di Catanzaro, con la citata ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 350 del 1988), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, anche in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della differenza di trattamento - ritenuta irrazionale - del segreto della camera di consiglio rispetto al segreto professionale (art. 351 c.p.p.). La violazione dell'art. 3 della Costituzione è stata dedotta pure dalla Corte d'Appello di Trieste, che, con ordinanza 26 aprile 1988 (R.O. n. 382 del 1988), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 della l. n. 117 del 1988, nella parte in cui prevede la verbalizzazione delle decisioni relative ai provvedimenti giurisdizionali penali. Secondo il giudice a quo, la previsione della formalizzazione del dissenso deve intendersi correlata alle ipotesi di responsabilità per colpa grave previste dall'art. 2, comma terzo della legge, ma in relazione a queste essa sarebbe priva di razionalità. Infatti, "qualora uno dei componenti abbia reso noto l'errore in cui il collegio stia per incorrere", gli altri componenti non potrebbero ignorare il rilievo senza trasformare il proprio comportamento, precedentemente solo colposo, in doloso: peraltro, in tal caso " si sarebbe in presenza di comportamento integrante vera e propria ipotesi delittuosa, come tale ben diversamente riscontrabile e censurabile". Il Tribunale di Roma, con la citata ordinanza 29 aprile 1988, ha dedotto il contrasto dell'art. 16 della l. n. 117 del 1988 con l'art. 3 della Costituzione, per avere imposto la verbalizzazione delle deliberazioni degli organi giudiziari collegiali, mentre analogo obbligo non è stabilito per alcun altro organo collegiale, amministrativo o legislativo. Più razionale sarebbe stato, secondo il giudice a quo, prevedere la verbalizzazione del dissenso in via facoltativa, a richiesta, cioè del dissenziente. Quest'ultimo rilievo è sviluppato dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia nell'ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 460 del 1988), con la quale è prospettata l'illegittimità costituzionale dell'art. 16 - per contrasto con l'art. 3 della Costituzione - in quanto impone la verbalizzazione di ogni provvedimento giurisdizionale collegiale, anche quando sia stato preso all'unanimità o con il dissenso del relatore. Ciò sarebbe irrazionale, non essendovi motivo alcuno per verbalizzare la decisione ove sia stata presa all'unanimità ovvero col dissenso del relatore, risultando già tale dissenso dalla sentenza che, in casi del genere, (a norma dell'art. 118, ultimo comma, disp. att. c.p.c.) deve essere redatta da un altro componente del collegio, il quale la sottoscrive facendo espressa menzione di esserne l'estensore. Per razionalizzare la normativa, anche secondo il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, la verbalizzazione dovrebbe avvenire unicamente a richiesta del dissenziente. L'art. 16 della l. n. 117 del 1988 è stato impugnato, infine, dal Tribunale di Roma, con la più volte citata ordinanza 29 aprile 1988 (R.O. n. 270 del 1988), dalla Corte d'Appello di Trieste con la già menzionata ordinanza 26 aprile 1988 (R.O. n. 382 del 1988) e (seppur immotivatamente sul punto) dalla Commissione tributaria di primo grado di Roma con la citata ordinanza 3 maggio 1988 (R.O. n. 448 del 1988), in riferimento all'art. 97 della Costituzione. Il Tribunale di Roma e la Corte d'Appello di Trieste deducono in proposito che l'obbligo della verbalizzazione inciderebbe negativamente sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia, ostacolando possibili mediazioni tra difformi valutazioni in fatto e in diritto ed allungando i tempi delle decisioni. In particolare, la Corte d'Appello di Trieste afferma che l'osservanza da parte dei componenti degli organi collegiali delle prescrizioni imposte dalla norma impugnata ha la conseguenza di appesantire gravemente il lavoro dei magistrati, distogliendoli dal compito di amministrare la giustizia con una serie di adempimenti, inerenti alla verbalizzazione di ogni questione decisa, che intralcia irragionevolmente l'attività giudiziaria, compromettendone l'efficienza. 24. - Il tema della responsabilità degli organi collegiali è uno dei più delicati dell'intera materia della responsabilità civile del giudice. Riaffiorano in esso, con particolare intensità, i problemi della natura della deliberazione collegiale, del contributo del membro dissenziente, del meccanismo di riferimento al collegio della deliberazione non unanime. Tali temi concernenti la struttura dell'atto caratterizzato dal particolare legame che la natura e l'esercizio della funzione determinano tra i membri del collegio - si riflettono, a loro volta, sulla disciplina della responsabilità civile del giudice. Le diverse vicende applicative, che hanno in ogni tempo caratterizzato questa materia e coinvolto la giustificazione, il contenuto, i limiti e le modalità del risarcimento per fatto illecito del giudice (cfr. spec. nn. 3, 4 e 5), sono emerse in tutta la loro pienezza nella elaborazione della normativa della l. n. 117 del 1988. È stato osservato che, al riguardo, affiora anzitutto l'esigenza di non sottrarre i componenti degli organi collegiali all'azione di rivalsa, "per non creare nell'ambito della magistratura un'area d'immunità politicamente inopportuna e non compatibile col principio di uguaglianza" (cfr. il parere del Consiglio superiore della magistratura sul disegno di legge governativo e la relazione a quest'ultimo). In secondo luogo, va anche soddisfatta l'esigenza di assicurare ai membri del collegio che, pur avendo partecipato alla decisione, non l'abbiano condivisa - essendo restati in minoranza uno strumento che consenta di dimostrare il loro dissenso e non essere soggetti all'azione di rivalsa. Il disegno di legge governativo si era fatto carico della prima esigenza, ma non della seconda, limitandosi a stabilire (art. 8) che le disposizioni sull'azione di rivalsa "si applicano anche ai magistrati che esercitano le loro funzioni in organi collegiali". Lo stesso aveva fatto la Commissione giustizia della Camera dei deputati, che proponendo un testo (art. 10) analogo, nel quale - in aggiunta - era precisato unicamente che "la responsabilità può riguardare i componenti il collegio ovvero un singolo componente quando la violazione del diritto è conseguenza d'inosservanza di doveri che personalmente gli competono". In assemblea sorsero vivaci contrasti, sottolineandosi il carattere personale che deve avere la responsabilità, disatteso da tale normativa. Ciò condusse, però, solo alla soppressione del testo dell'art. 10 proposto dalla Commissione giustizia della Camera e all'inserimento nell'art. 1 - che regola l'ambito di applicazione della legge - dell'attuale secondo comma, che rende applicabili le disposizioni della legge stessa "anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali". Prevalse, cioè, l'opinione che dovesse essere affidata alla futura elaborazione giurisprudenziale l'identificazione in concreto "delle forme di responsabilità che possono configurarsi per gli organi collegiali" e la definizione dei meccanismi "che potranno presiedere all'individuazione delle posizioni eventualmente dissenzienti". I rilievi critici già emersi nella discussione alla Camera dei deputati - secondo i quali il Parlamento non poteva eludere, rimettendola alla magistratura, l'individuazione dei meccanismi di prova della responsabilità dei singoli membri del collegio, col rischio di una sostanziale esclusione della responsabilità per taluni componenti gli organi collegiali, ovvero della configurazione di una loro responsabilità oggettiva - indussero il Senato a prevedere e disciplinare la verbalizzazione del dissenso di taluno dei membri del collegio (art. 18 del testo del disegno di legge approvato dal Senato in prima lettura) con una norma analoga a quella ora impugnata. Alla Camera - alla quale la legge era ritornata in seconda lettura - sorsero però nuovi contrasti sul punto. Prevalse l'opinione che la possibilità di rendere pubblici le opinioni e i voti espressi in camera di consiglio, avrebbe potuto condizionare la "libertà di decisione" dei giudici, dando inoltre luogo ad un numero immenso di verbalizzazioni, che avrebbe gravemente appesantito l'attività giudiziaria. Pertanto la norma sulla verbalizzazione delle decisioni degli organi collegiali fu soppressa. Reinserita dal Senato, nel testo ora vigente (art. 16), fu infine definitivamente approvata anche dalla Camera. Come si vede, la norma impugnata (che è riprodotta nell'art. 125 del nuovo codice di procedura penale) è stata approvata tra incertezza, contrasti e ripensamenti, che dimostrano la difficoltà di contemperare collegialità e responsabilità del giudice, in un quadro rispettoso, ad un tempo, di divergenti esigenze, di non facile composizione. L'ultimo comma dell'art. 16 prevede che "con decreto del Ministro di grazia e giustizia vengono definiti i modelli dei verbali di cui ai commi 1, 2 e 3 e determinate le modalità di conservazione dei plichi sigillati, nonché della loro distruzione quando sono decorsi i temini previsti dall'art. 4". Tale decreto è stato emanato in data 16 aprile 1988 e con esso sono state stabilite le modalità di attuazione dell'art. 16 della l. n. 117 del 1988, precisandosi i relativi adempimenti e predisponendosi nove tipi di modelli di processo verbale, in relazione ai vari tipi di giudizio. 25. - Tra le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione all'art. 16 vanno innanzitutto dichiarate non fondate quelle sollevate dai Tribunali di Roma e di Catanzaro e dalla Commissione tributaria di primo grado di Roma - in riferimento agli artt. 101 e 104 della Costituzione - sotto il profilo che l'art. 16, incidendo sulla segretezza della camera di consiglio, comprometterebbe l'indipendenza del giudice e l'imparzialità del giudizio. Invero, nel nostro ordinamento costituzionale non esiste un nesso imprescindibile tra indipendenza del giudice e segretezza, nel senso indicato nelle ordinanze di rimessione, cioè quale mezzo per assicurare l'indipendenza attraverso l'impersonalità della decisione. La Costituzione ha inteso assicurare l'indipendenza dei giudici garantendo la non interferenza nel loro operato degli altri poteri dello Stato (art. 104, comma primo); l'esclusione di ogni gerarchia all'interno della magistratura (art. 107, comma terzo); la soggezione dei giudici soltanto alla legge (art. 101, comma secondo); prevedendo organi di autogoverno (artt. 104 e 108): ma nessuna norma costituzionale stabilisce il segreto delle deliberazioni degli organi giudiziari, quale garanzia della loro indipendenza; né, a tal fine, impone il segreto sull'esistenza di opinioni dissenzienti all'interno del collegio. Viceversa, è espressamente prevista la figura di giudici monocratici (art. 106, comma secondo), le cui decisioni non possono essere impersonali ed è espressamente sancito, il principio generale della responsabilità diretta dei giudici, per gli atti compiuti in violazione di diritti (art. 28 della Costituzione), come sopra si è visto. A quest'ultimo principio non contraddice la conoscibilità dell'operato anche di ciascun componente gli organi giudiziari collegiali e quindi la deroga, quanto meno nei limiti a ciò necessari, al segreto della camera di consiglio. Tale segreto - fuori di detti limiti - costituisce pertanto materia di scelta legislativa e nulla ha a che vedere con la garanzia dell'indipendenza dei giudici. È da ribadire, al riguardo, che l'indipendenza è un valore morale, che si realizza in tutta la sua pienezza, proprio quando si esplica nella trasparenza del comportamento. Parimenti - e per le stesse ragioni - va dichiarata non fondata la medesima questione proposta, senza ulteriori motivazioni, dalla commissione tributaria di primo grado di Roma anche con riferimento agli artt. 3 e 108 della Costituzione. 26. - Va pure dichiarata non fondata la questione sollevata dal Tribunale di Catanzaro, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della diversa differenza di trattamento, ritenuta irrazionale, del segreto della camera di consiglio rispetto al segreto professionale. Trattasi, infatti, di situazioni non omogenee e quindi non comparabili. Non fondata è pure la questione sollevata dal Tribunale di Roma, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della differenza di trattamento fra deliberazioni degli organi giudiziari collegiali e deliberazioni degli organi collegiali amministrativi o legislativi. Tali situazioni, infatti, non sono parimenti comparabili tenuto conto che le deliberazioni delle Camere, di regola, non sono segrete; che i membri di esse non sono perseguibili "per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni" (art. 68, comma primo, della Costituzione); che anche le deliberazioni degli organi collegiali amministrativi, di regola, non sono segrete (tranne che per le questioni concernenti le persone) e che, comunque, ogni membro può far constare nel verbale del suo voto e dei motivi che l'hanno determinato (cfr. art. 281, R.D. 3 marzo 1934, n. 383, t.u. legge comunale e provinciale). Non fondata è, infine, anche la questione sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Trieste, sul presupposto che la norma impugnata prevederebbe la verbalizzazione del dissenso soltanto in relazione alle ipotesi stabilite dall'art. 2 della l. n. 117 del 1988. L'ordinanza muove, infatti, da un'affermazione erronea, poiché l'art. 16 della l. n. 117 del 1988 prevede la verbalizzazione non soltanto in relazione a dette ipotesi. Comunque - come anche appresso si dirà se ciò fosse, la norma non sarebbe irrazionale, essendo proprio e soltanto riguardo a dette ipotesi necessaria la documentazione dell'eventuale dissenso di uno o più membri del collegio, in relazione alla responsabilità che ne potrebbe derivare. 27. - Fondata è invece la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 sollevata dal Tribunale di Roma, dalla Corte d'Appello di Trieste e dalla Commissione tributaria di primo grado di Roma, in riferimento all'art. 97 della Costituzione, sotto il profilo che il sistema di verbalizzazione previsto dalla norma impugnata incide negativamente sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia. Il che comporta l'assorbimento degli ulteriori profili d'illegittimità prospettati in riferimento all'art. 3 della Costituzione. Questa Corte ha già avuto modo di affermare che l'art. 97 della Costituzione, nello stabilire che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento dell'amministrazione, non ha inteso riferirsi ai soli organi della pubblica amministrazione in senso stretto, ma anche agli organi dell'amministrazione della giustizia (Corte cost. 7 maggio 1982, n. 86). L'art. 16 della l. n. 117 del 1988 prevede la compilazione di un sommario processo verbale, che deve contenere la menzione della unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, "su ciascuna delle questioni decise", con l'indicazione nominativa di ogni componente del collegio che lo abbia espresso. Il che comporta una continua attività di verbalizzazione da parte dei collegi giudicanti, in relazione a qualsiasi questione decisa, sia essa pregiudiziale, preliminare, di diritto o di fatto, a prescindere dall'esistenza del dissenso di alcuno dei membri del collegio, della rilevanza del dissenso ai fini di eventuali azioni di responsabilità e dalla richiesta di verbalizzazione da parte dell'interessato. Ciò implica un intralcio costante all'attività giudiziaria, incompatibile col principio del buon andamento dell'amministrazione della giustizia e non giustificato dalle finalità che la norma intende realizzare. Tale norma va dichiarata costituzionalmente illegittima, per contrasto con l'art. 97 della Costituzione, nella parte in cui prevede la compilazione obbligatoria del processo verbale in relazione ad ogni deliberazione del collegio, anziché la compilazione facoltativa di esso nelle sole ipotesi in cui la richiedano uno o più membri del collegio medesimo. Il contenuto del primo comma dell'art. 16, che riguarda il processo penale, come si è già rilevato, è riprodotto nell'art. 125 del nuovo codice di procedura penale: alla necessaria modifica di quest'ultima norma, in conformità della presente decisione, il Governo provvederà nell'esercizio della delega per l'adeguamento della nuova normativa ai sensi dell'art. 7 della l. 16 febbraio 1987, n. 81. È da rilevare infine che la dichiarazione d'illegittimità costituzionale del primo e secondo comma dell'art. 16, operata dalla presente decisione, non comporta la stessa declaratoria per il terzo comma, il quale va ora letto secondo la modificazione dei predetti due commi ad opera di questa stessa decisione. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara l'illegittimità costituzionale del primo e secondo comma, dell'art. 16 della l. 13 aprile 1988, n. 117 ("Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati") nella parte in cui dispongono che "è compilato sommario processo verbale" anziché "può, se uno dei componenti dell'organo collegiale lo richieda, essere compilato sommario processo verbale"; Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge 13 aprile 1988, n. 117 nella parte in cui disciplina la responsabilità civile dei magistrati - sollevata dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione di Catania, con ordinanza 12 maggio 1988 (R.O. n. 460 del 1988), in riferimento agli artt. 10, 101, 104 e 108 della Costituzione; Dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 16 della l. 13 aprile 1988, n. 117, sollevate dal Tribunale di Catanzaro con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 350 del 1988), dal Tribunale di Roma con ordinanze 28 aprile 1988 (R.O. n. 270 del 1988) e 4 maggio 1988 (R.O. n. 326 del 1988), dalla Commissione tributaria di primo grado di Roma con ordinanza 3 maggio 1988 (R.O. n. 448 del 1988) e della Corte d'Appello di Trieste con ordinanza 26 aprile 1988 (R.O. n. 382 del 1988) in riferimento agli artt. 3, 101 e 104 della Costituzione; Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma secondo, 2 e 16 della l. 13 aprile 1988, n. 117, nonché dell'art. 131 c.p.c., come modificato dall'art. 16 della stessa legge, sollevata dal Tribunale di Biella, con ordinanza 10 maggio 1988 (R.O. n. 327 del 1988), in riferimento agli artt. 3 e 28 della Costituzione; Dichiara non fondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, terzo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, sollevata dal Pretore onorario di Roma con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 327 del 1988), in riferimento all'art. 3 della Costituzione; Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, terzo comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, sollevata dal Tribunale di Bari con ordinanza 2 maggio 1988 (R.O. n. 396 del 1988), in riferimento agli artt. 101, 104 e 108 della Costituzione; Dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, 7, terzo comma e 8, quarto comma, della l. 13 aprile 1988, n. 117, sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Ravenna con ordinanza 28 aprile 1988 (R.O. n. 422 del 1988), in riferimento agli artt. 3, 24 e 25, e all'intero titolo quarto della Costituzione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta l'11 gennaio 1989. Il Presidente: SAJA Il redattore: PESCATORE Il cancelliere: MINELLI Depositata in cancelleria il 19 gennaio 1989. Il direttore della cancelleria: MINELLI CRITICAL LEGAL STUDIES (da Agostino Carrino, Roberto M. Unger e i Critical Legal Studies: scetticismo e diritto, in G. Zanetti – a cura di – Filosofi del diritto contemporanei) Movimento statunitense di studi giuridici orientati a sinistra la cui genesi organizzativa può essere fatta risalire al 1977: essi affondano le proprie radici nel realismo giuridico americano, nel marxismo critico della Scuola di Francoforte e nel Law and Society Movement. L’obiettivo dei giuristi critici è di identificare le contraddizioni fondamentali del pensiero giuridico liberale. Le tre principali contraddizioni sono: a) Fra l’accettazione di regole rigide – meccanicamente applicate – come forme più indicate di risoluzione dei conflitti e l’aspirazione per una giustizia del caso concreto (ad hoc): e cioè fra regole generali e principi equitativi; fra rigidità e flessibilità; b) Fra l’idea secondo cui i valori o i desideri sono arbitrari, soggettivi, individuali e l’idea secondo cui possiamo conoscere oggettivamente verità sociali ed etiche (ad esempio quando riponiamo massima fiducia nella razionalità del procedimento decisione della Corte Costituzionale); c) Fra un discorso intenzionalistico, nel quale l’azione umana è considerata come prodotto di atti di libera scelta e volontà (tutto il sistema giuridico presuppone l’autodeterminazione individuale, dal diritto penale al diritto dei contratti) ad un discorso deterministico nel quale l’attività dei singoli non merita né rispetto né condanna perché non è che il risultato della struttura esistente (pensiamo alle teorie sull’organizzazione anche degli uffici burocratici). L’obbiettivo dei CLS è di dimostrare che il diritto è il terreno di scontro di molte battaglie. Si tratta di battaglie per il potere combattute da gruppi sociali organizzati: “Organized social groups make law all the time, in combat with other organized social groups” (Duncan Kennedy). Essi mirano altresì a dimostrare che in ogni epoca storica si è messo l’accento su uno dei poli della contraddizione: sicché il diritto è profondamente influenzato dalla ideologia – storica, culturale – dominante che sotto sta ad un dato sistema giuridico. Metodo: Il metodo dei CLS è in linea alla metodologia marxista (ma comune a molti esponenti del realismo giuridico) che è quella dello smascheramento: il compito della Critica è di disvelare le ideologie che sottostanno al discorsi giuridico contemporaneo. I metodi sono tre: a) Il Trashing: letteralmente, sfrondamento. E’ quell’attività che consiste nel disoccultamento del messaggio politicamente orientato racchiuso nel discorso giuridico. Il trasher cerca di smascherare l’ideologia che sta dietro certi discorsi apparentemente neutrali. Esempio: Con sentenza n. 155 del 1996, la Corte Costituzionale italiana è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio abbreviato il giudice per le indagini preliminari che abbia applicato una misura cautelare personale nei confronti dell'imputato. In altri termini, la domanda sollevata di fronte alla Corte era: può il giudice che si è già pronunciato sulle misure cautelari (magari confermando la carcerazione preventiva), diventare poi il giudice di merito (e cioè del giudizio finale) qualora si dovesse ricorrere a giudizio abbreviato? Ovvero: può lo stesso giudice pronunciarsi due volte in due fasi distinte del processo penale? La questione naturalmente atteneva all’imparzialità del giudice. E cioè: un giudice che si è già espresso sulla questione, è veramente imparziale? La Corte Costituzionale dichiarò incostituzionale l’articolo 34, comma 2 e diede la seguente motivazione: “Tali omissioni, ad avviso dei giudici rimettenti, violerebbero numerosi precetti della Costituzione, variamente individuati negli articoli 3, primo comma, 24, secondo comma, 25, 27, secondo comma, e 101, secondo comma, nonché negli articoli 76 e 77 (in riferimento all'art. 2, numeri 67 e 103 della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante "Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale"). La mancata previsione delle suddette cause di incompatibilità distinguerebbe irrazionalmente le ipotesi in questione da altre analoghe nelle quali, viceversa, vale l'incompatibilità. Inoltre determinerebbe una disparità di trattamento a seconda che la pronuncia in sede di giudizio abbreviato o di "patteggiamento" sia assunta da un giudice che abbia o da un giudice che non abbia disposto misure cautelari personali e si risolverebbe in una violazione del diritto di difesa e, in generale, della garanzia del giusto processo, nonché del diritto dell'imputato a non essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva. La mancata previsione dell'incompatibilità in questione risulterebbe infine in contrasto con le direttive, contenute nella sopra citata leggedelega per l'emanazione del nuovo codice, in tema di divieto fatto al giudice di svolgere funzioni diverse nell'ambito del medesimo processo penale”.“Le questioni sono fondate. 3.1. -- I parametri costituzionali che i giudici rimettenti invocano convergono nel configurare quello che, in numerose occasioni, questa Corte ha indicato come il "giusto processo" voluto dalla Costituzione. Tra i principi del "giusto processo", posto centrale occupa l'imparzialità del giudice, in carenza della quale le regole e le garanzie processuali si svuoterebbero di significato. L'imparzialità è perciò connaturata all'essenza della giurisdizione e richiede che la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto "terzo", non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie ch'egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza. … Il divieto di cumulo di decisioni diverse sulla stessa materia, nella stessa persona investita del compito di giudicare, è conseguenza del carattere necessariamente originario della decisione che definisce la causa, in opposizione a ogni trascinamento e confluenza in tale decisione di opinioni precostituite in altre fasi processuali presso lo stesso giudicepersona fisica. Tale divieto non riguarda tanto la capacità del giudice di rivedere sempre di nuovo i propri giudizi alla luce degli elementi via via emergenti nello svolgimento del processo, quanto l'obiettività della funzione del giudicare, che esige, per quanto è possibile, la sua massima spersonalizzazione. Le incompatibilità endoprocessuali - escludendo che il medesimo giudice possa comparire ripetutamente in diverse fasi del medesimo giudizio - operano a quel fine, per esonerare l'esito del processo dall'eccessivo carico delle qualità e delle propensioni personali dei giudici che vi partecipano, salvaguardando così anche il significato proprio e distinto di ciascuna fase”. La Corte Costituzionale ha ritenuto fondate le questioni di costituzionalità. Dunque chi è stato giudice nel corso delle indagini preliminari non può essere giudice in udienza di merito. Ma l’argomento della Corte è piuttosto sorprendente: la Corte dice che l’art. 34, comma 2 viola i principi del giusto processo non perché il giudice che si è già espresso non possa rivedere la propria posizione, ma perché l’imparzialità presuppone la spersonalizzazione dell’organo che giudica e dunque l’attribuzione delle varie fasi processuali ad individui diversi. Questo argomento è sintetizzato in un concetto piuttosto verboso: l’obbiettività della funzione del giudicare. Ora, i CLS direbbero: La Corte sta concedendo qualcosa ai ricorrenti e sta riconoscendo che uno stesso giudice non può pronunciarsi due volte, ma non può arrivare a tradire la casta dei magistrati a cui appartiene. Un giudice che si è già pronunciato può di certo rivedere le proprie idee. Ma è l’obbiettività della funzione del giudicare che impone la spersonalizzazione dell’organo. Ma, aggiungerebbero i CLS: che significa tutto ciò nel linguaggio ordinario? Nulla di più che una verità piuttosto banale: chiunque si è pronunciato nella fase cautelare (magari confermando l’ordine di carcerazione preventiva) ha già un’idea precostituita del giudizio e forse ha difficoltà a rivedere le proprie posizioni. Ovvero, cosa che è ancora peggio, ha difficoltà a riconoscere il proprio errore. Ergo, meglio affidare un’altra fase del giudizio ad un altro giudice. Ma perché la Corte si è espressa in questo modo così sibillino? Si possono fare molte illazioni. E’ però verosimile che la Corte non voglia insinuare il dubbio che i giudici siano capaci di introiettare opinioni (sulla colpevolezza dell’imputato) che non riescono poi a cambiare. Questa operazione consiste nel trashing: nel guardare cosa ci sta dietro alla retorica di certe motivazioni. Si noti che il trashing utilizza una tecnica particolare: e cioè comincia accettando l’argomento dell’avversario, ma poi va oltre. Nel nostro caso: vero è che l’art. 34, comma 2 mette a repentaglio l’imparzialità dell’organo giudicante. Ma cosa significa imparzialità? b) La decostruzione Un avversario prediletto dei CLS è l’Analisi Economia del Diritto. I CLS ammettono che gli occhiali dell’economista consentono di guardare dietro al diritto ma contestano radicalmente gli assunti antropologici alla Posner. Ed in particolare: un’antropologia di tipo hobbesiano – dove ciò che conta è la massimizzazione del profitto; l’assunto del consumatore / cittadino razionale capace sempre e comunque di comprendere e seguire le sue preferenze di mercato; l’assunto di un egoismo illimitato. L’antropologia che i CLS obiettano è molto più complessa. L’uomo non è solo dominato da passioni egoistiche, ma vi è anche un istinto naturale alla cooperazione (e alla socievolezza). La psiche umana è divisa, frammentata: l’uomo spesso non sa cosa vuole. Nell’uomo vi sono passioni negative (come l’odio, il rancore, l’invidia) ma anche un’autentica dimensione umana, compassionevole, comprensiva. Il diritto deve essere costruito in modo da poter dar voce a questi elementi dell’uomo trascurati dalle lenti miopi della scienza giuridica. La decostruzione consiste nello smascherare le ideologie che stanno dietro al pensiero giuridico liberale ma anche provarne la limitatezza (empirica, teorica, etc..). c) La genealogia (storica) Da un punto di vista costruttivo, il metodo storico (genealogico) è quello che mette in luce l’artificialità del discorso giuridico contemporaneo. La storia (inclusa la storia delle idee e della società) aiuta a smascherare le ideologie che stanno dietro ai discorsi giuridici. Roberto M. Unger: Nato a Rio de Janeiro nel 1947, insegna ad Harvard (è stato professore di Barack Obama). Si è dedicato per un certo periodo alla politica attiva in Brasile (è stato Ministro degli Affari Esteri). Se a partire dalla seconda metà degli anni ’70 fu associato al movimento dei Critical Legal Studies, dagli anni ’90 si è dissociato da alcune tendenze dei CLS – ed in particolare dall’atteggiamento eccessivamente de costruttivo, dall’approccio marxista al diritto (e quindi dal sostanziale rifiuto del diritto), dall’eccessiva attenzione al dato contingente. Già in Knowledge and Politics, Unger aveva contestato la tendenza dei filosofi del diritto americani a concentrarsi sul ragionamento giudiziario – tendenza associata all’idea di un sostanziale scetticismo nei confronti delle prospettive di cambiamento della società. Unger si associa alla critica dei CLS nei confronti della pretesa di neutralità della legge (e dei processi decisionali) che pervade la stragrande maggioranza delle teorie filosofiche sul diritto e sul ragionamento giuridico. Unger tuttavia non si ferma ad una pars denstruens e propone di spostare l’obiettivo dall’analisi del ragionamento giuridico alle strutture istituzionali – da cui il diritto proviene. Siccome il linguaggio giuridico riflette le strutture socio-politiche (ed economiche), occorre cambiare queste per cambiare quello. In What should legal analysis become (1996), Unger suggerisce che l’obiettivo principale dei teorici del diritto deve essere quello di consentire che il diritto svolga la primaria funzione in una società illuminata: e cioè offrire ai cittadini la possibilità di immaginare scenari alternativi e di dare argomenti a favore di questi. Il punto di partenza è che il diritto si trova incastrato in strutture istituzionali che mischiano ideali ed interessi. Ogni cambiamento del diritto passa necessariamente attraverso un cambiamento istituzionale. La proposta di Unger di utilizzare il diritto per trasformare la società passa attraverso una critica al tecnicismo giuridico. In linea a quella tradizione di pensiero in polemica con la chiusura della casta dei giuristi, Unger esorta gli esperti a rinunciare ad una parte della propria autorità e ad aprirsi alla gente comune. La prima proposta di riforma socio-istituzionale è quella che Unger chiama la extended social democracy: e cioè la estensione della democrazia sociale. Il punto di partenza è che la parte più importante della società è l’individuo e la sua crescita materiale e spirituale. Una politica di riforma in questa direzione deve tassare pesantemente le successioni, garantire pari opportunità attraverso una sostanziale redistribuzione delle risorse (tasse sui consumi, gratuità di servizi di base) e assecondare – attraverso riforme istituzionali – la naturale flessibilità della vita. Dal punto di vista della teoria giuridica, la tesi che meglio corrisponde all’ideale dell’extended social democracy è la teoria che sottolinea (e promuove) la creazione del diritto dal basso – dalle organizzazioni sociali. A ciò si accompagna una politica di rigorosa protezione dei diritti e delle libertà fondamentali – libertà di associazione, di espressione, etc…. Unger critica l’atteggiamento dominante nella filosofia politica anglosassone che tiene separate le questioni di giustizia dalle questioni di riforma istituzionale. I principi di giustizia (alla Dworkin) possono essere attuati dai tribunali – o addirittura dai teorici del diritto – e non da politici (o da cittadini comuni) nei progetti di riforma istituzionale La grandezza del diritto moderno risiede nel suo potenziale democratico. Ma il diritto da solo non può far nulla se non accompagnato da progetti di riforma istituzionale. Unger propone di seguire la via del democratic experimentalism: dello sperimentalismo democratico. E cioè seguire due percorsi paralleli: quello della liberazione della società dai bisogni materiali – che ci consente di far prendere le ali ai nostri desideri – ma anche quello dell’emancipazione individuale dagli stereotipi, dai ruoli sociali, dalle gerarchie. Mentre nel corso dell’Ottocento la fede nel progresso materiale si accompagnava a quella del progresso spirituale, oggi si ritiene, sostiene Unger, che un bene pregiudica l’altro: e che in particolare, l’emancipazione dell’individuo dai ruoli sociali (specie dai più bassi) può mettere a repentaglio il progresso materiale. Questo convincimento si accompagna a quello che Unger chiama il feticismo istituzionale: che consiste nel ritenere che i progetti istituzionali possono essere declinati solo in un modo: il sistema democratico poggia su un sistema di diritti che viene fatto funzionare dall’alto (attraverso le Corti Costituzionali); l’economia funziona solo nel modello del libero mercato; la società civile è libera nella misura in cui è disimpegnata, etc… Il feticismo istituzionale oggi trova conferma nell’idea che vi sia un solo modello da preferire – valido universalmente (le istituzioni globalizzate) (tesi della convergenza). A livello costituzionale lo sperimentalismo democratico si oppone all’idea che pervade il costituzionalismo tradizionale secondo cui la funzione fondamentale della costituzione è di rallentare la politica. Unger suggerisce invece di iniettare forme di democrazia diretta (plebisciti, referendum, mobilitazioni di massa) all’interno della politica – anche costituzionale. Lo sperimentalismo democratico si accompagna alla capacità di immaginare istituzioni differenti. Questo potere di immaginazione va nutrito attraverso due espedienti. Il primo viene dalla politica economica ed il secondo dalla teoria del diritto. Che ruolo deve svolgere la teoria del diritto? Unger muove dalla considerazione che dalla fine dell’Ottocento (il secondo Jhering) o dall’inizio del Novecento (Il Common Law di Holmes) al diritto viene assegnato un ruolo fondamentale: quello di un ordine politico ed economico che consenta la libertà di scelta combinata ad alcune regole che di fatto garantiscano l’efficacia di certi diritti. Il diritto in sostanza è uno strumento dell’emancipazione individuale e collettiva. Il diritto è a servizio dei diritti. In questo senso la teoria del diritto ha una struttura binaria: il diritto non è solo dato dall’insieme di regole che garantiscono l’ordine, ma anche dagli strumenti che consentono che questo ordine venga sovvertito quando non risponde più all’esigenza emancipatoria. Diversa invece è l’idea del diritto diffusa nel corso dell’Ottocento: il diritto garantisce un ordine politico ed economico libero: anzi coincide con un sistema di regole che stabiliscono un ordine politico ed economico libero. La politica è subordinata al diritto. Unger nota che a partire dalla seconda metà del Novecento si è verificato quel fenomeno che egli chiama la razionalizzazione del ragionamento giuridico: se nell’Ottocento si riponeva enorme fiducia nella scienza del diritto, oggi questa fiducia, sebbene abbia cambiato natura, è sostanzialmente rimasta inalterata. Solo che si è spostata sull’attività interpretativa primaria (quella dei giudici) dall’attività della dottrina (la dogmatica giuridica). Unger individua questo processo di razionalizzazione del ragionamento giuridico nelle seguenti caratteristiche: a) La sostanziale avversione della dottrina nei confronti del ragionamento analogico, b) L’utilizzo del ragionamento analogico solo come strumento per elaborare norme più generali e quindi mantenere il sistema giuridico inalterato c) La fiducia nella rule of law. d) L’enorme fiducia riposta nel giudice. e) Il fiorire di teorie interpretative (teorie su come si deve interpretare). Unger invece propone un’idea di ragionamento giuridico che rinunci alle ambizioni della piena razionalità sistemica ma che invece promuova altri valori: a) Il ragionamento analogico va utilizzato – non come meccanismo per formare regole più generali ma come occasione per confrontare casi specifici (fatti di eventi, uomini e donne in carne ed ossa) con altri fatti simili. In questo senso il ragionamento analogico è un’opportunità che il ragionamento giuridico ha di riflettere sull’uomo. b) La giurisprudenza deve favorire gli esperimenti democratici c) L’audacia del giudici deve essere motivata dall’esigenza di promuovere la volontà popolare. Feminist Jurisprudence: bibliografia Cornell, Drucilla, Beyond Accommodation: Ethical Feminism, Deconstruction and the Law (New York: Routledge, 1990) MacKinnon, Catherine, Feminism Unmodified: Discourses on Life and Law (Cambridge: Harvard University Press, 1987) Minow, Martha, Making All the Difference: Inclusion, Exclusion and American Law (Ithaca: Cornell University Press, 1991) Radin, Margaret Jane, “The Pragmatist and the Feminist,” 63 Southern California Law Review, 1699 (1990) Scales, Ann C., “The Emergence of Feminist Jurisprudence: An Essay,” 95 Yale Law Journal 1373-1403 (1986) Schulhofer, Stephen J., Unwanted Sex: The Culture of Intimidation and the Failure of Law (Cambridge: Harvard University Press, 1998) Smith, Patricia, ed., Feminist Jurisprudence (New York: Oxford University Press, 1993) Tong, Rosemarie, Women, Sex and the Law (Totowa, NJ: Rowman and Littlefield, 1984) West, Robin, “Jurisprudence and Gender,” 55 University of Chicago Law Review 1 (1988) Williams, Patricia, The Alchemy of Race and Rights (Cambridge: Harvard University Press, 1991) La teoria giuridica femminista a partire dalla fine degli anni ’80 ha preso una piega diversa rispetto al passato. Mentre sin dall’inizio del Novecento l’aspirazione del movimento femminile è la parità e l’assimilazione, a partire da una certa data l’obiettivo muta e diventa quello della difesa della propria differenza – della propria diversità. Nel campo della teoria del ragionamento giuridico – il pensiero femminista espresso, fra le altre dalle autrici sopra menzionate, si caratterizza per i seguenti tratti: a) Diffidenza profonda nei confronti del concetto di neutralità della legge b) Diffidenza profonda nei confronti del concetto di neutralità del giudizio c) Rivendicazione – a livello normativo – della diversità femminile d) Riconoscimento del ruolo degli aspetti emotivi (tipicamante associati alle donne) nella formulazione delle leggi e nel giudizio. Susan Bandes e Patricia Williams ad esempio negano che la legge sia neutrale: muovono in particolare due contestazioni. La prima è che la legge è fatta da uomini in carne ed ossa: e che quindi necessariamente risente delle preconcette degli individui che le pongono in essere. Non si tratta soltanto di interessi consapevoli – come sostiene l’Analisi Economica del Diritto – ma anche e per lo più di opinioni inconsapevoli che quindi incidono sul contenuto con una forza molto più dirompente che quelle consapevoli e strumentali. La seconda considerazione è che – anche ammesso che la legge sia fatta veramente in modo quando più neutrale possibile – essa non può mai essere applicata in modo rigorosamente neutrale, perché anche il giudice, come il legislatore, non può mettere da parte pregiudizi, precomprensioni, proprie visioni del mondo, etc…. Le pensatrici che fanno parte di questa corrente di pensiero non si limitano ad affermare che compito della teoria del diritto è di smascherare le false ideologie (tipicamente associate al pensiero maschile) ma anche propongono di riconoscere valore a fattori comunemente trascurati dalla teoria tradizionale: ad esempio il contesto è più importante della regola generale (contro il formalismo), la persona fisica che giudica è più importante dell’organo o dell’ufficio, etc… Un importante contributo di questa linea di pensiero è la cosiddetta teoria narrativa del diritto: la verità processuale non corrisponde alla verità scientifica e la coerenza non è l’indice prevalente di correttezza di una decisione. Il criterio di correttezza è invece mutuato da campi non strettamente giuridici (come ad esempio la letteratura). Quando in un’aula di giustizia vanno ricostruiti certi fatti si deve ragionare come se si stesse ricostruendo una storia. La storia che ha più senso (makes more sense) è quella più corretta. Questo significa però che il ragionamento giuridico non è solo un appello ad una razionalità artificiale – pensiero logico, analogico, formale – ma è altresì appello alle componenti emotive. Ad esempio, si può giudicare allo stesso modo un uomo che uccide la moglie perché è uscita senza permesso ed una donna che uccide un uomo dopo anni e anni di soprusi? Il pensiero formalista dice che il giudizio deve essere uguale. La tradizione di pensiero che accomuna i CLS e il Pensiero Femminista sostengono una tesi differente. Digressione: Il ragionamento giuridico è autoritativo? L’opinione dissenziente (rivista di Sociologia del Diritto 2011). INSTRUMENTALISM: DIRITTO COME STRUMENTO (da Brian Tamanaha: Legal Instrumentalism and the Rule of Law, 33 Syracuse J. Int'l L. & Com. 131 2005-2006 In the 1970's legal theorists began to observe that judges increasingly engaged in instrumental reasoning to satisfy the purposes behind the law, or to further social policies or purposes, or to achieve social or individual justice. 59 In Law and Society in Transition (1978), Philippe Nonet and Philip Selznick argued that contemporary law was in the process of evolving to a higher legal stage of "responsive law" in which "there is a renewal of instrumentalism... for more objective public ends."19, 60 This was an advance, they claimed, over the previous formalistic stage of "autonomous law" in which law was seen as separate from politics, and decisions were made strictly according to legal rules with no attention to consequences. In this new higher stage "the logic of legal judgment becomes closely congruent with the logic of moral and practical judgment." 61 With this spread of instrumental in judicial decisions, in everyday cases as well as in constitutional cases, judges were increasingly required to straddle two contrary thrusts: judges are asked to apply rules and to reason instrumentally to achieve policies and purposes, and just outcomes. Roberto Unger articulated the stark difference between these approaches: 19 PHILLIPPE NONET & PHILIP SELZNICK, LAW AND SOCIETY IN TRANSITION: TOWARD RESPONSIVE LAW 15 (1978). One way is to establish rules to govern general categories of acts and persons, and then to decide particular disputes among persons on the basis of the established rules. This is legal justice. The other way is to determine goals and then, quite independently of rules, to decide particular cases by a judgment of what decision is most likely to contribute to the predetermined goals, a judgment of instrumental rationality. This is substantive justice20. 20 ROBERTO MANGABEIRA UNGER, KNOWLEDGE AND POLITICS (1975); P.S. ATIYAH, FROM PRINCIPLE TO PRAGMATISM: CHANGES IN THE FUNCTION OF THE JUDICIAL PROCESS AND THE LAW (1978). VI RAGIONAMENTO GIURIDICO E RAGIONAMENTO PRATICO Si è discusso di due tesi che mettono l’accento la prima sulle componenti formali del ragionamento giuridico e la seconda sulle componenti irrazionali o emotive – o comunque poco giuridiche. Della terza tesi (che è peraltro piuttosto variegata al suo interno) sappiamo adesso che muove delle critiche ai primi due approcci. La terza tesi non verrà discussa in modo analitico sin d’ora, ma emergerà nella discussione sul ragionamento giuridico. Di essa tuttavia deve darsi una prima nozione generalissima: la tesi del ragionamento giuridico come caso particolare della ragion pratica presuppone che il diritto sia intriso di giudizi di valore e che pertanto le soluzioni dei conflitti che la prassi giuridica costantemente solleva presuppone una presa di posizione in merito a questi valori. Questa tesi è radicalmente opposta sia a certo formalismo (alla Kelsen, ad esempio, secondo cui il diritto può aver qualsiasi contenuto e le discussioni etiche esulano dai discorsi giuridici); ma sia anche dall’emotivismo di certi realisti alla Holmes, secondo cui le decisioni sono dettate più dalla pancia che dalla testa. Chaim Perelman afferma ad esempio che se nel corso dell’Ottocento l’ideologia dominante è stata il formalismo e se alla fine dell’Ottocento fino alla seconda guerra mondiale l’ideologia dominante è stato il funzionalismo (di Jhering, e dei realisti), dopo il 1945 le cose cambiano. Fino al 1945 il positivismo giuridico (presente sia nel formalismo che nel funzionalismo) – con la sua pretesa di eliminare dal diritto qualsiasi ricorso all’idea di giustizia – entra in crisi. E’ proprio nel contesto di questa crisi che si inserisce la Nuova Retorica di Perelman. La parziale riscoperta del diritto naturale – ad opera ad esempio di Gustav Radbruch – è dovuta ad almeno tre fattori: o La percezione generalizzata degli orrori della guerra e degli orrori prodotti da un sistema giuridico eletto democraticamente (quale quello nazionalsocialista) o La percezione a livello mondiale della necessità degli stati di rinunciare a una porzione di sovranità esterna attraverso la sottoscrizione di accordi e la creazione di organismi (ONU, dichiarazione universale dei diritti umani) o La diffusione a livello statale di testi costituzionali – corrispondente all’idea che al pari di una rinuncia di sovranità all’esterno gli stati devono parimenti rinunciare alla sovranità interna vincolando l’attività politica al rispetto di principi fondamentali. Questo cambio di prospettiva sull’interpretazione che ci accingiamo ad affrontare presuppone un’abiura dei principi formalistici secondo cui la scienza giuridica deve espungere qualsiasi giudizio di valore senza però cadere nell’eccesso opposto e ridurre il ragionamento giuridico a mera ars boni et aequi. In tale prospettiva il ragionamento giuridico non è pura deduzione sillogistica la cui conclusione è necessaria anche se dovesse sembrare irragionevole: ma non è neppure una semplice ricerca di una soluzione equa (ars aequi), di cui sia irrilevante la sua possibilità di inserimento nell’ordine giuridico vigente. 1. Che significa ragionamento La parola ragionamento indica nello stesso tempo un’attività dello spirito ed il prodotto di tale attività. L’attività mentale di chi ragiona può essere oggetto di studi psicologici, fisiologici, sociali e culturali, atti a rivelare le intenzioni e i motivi di chi ha elaborato un ragionamento, le influenza di qualsiasi tipo subite e tali da far situare il fenomeno nel proprio contesto. Il ragionamento, invece, come prodotto di tale attività intellettuale, può essere studiato indipendentemente dalle condizioni della sua elaborazione: si terrà conto del modo in cui è stato formulato, della posizione delle premesse e della conclusione, della validità del legame che le unisce, della struttura del ragionamento, della sua conformità a date regole o a dati schemi preventivamente accettati. Tale esame è di competenza di una disciplina che tradizionalmente è detta logica. Dal punto di vista della logica, il ragionamento consiste in un processo, un movimento, un dinamismo della conoscenza21 spesso associato all’inferenza. L’inferenza sta a significare l’operazione mentale del passaggio da una conoscenza ad un’altra (vedo il fumo, desumo ci sia il fuoco). Tuttavia, se si guarda alla struttura del ragionamento, l’inferenza è solo uno dei passaggi del ragionamento. Per poter raggiungere una conclusione – il punto finale di un ragionamento – sono infatti necessari punti di partenza, cioè ragioni, affermazioni, proposizioni, argomenti. Le premesse sono le proposizioni che precedono le conclusioni. Ragionare significa passare dalle premesse alle conclusioni attraverso un’inferenza logica. La dimensione dinamica del ragionamento assume consistenza nel processo attraverso cui, a partire da ciò che è noto (le premesse) si giunge a ciò che non è immediatamente noto, cioè alla conclusione, che pertanto risulta essere mediatamente nota: nota grazie alle premesse. 2. Ragionamento deduttivo La logica è una componente essenziale del ragionamento. John Dewey afferma che il pensiero ragionato (reasoned thought) converte un’azione meramente appettitiva, impulsiva, e cieca in un’azione intelligente22. La logica pervade il diritto. L’insistenza del diritto sul ragionamento corretto ed esplicito inibisce i giudici e gli avvocati dal presentare argomenti che si basino su intuizioni che non siano accompagnate da principi, o che non abbiano alcuni disciplina o criterio 23. Tradizionalmente i logici distinguono il più ampio universo del ragionamento logico, in 21 I. Trujillo, Appunti per un corso di logica giuridica, Giappichelli, 2008, p. 10. J. Dewey, How we think, 1933, p. 17. 23 EDWARD P.J. CORBETT & ROBERT J. CONNORS, CLASSICAL RHETORIC FOR THE MODERN STUDENT 32 (1999) (che descrivono il ragionamento deduttivo come “l’atto della mente in cui dalla relazione reciproca di due proposizioni, noi deduciamo e cioè, comprendiamo ed affermiamo, una terza proposizione”). 22 ragionamento deduttivo ed induttivo. Secondo una prima approssimativa definizione, il ragionamento deduttivo è quel ragionamento le cui conclusioni seguono necessariamente da certi fatti noti. Per esempio, se sappiamo che la Terra è più grande di Marte e che Giove è più grande della Terra, seguirà necessariamente che Giove è più grande di Marte. Se A e B sono veri, allora C deve essere vero. La forma speciale di ragionamento deduttivo che si ritrova nella stragrande maggioranza delle sentenze è il sillogismo che è quella forma particolare di ragionamento in cui la conclusione segue da due premesse. Ad esempio: Tutti gli uomini sono mortali Socrate è un uomo Socrate è mortale Le tre parti del sillogismo vengono comunemente definite, premessa maggiore (tutti gli uomini sono mortali), premessa minore (Socrate è un uomo) e la conclusione (Socrate è mortale). La premessa maggiore afferma una verità generale (tutti gli uomini sono mortali), la premessa minore afferma un fatto specifico e una verità più circoscritta (Socrate è un uomo). La conclusione è l’esplicitazione di ciò che era già implicito nelle due premesse (Socrate è mortale). Leibniz espresse questo concetto nei seguenti termini: ciò che è vero dell’universale è vero del particolare. Se è vero che le macchine hanno quattro ruote e che l’Opel è una macchina, sarà anche vero che la Opel ha quattro ruote. Se noi sappiamo che i membri di una certa classe hanno certe caratteristiche, e che certi individui sono membri di quella classe, allora sappiamo che quegli individui hanno le stesse caratteristiche della classe. 3. Ragionamento induttivo Se il ragionamento deduttivo prova una conclusione particolare partendo da una proposizione generale, nel ragionamento induttivo succede l’inverso. Il ragionamento induttivo è quel ragionamento che conduce ad una proposizione generale partendo da proposizioni particolari. Il procedimento induttivo parte tipicamente dall’esperienza. Io osservo un corvo che è nero, un altro corvo che è pure nero, un altro ancora e mi accorgo che è nero. Dall’osservazione di casi particolari (e dunque da proposizioni particolari: il corvo X è nero + il corvo Y è nero + il corvo Z è nero, …) inferisco una proposizione generale: i corvi sono neri. Il sillogismo funziona nel modo seguente: Tutti gli A osservati sono B _____________ (probabilmente) Tutti gli A sono B La peculiarità del ragionamento induttivo è che le conclusioni non sono vere ma sono plausibili. Tali conclusioni verranno poste alla base di nuovi sillogismi che tuttavia non saranno rigorosamente deduttivi, in quanto le premesse non sono certe ma probabili o plausibili. Il ragionamento dialettico è il ragionamento in cui le premesse non sono certe – come nel sillogismo rigoroso della logica formale. Aristotele ci dice nei Topici, nella Retorica e nelle Confutazioni sofistiche i ragionamenti dialettici non si riferiscono alle dimostrazioni scientifiche ma alle deliberazioni ed alle controversie. Essi riguardano i mezzi di persuasione, mediante il discorso, per criticare le tesi degli avversari e giustificare le proprie mediante argomenti più o meno forti. Il sillogismo dialettico è anche detto entimema: Entimema: L'entimema (dal greco ἐ νθύμημα) è, nella Retorica di Aristotele, un'argomentazione in forma di sillogismo nella quale una delle premesse non è certa ma solo probabile. Comunemente, si fa riferimento a un entimema anche quando si ha un sillogismo incompleto o ellittico, nel quale una o più premesse sono volutamente sottintese, perché già di per sé note; sarebbe quindi superfluo citarle. L'entimema può essere dimostrativo o confutativo. Sono entimemi dimostrativi quelli che traggono conclusioni da «premesse sulle quali esiste accordo» [Aristotele, Retorica II.23]. Sono entimemi confutativi quelli che traggono conclusioni «non accolte dall'avversario» [Aristotele, Retorica II.23]. Esiste un'ulteriore categoria che è quella degli entimemi apparenti o erismi. La Logica di Port-Royal definisce l'enthymème come un sillogismo «perfetto nello spirito ma imperfetto nell'espressione». Studieremo più a fondo l’entimema quando parleremo di argomentazione Anche questi sono particolarmente importanti per il diritto: sia per la formulazione della premessa maggiore, ma anche per la formulazione della premessa minore. Per comprendere come funziona il ragionamento dialettico però dobbiamo comprendere cosa significa “argomentazione”: che è appunto l’operazione di formulazione delle premesse da cui muovere per i ragionamenti deduttivi o induttivi. 4. Ragionamento abduttivo I termine abduzione (dal latino ab ducere, condurre da) indica un sillogismo in cui la premessa maggiore è certa mentre quella minore è solamente probabile. L'abduzione (in greco apagõghé) fu usata per la prima volta da Aristotele che la distingueva sia dall'induzione che dalla deduzione (cfr.Analitici primi, II, 25 sgg.) L'abduzione ha una minore valenza dimostrativa poiché nel sillogismo che la rappresentava, mentre la premessa maggiore era certa, quella minore era dubbiosa per cui la conclusione era caratterizzata dalla probabilità. Se per esempio la premessa maggiore afferma: «Tutto quello che non muore non è un oggetto materiale» (certezza), e la premessa minore dice «l'uomo ha un'anima immortale» (dubbio), «l'anima dell'uomo non è un oggetto materiale» (probabilità): questa conclusione, (tolto il termine medio: «tutto quello che non muore» e «immortale») si presenta con un grado di verità certa uguale o inferiore a quello della premessa minore. Il filosofo statunitense Charles Sanders Peirce, ha sviluppato questo argomento nella sua concezione della logica della scoperta scientifica, estendendo il significato dell'abduzione considerandola "il primo passo del ragionamento scientifico" (Collected papers, 7.218) in cui viene stabilita un'ipotesi per spiegare alcuni fatti empirici. Peirce teorizzava che il pensiero umano ha tre possibilità di creare inferenze, ovvero tre modi diversi di ragionamento. Questi tre modi sono: Il ragionamento deduttivo Il ragionamento induttivo Il ragionamento abduttivo Le differenze tra abduzione, induzione e deduzione possono essere così riassunte: Deduzione Regola Tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi Caso Questi fagioli vengono da questo sacchetto Risultato Questi fagioli sono bianchi Induzione Caso Questi fagioli vengono da questo sacchetto Risultato Questi fagioli sono bianchi Regola Tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi Abduzione Regola Tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi Risultato Questi fagioli sono bianchi Caso Questi fagioli vengono da questo sacchetto Nella deduzione la conclusione scaturisce in modo automatico dalle premesse: date la regola e il caso, il risultato non può essere diverso e rappresenta semplicemente il rendere esplicito ciò che era già implicito nelle premesse. L'induzione consente invece di ipotizzare una regola a partire da un caso e da un risultato: essa si basa sull'assunzione che determinate regolarità osservate in un fenomeno continueranno a manifestarsi nella stessa forma anche in futuro. A differenza della deduzione, e come la stessa abduzione, l'induzione non è logicamente valida senza conferme esterne (nell'esempio di cui sopra, basterebbe un solo fagiolo nero nel sacchetto a invalidare la regola). Osservando quello che per il filosofo americano è "un fatto sorprendente" (abbiamo dei fagioli bianchi) e avendo a disposizione una regola in grado di spiegarlo (sappiamo che tutti i fagioli di questo sacchetto sono bianchi) possiamo ipotizzare che si dia il caso che questi fagioli vengano da questo sacchetto. In questo modo noi abbiamo accresciuto la nostra conoscenza in quanto sappiamo qualcosa di più sui fagioli: prima sapevamo solo che erano bianchi, ora possiamo anche supporre che provengano da questo sacchetto. L'abduzione, secondo Peirce, è l'unica forma di ragionamento suscettibile di accrescere il nostro sapere, ovvero permette di ipotizzare nuove idee, di indovinare, di prevedere. In realtà tutte e tre le inferenze individuate permettono un accrescimento della conoscenza, in ordine e misura differente, ma solo l'abduzione è totalmente dedicata a questo accrescimento. È altresì vero che l'abduzione è il modo inferenziale maggiormente soggetto a rischio di errore. L'abduzione, come l'induzione, non contiene in sé la sua validità logica e deve essere confermata per via empirica. La conferma non potrà mai essere assoluta, bensì solo in termini di probabilità: potremo dire di avere svolto un'abduzione corretta se la Regola che abbiamo scelto per spiegare il nostro Risultato riceve tali e tante conferme che la probabilità che sia quella giusta equivalga ad una ragionevole certezza e se non vi sono altre Regole che spiegano altrettanto bene i fatti osservati. 5. Ragionamento e diritto Il sillogismo compare di frequente nelle decisioni dei giudici. Ma esso non compare apertamente, ma va di volta in volta scoperto. Prendiamo un esempio piuttosto semplice. Il fatto è semplicissimo. Il Giudice per le Indagini Preliminari di Catanzaro dispone la misura cautelare in carcere nei confronti dell’imputato X. Dopo qualche mese, su istanza della difesa, il GIP stabilisce che la misura cautelare in carcere debba essere sostituita con quella degli arresti domiciliari. Il nuovo provvedimento viene comunicato all’Ufficio del Pubblico Ministero in data 29 dicembre 2009. Ai sensi degli artt. 591 cpp, comma 1 lett. c); 310, comma 2 e 309, comma 1 c.p.p. il PM ha dieci giorni per impugnare l’ordinanza del GIP. Il Pm in questione tuttavia aspetta quasi trenta giorni prima di impugnare. Asserisce tuttavia che l’appello è tempestivo perché – sebbene l’ordinanza del GIP sia stata comunicata all’Ufficio in data 29 dicembre, egli – magistrato incaricato delle indagini, ne ha preso visione il 12 gennaio. Da questa data si fa decorrere il dies a quo per il calcolo dei dieci giorni. La Corte di Cassazione dà ragione all’indagato. I dieci giorni decorrono dalla data di comunicazione all’ufficio e non dall’effettiva conoscenza che ne ha il magistrato (Corte Cass. 22 marzo 2011). Premessa maggiore: Il PM deve proporre appello entro 10 gg. dall’esecuzione del provvedimento (l’ordinanza del GIP) Premessa minore L’ordinanza si intende eseguita quando viene trasmessa all’ufficio del PM Conclusione Il PM deve proporre appello entro 10 gg. dalla comunicazione dell’ordinanza all’ufficio del PM. Ma adesso basterà dire: l’utilizzo del sillogismo e dunque del ragionamento deduttivo non significa che tutto il ragionamento giudiziale sia deduttivo. Anzi vedremo – che la costruzione delle premesse, maggiore e minore, avviene per altre vie. Proprio per distinguere l’operazione di formulazione delle conclusioni (tirando le somme) e l’operazione di formulazione delle premesse, Wroblewski24 ha distinto fra due momenti nel ragionamento giudiziario: la giustificazione interna e la giustificazione esterna. Nel nostro caso come si è arrivati a formulare le due premesse: la maggiore e la minore? Le disposizioni rilevanti sono: Art. 591. Inammissibilità dell'impugnazione. 1. L'impugnazione è inammissibile: c) quando non sono osservate le disposizioni degli articoli 581, 582, 583, 585 e 586; art. 310, comma 2 Art. 310. Appello. (1) 1. Fuori dei casi previsti dall'articolo 309 comma 1, il pubblico ministero, l'imputato e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali, enunciandone contestualmente i motivi. 2. Si osservano le disposizioni dell'articolo 309 commi 1, 2, 3, 4 e 7. Dell'appello è dato immediato avviso all'autorità giudiziaria precedente che, entro il giorno successivo, trasmette al tribunale l'ordinanza appellata e gli atti su cui la stessa si fonda. Capo Impugnazioni 24 J. Wroblewski, The Judicial Application of the Law, 1992. VI Art. 309. Riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva. (1) 1. Entro dieci giorni dalla esecuzione o notificazione del provvedimento, l'imputato può proporre richiesta di riesame, anche nel merito, della ordinanza che dispone una misura coercitiva, salvo che si tratti di ordinanza emessa a seguito di appello del pubblico ministero. In altri termini, in che modo la Corte di Cassazione è arrivata ad affermare la regola per cui i dieci giorni per impugnare non decorrono da una notifica al PM ma dalla semplice comunicazione all’Ufficio? Per ricostruire l’iter argomentativo della Corte occorre guardare alla cd. giustificazione esterna: “Il Collegio, pur consapevole di diverso orientamento espresso da un’isolata pronunzia (sez. IV, 28 febbraio 1996, n. 686), ritiene che il suddetto termine decorra dalla data di comunicazione dell’ordinanza all’Ufficio del PM, a nulla rilevando che la comunicazione stessa non sia stata specificamente effettuata al magistrato “titolare” del procedimento, attesa l’unitarietà e l’impersonalità dell’ufficio della procura, come si desume dall’art. 2, lett. b) della l. 24 ottobre 2006 n. 269…. …. Ai fini della decorrenza del suddetto termine non occorre la notificazione del provvedimento impugnabile, essendo sufficiente, per il pubblico ministero, la comunicazione del provvedimento all’ufficio della procura e per la parte privata la notificazione del relativo avviso di deposito. La giustificazione interna coincide approssimativamente con il dispositivo: è la parte finale della decisione in cui la conclusione (ricorso accolto, parzialmente accolto, respinto, etc…) segue necessariamente dalle premesse (dalla premessa maggiore e dalla premessa minore). Nei casi facili, l’intero ragionamento si riduce alla giustificazione interna: - Il codice della strada sanziona con una multa di Euro colui che non si ferma al semaforo rosso (Premessa maggiore); - A non si è fermato al semaforo rosso (premessa minore); - La multa comminata ad A è legittima (conclusioni). In altri casi, il ragionamento è molto più complesso. Si noti che la complessità può riguardare sia la formulazione della norma generale, ma sia – e ancor più spesso – la formulazione della premessa minore. La giustificazione esterna attiene invece alla giustificazione (ma anche formulazione delle premesse). Ad esempio, nel 2007 la Corte Costituzionale dichiarò costituzionalmente illegittima la legge n. 46 del 2006 nella parte in cui vietava al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento. La Corte in estrema sintesi dichiarò che: - Il principio del giusto processo (di cui all’art. 111 Cost.) presuppone la parità fra accusa e difesa; (premessa maggiore) - Il divieto di impugnazione delle sentenze di proscioglimento da parte del PM è una violazione del principio di parità fra accusa e difesa (infatti: in caso di condanna l’imputato può impugnare, in caso di assoluzione, il PM non può impugnare) (premessa minore) - La legge n. 46 che fa divieto al PM di impugnare le sentenze di proscioglimento è costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 111 Cost. (Conclusione). In realtà la Corte ha utilizzato un percorso argomentativo molto più lungo per arrivare a questa conclusione, invocando molti altri principi, fra cui il principio di proporzionalità e di ragionevolezza. Sicché conoscere la formulazione conclusiva delle sentenze è utile ma ancora largamente insufficiente per spiegare il ragionamento giuridico. Per capire la giustificazione esterna, però, dobbiamo discostarci dalla logica formale. Anche i ragionamenti induttivi e abduttivi compaiono di frequente nelle sentenze giudiziarie. Nei processi penali, ad esempio, la ricostruzione dei fatti avviene quasi sempre per via induttiva: Il coltello è sporco di sangue della vittima Vi sono impronte digitali di X sul coltello Probabilmente X è l’autore del delitto Naturalmente quanti più elementi contribuiscono a sostanziare le due premesse, tanto più verosimili saranno le conclusioni. Esempio di ragionamento abduttivo Vedo le impronte di un orso sul sentiero Questo è un parco nazionale ed è verosimile che vi siano orsi La migliore spiegazione è che un orso è passato dal sentiero di recente. LA RAGIONE OLTRE LA LOGICA. 1. Ragion pratica e ragione teoretica Innanzitutto va chiarito che il ragionamento giuridico è una forma particolare di ragionamento pratico. Aristotele fu il primo a distinguere chiaramente fra ragione teoretica e ragion pratica. Il ragionamento aletico: Si dice aletico un ragionamento i cui componenti (premesse e conclusioni) siano, tutti, proposizioni, ossia enunciati di un discorso conoscitivo o descrittivo., come tali veri o falsi.. Il ragionamento pratico fornire ragioni per un’azione: è cioè quello che si conclude con l’affermazione che un’azione deve essere compiuta, in altri termini con una prescrizione25. In altri termini il ragionamento pratico o normativo è quel ragionamento la cui conclusione sia una norma, ossia un enunciato del discorso prescrittivo o direttivo, come tale né vero né falso. Non bisogna ledere il prossimo Picchiare qualcuno è ledere il prossimo _____________ Non bisogna picchiare alcuno 25 G. Carcaterra, Sillogismo pratico, voce Enciclopedia filosofica, vol. 11, p. 10630. La conclusione di questo ragionamento pratico è di carattere prescrittivo generale. Ma i ragionamenti pratici sono anche quelli che rispondono alla domanda: cosa devo fare qui e ora? Non bisogna ledere il prossimo Picchiare Simona è ledere il prossimo _____________ Non bisogna picchiare Simona Il primo esempio di ragionamento può essere denominato teorico pratico ed il secondo pratico pratico. Il ragionamento giudiziale ha solitamente questo tenore anche se contiene ragionamenti del primo tipo. 2. Ragionamento giuridico e ragionamento pratico Dire che il ragionamento giuridico fa parte del ragionamento pratico non significherebbe granché se non si riconosce validità al ragionamento pratico. Se ad esempio affermo che le mie scelte pratiche sono dettate da fattori irrazionali o comunque immotivabili il ragionamento giuridico sarebbe sì parte del ragionamento pratico, ma al modo in cui sostengono i realisti: e cioè più soluzioni possono essere corrette e nessuno lo è in modo prevalente. Le tesi in cui la macro teoria del ragionamento giuridico come ragionamento pratico si snoda sono parecchie, dalla Nuova Retorica di Perelman, alla Teoria Ermenutica di Viola e Zaccaria, al costituzionalismo di Ronald Dworkin, alla Tesi del Caso Particolare di Alexy. Ora affronteremo solo la prima teoria, rimandando le altre ad un momento successivo. Va tuttavia precisato che il terreno di scontro fra le varie teorie verte soprattutto su un punto: e cioè sulla questione se siano ammissibili ragionamenti normativi. Un ragionamento aletico è logicamente valido e dunque stringente allorché ha carattere deduttivo: se le premesse sono vere, allora necessariamente anche la conclusione è vera. Ma come definire le condizioni di validità dei ragionamenti normativi? Il dilemma di Jǿrgensen (Imperatives and Logic): Se per i ragionamenti aletici il criterio di validità è dato dalla verità (se sono vere le premesse sono anche vere le conclusioni), cosa dire dei ragionamenti normativi? Il problema nasce dal fatto che non possiamo estendere ai ragionamenti normativi le condizioni di validità dei ragionamenti aletici: per la banale considerazione che nei ragionamenti normativi compaiono norme e le norme non hanno valore di verità (non sono né vere né false). A quali condizioni, dunque, può dirsi valido un ragionamento normativo? Si può ragionare validamente con norme? Intuitivamente noi rispondiamo di sì: “I contratti devono essere adempiuti. Questo è un contratto. Quindi questo deve essere adempiuto”. Sembra non vi siano dubbi. Ma d’altro canto, questa risposta sembra insoddisfacente. Il dilemma di Jǿrgensen offre possibili risposte a questa domanda: come si può ragionare con norme? Vi sono varie risposte a questa domanda. Anzi proprio sulle condizioni di validità dei ragionamenti normativi ci sono le maggiori discussioni. Per i formalisti la validità del ragionamento è di tipo logico deduttivo: stringente. Per i realisti la validità del ragionamento non ha alcun senso. Ma per la tesi intermedia – dalla Nuova Retorica, all’Ermeneutica, alla Tesi del Caso Particolare, etc… - i criteri di validità del ragionamento giuridico sono altri parametri. Varie risposte possibili: a) I ragionamenti normativi sono perfettamente possibili e il dilemma non ha ragion d’essere perché nasce da un presupposto errato: contrariamente a quanto il dilemma assume come pacifico e cioè che le norme non hanno valore di verità, le norme hanno valori di verità: anch’esse come le proposizioni sono vere e false. Ad esempio, la proposizione “E’ vero che non si deve uccidere” è una proposizione ben formata in italiano. Le norme sono vere allorché corrispondono a doveri o valori oggettivamente esistenti nella natura delle cose e riconoscibili mediante l’uso della retta ragione. Questo modo di vedere, caratteristico del giusnaturalismo, presuppone il cognitivismo etico, ossia la tesi della conoscibilità di valori, doveri e quant’altro. b) La risposta opposta è che i ragionamenti normativi sono frutto di illusione, di autoinganno. Malgrado le apparenze nessun ragionamento normativo è valido. Le norme sono, per così dire, fatti: ad esempio, comandi di un sovrano. E fra fatti può esservi forse una relazione causale ma non una relazione logica. c) Se le norme sono prive di valore di verità non si può ragionare con le norme, ma si può ragionare con proposizioni fattuali che asseriscono il soddisfacimento (l’osservanza, l’adempimento, l’effettività) delle norme. Così ad esempio, la proposizione secondo cui la norma individuale “L’assassino Tizio deve essere punito” si può inferire dalla proposizione secondo cui la norma generale “Gli assassini devono essere puniti” d) Il dominio della logica è più ampio al dominio della verità. Le norme non ha valori di verità, ma non per questo sono privi di valori logici qualsivoglia. Il valore logico delle norme è un valore di validità, intesa come giustizia, obbligatorietà, o anche, come si usa dire, forza vincolante. Se è valida la premessa: Tutti i ladri devono essere puniti, allora è valida anche la conclusione: Il Ladro Tizio deve essere punito. 3. Legge di Hume Il dover essere non può discendere dall’essere. Dalla circostanza che un fatto si ripeta nel tempo non può desumersi che debba ripetersi. Dal fatto che tutti coloro che entrano in Chiesa si tolgono il cappello non può discendere che la regola secondo cui quando si entra in Chiesa ci si deve togliere il cappello. 4. Oltre la logica formale Il positivismo limita il ruolo della logica, dei metodi scientifici e della ragione a problemi conoscitivi, puramente teorici, e la negazione della possibilità di un uso pratico della ragione. Da questo punto di vista la concezione positivista si oppone alla tradizione aristotelica che ammette la ragion pratica applicabile a tutti i campi d’azione, dall’etica alla politica, e tale da giustificare la filosofia come ricerca della saggezza. Chaim Perelman (e la filosofia ermeneutica a cui Perelman dichiara anche di ispirarsi) muove dal presupposto che il ragionamento giuridico sia intriso di giudizi di valore. Nega tuttavia una logica specifica dei giudizi di valore. Quando si discute di norme, di valori, di opinioni controverse, quando si delibera si ricorre a tecniche argomentative. Tali tecniche erano state analizzate, fin dall’antichità, da tutti i coloro che si interessavano al discorso volto a persuadere e a convincere: ad esempio nella Retorica, nella Dialettica, nella Topica. Questa scoperta non è priva di rilievo per la logica giuridica, da che, se il ragionamento del giudice deve sforzarsi di arrivare a soluzioni che siano eque, ragionevoli, accettabili, indipendentemente dalla loro conformità a norme giuridiche positive, è essenziale che sia possibile rispondere alla domanda: “quali sono i procedimenti intellettuali attraverso i quali il giudice giunge a considerare una data decisione come equa, ragionevole, accettabile, visto che si tratta di nozioni altamente controverse?”. E’ precisamente in presenza di tali nozioni che, secondo Platone, si deve ricorrere alla dialettica. Il prof. J. Moreau (1963) parafrasando e commentando un testo di Platone (Eutifrone 7b) scrive: “Se tu e io fossimo di opinione diversa – dice Socrate ad Eutifrone – sul numero (ad esempio di uova in un cesto), sulla lunghezza (di una stoffa) o sul peso (d’un sacco di frumento), noi non litigheremmo per questo; non cominceremmo a discutere; ci basterebbe contare, misurare o pesare e la nostra disputa sarebbe superata. Le discussioni si prolungano e si approfondiscono solo quando mancano tali mezzi di misura, dei criteri siffatti di obbiettività: questo è il caso (precisa Socrate) di quando si sia in disaccordo sul giusto e l’ingiusto, sul bello e il brutto, il bene e il male, insomma sui valori. Ebbene, se si vuole evitare che tale disaccordo si trasformi in un conflitto e per risolverlo si debba fare appello alla violenza, l’unico mezzo è ricorrere a una discussione ragionevole. La dialettica, arte della discussione, appare come il metodo adatto per risolvere problemi pratici, quelli che riguardano gli scopi di un’azione in cui sono implicati valori”. Il ricorso a ragionamenti dialettici e retorici, ragionamenti diretti a stabilire un accordo su dei valori e la loro applicazione, si impone, quando essi sono oggetto di una controversia, in mancanza di tecniche unanimemente accettate. La teoria dell’argomentazione sostituisce alla nozione di verità la nozione di accordo: il ragionamento che riguarda valori non deve dimostrare la verità di alcunché ma deve mirare all’accordo. CHAIM PERELMAN E LA NUOVA RETORICA Perelman è stato uno dei più importanti e conosciuti filosofi belgi. Allievo di Dupréel, ne riprende la critica del positivismo e la riflessione sui valori. La sua ricerca ruota intorno a due assi: la nuova retorica ed il ragionamento giuridico. In entrambi, Perelman ha analizzato il problema dei giudizi di valore, giungendo alla conclusione che la logica che li muove non possa essere compresa nell’ambito della filosofia occidentale postcartesiana a causa della sua ristretta concezione della razionalità. Difatti, tale concezione, nata con Descartes e sviluppata in seguito dai logici e dai matematici, considera razionale solo ciò che, per il suo carattere necessario ed apodittico, si impone a tutti con la forza dell’evidenza. Questa certezza è considerata il corollario di una dimostrazione astratta od empirica e produce il proprio effetto di verità esprimendosi in idee chiare e distinte. In questo modo, ciò che è soltanto probabile, verosimile, incerto o confuso, è posto intrinsecamente fuori dall’ambito della ragione. Però, sostiene Perelman, è solo in questo campo del preferibile che avviene il confronto etico sui valori, sulla cui base vengono prese le scelte che portano all’azione. L’effetto della limitazione cartesiana è, dunque, che questo vastissimo campo nel quale si dispiega la libertà umana, sprofonda nel dominio della suggestione, della violenza, del fondamentalismo, del dogmatismo, ossia dell’irrazionale. È per opporsi a questa deriva che Perelman, con la collaborazione di Lucie OlbrechtsTyteca, elabora la nuova retorica (o teoria dell’argomentazione). Tale teoria, che, come afferma Norberto Bobbio, è una delle tesi più feconde degli ultimi anni, è esposta in forma compiuta nel Trattato dell’Argomentazione. Il suo oggetto è «lo studio delle tecniche discorsive atte a provocare o accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso» (Trattato dell’Argomentazione): la finalità della nuova retorica è, dunque, quella di recuperare le argomentazioni usate nel discorso persuasivo nella sfera della razionalità, attraverso l’estensione di quest’ultima espressa dalla nozione di ragionevolezza, la quale comprende tutte le idee sostenute dagli uomini indipendentemente dal grado di adesione dagli stessi manifestato. La ragionevolezza pertanto non riguarda solo le conoscenze evidenti e necessarie, ma tutte quelle semplicemente verosimili, per le quali, non esistendo certezza oggettiva, l’adesione può essere ottenuta solo attraverso l’argomentazione (la quale si oppone così alla dimostrazione). Questa teoria è debitrice delle teorie di Aristotele, il quale postulava una “logica in situazione”, capace di tener conto del rapporto tra oratore ed uditorio. Ed è proprio quest’ultimo aspetto, ossia che ogni argomentazione è determinata dalla necessità di stabilire un contatto mentale con l’uditorio al quale si rivolge, che, per Perelman, si basa il legame tra vecchia e nuova retorica. Ogni argomentazione è predisposta e sviluppata dall’oratore tenendo conto (consciamente o inconsciamente) dei mezzi più adatti per persuadere il particolare uditorio cui si rivolge. Per questo è possibile affermare che è l’uditorio a determinare la qualità dell’argomentazione. Il concetto di uditorio è dunque centrale per la nuova retorica. Esso implica che ogni argomentazione abbia un carattere relativo. Tale relatività è alla base della distinzione proposta da Perelman tra le filosofie prime che pongono princìpi ritenuti assolutamente veri, cosicché la loro messa in questione comporta la perdita di validità di tutta la filosofia; e filosofie regressive, le quali, al contrario, considerano i propri assiomi come risultati di una situazione particolare e determinata: se questa si modifica, anche i princìpi andranno rivisti. Poiché il “campo del preferibile” è quello proprio delle controversie sui valori, ne segue che la nuova retorica ha immediate implicazioni pratiche. Giacché questo è il campo della scelta fra soluzioni alternative, situazione intermedia tra la violenza che interrompe ogni argomentazione e la dimostrazione che impone una conclusione univoca al ragionamento. Per cui la nuova retorica investe i settori dell’etica, del diritto, della politica, della filosofia e delle scienze umane. La nuova retorica consente di recuperare questi settori ad una razionalità persuasiva, che non si imponga in modo assoluto ma lasci la libertà del dubbio, indispensabile per creare un clima di discussione aperto e democratico, estraneo sia al dogmatismo che allo scetticismo, i quali altro non sono che due facce della stessa medaglia; ma estraneo anche ai mezzi persuasivi irrazionali come la violenza del fondamentalismo, o la suggestione della pubblicità e della propaganda. Sono importanti le implicazioni per la filosofia del diritto, la quale per Perleman si basa sul principio: “la logica giuridica non è la logica formale”; principio che gli è valso la definizione di antiformalista. Il ragionamento giuridico dovrà basarsi anch’esso sull’argomentazione, di modo che il giudice, sempre nel rispetto della legge, tenga conto anche dei valori esistenti nella società, in modo di arrivare a decisioni condivise da tutte gli uditorii, e che rappresentino una sintesi tra diritto ed equità. La nuova retorica apre la strada a una scelta responsabile ed impegnata, unica possibile manifestazione sociale della libertà, che sia contraria ad ogni autoritarismo, nel riconoscimento che non esistono verità assolute, e si sviluppi nelle istituzioni democratiche. «Solo l’esistenza di un processo argomentativo che non sia né cogente né arbitrario, dà un senso alla libertà umana, condizione per l’esercizio di una scelta ragionevole» (Trattato dell’Argomentazione). LOGICA GIURIDICA E NUOVA RETORICA Nel Trattato dell’argomentazione. La Nuova Retorica, Chaim Perelman e Lucie Olbrechts – Tyteca sin dall’introduzione dichiarano di rifarsi ad una tradizione antica e cioè la Retorica di Aristotele: “..E’ oggetto di questa teoria lo studio delle tecniche discorsive atte a provocare ed accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso; e poiché l’adesione delle menti si caratterizza per il fatto che la sua intensità è variabile, nulla ci obbliga a limitare il nostro studio a un particolare grado di adesione caratterizzato dall’evidenza”. La tesi di fondo del libro è che esiste una logica argomentativa che non è riducibile alla logica formale e che tuttavia accompagna gli stadi del ragionamento per arrivare ad una certa deliberazione. L’argomentazione tende mediante il discorso ad esercitare un’azione efficace sulle menti. Per cui la sua teoria avrebbe potuto essere considerata come un ramo della psicologia. L’obiettivo degli autori tuttavia non è quello di analizzare la forza persuasiva di certi argomenti, ovvero di forme di pressione extratecniche (nella propaganda, ad esempio), ma di analizzare le diverse strutture argomentative. Al centro dell’interpretazione giuridica e dell’applicazione del diritto sta il conflitto fra giudizi di valore. Per questo la logica giuridica è una logica della controversia26. Se in un processo c’è accordo sulla descrizione dei fatti, le parti, per far valere la concezione del diritto che è loro favorevole, metteranno in rilievo questo o quel valore: se uno difende la certezza del diritto e la conformità alla lettera del testo, l’altro gli opporrà lo spirito della legge, cioè la sua finalità, e lo spirito del diritto, cioè la preponderanza di un altro valore considerato come più importante. Quando in un conflitto giudiziario si fissa il consenso su una prassi o su un tipo di soluzione, la giustificazione della decisione, il suo collegamento al sistema, pur essendo auspicabile diventa secondario. Solo nei casi dubbi, dal punto di vista della soluzione da adottare, ragioni metodologiche imporrebbero una soluzione. Il ruolo del giudice è centrale e determinante per il fatto che l’unica buona soluzione di un conflitto di valori si impone di rado. E’ il giudice a dover decidere la soluzione giuridica che metterà fine al conflitto a favore di questo o di quel valore. I principi giuridici e le teorie alle quali ricorrerà nella sua motivazione non sono né veri, né falsi, ma servono a proteggere il valore prioritario. Si intende bene che, in una visione del diritto la cui funzione sia quella di fornire soluzioni a conflitti di valore non soltanto vincolanti ma anche socialmente accettabili, il ruolo del giudice sia importantissimo e la legislazione e la dottrina abbiano invece quello di dare indicazioni più o meno imperative per la determinazione della soluzione ragionevole in ogni caso litigioso27. I concetti chiave della Nuova Retorica sono: oratore, discorso, uditorio. La teoria dell’argomentazione presuppone una distinzione fra logica dimostrativa e logica argomentativa. 26 27 C. Perelman, Logica giuridica e nuova retorica, Giuffrè, Milano 1979, p. 10. Ibidem, p. 11. Nella logica moderna, nata da una riflessione sul ragionamento matematico, non si connettono più i sistemi formali a una qualsiasi evidenza razionale. Lo studioso di logica è libero di elaborare un linguaggio artificiale del sistema che egli costruisce. Spetta a lui decidere quali sono gli assiomi, cioè le espressioni che senza prova sono considerate valide nel sistema, e le regole di trasformazione che egli introduce e che gli consentono di dedurre da espressioni valide altre espressioni egualmente valide nel sistema. Quando occorre dimostrare una proposizione, è sufficiente dimostrare in base a quali procedimenti essa possa essere ottenuta come ultima espressione di una serie di deduzioni. Da dove provengono gli elementi iniziali – se essi siano postulati del pensiero, verità divine, massime d’esperienza, etc… - sono questioni che il pensiero formale lascia fuori dall’oggetto di indagine. Quando invece si tratta di argomentare, di influire cioè per mezzo di determinate del discorso sull’intensità dell’adesione di un uditorio a determinate tesi, non è più possibile trascurare completamente le condizioni psichiche e sociali in mancanza delle quali l’argomentazione rimarrebbe senza oggetto e senza risultato. Ogni argomentazione mira infatti all’adesione delle menti e presuppone perciò l’esistenza di un contatto intellettuale. Quattro osservazioni preliminari: 1) La retorica cerca di persuadere mediante il discorso. Se per ottenere l’adesione ad un’affermazione si ricorre all’esperienza non può parlarsi di retorica. Vanno altresì escluse dalla retorica la violenza e le lusinghe. 2) La argomentazione è – o può essere – meno convincente della prova dimostrativa. Ma la prova dimostrativa è convincente sempre a condizione che si parta dalla verità delle premesse. 3) L’adesione ad una tesi può avere intensità variabile. 4) La retorica non riguarda tanto la verità quanto l’adesione. Le verità sono impersonali e il fatto di riconoscerle o meno non modifica in niente il loro statuto. L’adesione invece è sempre adesione di uno o più individui ai quali si indirizza, vale a dire adesione di un uditorio. L’Uditorio L’uditorio è l’insieme di coloro sui quali l’oratore vuole influire per mezzo della sua argomentazione. Vi sono diversi tipi di uditorio: una pubblica piazza, una giuria, un collegio giudicante, un giudice monocratico. L’uditorio cambia anche quando cambia lo stile retorico. Aristotele aveva distinto tre generi: a) Deliberativo (tipico della politica) b) Giudiziario c) Epidittico Il genere deliberativo – il discorso politico – ha come uditorio o individui che la pensano come l’oratore (se parlo a persone del mio partito) o alla parte avversa. Il genere giudiziario ha come uditorio individui che sebbene non possano non avere già delle nozioni preliminari sui fatti di causa (le prenozioni di cui parlava Epitteto, mentre l’ermenutica parla di precomprensioni) sono tuttavia terzi: si pongono dunque di fronte alle parti in una posizione di equidistanza. Il genere epidittico è quello che mira a riscaldare l’uditorio per ragioni celebrative (orazioni funebri, discorso del Presidente di fine d’anno, discorso del Presidente sullo Stato della Nazione, etc…). Il contatto fra oratore e uditorio implica parecchie presupposizioni: a) Il contatto delle menti La formazione di un’effettiva comunità delle menti presuppone alcune condizioni minime: non solo un linguaggio comune, ma anche una certa comunanza fra gli interlocutori nonché il desiderio di entrare in contatto con l’altro. Pensiamo a Churchill che vietò ai suoi diplomatici di guardare a qualsiasi proposta di pace dei tedeschi. b) Persuadere e Convincere La convinzione attiene anche alla verità delle tesi prospettate e alla forza degli argomenti. L’adesione non va confusa con la manipolazione o l’affabulazione dell’uditorio. c) L’uditorio universale Il progressivo ampliamento dell’uditorio è l’orizzonte dell’oratore. Anzi l’orizzonte da raggiungere per l’oratore è l’uditorio universale (non solo il giudice di fronte a cui la causa è celebrata, ma anche il giudice di grado superiore, nonché l’opinione dei giuristi, nonché l’opinione pubblica). Vari uditori sono sempre sullo sfondo. d) Gli effetti dell’argomentazione Scopo di ogni argomentazione è quello di provocare o accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentare per il loro consenso. L’eloquenza pratica, che comprendeva i generi giudiziario e deliberativo, era il campo prediletto in cui si affrontavano avvocati e uomini politici. I detrattori della retorica (Platone nel Gorgia) assimilavano l’arte oratoria all’arte manipolatoria che allontanava dal vero. L’errore, dice Perelman, consiste nel ritenere che l’uomo sia frazionato in due sistemi opposti, l’intelletto – razionale e la volontà, irrazionale. e) Adesione ed emozioni L’errore di Hobbes è stato quello di presumere che gli esseri umani si muovessero nel mondo solo per effetto di paure o di desideri. Ma l’adesione ai valori presuppone un aspetto emotivo che gli utilitaristi non hanno preso in considerazione. Studi psicologici confermano che gli individui che hanno disturbi nella sfera delle emozioni e degli affetti hanno altresì disturbi nella sfera della formulazione dei giudici morali. f) Argomentazione e violenza L’argomentazione è un atto che tende sempre a modificare uno stato di cose preesistente. Nel discorso epidittico, mancando un interlocutore che sostiene tesi opposte, siamo di fronte ad una situazione molto simile all’educazione (il discorso del Presidente della Repubblica; la celebrazione dell’anniversario dell’Unità di Italia, etc…). Nel genere deliberativo o giudiziario la situazione è più simile ad un agone dove si espongono tesi in conflitto. In tutti i casi, tuttavia, l’argomentazione è una alternativa alla violenza. L’uso dell’argomentazione implica la rinuncia al ricorso esclusivo alla forza, e implica che si attribuisca un pregio all’adesione dell’interlocutore ottenuta con l’aiuto di una persuasione ragionata, che non si tratti dell’interlocutore come oggetto ma che si ricorra alla sua libertà di giudizio. E’ vero che in molti casi l’argomentazione è una finta. Ma rimane un principio – già colto da un difensore della filosofia critica, come Guido Calogero – il quale vede nella volontà di comprendere gli altri, nel principio del dialogo, il fondamento assoluto di un’etica liberale. Per Calogero il dovere del dialogo è Libertà di esprimere la propria fede e di cercare di convertire ad essa gli altri, dovere di lasciare che gli altri facciano la stessa cosa con noi e di ascoltarli con la stessa buona volontà di comprendere le loro verità e di farle nostre che noi reclamiamo da loro per le nostre verità. L’argomentazione è in linea teorica infinita. Sebbene vi siano regole che mettano un punto al dialogo (la sentenza definitiva, il ne bis in idem, etc…), in realtà il dialogo può riprendere sempre che le istituzioni e le regole lo consentano. Argomentazione e impegno L’argomentare presuppone un impegno: l’impegno di sottoporre le proprie tesi alla discussione e al dialogo. TRATTATO DELL’ARGOMENTAZIONE «La pubblicazione di un’opera dedicata all’argomentazione e la ripresa in esso di un’antica tradizione, quella della retorica e della dialettica greche, costituiscono una rottura rispetto ad una concezione della ragione e del ragionamento nata con Descartes, che ha improntato di sé la filosofia occidentale degli ultimi tre secoli» (Trattato dell’Argomentazione). Con queste parole si apre l’introduzione al Trattato. Esse mostrano il progetto della teoria dell’argomentazione: l’ampliamento del concetto di ragione, limitato dalla filosofia post-cartesiana al razionale puro (enunciati evidenti o necessari), per includervi l’ambito del ragionevole. Perelman critica la concezione nata con Cartesio e fatta propria dai positivisti per i quali il probabile equivale al falso, e la conoscenza scientifica può derivare esclusivamente dall’esistenza di concetti chiari, distinti ed inoppugnabili. Infatti, fu Descartes «per cui l’evidenza era il marchio della ragione a non voler tenere per razionale che le dimostrazioni capaci di estendere, a partire da idee chiare e distinte, e mediante prove apodittiche, l’evidenza degli assiomi a tutti i teoremi. Il ragionamento more geometrico fu dunque il modello proposto ai filosofi desiderosi di costruire un sistema di pensiero che potesse avere dignità di scienza» (ibid.). Secondo questa concezione, la scienza razionale deve basarsi sul modello della dimostrazione, la quale porta necessariamente a un consenso unanime. La scienza razionale, secondo questa impostazione, deve dunque configurarsi come «un sistema di proposizioni necessarie che s’imponga a tutti gli esseri ragionevoli, e sulle quali l’accordo sia inevitabile. Ne risulterà che il disaccordo è segno d’errore» (ibid.). Nata con Cartesio, «questa tendenza s’è ulteriormente accentuata da quando, sotto l’influenza dei logici-matematici, la logica è stata limitata alla logica formale, cioè allo studio dei mezzi di prova utilizzati nelle scienze matematiche. Ne risulta che i ragionamenti estranei al campo puramente formale sfuggono alla logica e, per conseguenza, alla ragione stessa» (ibid.). Questa tendenza ha la colpa di confinare nell’ambito dell’irrazionale, territorio della suggestione o della violenza, tutto ciò che esorbita dagli stretti limiti del razionale puro. «A noi sembra, invece, che si tratti di una limitazione indebita e del tutto ingiustificata del campo in cui interviene la nostra facoltà di ragionare e di provare. […] La concezione post-cartesiana della ragione ci obbliga a far intervenire degli elementi irrazionali ogni volta che l’oggetto della conoscenza non sia evidente» (ibid.). Tale concezione si basa su di una visione dicotomica dell’uomo al quale vengono attribuiti «passioni ed interessi capaci di opporsi alla ragione» (ibid.). Ma tale distinzione «è fondata su un errore e conduce ad un vicolo cieco. L’errore sta nel concepire l’uomo come costituito di facoltà completamente separate; il vicolo cieco consiste nel togliere all’azione fondata sulla scelta ogni giustificazione razionale, rendendo così assurdo l’esercizio della libertà umana» (ibid.). Al contrario, la teoria dell’argomentazione nasce dalla consapevolezza che, accanto alle dimostrazioni analitiche, esistono le prove dialettiche concernenti il verosimile, il quale si caratterizza così per l’assenza di prove certe ed inoppugnabili. «Il campo dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui quest’ultimo sfugge alle certezze del calcolo» (ibid.). È questo il campo del discorso retorico attraverso il quale l’oratore cerca di persuadere l’uditorio all’accettazione di una tesi determinata. L’oggetto della teoria dell’argomentazione è, dunque, «lo studio delle tecniche discorsive atte a provocare o accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso» (ibid.), studio non limitato, come quello cartesiano ai casi in cui tale consenso è caratterizzato dall’evidenza. Si tratta di un campo molto ampio comprendente le argomentazioni dei filosofi, politici, avvocati, giornalisti. L’adesione alla retorica che caratterizza la teoria dell’argomentazione «mira a sottolineare il fatto che ogni argomentazione si sviluppa in funzione di un uditorio» (ibid.). A fronte di quest’analogia con la retorica antica, ci sono anche importanti differenze. Infatti, mentre questa era soprattutto l’arte di fare discorsi pronunciati di fronte a un pubblico, la nuova retorica si occupa, invece, della struttura dell’argomentazione, studiando i mezzi discorsivi per ottenere il consenso. Il Trattato si divide in tre parti: I. QUADRI DELL’ARGOMENTAZIONE. Specifica gli elementi della teoria dell’argomentazione. II. BASE DELL’ARGOMENTAZIONE. Si occupa delle formalità e degli elementi utilizzati per predisporre ed argomentare il discorso. III. TECNICHE ARGOMENTATIVE. È la parte più ampia che illustra alcuni argomenti che possono essere utilizzati nei discorsi persuasivi sulla base di una ricchissima documentazione raccolta dagli autori. QUADRI DELL’ARGOMENTAZIONE La prima parte si apre con la distinzione tra dimostrazione ed argomentazione. Mentre la prima si caratterizza per il suo carattere necessario, la seconda lascia all’uditore la possibilità del dubbio. «Quando occorre dimostrare una proposizione, è sufficiente indicare in base a quali procedimenti essa possa essere ottenuta come ultima espressione di un seguito di deduzioni, i cui primi elementi sono forniti da chi ha costruito il sistema assiomatico all’interno del quale la dimostrazione viene effettuata. Da dove provengano questi elementi, se siano verità impersonali, pensieri divini, risultati dell’esperienza o postulati dell’autore, è questione che il logico formalista considera come estranea alla sua disciplina. Quando invece si tratta di argomentare, di influire cioè per mezzo del discorso sull’intensità dell’adesione di un uditorio a determinate tesi, non è più possibile trascurare completamente, considerandole irrilevanti, le condizioni psichiche e sociali in mancanza delle quali l’argomentazione rimarrebbe senza oggetto o senza risultato. Ogni argomentazione mira infatti all’adesione delle menti e presuppone perciò l’esistenza di un contatto intellettuale» (ibid.). Per questa ragione, nell’ambito dell’argomentazione gioca un ruolo fondamentale il rapporto con l’uditorio, e questa prima parte dell’opera è quasi interamente dedicata alla sua analisi. Fase preliminare a qualsiasi argomentazione è dunque la ricerca di una comunanza spirituale con l’uditorio al quale ci si rivolge, contatto delle menti, come lo chiamano gli autori, il quale non è affatto spontaneo. L’uditorio è definito come «l’insieme di coloro sui quali l’oratore vuole influire per mezzo della sua argomentazione» (ibid.). L’oratore deve sempre avere presente l’uditorio al quale si rivolge, non solo nella predisposizione, ma anche nello svolgimento del discorso, se vuole raggiungere il proprio fine persuasivo. «La conoscenza dell’uditorio che ci si propone di convincere è dunque condizione preliminare di ogni argomentazione efficace» (ibid.). Tale conoscenza implica, per poter essere efficace, anche quella dei mezzi più idonei per agire sull’uditorio stesso in modo da persuaderlo. Questa azione è definita condizionamento. «Conoscere l’uditorio significa pure sapere, e come il suo condizionamento possa essere assicurato e quale sia, in ogni singolo istante del discorso, il condizionamento attuato» (ibid.). Le principali forme di condizionamento sono non-linguistiche, tuttavia ve ne è anche una discorsiva che consiste nel «continuo adattamento dell’oratore al proprio uditorio» (ibid.). Ciò implica che è l’uditorio a determinare la qualità dell’argomentazione. «L’importante nell’argomentazione non è sapere che cosa l’oratore consideri vero o probante, ma quale sia l’opinione di coloro ai quali si rivolge. […] Spetta in realtà soprattutto all’uditorio il compito di determinare la qualità dell’argomentazione e il comportamento dell’oratore» (ibid.). Il convincimento ed il condizionamento potrà riuscire nei confronti di un uditorio particolare od universale. In questa prospettiva, gli autori elaborano la distinzione tra persuasione e convincimento. «Ci proponiamo qui di chiamare persuasiva l’argomentazione che pretende di valere soltanto per un uditorio particolare, e di chiamare invece convincente quella che si ritiene possa ottenere l’adesione di qualunque essere ragionevole» (ibid.). A differenza della concezione tradizionale (propria ad esempio di Blaise Pascal e Immanuel Kant) che vuole basare questa distinzione su basi oggettive e nette, Perelman mostra come questa distinzione dipenda in realtà dall’uditorio, e pertanto deve rimanere imprecisa. Gli autori distinguono tre diversi tipi di uditorii: l’uditorio universale costituito da tutta l’umanità; l’interlocutore nel caso del dialogo; lo stesso soggetto nel caso del monologo. L’uditorio universale non ha esistenza oggettiva ma è una costruzione propria di ogni individuo e di ogni cultura. Esso può essere considerato tale quando «chi non ne fa parte potrà, per ragioni legittime, non essere preso in considerazione» (ibid.). L’uditorio universale fornisce all’oratore una importante soluzione nel caso in cui non riesca a suscitare un consenso unanime. «Se l’argomentazione rivolta all’uditorio universale e considerata atta a convincere non convince tutti resta sempre la possibilità di squalificare il recalcitrante, considerandolo stupido o anormale» (ibid.). L’uditorio universale è tale solo per chi gli riconosce il ruolo di modello, per gli altri resterà un uditorio particolare. Anche la riflessione personale è ricondotta da Perelman all’argomentazione. «Noi siamo del parere che sia preferibile il considerare la deliberazione intima come una specie particolare di argomentazione […] Spesso d’altronde la discussione con altri non è che un mezzo per chiarire meglio a noi stessi le nostre idee. L’accordo con se stessi è un caso particolare dell’accordo con altri» (ibid.). BASI DELL’ARGOMENTAZIONE Nella seconda parte del Trattato, gli autori analizzano le premesse del discorso, necessarie affinché esso riesca a convincere l’uditorio. Le premesse vengono analizzate da tre punti di vista: accordo, scelta, presentazione. Le premesse oggetto dell’accordo sono raggruppate in due categorie: il reale, comprendente fatti, verità e presunzioni; e il preferibile riguardante i valori, le gerarchie tra valori ed i luoghi comuni (definiti luoghi del preferibile). Fatti: nell’argomentazione la nozione di “fatto” è caratterizzata unicamente dall’idea che si ha di un certo genere di accordi riguardo ad alcuni dati, quelli che si riferiscono ad una realtà obiettiva ed indicano in ultima analisi ciò che è comune a più esseri pensanti e potrebbe essere comune a tutti. Un evento può essere considerato un fatto solo se non è controverso. «Dal punto di vista argomentativo siamo in presenza di un fatto soltanto se possiamo postulare per esso un accordo universale, non controverso» (ibid.). Tuttavia «non esiste enunciato che possa godere, in forma definitiva, di tale condizione, perché l’accordo può sempre essere rimesso in questione e una delle parti può sempre rifiutare la qualità di fatto a ciò che l’avversario afferma» (ibid.). Vi sono, dunque, due modi per squalificare un fatto: quando vi sono dei dubbi nell’uditorio, e quando si dimostra che l’uditorio che ammette il fatto è un uditorio particolare. Il ragionamento concernente i fatti può essere esteso anche alle verità. Queste si differenziano dai primi poiché rispetto ad essi sono «sistemi più complessi, relativi a legami fra i fatti» (ibid.). Dunque, sia le verità sia i fatti non sono delle realtà oggettive, assolute ed inconfutabili, al contrario possono sempre essere contestate, ed in questo caso l’oratore non può più utilizzarli come premesse. Le presunzioni «godono ugualmente dell’accordo universale, tuttavia l’adesione alle presunzioni non è massima, ci si aspetta che l’adesione sia rafforzata ad un dato momento da altri elementi» (ibid.). Le presunzioni sono legate a ciò che è considerato dall’uditorio normale e verosimile. Pertanto l’accordo fondato su di esse ha, per l’uditorio, la stessa validità di quello fondato sui fatti e sulle verità. I valori costituiscono un oggetto d’accordo fondamentale e irrinunciabile, essi però valgono solo per un uditorio particolare, giacché non esistono valori universali (e, anche se esistessero, sarebbero tali solo nella forma: non appena si considera il contenuto, tornano le differenze particolari). «L’accordo a proposito di un valore consiste nell’ammettere che un oggetto, essere concreto o ideale, deve esercitare sull’azione e sulle disposizioni all’azione una determinata influenza, della quale si può fare uso in un’argomentazione, senza per questo ritenere che il corrispondente punto di vista si imponga a tutti» (ibid.). Se in una discussione si desidera contestare un valore occorre necessariamente promuovere altri valori. Come aveva già affermato Dupréel (esplicitamente citato dagli autori), i valori universali sono valori di persuasione. «Il loro compito è dunque quello di giustificare delle scelte sulle quali non esiste un accordo unanime» (ibid.). I valori si distinguono in astratti e concreti, i primi sono utilizzati soprattutto dai rivoluzionari, i secondi (che attribuiscono un valore ad un essere determinato, sia esso un individuo od un gruppo) sono, invece, utilizzati dai conservatori. Poiché i valori sono conflittuali, e poiché in un’argomentazione possono essere utilizzati più valori, l’oratore deve sempre considerare la gerarchia di valori esistente nell’uditorio. È questa la ragione per la quale «le gerarchie di valori sono più importanti dei valori stessi» (ibid.). I luoghi comuni «costituiscono un arsenale indispensabile al quale chi vuole persuadere altri dovrà per forza attingere. […] Chiameremo luoghi solo le premesse di ordine generale che permettono di dare un fondamento ai valori e alle gerarchie, e che Aristotele studia fra i luoghi dell’accidente. Questi luoghi costituiscono le premesse più generali, spesso sottintese, che intervengono a giustificare le nostre scelte» (ibid.). I luoghi sono classificabili in sei categorie. Innanzitutto, i luoghi della quantità, i quali attribuiscono ad una cosa un valore maggiore rispetto ad un’altra per ragioni quantitative. Appartengono a questa categoria anche i luoghi comuni basati sul probabile, sull’evidente, sull’abituale. «Ciò che si presenta più spesso, l’abituale, il normale, è oggetto di uno dei luoghi più frequentemente utilizzati, a tal punto che il passaggio tra ciò che si fa a ciò che si deve fare, dal normale alla norma, sembra per molti spontaneo» (ibid.). In secondo luogo, i luoghi della qualità, i quali costituiscono l’opposto rispetto ai precedenti, giacché valorizzano l’unico, in tutte le sue possibili forme, come ad esempio l’originale, il precario, l’irrimediabile, la norma unica rispetto alla molteplicità del reale. Le altre categorie sono: i luoghi dell’ordine, i quali affermano la superiorità dell’anteriore sul posteriore; i luoghi dell’esistente, i quali affermano la superiorità del reale sull’eventuale; i luoghi dell’essente, i quali valorizzano gli individui che meglio rappresentano l’essenza; ed, infine, i luoghi della persona, legati alla sua dignità, al suo merito, ed alla sua autonomia. Costituiscono, infine, oggetti d’accordo valevoli per determinati uditorii: il senso comune, il linguaggio tecnico, le presunzioni legali, gli argomenti ad hominem, e l’inerzia sociale. Principio di inerzia (par. 27 del Trattato dell’argomentazione) Tutto ciò che è oggetto d’accordo tende a perpetuarsi per inerzia. Le novità devono essere provate. Le premesse dell’argomentazione consistono in proposizioni ammesse dagli ascoltatori. Quando costoro non sono obbligati da regole precise che li costringano a riconoscere certe proposizioni, allora l’edificio di chi argomenta si fonda soltanto su un fatto di ordine psicologico, l’adesione degli ascoltatori. Questa, il più delle volte è soltanto presunta dall’oratore. Quando le sue conclusioni dispiacciono agli interlocutori, essi, se lo giudicano utile, possono contrapporre alla presunzione di accordo sulle premesse una negazione, che avrà l’effetto di minare tutte le argomentazioni di base. Il rifiuto delle premesse non è tuttavia sempre privo di inconvenienti per l’ascoltatore. Accade che l’oratore abbia la garanzia dell’adesione degli ascoltatori alle tesi di partenza. Questa non è garanzia assoluta di stabilità, e tuttavia serve ad aumentarla e senza di essa non avremmo il minimo di fiducia necessaria alla vita in società. Molte tecniche di argomentazione sono finalizzate a corroborare l’adesione iniziale a certe tesi. In forma generale, tutto l’apparato di cui si circonda la promulgazione di certi testi, la pronuncia di alcune parole tende a renderne più difficile il ripudio e ad aumentare la fiducia nella società. In particolare, il giuramento aggiunge all’adesione espressa una sanzione religiosa o quasi religiosa. Esso può riguardare la verità dei fatti, l’adesione a norme, può estendersi a un insieme di dogmi: i recidivi erano passibili di pene più gravi perché contravvenivano ad un giuramento. La tecnica del giudicato tende a rendere stabili alcuni giudizi: ad impedire che le decisioni vengano rimesse in discussione. In campo scientifico, distinguendo certe proposizioni determinate assiomi, si accorda loro esplicitamente una posizione privilegiata in seno al sistema: la revisione di un assioma non potrà avvenire se non a mezzo di un ripudio esplicito; essa non potrà essere compiuta per mezzo di un’argomentazione svolta all’interno del sistema di cui l’assioma fa parte. Il più delle volte, tuttavia, l’oratore non può far conto, per le sue presunzioni, se non sull’inerzia psichica e sociale, che nelle coscienze e nelle società corrisponde all’inerzia fisica. Si può presumere, fino a prova contraria, che l’atteggiamento precedentemente adottato – opinione espressa, condotta prescelta – continuerà ad avvenire, sia per desiderio di coerenza che per forza di abitudine. In realtà, l’inerzia permette di fondarsi su quanto è reale, abituale, normale e di valorizzarlo, si tratti di una situazione esistente, di un’opinione ammessa o di uno stadio di sviluppo continuo e regolare. Il cambiamento invece deve essere giustificato; una decisione, una volta presa non può essere mutata se non per ragioni sufficienti. Un gran numero di argomentazioni si fonda sulla circostanza che nulla, allo stato, giustifica un cambiamento. Talvolta il cambiamento viene giustificato, negando che abbia avuto luogo. Ad esempio questo tentativo può essere dovuto al fatto che il cambiamento è vietato: il giudice che non può mutare la legge sosterrà che la sua interpretazione non la modifica, corrisponda meglio alle intenzioni del legislatore. In altre occasioni il cambiamento è giustificato sulla base della sincerità di chi ha cambiato posizione (quando il politico riconosce il proprio errore in una certa posizione pubblica). TECNICHE: La fase successiva all’accordo è la selezione. Poiché i potenziali oggetti d’accordo sono molteplici, l’oratore deve pensare accuratamente a quali scegliere. Tale scelta è un momento fondamentale giacché «riconosce agli elementi una presenza che è un fattore essenziale dell’argomentazione […]. Così una delle preoccupazioni dell’oratore sarà quella di rendere presente, solo grazie alle magie delle sue parole, ciò che è assente […] oppure di valorizzare, rendendoli più presenti, alcuni degli elementi che sono effettivamente offerti alla coscienza» (ibid.). Il fenomeno opposto, consistente nel deliberato occultamento della presenza, è un fenomeno altrettanto degno di nota. Oltre al riconoscimento della presenza, ci sono anche altri importanti corollari della selezione. I dati, infatti, non vanno solo selezionati, ma occorre anche attribuire loro un senso, ossia vanno interpretati. Poiché le interpretazioni possibili sono molto numerose, l’interpretazione proposta va sempre tenuta distinta dai dati, e può essere loro contrapposta. Sono molto rari (forse inesistenti) i dati aventi un senso univoco, di regola, ogni discorso, ed ogni fatto, può acquisire più significati e pertanto necessita di un’interpretazione, che nel primo caso è definita dagli autori interpretazione dei segni, nel secondo interpretazione degli indizi. I dati non vanno solo interpretati, ma l’oratore dovrà anche scegliere le qualità degli stessi da mettere in rilievo. Questa funzione è svolta dall’epiteto. Un altro aspetto, all’apparenza neutrale, che consente di raggiungere lo stesso scopo è la classificazione dei dati, mediante la quale si attribuisce loro una particolare qualifica con la quale li si designa. Un altro mezzo fondamentale, ed all’apparenza ancora più neutrale, rispetto all’epiteto ed alla classificazione è la scelta delle nozioni. «L’utilizzo delle nozioni di una lingua viva si presenta così molto spesso non più come semplice scelta di dati applicabili ad altri dati, ma come costruzione di teorie e interpretazioni del reale, grazie alle nozioni che esse permettono di elaborare. C’è di più, il linguaggio non è solo mezzo di comunicazione: esso è anche strumento di azione sugli spiriti, mezzo di persuasione» (ibid.). Per questa ragione, uno dei mezzi di persuasione utilizzato dagli oratori consiste nell’agire sulle nozioni, ad esempio attribuendo una maggiore fluidità alle proprie, e maggiore rigidità a quelle dell’avversario, ovvero allargando o restringendo il campo di una nozione, per svalutare o valutare idee o situazioni. Tutte queste operazioni influenzano profondamente sul significato di una nozione. Riassumendo, la fase della selezione comporta il riconoscimento della presenza, l’interpretazione, la scelta di alcuni aspetti dei dati attraverso l’epiteto, la classificazione e l’utilizzo delle nozioni. Dopo l’accordo e la selezione, la fase successiva nell’elaborazione delle premesse consiste nella presentazione. Essa comprende innanzitutto tutti gli strumenti utilizzati per dare l’impressione della presenza, come ad esempio la ripetizione, l’accumulazione, la descrizione dei particolari, la specificazione (difatti, di regola, anche se non sempre, più un termine è concreto maggiore sarà il suo impatto emotivo). Inoltre, momento centrale della presentazione è quello della scelta dei termini, e della loro posizione nel contesto. Tale scelta non è mai neutrale, ed anche quando si sceglie uno stile neutrale lo si fa per un fine argomentativo preciso, quello «di suggerire una trasposizione del generale consenso accordato al linguaggio, al consenso delle norme espresse. Non bisogna dimenticare infatti che il linguaggio è, fra gli elementi di accordo, uno dei primi» (ibid.). Anche la scelta dei tempi verbali ha precisi intenti persuasivi nell’ambito della presentazione. Il passato dà l’idea di un fatto avvenuto e indiscutibile, l’imperfetto di un fatto transitorio, il presente, invece, esprime l’universale, la legge, la norma. La stessa funzione è svolta dalla scelta dei pronomi: il pronome impersonale “si” esprime la norma; la scelta della terza persona o del “si” al posto della prima riduce la responsabilità personale; l’operazione contraria dà un sentimento di presenza; la scelta di un nome singolare per designare un plurale (ad esempio: l’Ebreo), infine, ha un duplice effetto: quello di dare il senso della presenza, e quello di unificazione del punto di vista attraverso una sineddoche (la pars pro toto). La scelta della forma è un altro momento importante, giacché può essere utilizzata per esprimere comunione con l’uditorio. Funzione argomentativa possono avere anche le figure retoriche. «Consideriamo argomentativa una figura se, comportando un mutamento di prospettiva, il suo uso appare normale in rapporto alla nuova situazione suggerita» (ibid.). Altrimenti si tratterà di una figura di stile. In relazione alla loro funzione argomentativa, le figure retoriche possono essere classificate in tre categorie: figure di scelta (esempi: definizione retorica, perifrasi, antonomasia, correzione, ripresa); figure di presenza, le quali rendono attuale l’oggetto alla coscienza (esempi: ripetizione, conduplicatio, amplificazione, sinonimia, enallage del verbo); figure di comunione (esempi: allusione, citazione, apostrofe, interrogazione retorica, enallage del nome). Infine, nella presentazione altre astuzie possono essere utilizzate per persuadere l’uditorio. Ad esempio, i sentimenti personali possono essere espressi come giudizi di valore, i giudizi di valore come giudizi di fatto, la conclusione di un’argomentazione come un fatto di esperienza. «Uno degli effetti più importanti della presentazione dei dati è la modifica dello statuto degli elementi del discorso» (ibid.). ASSOCIAZIONE E DISSOCIAZIONE Nella terza parte del Trattato, gli autori offrono un’ampia tassonomia relativa all’uso pratico dell’argomentazione. I diversi schemi discorsivi caratterizzanti la struttura argomentativa sono ricondotti a due forme generali: i procedimenti di associazione e i procedimenti di dissociazione. «Intendiamo per procedimenti di associazione degli schemi che avvicinano degli elementi distinti e permettono di stabilire tra loro una solidarietà mirante sia a strutturarli sia a valorizzarli positivamente o negativamente l’uno per mezzo dell’altro. Queste tecniche sono complementari, giacché ogni associazione implica una dissociazione e viceversa; tuttavia, l’argomentazione può mettere l’accento su uno dei due processi, occultando l’altro. Alla categoria dei procedimenti associativi appartengono le argomentazioni quasi-logiche, quelle basate sulla struttura del reale, e le prove tratte da esempi ed analogie, tutte miranti a stabilire una connessione od una generalizzazione. Alla categoria dei procedimenti dissociativi appartengono le argomentazioni basate su coppie oppositive, le quali tendono a modificare o dileguare i sistemi utilizzati per comprendere il reale. In conclusione, oltre che per l’ampia tassonomia di esempi, l’accurata analisi dei mezzi discorsivi di persuasione, la nuova retorica di Perelman, assume rilevanza per la sua critica del razionalismo dogmatico, in favore della valorizzazione del ragionevole, luogo dell’argomentazione, della retorica e quindi del dialogo. Unica base possibile su cui fondare una società libera, plurale, tollerante. «Noi combattiamo le opposizioni filosofiche, nette e irriducibili, che ci vengono presentate dagli assolutismi di ogni specie. […] Noi non crediamo a rivelazioni definitive e immutabili, quale che sia la loro natura o la loro origine […] non faremo nostra l’esorbitante pretesa di erigere in dati definitivamente chiari, intoccabili certi elementi della conoscenza. […] Pretendendo che ciò che non è obiettivamente e indiscutibilmente valido dipenda dal soggettivo e dall’arbitrario, si scaverebbe un insuperabile abisso tra la conoscenza teorica, considerata la sola razionale, e l’azione le cui motivazioni sarebbero del tutto irrazionali. […] Se la libertà fosse solo adesione necessaria a un ordine naturale dato precedentemente, esso escluderebbe ogni possibilità di scelta: se l’esercizio della libertà non fosse fondato su delle ragioni, ogni scelta sarebbe irrazionale e si ridurrebbe a una decisione arbitraria che agirebbe in un vuoto intellettuale. Grazie alla possibilità di un’argomentazione che fornisce delle ragioni, ma non delle ragioni cogenti, è possibile sfuggire al dilemma: aderire a una verità obiettivamente e universalmente valida, o ricorso alla suggestione e alla violenza per far accettare le proprie opinioni e decisioni» (ibid.). IL RAGIONAMENTO GIURIDICO La riflessione di Perelman sul diritto e sulla giustizia precede cronologicamente quella sull’argomentazione, ma quest’ultima le fornirà importanti contributi. La prima opera di Perelman dedicata al diritto è La Giustizia; in essa si cerca di esplicitare la razionalità dell’atto conforme alla giustizia. Quando un atto è giusto? Secondo Perelman tale conformità si realizza solo quando l’atto corrisponde all’applicazione di una norma. Tuttavia, affinché la norma possa fondare la giustizia, non basta che essa esista: deve anche non essere arbitraria. Ciò si verifica quando essa può essere dedotta dai princìpi generali dell’apparato giuridico di cui fa parte, ossia dai suoi valori. Un atto è giusto nella misura in cui si conforma ad una norma, la quale, a sua volta, è giusta nella misura in cui si conforma al valore. «Siamo condotti a distinguere tre elementi nella giustizia: il valore su cui è fondata, la norma che l’enuncia, l’atto che la realizza» (Perelman, La Giustizia). Esiste una profonda differenza tra le norme e gli atti da una parte, e il valore dall’altra. Giacché, mentre le norme e gli atti possono essere fondati razionalmente, proprio in relazione alla loro conformità al valore, quest’ultimo, al contrario, «non lo si può sottoporre ad alcun criterio razionale, esso è perfettamente arbitrario e logicamente indeterminato» (ibid.). Il valore è totalmente arbitrario quindi non-razionale. I princìpi di un ordinamento giuridico rinviano a valori, non solo arbitrari, ma anche conflittuali. La fondazione razionale di tale ordinamento deve pertanto arrestarsi di fronte ai valori che lo fondano, del tutto sottratti alla logica formale. Questa è, dunque, inadeguata a rendere la logica dei valori. È da questa riflessione che iniziano le perplessità di Perelman sulla concezione filosofica della razionalità che troveranno piena espressione nella teoria dell’argomentazione. Quest’ultima consente a Perelman di fondare il proprio ragionamento sul diritto su basi diverse. Il motto di questa impostazione sarà: “la logica giuridica non è la logica formale”. Per questo, questa concezione è definita “antiformalista”. Giacché la logica dei valori esula completamente dalla razionalità pura, il ragionamento giuridico potrà trovare attuazione solo nell’ambito dell’argomentazione, nella quale si scontrano dialetticamente visioni diverse. Tale conflitto attinente ai valori mostra come la logica giuridica sia legata alla controversia. «Di fatto il conflitto tra i giudizi di valore è al centro di tutti i problemi di metodo posti dall’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Per questo la logica giuridica è una logica della controversia» (La Logica Giuridica). Di fronte a tale disaccordo, spetterà al giudice scegliere. Poiché anche tale decisione deve essere argomentata, il giudice dovrà giustificarla, come in ogni buona argomentazione, adattandosi all’uditorio. «Il giudice […] deve conoscere i valori dominanti nella società, le sue tradizioni, la sua storia, la metodologia giuridica, le teorie che vi sono accettate, le conseguenze sociali ed economiche di questa o quella presa di posizione, i meriti rispettivi della certezza del diritto e dell’equità in una data situazione. Una grande sensibilità ai valori, per come essi vivono in una determinata società, è condizione del buon funzionamento della giustizia, per lo meno di una giustizia che miri al consenso, condizione della pace giudiziaria» (ibid.). Naturalmente, in tale adattamento il giudice dovrà sempre rispettare «i limiti posti dal suo sistema di diritto» (ibid.). L’argomentazione del giudice, quindi, dovrà conciliare le esigenze dell’equità e del diritto, prendendo decisioni giuste e ragionevoli. «Il diritto si sviluppa attraverso l’equilibrio di una duplice esigenza: l’una di ordine sistematico, l’elaborazione di un ordine giuridico coerente; l’altra di ordine pragmatico, la ricerca di soluzioni accettabili da parte dell’ambiente sociale, in quanto conformi a ciò che appare giusto e ragionevole» (ibid.). Quest’attività fa del giudice qualcosa in più del mero esecutore di leggi: infatti oggi «la legge non rappresenta più tutto il diritto, è solo il principale strumento di orientamento per il giudice nell’adempimento del compito di risolvere i casi concreti» (ibid.). Il giudice diventa così complemento indispensabile del legislatore, non solo nei sistemi di common law ma anche in quelli di civil law. Mediante l’argomentazione, il giudice ottiene il consenso dei diversi uditorii interessati alle sue decisioni esprimenti una sintesi tra equità e diritto. Per cercare la pace giudiziaria, il giudice dovrà persuadere i destinatari delle sue decisioni della conformità di queste ai valori giuridici e sociali. È questa ricerca del consenso mediante l’argomentazione finalizzata alla risoluzione delle controversie dialettiche, che fornisce al ragionamento giuridico (a tutti i livelli istituzionali in cui si attua) il suo carattere precipuo. In questo modo, in esso trova espressione la logica dei valori, configgenti ed arbitrari, irriducibile alla logica formale. Il ragionamento giuridico è particolarmente interessante perché si compone di premesse o argomenti particolari: oltre alle regole di diritto positivo e alle proposizioni empiriche vi si ritrovano i canoni dell’interpretazione, le acquisizioni della scienza giuridica, i precedenti e alcune regole dell’esperienza pratica in generale. Intermezzo: DIMOSTRARE E ARGOMENTARE: (da Paolo Vidali) 1. L'argomentazione L'argomentazione è un ragionamento situato. E' un ragionamento nel senso che consiste nell'inferire, da enunciati che fanno da premessa, un enunciato che costituisce una conclusione. Ma a differenza di quanto avviene nella logica formale, le premesse non sono vere. Sono solo assunte come vere da chi sviluppa il ragionamento e/o da chi lo ascolta e lo valuta. Il valore di verità di quanto è affermato nelle premesse dipende dal livello di credenza sia di chi enuncia che di chi ascolta e valuta l'argomentazione. Con specifico riguardo alla funzione: l’argomento viene utilizzato per risolvere una controversia: Walton (2007) lo definisce: “An argument is a social and verbal means of trying to resolve, or at least contend with, a conflict or difference that has arisen between two parties engaged in a dialogue (Walton 1990, p. 411). According to this definition, an argument necessarily involves a claim that is advanced by one of the parties, typically an opinion that the one party has put forward as true, and that the other party questions, or is opposed to”28. E cioè: un argomento è uno strumento sociale e verbale per risolvere – o quanto meno tentare di risolvere – un conflitto o una divergenza che è sorta fra due parti coinvolte in un dialogo. Tipicamente un argomento presuppone una pretesa avanzata da una parte come vera e contestata dall’altra parte. Gli argomenti hanno premesse e conclusioni. Possono essere di tipologie diverse e possono essere più forti o meno forti (hanno un peso). Possono essere richiesti diversi oneri o standard di prova a seconda del tipo di argomento e del contesto. 28 Douglas Walton, Witness Testimony Evidence. Artificial Intelligence and the Law, Cambridge 2007. 2. Argomenti e dimostrazioni Se dico: ogni A è B, ogni B è C x è un A, _____________ allora x è un C ho sviluppato un ragionamento dimostrativo. Non ho argomentato: ho ragionato senza contesto, senza una semantica riferita ad un mondo reale, usando la capacità di condurre inferenze, codificata dalla logica attraverso schemi e regole consolidati. Se invece affermo: Aldo è amico di Barnaba Barnaba è amico di Carlo _______________________ allora Aldo è amico di Carlo ho condotto un ragionamento formalmente simile, ma sostanzialmente diverso. Questo ragionamento, propriamente un'argomentazione, si sviluppa assumendo la premessa generale che "gli amici degli amici sono amici tra loro". E, com'è ovvio, tale premessa non vale sempre, né per lo più. Ecco, argomentare significa ragionare in un contesto probabile e non certo, partendo da premesse accettate ma non necessariamente vere, rivolgendosi ad interlocutori situati, cioè portatori di credenze, principi, assunti che possono divergere dai miei e da quelli di altri interlocutori. Si può riassumere la differenza tra ragionamento dimostrativo e ragionamento argomentativo seguendo lo schema seguente: Dimostrazione Argomentazione Impersonale Personale Indipendente dal tempo e dallo spazio Situata nel tempo e nello spazio, vincolata al qui ed ora Valida sempre e per tutti Valida nella situazione in cui è proposta Incontrovertibile Sempre rivedibile Superfluità di un'ulteriore dimostrazione Opportunità dell'accumulo Fondata su assiomi Fondata su opinioni presupposizioni, precedenti Vale il principio del terzo escluso Non vale il principio del terzo escluso, del tutto o niente Carattere di verità logica, valida sempre e Carattere ovunque valutativo, tipico della giustificazione della ragionevolezza di una scelta Evidenza e necessità Verosimiglianza, plausibilità, probabilità Brevità e semplicità Ampiezza e ornamento Usa un linguaggio che può essere anche Usa un linguaggio naturale artificiale, simbolico Indifferente rispetto al destinatario Postula un uditorio determinato Non negoziabilità Negoziabilità delle conclusioni Implica la possibilità di un calcolo, anche Implica meccanico comunicazione, dialogo, discussione, controversia Esclude la possibilità di accrescimento Ammette gradi di adesione diversa dell'adesione Definitiva e ultimativa Comporta decisioni modificabili, in caso di intervento di nuovi fattori o mutamenti nelle valutazioni Giudicata in base a criteri di validità e Giudicata in base a criteri di rilevanza, di correttezza forza o debolezza Teoricamente autosufficiente Mira all'adesione; volta all'azione, immediata o eventuale (tratto da Cattani, Forme dell'argomentare. Il ragionamento tra logica e retorica, Padova, GB edizioni 1990, pp. 22-23 con modifiche) 3. Argomentazione e incertezza Argomentare significa quindi ragionare in un contesto di incertezza. Come scrissero Perelman e Olbrechts-Tyteca nel 1958, in un testo che rilanciò lo studio dell'argomentazione nel Novecento, è grande l’importanza che continua ad assumere il verosimile e il probabile nel determinare le nostre scelte: “…sebbene nessuno possa negare che la capacità di deliberare e argomentare sia un segno distintivo dell’essere ragionevole, lo studio dei mezzi di prova utilizzati per ottenere l’adesione è stato completamente trascurato, negli ultimi tre secoli, dai logici e dai teorici della conoscenza. Ciò si deve a quanto vi è di non costrittivo negli argomenti sviluppati a sostegno d’una tesi. La natura stessa dell’argomentazione e della deliberazione s’oppone alla necessità e all’evidenza, perché non si delibera dove la soluzione è necessaria, né si argomenta contro l’evidenza. Il campo dell’argomentazione è quello del verosimile, del probabile, nella misura in cui quest’ultimo sfugge alle certezze del calcolo" (Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, PUF, Paris, 1958; trad. it. Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica. Torino, Einaudi, 1966). 4. Il ruolo dell'uditorio e il contesto enunciativo Il secondo aspetto che va sottolineato è la consapevolezza che ogni pratica argomentativa si svolge “in funzione di un uditorio” (ivi p. 7), producendo effetti di credenza e di persuasione in un pubblico o in un interlocutore. “Mentre un sistema deduttivo si presenta come isolato da ogni contesto, un’argomentazione è necessariamente situata. Per essere efficace, essa esige un contatto fra soggetti. Bisogna che l’oratore (colui che presenta l’argomentazione oralmente o per scritto) intenda esercitare mediante il suo discorso un’azione sull’uditorio, cioè sull’insieme di coloro che egli si propone d’influenzare. (Perelman C., Argomentazione, in "Enciclopedia Einaudi", Einaudi, Torino 1977, vol. 1, p. 791). 5. Argomentazione e sistema di credenze Il carattere situato dell'argomentazione impone, dunque, una presa in carico del corpo di credenze e di conoscenze che l'uditorio, o l'interlocutore, condivide. “ Noi “conosciamo” qualcosa (nel senso più proprio e stretto del termine) se, e solo se, abbiamo una ben fondata credenza in essa, la nostra credenza è ben fondata se, e solo se, possiamo produrre buone ragioni che la supportino; e le nostre ragioni sono realmente buone (secondi i più restrittivi canoni filosofici) se, e solo se, possiamo produrre un argomento “conclusivo”, o formalmente valido collegando questa credenza a un punto di partenza che non viene messo in discussione (e che preferibilmente non si possa mettere in discussione) (Toulmin S. E., Knowing and Acting. An Invitation to Philosophy, New York, Macmillan, 1976, p. 89). Questa definizione di argomento ci aiuta a comprendere un aspetto specifico del nostro ragionare. Conoscere implica credere e argomentare, e argomentare implica anche proteggere criticamente certe premesse per discuterne altre. Si evidenzia così, in questa sintesi toulmaniana, il valore delle premesse assunte e, tra queste, dei luoghi comuni accettati. Essi solitamente vengono oscurati, e ciò a riprova del valore che assumono, nel nostro ragionare argomentativo, le premesse da cui partiamo. VII RAGIONAMENTO E RUOLO 1. Giudici, avvocati, amministratori e legislatori. I ragionamenti giuridici si danno ogniqualvolta si ragioni su norme e con norme giuridiche29. Essi possono essere di vario tipo a seconda dell’autore o degli autori del ragionamento, della funzione del ragionamento, del contesto in cui si ragiona. Si può discutere di diritto in un’aula universitaria o a casa fra studenti, si può discutere (anche violentemente) di diritto quando si litiga con un vigile che ci ha fatto una multa noi riteniamo illegittimamente, si discute di diritto nelle commissioni parlamentari, nelle aule di giustizia, negli studi legali. Queste diverse forme di ragionamento presentano molte differenze. Alcune sono istituzionalizzate, altre no. In alcune si punta ad ottenere una decisione in un tempo limitato, in altre no. Alcune portano a risultati vincolanti, altre no30. Di gran lunga i ragionamenti più studiati sono quelli dei giudici. Seguono quelli dei funzionari pubblici. Il motivo è semplice: il ragionamento dei giudici è studiato perché l’andamento argomentativo è sempre esplicito. Esiste nel nostro ordinamento (e in molti altri) l’obbligo di motivazione delle sentenze (art. 111 Cost.). Il giudice, cioè, non può limitarsi a scrivere il dispositivo ma deve chiarire il percorso attraverso cui è arrivato a certe conclusioni. Lo stesso deve dirsi dei provvedimenti amministrativi che per legge (l. 241/1990) devono essere sempre motivati. Anche per quel che riguarda l’operato dell’amministrazione dobbiamo sapere in che modo si è arrivati a certe conclusioni. Ora, la vita del diritto risiede proprio in queste prassi interpretative. Il diritto non è ciò che è scritto in un pezzo di carta (la legge pubblicata nella Gazzetta Ufficiale) ma ha una vita autonoma rispetto agli enunciati linguistici in cui, ad esempio, una legge è formulata. A questo riguardo, un filosofo del diritto italiano, Riccardo Guastini, ha distinto fra disposizione che coincide con l’enunciato linguistico e norma che consiste nel significato di quella disposizione. Il diritto vive nell’attività concreta di una serie di individui. Talvolta queste azioni sono inconsce (ad esempio, quando entro in macchina e metto la cintura compio un’operazione automatica e cioè senza pensare né alle 29 30 R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, 1978, Giuffrè, Milano, p. 169. I. Trujillo, Appunti per un Corso di Logica, cit., p. 26. motivazioni del mio gesto, né alle conseguenze in caso di inosservanza). Altre volte si tratta di azioni ragionate in modo approssimativo: se vado dal fruttivendolo a fare la spesa pago dopo aver preso i pacchi, pretendo che mi vengano restituiti i soldi o sostituita la merce qualora mi accorga che qualcosa non va (le mele sono marce), ma di certo non sto a riflettere approfonditamente sulla natura del negozio giuridico, sul dolo o sull’errore nel contratto e sugli articoli del codice civile. In alcuni casi, tuttavia, il nostro livello di attenzione deve salire. Se ricevo un provvedimento di demolizione edilizia, o una cartella esattoriale o addirittura un provvedimento di custodia cautelare voglio conoscere quali sono le ragioni dietro questi provvedimenti. Se poi impugno i provvedimenti amministrativi di fronte all’autorità giudiziaria, devo conoscere le ragioni della decisione. Ora, l’attività amministrativa e l’attività giurisdizionale sono proprio quei momenti in cui l’applicazione del diritto – magari perché particolarmente gravosa per una parte – va esplicitata nei suoi passaggi: vanno chiarite le ragioni che stanno dietro la decisione – ed in particolare le norme che stanno dietro la decisione – ma anche le ragioni che stanno dietro le norme. Ecco perché l’attività giurisdizionale e quella amministrativa sono oggetto di studio particolare qualora si voglia analizzare il ragionamento giuridico. Si suole distinguere anche fra ragionamento giudiziale e ragionamento dottrinale a seconda che si guardi alle sentenze dei giudici ovvero alla dottrina elaborata da giuristi, professori di legge, avvocati, etc. La dottrina tipicamente propone una soluzione, mentre le sentenze decidono – ed in modo vincolante una controversia concreta. Se il ragionamento giudiziale è sicuramente finalizzato alla soluzione del caso concreto – ed è quindi un ragionamento pratico pratico – che dire del ragionamento dottrinale? Si tratta di una forma di ragionamento teorico ovvero anch’esso ha una forte dimensione pratica? Si deve accedere a questa seconda tesi. Anche la dottrina in qualche modo decide avendo in mente dei casi – magari ipotetici -. Sicché il ragionamento giuridico – anche quello dei teorici – non è mai indifferente alle soluzioni concrete che discendono da questa o quella interpretazione. Giudici, avvocati, amministratori e legislatori: La differenza fra i discorsi dei giudici e quella degli amministratori o del parlamento consiste in questo: mentre il giudice ragiona in prevalenza sulla base di ragionamenti deontologici – cioè che partono da norme, l’amministratore è invece di tipo teleologico, cioè parte dall’esigenza di realizzare un fine. Si dice che l’amministratore è libero nel fine o comunque è meno vincolato del giudice. In effetti, il ragionamento giudiziario è quello che meglio sembra corrispondere alle intuizioni dei formalisti. 2. Obbligo di motivazione L’art. 111 Cost. prevede che le sentenze devono essere motivate. L’obbligo di motivazione è preposto nell’interesse di almeno tre obiettivi: d) La motivazione ha la funzione di riequilibrare fra il giudice e la parte – soccombente, consentendogli di conoscere le ragioni per cui la propria tesi non è prevalsa. e) La motivazione consente la proposizione dell’appello. f) La motivazione impone che la decisione sia raggiunta con un atteggiamento riflessivo, per l’appunto ragionato: soppesando i pro e i contro di certe tesi. A questi obiettivi se ne può aggiungere un quarto: la motivazione rende esplicite le ragioni dietro l’applicazione del diritto: ragioni che una volta esplicitate possono essere o accettate o messe in discussione in azioni legali successive. 3. Vincolo di legge Si è detto che la logica giuridica non è assimilabile ad una logica puramente formale. sicché l’aspirazione illuminista secondo cui il giudice è la bocca della legge si è rivelata malriposta. Questo tuttavia non significa che il giudice sia libero di decidere come gli pare e piace. L’art. 101 della Cost. italiana recita ad esempio che il giudice è soggetto soltanto alla legge. Questo significa almeno due cose: a) Che il giudice è vincolato a decidere secondo quanto stabilisce la legge b) Che il giudice non può far riferimento ad altre fonti che legge non sono: non può ad esempio utilizzare la propria conoscenza dei fatti di causa – che magari preesiste al giudizio. E non può altresì giudicare in ragione del proprio orientamento politico o religioso. Se la legge obbliga il dirigente scolastico ad appendere il crocifisso nelle aule, il dirigente non può affermare: “ma io sono ateo, oppure ebreo”. c) Il vincolo di legge presuppone che le premesse del ragionamento giudiziario sono norme, regole di diritto positivo. Noi però sappiamo che il ragionamento giuridico non è puramente deduttivo e che fra gli argomenti che il giudice utilizza per arrivare alle sue conclusioni ve ne sono alcuni che implicano valutazioni morali. 4. Vincoli di procedura ed onere della prova Il ragionamento giuridico è poi vincolato al rispetto di certe regole di procedura: per esempio secondo il principio del contraddittorio un giudice un può ammettere un mezzo di prova che l’altra parte non ha la possibilità di confutare pienamente (ad esempio la testimonianza resa da un soggetto che rimane anonimo). Le varie procedure distribuiscono poi variamente l’onere della prova: sicché il giudice – seppure si convinca di una conclusione – non la può avallare a meno che l’accusa o la parte attrice non abbiano fornito prove sufficienti. 5. Prova e libero convincimento Fino a tempi relativamente recenti, le prove sulla base delle quali si chiudeva un giudizio non avevano nulla a che vedere con l’accertamento dei fatti secondo criteri più o meno scientifici. L’ordalia, ad esempio o il giudizio di Dio, decretava se un fatto era provato sulla base di circostanze per così dire sovrannaturali. Dalla fine del Settecento si sono affermati due principi: a) Il principio secondo cui le prove devono seguire metodi scientifici b) Il principio del libero convincimento del giudice. I due principi sono connessi. Se un fatto va provato attraverso la prova testimoniale – prova peraltro presentata in giudizio e in contraddittorio fra le parti durante la fase dibattimentale – il giudice è libero di valutare la credibilità della testimonianza (ad esempio l’attendibilità di un testimone). I due principi contribuiscono ad avvicinare il ragionamento giuridico al ragionamento pratico. 6. struttura: fatto e diritto Dal punto di vista dello stile, il ragionamento giuridico viene strutturato in modo abbastanza diverso dal ragionamento comune. Se diamo una scorsa ad un ricorso – o ad una sentenza – vedremo una prima curiosa struttura: si distingue comunemente la parte in fatto dalla parte in diritto di ogni controversia. Questo avviene sia negli atti predisposti dagli avvocati (atti di citazione, ricorsi, etc..) che nelle sentenze in cui si distingue una parte in fatto dai motivi (in diritto) della decisione. L’idea che sta alla base di questo modo di procedere alquanto anomalo è che la questione va scomposta nelle sue parti per essere al meglio analizzata, compresa e poi risolta. 7. Struttura, segue: suddivisione dei motivi Poiché gli argomenti addotti a favore di un tesi possono essere più di uno, l’avvocato sa che non deve sciorinare una litania, ma deve analiticamente distinguere le doglianze. Ci sono delle doglianze che sono pregiudiziali: se accolte, il ricorso è fondato (o infondato) e quindi non si va oltre e non occorre arrivare al merito della questione. Questo significa che i motivi di ricorso vanno disposti in un certo ordine. Ad esempio, se un provvedimento è emesso dall’organo incompetente, allora il provvedimento è illegittimo. Il ricorso è accolto senza che il giudice guardi al contenuto del provvedimento. 8. Individuazione della regola e sua applicazione Una parte importantissima del ragionamento giuridico consiste nell’individuazione della regola da applicare – o come abbiamo detto prima – della formulazione della premessa maggiore. Altro aspetto rilevante è l’operazione comunemente definita di sussunzione: che consiste nel procedimento che il giudice compie nel riportare una fattispecie all’interno di una norma. Tutte queste attività però sono connesse ad un’altra attività di cui il diritto non può fare a meno: l’interpretazione. 8. Natura delle premesse. Poiché il ragionamento giuridico è un ragionamento su norme, tra le premesse di un ragionamento giuridico si trovano sempre, necessariamente, regole di diritto positivo. Inoltre, il ragionamento giuridico riguarda l’applicazione delle norme ai casi concreti INTERPRETAZIONE E DIRITTO 6. Interpretazione (Da Alexy, Interpretazione giuridica) L'interpretazione giuridica è un caso particolare di un'attività che ricorre in diverse discipline scientifiche e in numerosi contesti della vita quotidiana: l'interpretazione. Il termine 'interpretazione' è ambiguo e ha quindi bisogno di essere a sua volta interpretato. È opportuno distinguere tra l'interpretazione in senso amplissimo (largissimo sensu), in senso lato (sensu largo) e in senso stretto (sensu stricto) (v. Wróblewski, 1979, pp. 75 s.). L'interpretazione in senso amplissimo indica la comprensione del significato di tutti gli oggetti prodotti da soggetti capaci di attribuire un significato a tali oggetti. La gamma degli oggetti possibili comprende quindi le opere d'arte, i testi religiosi e scientifici, gli strumenti, le azioni e le espressioni della vita d'ogni giorno. Non è necessario che l'oggetto dell'interpretazione sia creato da un unico soggetto. È possibile anche che sia stato prodotto da più soggetti. Così una prassi comune, un'istituzione sociale o un sistema giuridico nel suo complesso possono essere oggetto di interpretazione. È controverso se anche la cosiddetta autointerpretazione si debba definire 'interpretazione' (contro questa tesi v. Betti, 1955, pp. 243 ss.). In questo caso infatti l'interprete non è solo oggetto di interpretazione ma anche soggetto che produce quest'oggetto, e l'interpretare è parte del processo attraverso il quale viene creato l'oggetto dell'interpretazione. L'interpretazione in senso lato è un caso particolare dell'interpretazione in senso amplissimo. Essa non si riferisce alla comprensione di qualsiasi oggetto cui è attribuito un significato, ma solo alla comprensione di espressioni linguistiche. In ambito scientifico si tratta essenzialmente della comprensione di testi. Esistono numerose situazioni in cui le espressioni linguistiche vengono comprese senza che affiorino dubbi o perplessità. In questi casi si può parlare di una 'comprensione immediata'. Se invece affiorano dubbi o perplessità, allora è possibile una comprensione solo se questi vengono risolti. Si tratta in questo caso di una 'comprensione mediata'. Un esempio della comprensione immediata è il caso in cui qualcuno vede un cartello con la scritta 'vietato fumare' e di conseguenza spegne la sua sigaretta. Esempi della comprensione mediata sono tutti i casi in cui i giudici considerano i diversi significati possibili di una norma e, per via argomentativa, decidono per uno di essi. Il concetto di interpretazione in senso lato include sia la comprensione immediata che quella mediata. Depone a favore dell'impiego di questo concetto ampio la flessibilità del confine tra la comprensione immediata e quella mediata, in quanto una comprensione immediata può sempre essere posta in dubbio, cosicché rimane possibile solo una comprensione mediata. Depone invece contro di esso il fatto che nonostante alcune affinità sussistono differenze fondamentali tra la comprensione immediata e quella mediata. Ciò induce a formulare un concetto di interpretazione in senso stretto che si riferisca esclusivamente alla comprensione mediata. L'interpretazione in senso stretto è un caso particolare dell'interpretazione in senso lato. Essa si rende necessaria quando un'espressione linguistica ammette diversi significati e non è certo quale sia quello corretto. L'interpretazione in senso stretto comincia con una domanda (v. Gadamer, 1960, pp. 351 s.) e termina con una scelta tra i diversi significati possibili (v. Larenz, 1991⁶, p. 204). L'interpretazione in senso stretto è al centro del problema dell'interpretazione giuridica. 7. Il concetto di interpretazione giuridica L'interpretazione giuridica si distingue dagli altri tipi di interpretazione per il suo carattere pratico e istituzionale. Essa ha un carattere pratico in quanto riguarda sempre, direttamente o indirettamente, ciò che in un sistema giuridico viene prescritto, vietato o permesso e ciò che esso autorizza. Invece che di carattere 'pratico' si può parlare anche di carattere 'normativo'.Il carattere istituzionale dell'interpretazione giuridica deriva sia dal suo oggetto che dal suo soggetto. Nelle codificazioni giuridiche moderne oggetto primario dell'interpretazione è la legge, compresa la legge costituzionale e le norme emanate secondo le leggi (per esempio decreti-legge e regolamenti). Le leggi vengono prodotte attraverso atti istituzionali, oggi in particolare attraverso deliberazioni del parlamento. È questo il fondamento della loro validità giuridica. Oltre alla legge, costituiscono ulteriori oggetti dell'interpretazione i precedenti, i contratti di diritto privato, amministrativo, pubblico e internazionale, nonché il diritto consuetudinario. Escluso il diritto consuetudinario, di scarso rilievo negli Stati moderni, anche questi oggetti dell'interpretazione sono il prodotto di atti istituzionali. Lo stesso vale per il diritto primario e secondario della Comunità Europea. Per quanto concerne il soggetto, l'interpretazione viene distinta tradizionalmente in: interpretazione autentica, dottrinale, popolare e comune. L'interpretazione autentica è l'interpretazione fornita dagli organi autorizzati dall'ordinamento giuridico a determinare in modo vincolante il significato di una norma: il legislatore e, secondo una concezione diffusa, anche la giurisprudenza nella misura in cui questa produce in ultima istanza decisioni vincolanti e con valore di precedente. In entrambi i casi l'interpretazione ha un carattere istituzionale non solo in virtù del suo oggetto ma anche in forza del suo soggetto. L'interpretazione dottrinale è l'interpretazione data dalla dottrina giuridica. Non avendo efficacia vincolante essa non possiede carattere istituzionale, ma si può avvicinare a esso quando si forma un'opinione dominante. L'interpretazione popolare è l'interpretazione fornita dai cittadini sottoposti al diritto. L'interpretazione comune, ossia l'interpretazione di una norma tramite il diritto consuetudinario, è un caso particolare dell'interpretazione popolare. Per quel che concerne il soggetto, anch'essa è priva di carattere istituzionale. Ciò tuttavia non inficia il carattere istituzionale complessivo dell'interpretazione giuridica, poiché, qualora si giunga a un grave dissidio nell'ambito dell'interpretazione dottrinale, popolare o comune, nei sistemi giuridici moderni è prevista un'istanza che decide con effetto vincolante. Questo spiega il ruolo particolare dell'interpretazione giudiziale o giurisdizionale. 8. Interpretazione e deduzione La struttura della motivazione giuridica è controversa. Secondo una concezione diffusa si deve distinguere tra un nucleo deduttivo e una giustificazione argomentativa delle premesse impiegate nella deduzione. La terminologia varia nonostante vi sia un accordo sulla sostanza. Si parla così di una distinzione tra 'giustificazione interna' ed 'esterna' (v. Wróblewski, 1974, pp. 39 ss.; v. Alexy, 1991², pp. 273 ss.), tra 'giustificazione di prim'ordine' e di 'second'ordine' (v. MacCormick, 1978, pp. 19 ss. e 100 ss.), e tra 'schema principale' e 'schemi secondari' (v. Koch e Rüssmann, 1982, pp. 48 ss.). Che cosa si intenda con ciò viene chiarito dal seguente esempio. Le costituzioni moderne contengono normalmente un diritto fondamentale all'inviolabilità del domicilio. Si supponga che nella decisione di un caso si tratti unicamente di stabilire se il laboratorio del falegname a sia tutelato da questo diritto fondamentale oppure no, e che nella letteratura e in tribunale vengano sostenute due interpretazioni diverse: una ristretta e una ampia. Secondo l'interpretazione ristretta solo i locali che costituiscono il centro della vita privata sono domicilio nel senso della costituzione. Di conseguenza, il laboratorio del falegname non gode della tutela costituzionale dell'inviolabilità del domicilio. Secondo l'interpretazione ampia tutti i locali cui è vietato l'accesso al pubblico sono da considerare come domicilio nel senso della costituzione. Di conseguenza, la falegnameria gode della tutela costituzionale suddetta. Si supponga ora che il giudice scelga l'interpretazione più ampia. La motivazione della sua decisione può essere ricondotta allora alla seguente struttura deduttiva: 1) ogni domicilio gode della tutela costituzionale; 2) tutti i locali cui è vietato l'accesso al pubblico sono domicili; 3) tutte le falegnamerie sono ambienti cui è vietato l'accesso al pubblico; 4) il locale di a è una falegnameria; 5) il locale di a gode della tutela costituzionale. Il concreto giudizio giuridico di dovere (5) che decide il caso segue logicamente dalle premesse 1-4. Questa deduzione corrisponde a ciò che viene designato come 'giustificazione interna' o con le altre espressioni menzionate. Essa non è una motivazione completa. Infatti la premessa (2), decisiva per il caso considerato, esprime l'interpretazione più ampia del concetto di domicilio e viene solo impiegata nella giustificazione interna ma non viene motivata. Il compito peculiare dell'interpretazione consiste proprio nella motivazione di premesse di questo tipo. Ciò deve avvenire nella giustificazione esterna. Contro il modello di motivazione deduttivo, che rappresenta uno sviluppo della teoria tradizionale del sillogismo giuridico, viene obiettato che una deduzione non è una motivazione (v. Neumann, 1986, pp. 19 ss.) e che il modello non coglie adeguatamente la vera struttura della motivazione giuridica (ibid., pp. 22 e 25; v. Atienza, 1991, pp. 240 ss.). In difesa del modello deduttivo si può sostenere che in esso dovrebbe essere rappresentato solo il nucleo della motivazione, mentre la motivazione vera e propria dovrebbe avvenire nella giustificazione esterna. Non deve essere ricostruito neppure il ragionamento seguito effettivamente dal giudice (context of discovery) ma solo la struttura in cui la sua motivazione (context of justification) deve poter essere trasformata per essere razionale. Il postulato della completezza delle premesse contenuto nel modello deduttivo assicura che sia chiaro ciò che deve essere motivato e ciò che può essere criticato. Questo impedisce l'intrusione indebita di premesse nascoste. Diversamente dalle teorie sostenute nel XIX secolo sul ruolo della deduzione nella giurisprudenza, il modello deduttivo non offusca il contributo creativo dell'interprete, ma al contrario lo mette in evidenza come nessun altro modello. Il postulato della natura esplicita delle premesse è funzionale inoltre alla certezza del diritto. La pretesa di universalità delle premesse corrisponde alla prescrizione del pari trattamento e risulta così funzionale alla giustizia. Infine, il postulato secondo il quale la distanza tra norma e situazione concreta deve essere superata mediante una concatenazione completa di premesse contribuisce a vincolare l'attività del giudice alla legge (v. Alexy, 1991², pp. 274 ss.; v. Koch e Rüssmann, 1982, pp. 112 ss.). 9. Il fine dell'interpretazione Il campo specifico dell'interpretazione è la giustificazione esterna in cui viene motivata l'interpretazione di volta in volta scelta. I criteri in base ai quali definire buona o cattiva una motivazione, e quindi corretta o scorretta un'interpretazione, vengono determinati essenzialmente attraverso il fine dell'interpretazione. Il fine dell'interpretazione è controverso. Esistono due teorie al riguardo, una soggettiva e una oggettiva. Secondo la teoria soggettiva il fine dell'interpretazione consiste nell'accertamento del volere del legislatore. Secondo la teoria oggettiva l'interprete deve individuare il significato razionale, corretto o giusto della legge. Il conflitto si complica, poiché a questa dicotomia sostanziale si sovrappone una dicotomia temporale, e precisamente quella che sussiste fra il momento della produzione delle norme e il momento della loro interpretazione. Ne risultano quattro possibili fini dell'interpretazione: 1) uno relativo al momento in cui la norma è sorta in senso soggettivo (la volontà reale del legislatore storico); 2) uno relativo al momento in cui essa è sorta in senso oggettivo (il significato razionale della legge al momento della sua nascita); 3) uno relativo al momento dell'interpretazione soggettiva della norma (la volontà ipotetica dell'attuale legislatore); 4) uno relativo al momento dell'interpretazione oggettiva (il significato razionale della legge nel momento dell'interpretazione). Nella pratica sono rilevanti soprattutto i fini (1) e (4), che sono quelli considerati di regola quando, per semplificare, si parla del conflitto tra la teoria soggettiva sul fine dell'interpretazione e quella oggettiva. Il conflitto ancora oggi non è risolto. Il fatto che esistano buoni argomenti sia a favore sia contro entrambe le teorie porta a ritenere che anche in futuro non si perverrà a una soluzione che stabilisca la preminenza assoluta del fine dell'interpretazione soggettivo oppure di quello oggettivo. A favore della teoria soggettiva vi è l'idea dell'autorità del legislatore sorretta dai principî della democrazia e della separazione dei poteri. Contro di essa si può obiettare che spesso è difficile se non impossibile accedere alla volontà del legislatore storico, la quale a volte risulta anche vaga e contraddittoria. Inoltre le leggi, in quanto regole sociali, una volta entrate in vigore si possono separare dalle intenzioni del legislatore storico. A favore della teoria oggettiva vi è il fatto che l'interpretazione dovrebbe condurre a una soluzione corretta o giusta sul piano del contenuto. Contro di essa si può addurre il pericolo di un arbitrio interpretativo e di un eccessivo aumento di competenze del potere giudiziario. Se si confrontano tra loro questi argomenti, cui se ne possono aggiungere altri, si profila una soluzione diversificante. Questa postula un primato prima facie del fine soggettivo dell'interpretazione rispetto a quello oggettivo e fa dipendere la decisione definitiva da criteri quali l'età della legge, il mutamento delle circostanze e dei valori della società, l'univocità del volere del legislatore, nonché il peso di argomenti sistematici e sostanziali che giustificano nel caso concreto il perseguimento del fine oggettivo dell'interpretazione (v. Alexy, 1991², p. 305). Se la soluzione diversificante è corretta, allora la teoria del fine dell'interpretazione non conduce a una soluzione semplice e definitiva del problema dell'interpretazione giuridica, poiché come ultima istanza valgono gli argomenti, non già il fine dell'interpretazione comunque lo si definisca. PROBLEMI DI INTERPRETAZIONE 1. Equivocità dei testi normativi: Nella maggior parte dei casi, l’equivocità non dipende dalla formulazione dei testi ma da altri fattori. a. Il primo fattore di equivocità è il contesto: che è costituito non solo dagli articoli immediatamente circostanti – che regola la stessa materia – ma dall’intero ordinamento giuridico. b. Il secondo fattore di equivocità è la dogmatica. Spesso giudici e avvocati si appoggiano alle interpretazioni offerte dai teorici – che non sempre sono convergenti. c. Il terzo fattore di equivocità è dato dalla pluralità delle tecniche interpretative. Esempi: L’art. 90, comma 1, Cost stabilisce che “il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”. Non si dubita che l’immunità valga per tutti gli atti ufficiali (controfirmati, ai sensi dell’art. 89, comma 1, Cost.). Ma cosa dire delle esternazioni? L’art. 48, comma 1, cost. dispone: “Sono elettori tutti i cittadini”. Qudi degli stranieri e degli apolidi? Si può sostenere che la costituzione non disponga nulla a riguardo e sia dunque lacunosa, oppure che la costituzione, tacitamente, escluda i non cittadini dal diritto di voto. Nel primo caso una legge ordinaria potrebbe estendere il diritto di voto agli apolidi e agli stranieri, mentre nel secondo caso, no. L’art. 32 della Cost. stabilisce che: “La Repubblica garantisce cure gratuite agli indigenti”. Quid dei facoltosi e dei benestanti? Si potrebbe dire che la Cost. sia lacunosa al riguardo, con la conseguenza che una legge ordinaria può estendere le cure gratuite a tutti, ovvero che implicitamente neghi che le cure gratuite possano essere date a benestanti. L’art. 52 cost. impone ai cittadini l’obbligo di prestare servizio militare. Quid dei non cittadini, etc… 2. Vaghezza delle norme Risolta l’equivocità del testo rimane il problema della vaghezza della norma, perché ogni norma ha una trama aperta (Hart), ossia contorni indefiniti, sicché possono darsi casi rispetto ai quali l’applicabilità della norma è dubbia o controvertibile. Per compravendita si intende lo scambio di merci contro denaro. Supponiamo che il prezzo medio di una merce M sia 100. Lo scambio di M contro 100 costituisce sicuramente compravendita. Lo stesso dicasi dello scambio di M contro 98, 101, e forse 95 e 105. Ma chiaramente lo scambio di M contro 1 non è più compravendita ma donazione dissimulata. E stessa considerazione vale per lo scambio di M contro 1000. Ma il problema è: dove finisce la compravendita e dove comincia la donazione? L’art. 575 cod. pen. punisce con la reclusione “chiunque cagioni la more di un uomo”. Tizio ha tagliato la gola al nonno per ereditarne i beni. Chiaramente rientra nella fattispecie. Caio invece guidando l’automobile ha urtato contro un palo che si è abbattuto sulla macchina di Sempronio – che sbandando – ha ucciso un pedone. Caio ha cagionato la morte del pedone? Hart distingueva nella norma un nocciolo duro e una zona di penombra. Nella zona di penombra l’interprete ha massima discrezionalità. Compie una scelta è la funzione dell’interpretazione è ascrittiva. Se tuttavia si segue la teoria dell’argomentazione di Perelman anche per la soluzione del caso difficile occorre mettere in modo gli strumenti della retorica. Il risultato può essere ragionevole sebbene non vi sia l’unica risposta corretta. 3. Antinomie L’antinomia si verifica quando due norme statuiscano per una medesima fattispecie singolare e concreta due conseguenze giuridiche incompatibili. Cioè: si ha antinomia quando un caso concreto sia suscettibile di due diverse ed opposte soluzioni. Si possono distinguere due tipi di antinomie. Antinomie in astratto e antinomie in concreto. A in astratto: ogniqualvolta due norme connettono conseguenze giuridiche incompatibili a fattispecie astratte, ossia a classi di fattispecie che si sovrappongono (in tutto o in parte) concettualmente. Se, ad esempio, una norma vieta l’aborto e l’altra consente l’aborto terapeutico, vi è un’antinomia. A in concreto: quando in sede di applicazione l’antinomia si pone in relazione ad una medesima fattispecie concreta. Ad esempio, vi è una norma che stabilisce che le violazioni dei limiti di velocità può essere effettuata tramite l’autovelox, e l’altro che stabilisce che nessuna violazione meccanizzata può essere comminata se il destinatario non sia stato preventivamente informato dell’esistenza del dispositivo. Antinomie totali e parziali A totali: si ha totale sovrapposizione allorché le norme connettono conseguenze incompatibili alla medesima classe di fattispecie. Ad es. norma X dice che il divorzio è lecito; norma Y che il divorzio è illecito. A parziali: può accadere che la classe di fattispecie disciplinata da una norma sia interamente inclusa nella classa di fattispecie disciplinata da un’altra. Una norma vieta l’aborto, l’altra norma consente l’aborto terapeutico. 4. Lacune Lacune normative: si dice che in un ordinamento giuridico vi sia una lacuna normativa ogniqualvolta si presenti una fattispecie astratta o concreta per la quale nessuna norma dell’ordinamento preveda una conseguenza giuridica qualsivoglia. Lacune tecniche: si dice che un ordinamento presenta una lacuna tecnica allorché manca in esso una norma la cui esistenza sia una condizione necessaria per l’efficacia di un’altra norma. Ad esempio, una norma prescrive la periodica convocazione di un organo ma nessuna norma determina quale sia il soggetto competente a convocarlo; una norma istituisce un organo elettivo, ma nessuna norma prescrive come debba essere eletto. Lacune assiologiche si dice che un ordinamento presenta una lacuna assiologia allorché una data fattispecie è disciplinata, ma disciplinata in modo insoddisfacente, sicchè manca nell’ordinamento non una qualsivoglia norma ma una norma giusta. In realtà i casi più frequenti di lacune assiologiche si hanno qualora una certa fattispecie sembra richiamarne un’altra che è regolata, ma non c’è alcun sistema – ad esempio analogico – che consenta di estendere la regola della norma simile a quella istante. Ad esempio, sappiamo l’interruzione volontaria della gravidanza al settimo o all’ottavo è assimilabile all’omicidio? La sospensione delle cure sanitarie nei malati terminali è assimilabile all’omicidio? Le lacune assiologiche sono frequentemente associate ad accese discussioni nella sfera pubblica. Lacune istituzionali si dice che un ordinamento presenta lacune istituzionali quando –per cause di fatto – viene meno una delle istituzioni che sono essenziali al suo funzionamento. 5. Principi generali di diritto PLURALITA’ DELLE TECNICHE DI INTERPRETATIVE ED ARGOMENTATIVE 1. Canoni interpretativi e tipologie I mezzi dell'interpretazione sono gli argomenti, e questi si possono classificare in modi molto diversi. La classificazione definisce forme, tipi o generi di argomenti, chiamati anche 'elementi', 'criteri', 'metodi' o 'canoni dell'interpretazione'. Dalle forme argomentative o dai canoni dell'interpretazione bisogna distinguere le regole dell'argomentazione o dell'interpretazione giuridica. Queste ultime indicano come si devono impiegare e soppesare i diversi argomenti. Storicamente ha avuto una grande influenza la classificazione di Friedrich Carl von Savigny (v., 1840, pp. 213 s.) che distingueva tra: g) interpretazione grammaticale, h) logica, i) storica e j) sistematica. L'atteggiamento di Savigny verso l'interpretazione teleologica, cioè verso l'interpretazione di una prescrizione in base al suo scopo (ratio legis), ha avuto delle oscillazioni. Il giovane Savigny (v., 1951, p. 40) l'aveva respinta, mentre quello maturo l'ha ammessa con alcune limitazioni (v. Savigny, 1840, pp. 217 ss.). A tutt'oggi nessuna classificazione trova il consenso generale. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che esistono due strategie classificatorie: una ristretta e una più ampia. La strategia ristretta tenta di raccogliere i tipici argomenti interpretativi in accordo con la tradizione. In questo modo si formano elenchi che contengono, ad esempio, l'argomentazione semantica, quella genetica, quella storica, quella comparativa, quella sistematica e quella teleologica. A essi si affiancano altri tipi di argomentazione quali: l'argomentazione dogmatica, l'argomentazione che si basa sui precedenti, l'argomentazione generale pratica o sostanziale, l'argomentazione empirica e l'impiego di forme argomentative particolari come ad esempio l'analogia (v. Alexy, 1991², pp. 285 ss.). La strategia ampia inizia con una suddivisione che dovrebbe comprendere l'intera gamma degli argomenti giuridici, e tenta poi di operare ulteriori distinzioni all'interno delle categorie fondamentali (v. Wróblewski, 1991, pp. 269 ss.). Questa strategia ha il vantaggio della semplicità e profondità sistematica e sarà quindi quella che seguiremo qui. Per Alexy, esistono quattro categorie di argomenti giuridici: 1) linguistici, 2) genetici, 3) sistematici, 4) pratici generali. Tale suddivisione è generalmente accettata, solo la terminologia oscilla (v. MacCormick e Summers, 1991, pp. 43 e passim). Lo status degli argomenti genetici d'altra parte è controverso. Si tratta di argomenti che fanno riferimento all'effettivo volere del legislatore storico e sono quindi funzionali al perseguimento del fine soggettivo dell'interpretazione. Contro la tesi secondo la quale gli argomenti genetici formano una categoria autonoma sullo stesso piano delle altre tre categorie, si obietta che gli argomenti genetici sono sempre connessi ad argomenti delle altre categorie, e si dovrebbero perciò definire 'argomenti transcategoriali' (ibid., pp. 522 ss.). A ciò si può controbattere che il riferimento al volere del legislatore storico è un tipo di argomento distinto e dotato di una forza sua propria. Se una determinata interpretazione viene giustificata dal fatto che il legislatore storico ha attribuito a un'espressione un determinato significato o ha perseguito con una norma un determinato scopo, allora la forza di questo argomento non si basa sul significato in quanto tale o sullo scopo in quanto tale, ma esclusivamente sulla corrispondenza del significato o dello scopo al volere del legislatore storico. Tale consapevolezza e il ruolo svolto nella prassi dagli argomenti genetici autorizzano a considerare questi ultimi una categoria autonoma e di uguale valore. Gli argomenti linguistici si dividono in semantici e sintattici. Gli argomenti semantici si basano sul significato delle espressioni contenute in una norma. Gli argomenti sintattici riguardano la struttura grammaticale di una norma, ad esempio la comprensione di una congiunzione o di una virgola. Importanti sul piano pratico sono soprattutto gli argomenti semantici. Questi possono avere per oggetto il significato comune o quello tecnico. La preminenza spetta al significato comune quando si tratta di una norma che ogni cittadino deve comprendere, mentre è prioritario il significato tecnico quando si tratta di una materia speciale con una propria terminologia tecnica. Nel dubbio in una democrazia dovrebbe avere la preminenza il significato comune. È importante che appartengano all'interpretazione semantica solo quegli argomenti che si basano sull'accertamento di un uso linguistico effettivamente esistente. La sola determinazione o stipulazione di un significato non è un argomento semantico. Essa può essere solo il risultato di argomenti degli altri tre generi. L'argomento semantico può portare alla sussunzione della fattispecie nella norma (valutazione positiva), oppure alla sua non sussunzione (valutazione negativa). In entrambi questi casi si tratta di una decisione che non consegue dall'argomento semantico, di una decisione contro la lettera della legge e quindi di una integrazione del diritto in senso stretto. Spesso gli argomenti semantici non portano a un risultato definitivo, ma solo a stabilire che il concetto indagato è ambiguo, vago o aperto alle valutazioni e che il caso concreto rientra in uno di questi campi semantici (valutazione neutrale). Il risultato dell'interpretazione semantica consiste allora nell'accertamento di un problema la cui soluzione deve essere trovata con l'ausilio di argomenti delle altre tre categorie (v. Alexy, 1991², pp. 289 s.). Gli argomenti della seconda categoria, gli argomenti genetici, riguardano l'effettivo volere del legislatore storico. Il loro impiego corrisponde alla teoria soggettiva del fine dell'interpretazione. Sono rilevanti soprattutto due tipi di argomento genetico: quello semantico-soggettivo e quello teleologico-soggettivo. Gli argomenti del primo tipo partono dal presupposto che il legislatore storico abbia attribuito un significato determinato a un'espressione determinata. Gli argomenti teleologico-soggettivi hanno a oggetto il fatto che con la norma da interpretare il legislatore storico abbia perseguito un determinato scopo e che una determinata interpretazione sia il mezzo migliore per raggiungere questo scopo (ibid., pp. 291 ss.). Riferendosi al ragionamento dei giuristi Giovanni Tarello31 ha individuato tredici tipi di argomentazione che permettono di interpretare i testi in funzione dell’intenzione che viene attribuita al legislatore. Di questi tredici tipi alcuni rientrano fra gli argomenti genetici menzionati da Alexy, altri tra gli argomenti sistematici. E così verranno distribuiti fra le due categorie. Tali argomenti non dipendono dalla logica formale, poiché essi riguardano non la forma ma la materia del ragionamento, la fissazione di premesse sulla base di testi. Essi sono: I. a contrario II. a simili III. a fortiori IV. psicologico V. apagogico VI. economico 31 G. Tarello, I ragionamenti dei giuristi fra teoria logica e teoria dell’argomentazione, in Diritto, enunciati, usi, il Mulino, Bologna, 1974, p. 424 e ss. I primi tre argomenti sono i più diffusi. Essi somigliano alle tecniche di interpretazione letterale di un testo, ma ne sono tuttavia abbastanza diversi perché si debba, per ricorrervi, far riferimento alla volontà del legislatore. L’argomento a contrario è un procedimento discorsivo secondo cui, essendo data una proposizione giuridica che predica un obbligo (o un’altra qualificazione normativa) d’un soggetto (o di una classe di soggetti), mancando un’altra norma espressa si deve concludere che valga (che sia valida) una diversa proposizione giuridica, che predichi quello stesso obbligo (o altra qualificazione giuridica) per qualsiasi altro soggetto (o una classe di soggetti) del tutto diverso. In tale senso, se una disposizione obbliga tutti i giovani che abbiano compiuto venti anni all’adempimento del servizio militare, se ne concluderà a contrario che le ragazze non sono sottoposte allo stesso obbligo militare. Oppure, se la Costituzione recita che hanno diritto di voto i cittadini italiani, se ne dedurrà – a contrario – che gli stranieri non hanno diritto di voto. Se la legge invece indicasse esplicitamente che la norma si applica a quella sola categoria (hanno diritto di voto i soli cittadini italiani che abbiano compiuto la maggiore età) allora non si dovrebbe ricorrere all’argomento a contrario ma alla semplice interpretazione letterale. L’argomento a contrario vale in quelle circostanze in cui si sarebbe potuto applicare anche l’argomento a simili: che tuttavia non è prevalso guardando ad esempio alla ratio della norma. Se c’è una norma che fa divieto di portare sul treno cani e gatti, si può a simili dire che tale norma si estende anche agli orsiL’argomento a fortiori – del quale è possibile distinguere due forme, l’argomento a minori ad maius e a maiori ad minus – è un procedimento discorsivo secondo il quale, data una proposizione giuridica, che predica l’obbligo (o un’altra qualificazione normativa) d’un soggetto (o classe di soggetti) si deve concludere che valga (sia valida, esiste come norma) una diversa proposizione giuridica che predichi questo stesso obbligo (o altra qualificazione normativa) d’un soggetto (o classe di soggetti) che si trovi (si trovino) in una situazione tale da meritare, a maggior ragione dei primi, la qualificazione normativa che la prima norma accordava ai primi. La prima forma, a minori ad maius, si applica nel caso di una prescrizione normativa negativa, la seconda a maiori ad minus, nel caso di una prescrizione positiva. Esempi del primo caso: se è vietato ferire, è vietato uccidere. Se è vietato camminare sul prato, è vietato a fortiori, danneggiarlo. La seconda forma si presenta nel brocardo: “chi può il più può il meno”. L’argomento psicologico consiste nella ricerca della volontà del legislatore concreto. Il riferimento ai lavori preparatori che accompagnano una legge, ai dibattiti parlamentari – che magari sono culminati in emendamenti – sono tutti strumenti che consentono di ancorare la ratio legis a quello che effettivamente il parlamento intendeva quando ha emanato la legge. L’argomento apagogico o di riduzione all’assurdo, presuppone che il legislatore sia ragionevole e che non avrebbe potuto ammettere un’interpretazione della legge tale da condurre a conseguenza illogiche o inique. L’argomento economico che assume che il legislatore non sia ridondante. Esso afferma che una interpretazione deve essere eliminata perché, se fosse ammessa, il testo si limiterebbe a ripetere quel che risulta da una norma di legge anteriore e diverrebbe, per ciò stesso superfluo. Questo argomento però non vale sempre perché è possibile che una disciplina particolare non sia altro che l’applicazione di un principio generale. Gli argomenti della terza categoria, o sistematici, si basano sull'idea dell'unità o della coerenza del sistema giuridico. Essi si possono suddividere in otto sottogruppi. i) Un primo sottogruppo è formato dagli argomenti che assicurano la coerenza: essi mirano a far sì che le norme di un sistema giuridico vengano interpretate in modo tale che le contraddizioni tra esse siano eliminate o non possano sorgere. L’argomento a coherentia è quello per il quale, partendo dall’idea che un legislatore ragionevole non può disciplinare una identica soluzione in due modi incompatibili fra loro, esiste una regola che permette di scartare una delle due proposizioni da cui sorge l’antinomia. ii) Al secondo sottogruppo appartengono gli argomenti contestuali. Il loro fine è l'interpretazione di una norma in base alla sua collocazione nel testo della legge e al suo rapporto con le altre norme. iii) Il terzo sottogruppo è costituito dagli argomenti sistematico-concettuali. Questi argomenti mirano alla chiarezza concettuale, all'unità formale e alla completezza sistematica, e assumono un ruolo centrale soprattutto nella dogmatica giuridica. Ad esempio, l’argomento a completudine o della completezza del sistema giuridico è un procedimento discorsivo secondo cui, non reperendosi una proposizione giuridica che ascrive una qualificazione giuridica qualsiasi a ciascun soggetto rispetto a ciascun comportamento materialmente possibile, si deve concludere che valga (sia valida, esista come norma) una proposizione giuridica che ascrive ai comportamenti non regolati di ciascun soggetto una particolare qualificazione normativa: o sempre indifferente o sempre obbligatorio o sempre proibito o sempre permesso. Questo argomento è fondato sull’idea che ogni sistema giuridico è completo e deve dunque contenere una regola generale concernente tutti i casi che non sono regolati da disposizioni particolari. Questa concezione, abbastanza diffusa nel XIX secolo, giacché era complementare all’idea che il giudice non dovesse prender parte alla elaborazione del diritto, presupponeva la mancanza di lacune e dunque di antinomie, giacché queste risultano dall’assenza di una regola che permetta di scartare l’applicazione, in un dato caso, di una delle due regole incompatibili. Questi argomenti sono argomenti di chiusura: del tipo: “tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso”; ovvero “tutto ciò che non è espressamente permesso è vietato” (come nel caso degli atti della P.A.). iv) Al quarto sottogruppo appartengono gli argomenti relativi ai principî. Il loro compito è tra l'altro quello di garantire che nell'interpretazione di una norma vengano applicati i principî del diritto contenuti nel sistema giuridico. Nei casi difficili questo implica normalmente un confronto tra principî contrastanti. Negli Stati costituzionali democratici assumono un ruolo particolare al riguardo i principî costituzionali (v. Alexy, 1986², pp. 75 ss. e 475 ss.). v) Un quinto sottogruppo è formato dai cosiddetti argomenti giuridici speciali. Il più importante è l'analogia. La sua forma fondamentale consiste nell'estensione del campo di applicazione di una norma autorizzata dall'evidenza di una analogia materiale. vi) Il sesto sottogruppo è formato da argomenti che si riferiscono a decisioni giudiziarie precedenti. Essi assumono un ruolo eminente nei sistemi di common law, ma sono assai importanti anche negli ordinamenti codificati. Pur non possedendo il carattere formale di fonti del diritto, i precedenti appartengono tuttavia al sistema del diritto. Il principio della parità di trattamento esige che non ci si possa allontanare da essi senza fornire i motivi (v. Kriele, 1976², pp. 258 ss.). vii) Al settimo sottogruppo appartengono gli argomenti storici. Essi si basano sulla storia del problema giuridico che di volta in volta deve essere risolto e mirano alla coerenza nella dimensione temporale, cosa questa che non esclude mutamenti e fratture che non siano arbitrari. viii) L'ottavo sottogruppo, infine, è formato dagli argomenti comparativi, i quali si riferiscono ad altri sistemi giuridici evidenziandone sia gli elementi comuni che le differenze. Es. di argomentazione sistematica: Cassazione civile, sez. I , 03 dicembre 2010, n. 24630 - Pres. Proto - Est. Ragonesi. Fonti del diritto - Interpretazione degli atti normativi - Letterale - Non esaustività - Ricorso al criterio sussidiario dell'interpretazione storica e logica Ammissibilità - Condizioni - Fattispecie in tema di presupposti soggettivi di fallibilità. Fallimento ed altre procedure concorsuali - Fallimento - Apertura (dichiarazione) di fallimento - Imprese soggette - Piccolo imprenditore - Requisiti - Ricavi degli ultimi tre anni - Portata dell'art.1, comma 2, lett. b), legge fall. dopo la novella del d.lgs. n. 5 del 2006 - Criteri di valutazione - Riferimento agli esercizi Obbligatorietà - Fondamento - Conseguenze. In tema di presupposti dimensionali per l'esonero dalla fallibilità del debitore, nel computo dei ricavi, ai fini del riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore, il triennio cui si richiama il legislatore nell'art. 1, comma 2, lett. b), legge fall. (nel testo modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006, applicabile "ratione temporis") va riferito agli ultimi tre esercizi, in cui la gestione economica è scadenzata, e non agli anni solari; a tale interpretazione si perviene, in assenza di un dato letterale della norma sufficientemente chiaro ed inequivoco che ne permetta la ricostruzione del significato e la connessa portata precettiva, mediante il ricorso al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, nell'esame complessivo del testo, della "mens legis", con un'interpretazione sistematica delle norme ed il richiamo, tra esse, dell'art.14 legge fall., che, in tema di istanza di fallimento, impone al debitore, che chieda tale dichiarazione, di depositare le scritture contabili e fiscali degli ultimi tre anni, cioè degli ultimi tre esercizi, cui ha invero riguardo la documentazione funzionale all'accertamento delle sue condizioni di fallibilità, mentre la modifica letterale del citato art.1, intervenuta ad opera del d.lgs. n. 169 del 2007, pur non fungendo da fonte di interpretazione autentica, ha proprio voluto eliminare ogni incertezza sull'interpretazione effettiva della disposizione, nel senso sopra indicato. (massima ufficiale). Gli argomenti delle tre categorie finora trattate sono possibili solo nell'ambito istituzionale di un sistema giuridico, e pertanto possono essere definiti 'argomenti istituzionali'. Se tutti i casi potessero essere decisi esclusivamente sulla base di argomenti istituzionali, il diritto sarebbe un sistema chiuso, autonomo o 'autopoietico' (v. Teubner, 1989). Ciò però non si verifica per quattro motivi che corroborano la tesi, spesso avanzata, secondo la quale l'interpretazione giuridica non può fare a meno di valutazioni materiali. Il primo motivo è che in numerosi casi nessuno dei tre argomenti istituzionali conduce a un unico risultato. Infatti ci sono molti casi in cui gli argomenti linguistici si fermano all'individuazione di un campo semantico, gli argomenti genetici falliscono per l'ambiguità dello scopo del legislatore e gli argomenti sistematici forniscono orientamenti diversi. Se in tali casi si deve decidere sulla base di argomenti, allora ciò può accadere solo con l'impiego di argomenti pratici generali la cui forza non risiede nel loro ancoraggio istituzionale ma deriva esclusivamente dal loro contenuto. Il secondo motivo è che in numerosi casi gli argomenti istituzionali delle diverse categorie conducono a risultati differenti, per cui non è certo quale risultato debba essere scelto. Di nuovo sono necessari argomenti pratici generali per giungere a una decisione per via argomentativa. Il terzo motivo è che gli argomenti sistematici spesso sono completi solo quando vengono integrati da argomenti pratici generali. È ciò che normalmente avviene, per esempio, nel confronto tra principî o nel caso dell'analogia. Il quarto motivo, infine, è che si possono presentare casi in cui gli argomenti pratici generali assumono un'importanza così grande da avere la preminenza sugli argomenti istituzionali. L'argomentazione istituzionale dipende allora di regola dall'argomentazione pratica generale. Questo è un motivo essenziale per ritenere l'argomentazione giuridica o il discorso giuridico come un caso speciale, definito attraverso vincoli istituzionali, dell'argomentazione pratica generale o del discorso pratico generale (v. Alexy, 1991², pp. 263 ss. e 426 ss.; v. MacCormick, 1978, p. 273; in senso critico v. Neumann, 1986, pp. 84 ss.). L'antagonista più importante della tesi del caso speciale è l'idea dell'olismo giuridico, secondo la quale tutte le premesse sono già contenute nel sistema giuridico oppure sono in esso nascoste e devono solo essere ancora scoperte (in questa direzione v. Savigny, 1840, p. XXXVI; v. Dworkin, 1986, pp. 400 ss.). A tale idea si oppone tuttavia il fatto che ciò che è stato istituzionalizzato come sistema giuridico è sempre e necessariamente incompleto. Come le regole non possono applicarsi da sole, così un sistema non può creare da solo la propria completezza e coerenza. A questo scopo sono necessarie persone e procedure. La procedura necessaria però è quella dell'argomentazione giuridica, che non è razionalmente possibile senza argomenti pratici generali. Gli argomenti istituzionali si basano direttamente o indirettamente sull'autorità del diritto positivo. Al contrario gli argomenti della quarta categoria, gli argomenti pratici generali, traggono la loro forza unicamente dalla correttezza del loro contenuto, e si possono perciò definire anche 'argomenti sostanziali'. Gli argomenti pratici generali o sostanziali si dividono in due gruppi: argomenti teleologici e argomenti deontologici. Gli argomenti teleologici guardano alle conseguenze dell'interpretazione e si basano in ultima istanza su una idea di bene. Gli argomenti deontologici stabiliscono ciò che è giusto o ingiusto indipendentemente dalle conseguenze. Essi fanno riferimento a una idea del dovere che si fonda perlopiù sull'idea della generalizzabilità. ALEXY Teoria del discorso razionale come teorie della giustificazione giuridica Definisce le regole del discorso come regole che fanno da presupposto alla comunicazione umana che miri ad accertare la verità o la correttezza. Vi sono Regole di Base o fondamentali: La validità di questo gruppo di regole è condizione di possibilità di ogni comunicazione linguistica in cui si tratti di verità o di correttezza. 1.1. Nessun parlante può contraddire sé stesso 1.2. Ciascun parlante deve dire solo quello che effettivamente crede 1.3. Il parlante che attribuisce la proprietà F ad un oggetto O deve essere disposto a riconoscere la medesima proprietà in un altro oggetto eguale ad O sotto ogni aspetto rilevante 1.4. I parlanti non devono utilizzare le medesime espressioni con significati diversi. Regole di Ragione I discorsi pratici mirano a giustificare l’affermazione di proposizioni normative. Discutendo tali affermazioni vengono prodotte altre affermazioni e così via. Chi afferma qualcosa non vuole soltanto esprimere ciò in cui crede, ma pretende anche che quanto dice sia giustificabile, sia cioè vero e giusto. Questo vale sia per le proposizioni normative che per le altre affermazioni. Il parlante può anche giustificare una sua affermazione ricorrendo all’autorità di altri (magari di esperti). Qualora si decidesse a non fornire giustificazioni di fronte a qualche interlocutore deve giustificare il rifiuto. 2. Ogni parlante deve giustificare, su richiesta, ciò che afferma, a meno che possa addurre delle ragioni che giustifichino il suo rifiuto di dare una giustificazione. La regola presuppone la eguaglianza fra parlanti e la rinuncia alla violenza e alla prevaricazione (devo giustificare la mia proposizione normativa e non posso semplicemente imporla). 2.1. Chiunque sia in grado di parlare può prendere parte ai discorsi (libertà di espressione) 2.2. Chiunque può problematizzare qualsiasi affermazione. 3. Regole dell’onere dell’argomentazione 3.1. Chi intende trattare una persona A diversamente da una persona B è tenuto a darne una giustificazione Le regole di giustificazione: Universalizzabilità: chiunque deve poter accettare le conseguenze della regola presupposta in una proposizione normativa da lui affermata, per il soddisfacimento degli interessi di ogni singola persona, anche nell’ipotetico caso di trovarsi lui nella situazione di questa persona. TEORIA DELL’ARGOMENTAZIONE GIURIDICA Il fulcro della tesi del caso particolare consiste nel fatto che anche nei discorsi giuridici viene sollevata la pretesa di correttezza, che questa pretesa, però, diversamente da quella del discorso pratico in generale, non si riferisce al fatto che le proposizioni normative problematiche siano assolutamente razionali, bensì solo al fatto che esse possano essere motivate razionalmente nell’ambito dell’ordine giuridico vigente. LA DISCIPLINA POSITIVA DELL’INTERPRETAZIONE 1. Cosa dice la legge: L’articolo 12 delle preleggi al codice civile così stabilisce: Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato. 10. Risoluzione di conflitti: cioè come si risolvono le antinomie Comunemente i principi attraverso cui si risolvono le antinomie – che per questo vengono definite antinomie apparenti – sono elaborati dalla dogmatica e dalla giurisprudenza. Il primo è quello della specialità: lex specialis derogat legi generali. Ad esempio l’art. 2043 dispone che chiunque causa ad altri un danno ingiusto è obbligato a risarcire il danno. La regola generale tuttavia trova un’eccezione nella legittima difesa (art. 2044). E allora non si tratta di due norme contrastanti ma solo di una regola che viene definita anche in ragione dell’eccezione. Altro principio è quello cronologico: se due norme provengono da fonti distinte e sono di pari rango e hanno entrambe la medesima sfera di competenza allora vale il principio secondo cui la legge successiva prevale – perché si suppone che abbia tacitamente abrogato la precedente (art. 15 disp. Prel. C.c.). Se invece le antinomie vengono generate da due norme di tipo diverso allora occorre distinguere: a) Se le norme sono legate da una relazione di tipo gerarchico (legge e regolamento) allora vige la regola secondo cui la norma di rango superiore prevale su quella di rango inferiore (principio gerarchico) b) Se le norme provengono da fonti con ambiti di competenza diversi, allora prevale la norma proveniente dalla fonte competente. (es. legge regionale e legge statale). Casi speciali sono le antinomie fra norme costituzionali. Per questo si rinvia all’interpretazione costituzionale. Possono poi sorgere conflitti fra i criteri: in linea generale il criterio gerarchico prevale su quello cronologico e quello speciale, mentre può darsi il caso di un reale conflitto fra criterio cronologico e criterio speciale, sebbene in linea di massima il criterio speciale prevalga anche se la legge generale è emanata posteriormente. ESEMPIO I criteri interpretativi nulla dicono circa il contenuto del ragionamento, sullo scopo concretamente perseguito. Talché la regola che impone, nell’individuazione della norma da applicare al caso concreto, la ricerca dell’ “intenzione del legislatore” può giustificare risultati diversi e incompatibili, se due interpreti siano di parere diverso sulla ratio della norma. L’attitudine argomentativa del giurista potrebbe addirittura indurre a contraddire il senso letterale di una legge sulla base della sua ratio, sino a rovesciarne il significato normativo che si coglieva nel contesto originario. In questa prospettiva è interessante il seguente caso: Una coppia sterile a causa della congenita impotenza di generare del marito, ricorre all’inseminazione artificiale eterologa. Il successo dell’intervento, avvenuto con il pieno consenso del marito, consente alla donna di avere un figlio. Negli anni successivi il marito avanza istanza di annullamento del matrimonio per impotentia generandi e promuove per la medesima ragione azione di disconoscimento di paternità ex art. 235 n. 2 c.c., sostenendo l’irrilevanza giuridica del consenso precedentemente accordato. La disposizione richiamata concede il diritto di esperire azione di disconoscimento del figlio nato durante il matrimonio “al marito che in quel periodo era affetto da impotenza, anche se soltanto di generare”. A tale pretesa si oppone la moglie, sostenendo che l’azione trova ostacolo nel consenso alla inseminazione prestato al marito. Il giudice di primo grado conclude per l’accoglimento delle istanze del marito sulla base della considerazione che la disposizione citata prevede, tra i presupposti dell’azione di disconoscimento, l’impotentia generandi, che in fatto sicuramente sussisteva. La Corte va quindi oltre l’argomento letterale e rileva che l’ordinamento non contempla alcun rapporto giuridico di filiazione svincolato dal presupposto di un corrispondente rapporto biologico di sangue. Rileva inoltre che non esiste nel nostro ordinamento una diversa disposizione che attribuisca al consenso all’inseminazione eterologa efficacia escludente l’azione del disconoscimento stesso e che quindi la formulazione dell’art. 235 c.c. corrisponde alla volontà del legislatore di tutelare la sola filiazione biologica. Contro questa decisione la moglie propone ricorso alla Corte d’Appello di Brescia, sostenendo che la disciplina del rapporto di filiazione, originato da inseminazione artificiale eterologa, non avrebbe dovuto essere ricercata nell’angusto disposto dell’art. 235 c.c., inadatto a regolare una fattispecie non ipotizzabile al tempo dell’entrata in vigore della norma, ma avrebbe dovuto essere desunta, con lo strumento dell’interpretazione analogica, dai principi generali dell’istituto della filiazione civile. Le procedure adottive e quelle di inseminazione artificiali sarebbero l’espressione di un istituto, quello della filiazione civile, caratterizzato da una propria autonomia rispetto alla filiazione biologica tutelata dal codice civile. L’affinità tra le ipotesi di filiazione adottiva e filiazione inseminativa deriverebbe dal ruolo del consenso come elemento costitutivo del rapporto giuridico, in contrapposizione al fattore biologico caratterizzante la filiazione naturale. La Corte d’Appello rileva la diversità del ruolo assunto dal consenso nelle due fattispecie: nell’una è volto a dare una famiglia al minore in stato di abbandono - con intervento dell’autorità giudiziaria - , nell’altra a dare un figlio naturale a chi lo desidera. Le due fattispecie pertanto non sarebbero assimilabili, stante la assoluta diversità degli elementi costitutivi; né tantomeno riconoscibili quali espressione di un principio comune. Piuttosto, rileva la Corte, nell’attuale quadro normativo il fattore biologico è l’unico fondamento giuridicamente rilevante del rapporto di filiazione. Il giudice ordinario che rifiutasse il disconoscimento al marito consenziente all’inseminazione, introdurrebbe una limitazione non prevista al favor veritatis, introducendo un nuovo principio, quello del favor affectionis, non previsto dal legislatore. Né può obiettarsi - prosegue la Corte - che la volontà legislativa di tutelare la sola filiazione biologica sia riferita ad un legislatore che, per ovvie ragioni cronologiche, ignorava le tecniche di fecondazione artificiale, posto che queste tecniche erano note sin dagli anni 1951. In particolare erano già diffuse nel 1975, quando il legislatore intervenne incisivamente sulla disciplina del diritto di famiglia, e lasciò invariato il testo dell’art. 235 c.c., implicitamente confermando la volontà di riconoscere a fondamento dell’istituto della filiazione il solo legame biologico. Contro la sentenza di appello la moglie promuove ricorso alla Corte di Cassazione, che con sentenza 16 marzo 1999 n. 2315, accoglie i motivi di ricorso. L’art. 235 c.c. si afferma, era approvato in un’epoca in cui la procreazione esigeva il rapporto fisico tra uomo e donna: in occasione della riforma, il legislatore non è andato oltre una revisione puramente terminologica della disposizione, mantenendo ferma l’elencazione tassativa. La riproduzione della precedente formulazione dell’articolo non può essere interpretata quale manifestazione implicita della volontà del legislatore di applicare quella disposizione al caso di fecondazione artificiale: tanto è dimostrato dal rilievo che la norma consente il disconoscimento anche nel caso della sola impotenza coeundi del marito. Un’interpretazione strettamente letterale della norma quindi consentirebbe il disconoscimento anche al marito che avesse prestato il proprio consenso per un intervento di fecondazione omologa, negando così la condizione di figlio legittimo al figlio geneticamente appartenente alla coppia. Questo argomento (di logica interna) dimostra che l’applicazione esegetica della disposizione potrebbe fondare il disconoscimento da parte del padre biologico, in contrasto con gli stessi principi generali dettati in materia di filiazione biologica. Il successivo ripensamento del marito non è quindi riconducibile alla ratio dell’azione di disconoscimento: il favor veritatis non è un valore assoluto e incondizionato, espressione di un’esigenza pubblicistica dell’ordinamento, ma mira a difendere la posizione di quei soggetti ai quali soltanto è demandata la valutazione comparativa delle due situazioni in conflitto, la decisione di optare per l’una o per l’altra. Il marito che presta il proprio consenso, anticipa a quel momento quella valutazione attraverso il compimento di un atto giuridico con effetti, per propria natura, “irreversibili”. Ne consegue che l’articolo non è applicabile al caso di fecondazione: è una lacuna. Esclusa l’applicazione diretta dell’art. 235 c.c. al caso, la Corte nega anche la possibilità di estendere la portata del disposto per via analogica. Tale interpretazione postula, come sostenuto nel giudizio di secondo grado, una omogeneità di elementi essenziali ed una identità di ratio assenti caso in questione. I giudici di Cassazione dimostrano così l’esistenza di una lacuna del diritto. Peraltro la regola da applicare alla fattispecie non è rinvenibile in alcuna disciplina analoga (analogia legis), posto che natura e finalità dell’adozione sono profondamente diverse da quelle che caratterizzano le tecniche di fecondazione artificiale. La Corte di Cassazione ricorre dunque ai principi generali dell’ordinamento (analogia iuris), segnatamente a quei doveri generali di lealtà, buona fede e correttezza che, nei rapporti di famiglia, assumono il significato di solidarietà e reciproco affidamento. La scelta in favore della paternità presunta è quindi elemento costitutivo della fattispecie attributiva dello status, con effetti irreversibili. Per tali ragioni la Corte conclude per l’annullamento della sentenza d’Appello che accoglieva la domanda di disconoscimento del padre. La vicenda è interessante proprio per la chiarezza con la quale vengono posti in evidenza i vincoli che hanno guidato lo sviluppo del discorso giuridico. E’ anzi la ragione per cui si è ritenuto utile, in questa sede, riportare il caso con tanta ricchezza di particolari. Si è visto come, nella ricerca della ratio legis, concorrono una serie di valutazioni, che vanno dalla ricostruzione del contesto socio-politico in cui l’articolo fu approvato (volontà del legislatore storico), alla comparazione del fatto con discipline di fattispecie analoghe (es. adozione), alla analisi infine dei principi fondamentali dell’istituto della famiglia, e più in generale dei rapporti interpersonali del diritto privato (tutela dei minori, diritto del minore ad una famiglia, principio di buona fede, etc.). La decisione non è esente neppure da considerazioni di ordine sociologico, o di politica giudiziaria, volte ad una valutazione delle conseguenze, in termini di impatto sociale, derivanti dalla propria pronuncia. Si pensi alla preoccupazione di non incoraggiare una deresponsabilizzazione dei mariti che avessero prestato il proprio consenso, privando così definitivamente un bambino della possibilità di avere un padre. Ma tutte queste riflessioni vengono rigorosamente sviluppate secondo argomenti giuridici, tanto da impedire ai giudici di merito, in assenza di fondate ragioni di diritto, l’applicazione di quella che sin da principio appariva, almeno all’opinione pubblica, la soluzione più aderente alla giustizia del caso. Il rigore processuale del contraddittorio vincola il giudice, in ogni momento, alla ricerca di una soluzione coerente col sistema giuridico. Ed è vero che l’interprete può giungere a superare il senso letterale del testo, rovesciando il significato normativo che si coglieva nel contesto originario, ma solo sulla base di solide ragioni di diritto. In questa prospettiva l’individuazione della norma nel caso concreto ripropone la discussione, tipica del momento normativo, sui fondamenti ideologici, sui valori: ciò perché l’attività dell’interprete è sempre legata a fatti e circostanze particolari, in quanto umani sempre nuovi e diversi. I meccanismi argomentativi garantiscono però razionalità nella valutazione dei valori discussi o coinvolti, costringendo gli interlocutori a distinguere il momento ideologico da quello tecnico, i fini dai mezzi, l’interesse personale da quello collettivo. REGOLE DELL’ARGOMENTAZIONE 1) Precedenza fra regole Ci sono due tipi di regole dell'argomentazione giuridica. Quelle del primo gruppo indicano quando e come impiegare i diversi argomenti, quelle del secondo indicano come questi si debbano soppesare in caso di conflitto. Una regola importante del primo gruppo afferma che si devono considerare tutti gli argomenti pertinenti (v. Alexy, 1991², p. 306). Le regole del secondo gruppo sono regole di precedenza. La gerarchia degli argomenti possibili nell'argomentazione giuridica è fino a oggi controversa. Vi è un ampio consenso invece sul fatto che non si possano formulare regole rigorose ma piuttosto regole che stabiliscano le precedenze prima facie. Le precedenze prima facie consentono di invertire la gerarchia sussistente in forza dell'importanza posseduta da un argomento contrastante. Ampio consenso esiste poi riguardo al ruolo essenziale che assumono le considerazioni giuridico-costituzionali nella decisione delle questioni relative alla precedenza. Dati tali presupposti, si possono formulare due regole generalissime relative alla precedenza: 1) gli argomenti linguistici precedono prima facie tutti gli altri argomenti; 2) gli argomenti linguistici, genetici e sistematici precedono prima facie gli argomenti pratici generali. Queste regole relative alla precedenza sono giustificate dai principî o dai valori sui quali si fonda la forza dei diversi argomenti. La forza dell'argomento linguistico poggia sul principio dell'autorità del legislatore, principio che in uno Stato costituzionale democratico è sorretto dai principî della democrazia, della separazione dei poteri e dello Stato di diritto. Anche l'argomento genetico si fonda sull'autorità del legislatore. Sulla base della certezza del diritto e quindi del principio dello Stato di diritto, ciò che ha detto il legislatore ha tuttavia la precedenza rispetto a ciò che egli ha semplicemente voluto. Gli argomenti linguistici precedono perciò prima facie quelli genetici. Gli argomenti sistematici mirano alla coerenza, che è un postulato elementare della razionalità: senza di essa l'arbitrio incombe. Una prassi decisionale arbitraria contraddirebbe il principio dello Stato di diritto e il principio dell'uguaglianza. Poiché però sono soprattutto le decisioni del legislatore a dover essere tradotte in sistema, gli argomenti linguistici precedono prima facie anche quelli sistematici. Nell'ambito degli argomenti istituzionali si dà quindi una precedenza prima facie degli argomenti linguistici rispetto a quelli genetici e sistematici. Tra gli argomenti genetici e quelli sistematici per contro non si può stabilire alcun rapporto generale di precedenza prima facie. La seconda regola di precedenza stabilisce una precedenza prima facie degli argomenti istituzionali rispetto a quelli pratici generali o sostanziali. Gli argomenti istituzionali basano la loro forza esclusivamente (nel caso di argomenti linguistici e genetici) o essenzialmente (nel caso di argomenti sistematici) sull'esistenza del sistema giuridico. La necessità dell'esistenza di un sistema giuridico si può motivare con argomenti pratici generali proprio a partire dalle debolezze dell'argomentazione pratica generale. In numerosi casi quest'ultima non conduce a risultati con i quali tutti concordano, e quando conduce a tali risultati, il consenso generale ottenuto nel discorso non assicura ancora l'osservanza generale. I conflitti sociali però non possono essere risolti sulla base di regole tra loro contraddittorie, e non si può pretendere l'osservanza di regole che ognuno può violare senza dover temere sanzioni. Gli argomenti pratici generali richiedono perciò l'esistenza di un sistema giuridico, la quale implica però una precedenza prima facie degli argomenti istituzionali rispetto a quelli pratici generali. Questi ultimi perciò non solo assumono un ruolo essenziale nell'ambito dell'argomentazione giuridica, ma giustificano anche il suo carattere istituzionale. 2) Interpretazione e integrazione del diritto Ogni interpretazione modifica il diritto ed è quindi un'integrazione del diritto in senso ampio. Da questo concetto di integrazione del diritto in senso ampio si deve distinguere il concetto di integrazione in senso stretto. Questa ha luogo quando non si può decidere nell'ambito della lettera di una norma. Si danno quattro casi di integrazione del diritto in senso stretto. Primo, una norma può essere dichiarata non valida o non applicabile (estinzione), cosa che accade soprattutto nel caso di un conflitto tra norme. Secondo, una norma può essere creata ex novo dal giudice (creazione). Terzo, la fattispecie di una norma può essere integrata con un insieme di casi in modo da essere applicabile a situazioni non contemplate dal suo testo originale (estensione). L'estensione è perlopiù il risultato di un'analogia. Infine, una condizione restrittiva può essere aggiunta alla fattispecie di una norma in modo che essa non includa più determinate situazioni alle quali era applicabile secondo il suo testo originale (riduzione). L'ammissibilità dell'integrazione del diritto può essere intesa come un problema relativo alla gerarchia degli argomenti interpretativi, laddove si tratta soprattutto della forza degli argomenti linguistici. Questo indica che anche l'integrazione del diritto in senso stretto è interpretazione. Dietro al problema della gerarchia degli argomenti interpretativi si cela sempre un conflitto tra principî o valori fondamentali. Nell'integrazione del diritto in senso stretto si tratta soprattutto del conflitto tra i principî della democrazia, della separazione dei poteri e dello Stato di diritto, da un lato, i quali sostengono l'autorità del legislatore, e i principî della coerenza e della correttezza del contenuto, dall'altro, i quali favoriscono una decisione giusta. La soluzione del conflitto dipende dal diritto costituzionale di volta in volta vigente e dalla filosofia del diritto sostenuta dal singolo interprete. Ragionamento analogico Nello studio del ragionamento analogico occorre approfondire due questioni: a) La sua struttura logica b) La sua valenza giuridica L’analogia è quella forma di ragionamento in cui, constatate alcune somiglianze fra due fenomeni, se ne inferisce che abbiano altre proprietà comuni. Si tratta di una forma di argomentazioni a simili . Il ragionamento analogico è molto utilizzato nella scienza quando non si conoscono le leggi di certi fenomeni. In questi casi, il ragionamento analogico serve all’elaborazione di ipotesi: La malattia M presenta sintomi affini alla malattia N La malattia N si cura con il medicinale D Verosimilmente anche la malattia M verrà curata col medicinale D Se applichiamo questo schema ai ragionamenti morali allora: La fattispecie A è simile alla fattispecie B La fattispecie B è disciplinata dalla norma N Anche la fattispecie A deve essere disciplinata dalla norma N All’apparenza il punto di partenza dell’analogia è la somiglianza fra due casi, ma questa osservazione non è corretta. La prima indicazione ci viene proprio dall’art. 12. Infatti, non si ricorrerebbe all’analogia se non mancasse una norma per il caso A e se cioè se non si accertasse l’esistenza di una lacuna. Quindi: Per la fattispecie degli A non vi è una norma nell’ordinamento La fattispecie A è simile alla fattispecie B Per la fattispecie B è stabilita una norma N Quindi anche per gli A vale la disciplina N. Il ragionamento analogico non funziona dunque come il ragionamento deduttivo in sede applicativa (e cioè per arrivare alla conclusione del caso), ma è rilevante per la giustificazione esterna: e cioè per reperire le premesse da applicare al caso. Ragionamento analogico, ragionamento a simili e ragionamento a contrario Gli argomenti a simili e a contrario sono stati menzionati fra gli argomenti finalizzati a ricostruire l’intenzione del legislatore. Si tratti di argomenti sostanzialmente opposti: l’argomento a simili presuppone che situazioni molto simili a quelle oggetto di una norma giuridica esplicitamente rientrino nell’ambito di applicazione della norma medesima (se sono vietati i cani sui treni, sono vietati anche i gatti). L’argomento a contrario si fonda sul presupposto opposto: se il legislatore ha esplicitamente previsto una sola (o certe) fattispecie allora la norma si deve intendere introdotta solo per disciplinare quella (o quelle) fattispecie e non altre. Se il cartello dice “vietato fumare sigarette” lo si deve intendere nel senso che è consentito fumare la pipa. Il ragionamento analogico richiama l’argomento a simili: ma vi è una differenza fra i due tipi di ragionamento. Con l’argomento a simili non siamo tecnicamente in presenza di una lacuna, ma si sta estendendo l’applicazione di una norma ad una fattispecie più ampia di quella prevista esplicitamente nel testo di legge (vietato cani = vietato gatti). La differenza consisterebbe in questo: mentre l’interpretazione estensiva è interpretativa, l’interpretazione analogica è integrativa. La distinzione non è puramente teorica perché mentre in alcuni casi la l’interpretazione estensiva è ammessa l’analogia è preclusa. L’uso dell’analogia è precluso nel diritto eccezionale e nel diritto penale (per le norme incriminatrici). Il motivo di tale preclusione deriva dal fatto che in certi ambiti, il principio della separazione dei poteri è più rigoroso. Rapporti fra stato di diritto, principio democratico e analogia: La funzione integratrice del diritto operata dalla giurisdizione è un rischio per lo stato di diritto nella misura in cui certe norme – che restringono gli ambiti di libertà dei cittadini – vanno interpretate restrittivamente. In questi casi vale l’argomento a contrario. Similitudine. Si è detto che vi è una differenza fra interpretazione estensiva e analogia. Ma in cosa consiste questa differenza? Una prima risposta risiede nel fatto che nell’interpretazione estensiva la somiglianza è nota (cani e gatti; macchine e trattori), mentre nell’analogia la somiglianza non è così scontata. Essa va ricostruita e, soprattutto argomentata. E come si argomenta? Bobbio nel suo studio sull’analogia ci fa notare che l’aspetto più problematico della questione è proprio nella definizione della similitudine. La circostanza che due macchine siano entrambe rosse non implica che abbiano la stessa velocità. La similitudine, in altri termini, deve essere rilevante. Es: la norma che vieta o limita la distribuzione di libri osceni si applica: a) A tutti i libri b) Alle riviste oscene? La somiglianza è più pronunciata nel primo caso, ma ovviamente l’analogia opera nel secondo caso. La somiglianza presuppone che si comprenda la ratio legis, e cioè il fine (telos) per cui la norma è stata inserita nel sistema giuridico. Di solito per comprendere il telos di una norma occorre estendere lo sguardo al sistema giuridico nel suo complesso (o comunque ad alcune sezioni): nel nostro caso i limiti alla circolazione del materiale osceno possono essere dovuti alla tutela dei minori o del buon costume, etc.. Rimane comunque il fatto che la distinzione fra argomento a simili (interpretazione estensiva) e analogia è una questione di grado – più che una vera e propria differenza qualitativa. Qual è il rapporto fra analogia e precedente? (da Precedent and analogy in legal reasoning, G Lamond, in Stanford Encyclopedia). La letteratura anglosassone distingue fra l’argomento del precedente e l’argomento analogico. Tesi di Schauer: Il diritto tipicamente guarda all’indietro. A differenza della politica che guarda avanti – progetta per il futuro – il diritto guarda dietro le spalle. Il precedente è il principale meccanismo di questo funzionamento. Questo significa che la decisione non solo deve raggiungere un risultato desiderabile per il futuro ma deve anche e soprattutto essere coerente con decisioni precedenti su questioni simili o analoghe. Ma il vincolo del precedente, nel ragionamento giuridico, è ancora più stringente del semplice auspicio alla coerenza. Ecco cosa ci dice Schauer: “By ordinarily requiring that legal decisions follow precedent, the law is committed to the view that it is often better for a decision to accord with precedent than to be right, and that it is frequently more important for a decision to be consistent with precedent than to have the best consequences” (p. 36). In sintesi, il precedente funziona non per la sua forza logica ma in base ad un altro meccanismo. Anzi, da un punto di vista puramente logico, il precedente è una fallacia. Schauer distingue fra l’imparare dal passato, e l’obbedire al passato. Se io faccio bollire l’uovo per sei minuti e mi rendo conto che viene fuori esattamente come voglio, la volta successiva mi comporterò allo stesso modo. Ma non perché l’ho già fatto una volta ma perché la regola dei sei minuti è giusta e questo l’ho scoperto in precedenza. Se seguo la regola non lo faccio perché obbedisco ad un precedente. Obbedisco alla regola che ho appreso dall’esperienza. Ma il precedente funziona in modo diverso. Se devo giudicare della legittimità della legge sull’aborto e c’è una sentenza della Corte Suprema (Roe v. Wade) che dice che la pratica dell’aborto è un diritto che non può essere limitato nel primo trimestre e che può essere limitato ma con alcune eccezioni nel secondo trimestre, non mi chiederò se l’aborto sia contrario o conforme a costituzione, ma giudicherò applicando il precedente: il caso deciso in precedenza. Anzi il precedente opera pienamente quando viene seguito sebbene il giudice sia convinto che non si tratti della conclusione più giusta da un punto di vista giuridico. In questo senso obbedire al precedente e imparare dall’esperienza sono processi radicalmente diversi. Nel seguire il precedente non si pone in essere un ragionamento – logico. Ma si ragiona in base ad un argomento di autorità (per questo Bentham era profondamente avverso al vincolo del precedente). Vi sono due tipi di vincolo, almeno nei sistemi di common law: un vincolo di tipo gerarchico – per cui le corti inferiori devono seguire la giurisprudenza delle corti superiori (ad esempio, i tribunali civili o le corti d’appello quelle della corte di cassazione), ed un vincolo di tipo orizzontale: si deve seguire la pronuncia dello stesso tribunale, avvenuta in passato ma su casi simili o analoghi (stare decisis). Mentre nel primo caso il vincolo del precedente è una forma di vincolo gerarchico (devo obbedire agli ordini secondo la catena di comando), nel secondo caso il vincolo del precedente ha una natura istituzionale. Devo seguire l’indirizzo giurisprudenziale del tribunale di cui faccio parte sebbene magari dissenta nel contenuto. Il vincolo del precedente pertanto gioca un ruolo nelle decisioni della giurisprudenza ma non è un ruolo di tipo logico (io argomento sulla base di inferenze o analogie): ma di tipo istituzionale. L’obiettivo è quello di garantire coerenza ed uniformità nel diritto per consentire prevedibilità e certezza delle regole e dei comportamenti. La stabilità è un valore in sé, sebbene sia funzionale anche ad altro. Come affermava il giudice americano Cardozo, se si dovessero ogni volta riaprire questioni già risolte la giurisprudenza disperderebbe: sicché la regola dello stare decisis è funzionale non solo alla coerenza complessiva del sistema ma anche alla speditezza del giudizio (se non do nulla per deciso non potrò affrontare con maggiore attenzione gli aspetti ancora problematici). Come si identifica un precedente? Si deve guardare ai fatti rilevanti, alla regola ovvero alla ratio che sta dietro il caso precedente. Questo è quello che Schauer ci dice: Gli argomenti sulla base del precedente sono prominenti nel ragionamento giuridico. Ma cos’è esattamente un precedente? Il precedente è una decisione di un tribunale che ha un particolare significato giuridico. Il significato risiede nel fatto che la decisione della corte ha un’autorità non solo teorica ma pratica sul contenuto del diritto. Una decisione ha un’autorità teoretica se le circostanze al ricorrere delle quali è stata presa (l’identità del decisore, degli avvocati, delle prove disponibili) offre buoni argomenti per ritenere che la decisione sia corretta dal punto di vista giuridico. Se vi sono buone ragioni per ritenere che il caso precedente è stato deciso in modo corretto, e se i fatti del caso successivo presentano delle somiglianze rilevanti al caso precedente, allora ci sono buone ragioni per ritenere che il caso successivo possa essere deciso correttamente seguendo la medesima conclusione. In alcuni sistemi giuridici le decisioni precedenti sono ufficialmente trattate in questo modo: i casi sono citati negli atti di giudizio, ma le corti possono giustificare le proprie conclusioni facendo rinvio ad altre fonti normative – tipo la legge e non dunque semplicemente alla regola del precedente. Ne segue che la decisione del primo caso non è mai la giustificazione ultima del secondo caso, ne è al più un supporto o un ausilio. Al contrario, i precedenti hanno autorità pragmatica perché essi sono considerati parte del diritto. Semplificando: il diritto è ciò che ha detto la corte perché lo ha detto la corte. Siccome le corti sono vincolate ad applicare la legge e siccome le decisioni precedenti costituiscono legge allora le corti successive sono vincolate dalle decisioni dei casi precedenti. Questa è la dottrina del precedente o stare decisis. LAMOND: critiche a Schauer La più importante limitazione a questa dottrina è che la decisione di un caso precedente è vincolante per un caso successivo nella misura in cui i fatti relativi al caso successivo sono “eguali” a quelli del caso precedente. Se i due casi sono uguali allora la dottrina del precedente si applica, se sono diversi allora la dottrina non si applica. Ciò che rende due casi uguali è tuttavia oggetto di enormi discussioni, e va alle radici della questione del precedente nel ragionamento giuridico. Dire che due casi sono eguali non significa dire che i due casi siano identici. E’ ovvio due situazioni non possono essere identiche sotto ogni aspetto. E di certo differiscono per il momento o il luogo in cui si sono verificate. Nella pratica le differenze possono essere molto più pronunciate di questo e tuttavia da un punto di vista giuridico essere insignificanti – non esistenti. Per questo motivo i giuristi parlano dei casi simili “sotto tutti gli aspetti rilevanti”: cosa che naturalmente ci induce a chiedere cosa si intenda per essere eguali in modo rilevante. Questo problema è più semplice da comprendere se un numero distinto di aspetti di un caso viene preso in considerazione. La maggior parte dei casi non crea predenti: essi ruotano intorno a ciò che è successo, chi è stato, quando, nei confronti di chi. Le parti in questi casi concordano sulla legge da applicare ma non concordano su ciò che è successo. In altri casi vi può essere una disputa sulla legge applicabile – dove una parte sostiene che i fatti non contestati portano a certe conseguenze giuridiche, in suo favore; e l’altra che sostiene – in presenza dei medesimi fatti, una tesi opposta (naturalmente vi sono casi in cui il diverbio è sia sui fatti che sul diritto). La dottrina del precedente si applica solo dove c’è una disputa sul diritto. Il precedente è una decisione sul diritto in un caso presentato di fronte ad una corte (o ad altro collegio con simili funzioni). In modo paradigmatico nei sistemi di common law la sentenza viene resa in un giudizio che ha i seguenti cinque elementi: : a. La ricostruzione dei fatti del caso, e cioè un racconto di ciò che è successo (facts); b. L’identificazione della questione di diritto – la questione di diritto che è dibattuta – che si chiede alla corte di risolvere (issue of law); c. Il ragionamento (reasoning) sul modo corretto di arrivare alla soluzione del caso; d. La regola che risolve la questione (ruling), ad esempio che in queste circostanze il convenuto è stato inadempiente, o non ha alcun dovere di cura nei confronti dell’attore, o detiene il bene a titolo di comodato, etc…; e. 2.2. La conclusione del caso, e cioè quale parte ha avuto ragione, cosa che segue da (d). Modi di guardare al precedente Vi sono tre modi di guardare al precedente: (1) come ad un modo di porre in essere delle regole; (2) come un modo di applicare principi sottostanti alle regole; (3) come una decisione che bilancia fra argomenti. 2.2.1 Il precedente come un modo di dettare regole Secondo il primo approccio i precedenti funzionano ponendo in essere regole che poi le corti successive sono obbligate ad applicare ai casi che si presenteranno (per alcune varianti su questo primo modo di vedere, cfr. Raz 1979; MacCormick 1978 (especially 82–6, 213–28) and 1987; Alexander 1989; and Schauer 1989, 469–71 and 1991, 174– 87.[7]) La corte decide un caso particolare, ma poi formula una regola generale che si applica ai casi successive. Secondo questo modo di vedere il precedente funziona proprio come una legge del Parlamento. La sentenza della Corte di Cassazione che ha deciso che la violazione degli interessi legittimi è risarcibile (cambiando così un pluridecennale orientamento) funziona come una legge. A favore di questa interpretazione sta la distinzione fra ratio decidendi, e cioè la regola di diritto che fonda la decisione (holding, ruling) e il cd. Obider dicta, e cioè quell’insieme di affermazioni e punti di vista espressi nella decisione che non sono tuttavia vincolanti sulle decisioni future. Secondo questo punto di vista, il precedente sarebbe la regola contenuta nella ratio. Le critiche a questo primo modo di vedere segnalano che esso non coglie accuratamente le caratteristiche della prassi giudiziaria. (cfr. Ad esempio, Moore 1987, 185–7). Due questioni in particolare si pongono: (i) la forma in cui il giudizio viene reso; e (ii) la pratica di distinguere. 2.2.1.1 La forma del giudizio Siccome la regola del precedente è desunta dalla ratio decidendi – e cioè dalla regola formulata dalla decisione antecedente, occorre chiedersi cosa succede qualora tale ratio non venga formulata in termini espliciti. (Cfr. Perry 1987, 235–7; Schauer 1989, 455; Simpson 1973, 372; Moore 1987, 185–6; Stone 1985, 123–9.) Secondo alcuni autori la vera differenza fra il vincolo del precedente ed il vincolo di legge è di natura più che altro formale. Mentre la regola del precedente è vaga – nel senso che lascia un margine di flessibilità nelle corti successive di stabilire quale sia la regola da applicare – nel caso delle leggi, le corti sono obbligate a seguire certi criteri interpretativi (analogia legis, criteri di risoluzione delle antinomie). Ma, a detta di Schauer, la differenza non va esagerata. Essa consiste nel fatto che la regola fissata dal precedente è più vaga di quella fissata dalla legge, ma non che il precedente non detta regole giuridiche. 2.1.2 La pratica di distinguere. Il vincolo del precedente funziona anche quando la corte successiva arriva a conclusioni diverse da quelle della Corte che ha emesso il precedente, ma lo fa non perché dissente con la decisione precedente o perchè più o meno esplicitamente la abiura, ma semplicemente che disegna il caso presente sottolineando certe differenze rispetto al caso precedente. Attraverso la puntualizzazione di differenze la regola dettata dal precedente La pratica del distinguere consiste in modo grossolano nel trovare delle eccezioni alla regola fissata dal precedente. Cosa che implica che la regola non viene abiurata ma che il caso in questione presenta delle particolarità che legittimano un discostamento dalla decisione precedente. 2.2 Precedenti come applicazioni di principi sottostanti. Un modo diverso di guardare al vincolo del precedente è quello di ritenere che il vincolo non deriva dalla decisione medesima (dal ruling) ma piuttosto dalla motivazione della precedente decisione. In altri termini, la regola del precedente non vincola in quanto tale ma solo in quanto essa è posta alla base della motivazione – giustificazione della decisione (Cfr. Perry 1987, esp. 234ff e Moore 1987). Questa tesi non convince Schauer il quale sottolinea che la forza del precedente è simile alla forza dell’autorità – e cioè risiede in una specie di opacità del vincolo (a prescindere dalle ragioni che vi stanno sotto). 2.3. Quali sono le ragioni che stanno alla base dell’utilizzo del precedente o del vincolo del precedente? La questione va distinta in due parti: (a) perché considerare la giurisprudenza come parte integrante del diritto; e (b) perché esigere che corti successive seguano decisioni sbagliate prese in precedenza fa altre corti? Gli argomenti più convincenti sono i seguenti: i) Coerenza (consistency) ii) Aspettative iii) Replicabilità (replicability) iv) La necessità di normazione (For general discussions of the justification for precedent, see: Schauer 1987, 595–602, Golding 1984, 98–100, Benditt 1987, 89–93.) 2.3.1 Coerenza (Consistency) L’argomento della coerenza è connesso agli argomenti relativi alla giustizia formale, e cioè al trattare casi che sono uguali (negli aspetti rilevanti) in modo eguale. Sarebbe incoerente trattare tali casi in modo differente. L’argomento sostanziale che sta alla base di quello formale è il principio di eguaglianza. Il precedente è una forma particolare di applicazione del principio – in senso diacronico oltre che sincronico. L’auspicio per la coerenza del sistema tuttavia presuppone che il sistema nel suo complesso sia corretto. Se un sistema è complessivamente legittimo da un punto di vista morale e avanza un’autorità legittima sui suoi membri allora è incoerente trattare qualcuno meno o più favorevolmente di un altro individuo la cui situazione – da un punto di vista morale – è identica a quella del primo. Questo principio, tuttavia, sostiene Schauer non spiega perché la decisione precedente deve essere seguita anche se sbagliata (strong stare decisis). Il principio di eguaglianza non esige la ripetizione dell’errore: se il primo caso è stato deciso in modo scorretto, è davvero sufficiente invocare la coerenza complessiva del sistema per concludere che anche il secondo caso va deciso allo stesso modo? E cioè in modo parimenti scorretto? Al contrario, l’argomento dell’eguaglianza funziona quando la corte nel caso originario si è trovata ad affrontare una questione la cui conclusione era indeterminate. E cioè quando conclusioni diverse erano possibili alla luce dei possibili argomenti giuridici. Questo può accadere quando più argomenti – argomenti opposti sono entrambi egualmente sostenuti da ragioni, ovvero se sono espressione di valori incommensurabili opposti. In alcuni casi il diritto ha una norma di chiusura per risolvere la questione (ad esempio, se le prove raccolte non sono sufficienti si dovrà decidere a favore dell’imputato o del convenuto), ma in altri casi non vi sono regole adeguate per raggiungere un unico risultato. Si pensi all’acquisto in buona fede di beni rubati: sotto alcune giurisdizioni l’acquirente ha titolo legittimo sui beni, in altre (ad esempio secondo la Common law) non acquista alcun titolo. Se non ci sono norme in materia di risoluzione di conflitti sulla legge applicabile, allora una conclusione sarà pari ad un’altra. Qui, l’argomento a favore del precedente – sulla base della coerenza complessiva – ha una qualche forza – ben diversa dal caso in cui il precedente è stato deciso in modo sbagliato. 2.3.2 Tutela delle aspettative (Expectations) Un altro comune argomento a favore del precedente è quello della tutela delle aspettative. Se un’istituzione ha risolto la questione in un certo modo nel passato, allora si crea un’aspettativa che lo stesso atteggiamento si ripeterà in futuro: un’aspettativa sulla base della quale la gente organizza le proprie vite e gode di qualche forma di controllo sulle proprie situazioni. Quindi vi sono buone ragioni per un’istituzione di seguire il proprio stesso orientamento anche qualora questo sia errato. Il problema fondamentale con questo tipo di ragionamento è che esso soffre di una qualche forma di circolarità. Vero è che i sistemi legali che seguono i precedenti creano l’aspettativa che un medesimo comportamento verrà tenuto in futuro, ma la legge tutela solo le aspettative legittime. Se ad esempio un comune per prassi concede licenze edilizie a chiunque lo richieda (come è spesso avvenuto nel Sud) sebbene manchino i requisiti di legge, l’aspettativa che verrà ingenerata sarà tuttavia insufficiente a legittimare che la prassi sbagliata – in questo caso illegale – venga mantenuta. In altri termini la tutela delle aspettative non è un argomento che giustifica uno stare decisis forte, e cioè la persistenza nei propri errori da parte delle istituzioni. 2.3.3 Replicabilità (replicability). Gli argomenti dell’eguaglianza e della tutela delle aspettative presuppongono che coloro che decidono possano accertare i meriti del caso correttamente. Ma il diritto funziona in condizioni non ideali dove i decisori possono commettere errori. In pratica il risultato di un caso può essere incerto non solo perché le conclusioni sono razionalmente indeterminate, ma anche perché i decisori sono fallibili. Sulla base di queste premesse, la pratica del precedente nel diritto possiede un numero di vantaggi consentendo che le decisioni istituzionali divengano replicabili (see Eisenberg 1988, 10–12, 23–4, whose coinage it is; and Schauer 1987, 597–8). Che una decisione sia replicabile significa che è possibile per altri formulare un giudizio informato sulla probabilità di un certo risultato, alla luce del materiale giuridico rilevante, dei canoni interpretativi utilizzati nel sistema, ed una certa dimestichezza con la cultura di sfondo di riferimento. Replicabilità significa che le decisioni sono più prevedibili di quanto non sarebbero se fossero prese de novo ogni volta. Tutto ciò consente agli individui di formulare piani conformi al diritto e quindi di essere guidati dal diritto. La replicabilità costituisce sia un argomento per trattare i casi precedenti come diritto e sia per la dottrina dello stare decisis. Tutto il resto essendo eguale, è meglio per il diritto che sia prevedibile che non sia prevedibile. Si noti tuttavia, che questo argomento non supporta la dottrina forte dello stare decisis che si trova in molte giurisdizioni di Common Law. It should be noted, however, that such a rationale does not necessarily support as strong a doctrine of precedent as that found in many Common Law jurisdictions. Il desiderio di prevedibilità deve essere pesato e bilanciato con la desiderabilità morale della regola in questione. Questo implica che (a) che le giurisdizioni inferiori devono essere autorizzata a discostarsi dai precedenti delle giurisdizioni superiori qualora le regole siano chiaramente sbagliata dal punto di vista morale / giuridico; (b) le giurisdizioni medesime di quelle che hanno emesso la prima decisioni devono avere la medesima libertà di cui (a). 2.3.4 Attività Legislativa (Law-making) L’ultimo argomento a favore della dottrina del precedente è che è desiderabile dare alle corti il potere di fare leggi. L’idea è che è degno di pregio avere un meccanismo istituzionale che consenta alle corti di migliorare e colmare le lacune del diritto (Hart 1994, 135–6; Raz 1979, 194–201). Il presupposto che sta dietro questa giustificazione è che il diritto è talvolta incompleto e vago (e dunque bisognoso di essere specificato), ovvero che esso è erroneo e vada corretto. Secondo questo approccio le corti funzionano come legislatori delegati: hanno poteri limitati di fare leggi entro i confini di una certa dottrina. In realtà l’argomento del potere legislativo delle corti non è necessariamente a favore della dottrina del precedente. La dottrina del precedente trova le migliori giustificazioni sulla base dell’argomento dell’eguaglianza e quello della replicabilità. Infatti, se la giurisprudenza ha risolto qualche indeterminatezza della legge in maniera accettabile nel passato, allora il precedente farà in modo che le successive parti processuali siano tratta in modo eguale ai loro predecessori. Se poi l’applicazione della legge è indeterminata, a causa di valori contrastanti in gioco nella decisione, allora è desiderabile risolvere la questione così da rendere il diritto più replicabile in futuro e dunque più prevedibile. Al contrario, se l’argomento a sostegno dell’attività creativa della giurisprudenza è che le corti possono migliorare il diritto, allora l’argomento sosterrà la facoltà delle corti di discostarsi dai precedenti, piuttosto che sostenere il precedente. E tuttavia, la necessità di riconoscere il potere di discostarsi dai precedenti deriva dalla circostanza che le decisioni precedenti sono vincolanti anche se errate. Altrimenti le corti successive semplicemente disattenderebbero le regole dettate da pronunce erronee proprio per la loro erroneità. Quindi l’argomento dell’attività legislativa (delle corti) in quanto distinto dall’argomento della replicabilità e da quello dell’eguaglianza, è un argomento a favore del potere del corti di discostarsi e travolgere il precedente, piuttosto che un argomento a favore dello stare decisis. In conclusione, sia l’eguaglianza che la replicabilità offrono argomenti a sostegno della dottrina che le sentenze siano fonte normativa. Il valore della replicabilità delle decisioni giudiziarie sostiene anche la dottrina dello stare decisis, la dottrina cioè che le corti successive sono vincolate da precedenti, seppure errati. Questo però conduce alla necessità di riconoscere alle corti anche una funzione correttiva del diritto, e dunque anche il potere di abrogare le decisioni precedente decise in modo scorretto. 3 ANALOGIA Nel ragionamento giuridico l’argomento analogico sostiene che un caso deve essere risolto in un certo modo perché questo è il modo in cui è stato risolto un caso simile. Gli argomenti a favore dell’analogia completano gli argomenti a favore del precedente in due modi: (i) essi sono utilizzati quando i fatti del caso presente non rientrano pienamente nella ratio di alcun precedente; e (ii) essi sono utilizzati quando i fatti del caso presente rientrano nella ratio del caso precedente, ma per distinguere il caso presente dal precedente. La forza dell’analogia è diversa dal precedente. Un precedente da cui non si possono fare delle differenze deve essere seguito a meno che la corte non abbia il potere di abrogare la decisione precedente. Al contrario gli argomenti per analogia variano nella loro forza: da analogie molto “strette” – che hanno una forza rilevante per una determinata decisione, ad analogie più “remote” che sono molto più deboli. Le analogie non vincolano: esse vanno considerate come ragioni fra tante per raggiungere certi risultati. Che un’analogia è rifiutata in un caso non preclude che venga utilizzata in un caso diverso. Le analogie, come i precedenti, nascono nel contesto della dottrina. Le analogie si pongono o in relazione a casi simili o a dottrine simili. Bruciare una bandiera è analogo a gridare in una piazza? Un coltello è analogo ad una pistola nella definizione di armi? La dottrina della duress è analoga a quella della provocation? Non si può essere analoghi in astratto, ma in relazione ad un contesto legale concreto. Due questioni si pongono in relazione al ragionamento analogico. Primo, in base a quale processo il decidente individua le caratteristiche comuni fra il caso presente ed il caso analogo? Secondo, che tipo di forza giustificativa deve avere la caratterizzazione comune? Le questioni sono connesse: ed infatti come non esistono casi identici così è raro trovare casi che non hanno alcuna caratteristica in comune. Con la conseguenza che la selezione dei tratti comuni rilevanti – effettuata sulla base delle ragioni che giustificano la scelta – diventa centrale. I fatti del caso non rientrano nella regola di alcun precedente sicché non c’è vincolo per il giudice. E tuttavia gli argomenti di una decisione precedente si possono far valere anche nei casi successivi e dunque offrire un argomento per l’analogia. Facciamo il caso della regola secondo cui qualora un individuo si finga il marito di una donna e poi risulta non esserlo il consenso al rapporto non si presume e dunque si presume vi sia un episodio di violenza. Tale regola si applica altresì alla falsa simulazione di essere il fidanzato? Qual è la giustificazione della prima regola? Il presupposto che vi sia intimità fra i coniugi che fa presumere il consenso. La regola si deve dunque applicare analogicamente anche ai fidanzati visto che nel caso dei fidanzati il presupposto è lo stesso. Se invece la ratio è quella di evitare l’adulterio allora l’analogia non si applica. Lamond nega che analogia e pratica del distinguish e cioè del prendere le distanze dal precedente sono simili. In realtà mentre la forza del precedente risiede nella regola la forza dell’analogia risiede prevalentemente in qualcos’altro. Cosa? 3.1 Principi Teoria piuttosto diffusa è che l’analogia si fondi sui principi che sottostanno alcune decisioni esistenti (e.g. MacCormick 1978, 152–94; Eisenberg 1988, 83–96; Sunstein 1993). Un certo numero di casi possono essere esaminati per stabilire quali principi – o quale gruppo di principi coerenti – spieghi e giustifichi quelle decisioni in un processo simile all’equilibrio riflessivo. Il processo è simile all’equilibrio riflessivo perché i casi esaminati sono o immuni da revisioni ovvero molto difficili da rivedere. Così i principi devono mappare i casi decisi in modo piuttosto preciso ovvero si possono discostare da essi in misura minima. Se il principio identificato attraverso questo procedimento si applica al caso presente, allora ciò costituisce una buona ragione a sostegno del risulto sostenuto dal principio. La critica che viene mossa all’idea che l’essenza del ragionamento analogico risiede nell’estensione del principio è che lo stesso principio può applicarsi a casi affatto diversi. Sicché è possibile che le conclusioni di un caso vengano raggiunte sulla base di principi ma questo non ha nulla a che vedere con l’analogia. 3.2 Ragioni L’approccio che si fonda sulle ragioni per spiegare il ragionamento analogico mette l’attenzione sulle giustificazioni per il caso analogo (per due modelli diversi, cfr. Raz 1979, 201–6 e Brewer 1996). Esso considera la misura in cui il ragionamento della decisione nel primo caso si applichi anche al caso presente. Prendiamo il caso della simulazione del marito nella legge sullo stupro. Per capire se le medesime conclusioni si applicano anche al fidanzato dobbiamo guardare alla ratio della decisione nel primo caso. Non è detto che vi sia un unico principio alla base di tale argomentazione, ma si potrebbe trattare di una serie di fattori che rafforzano la decisione. 4. La giustificazione del ragionamento analogico Perché il diritto consente il ricorso al ragionamento analogico anziché decidere i nuovi casi nel merito come se nessuna precedente decisione fosse stata presa? Nell’ordinaria deliberazione morale, le analogie sono utilizzate per argomentare che una questione oggetto di discussione è indistinguibile da un’altra situazione in cui il merito è relativamente chiaro. Rimangono tre opzioni: (a) che il nuovo caso è effettivamente indistinguibile dal precedente in quanto la medesima giustificazione si applica ad entrambi; (b) che il caso è distinguibile o (c) che il caso non è distinguibile ma che tuttavia sulla base di una riflessione più accurata il caso precedente era un errore. (Naturalmente anche qualora i casi sono distinguibili la riflessione può indurre a ritenere che la prima soluzione non era corretta) Di conseguenza le analogie sono utili strumenti euristici per affinare ed approfondire la riflessione nel merito. Nel diritto, al contrario, le analogie hanno un peso maggiore sul merito del caso. L’approccio delle corti è complesso. Alcune decisioni e dottrine vengono ritenute sbagliate e non hanno alcuna potenza analogica. Altre dottrine possono essere ritenute imperfette – non totalmente corrette – ma tuttavia mantengono una forza analogica. Altre possono essere ritenute corrette, ed esse possono fornire ulteriori argomenti per la conclusione del nuovo caso. Vi sono parecchi possibili benefici indiretti del ragionamento analogico, come l’esporre i giudici ad una varietà di fatti maggiore di quella presente nel caso presente, come il far prendere in considerazione le opinioni di altri giudici e l’esercitare una certa pressione alla conservazione su decisori individuali (Sherwin 1999). Ma esiste qualche giustificazione superiore del ragionamento analogico? Come i precedente, le analogie non si possono giustificare facendo riferimento alla tutela delle aspettative. Se vi è l’aspettativa che le analogie verranno seguite essa dipende da qualche ragione indipendente che giustifica l’analogia e non dalla semplice aspettativa. La coerenza (consistency) fornisce la giustificazione per un utilizzo limitato del ragionamento analogico.. Se un caso precedente ha risolto alcune indeterminatezze nell’applicazione della legge, e se la giustificazione del caso precedente è parimenti applicabile al caso presente, allora sarebbe incoerente decidere il caso presente in modo diverso. La giustificazione più forte del ragionamento analogico risiede nel valore della replicabilità. Questo valore è di solito formulato sotto l’etichetta dell’integrità del diritto (‘coherence’ in the law) (MacCormick 1978, 153, 187–8; Sunstein 1993, 778–9; see also Raz 1979, 204). Gli argomenti a favore dell’integrità del sistema di solito segnalano il valore strumentale. Ciò è connesso alla replicabilità delle decisioni.. Vi sono due caratteristiche importanti delle decisioni giuridiche. La prima è la natura frammentaria del materiale giuridico. La seconda è data dalla presenza di una pluralità di organi che emettono le decisioni. Il materiale giuridico è frammentario in due sensi: a) Il materiale giuridico è frutto di mani differenti in tempi differenti e con visioni differenti delle cose; b) Alcune branche del diritto sono il risultato più di alcune mani e di alcuni periodi che altri. Questo implica che la dogmatica giuridica possiede una coerenza globale piuttosto sottile, ma una coerenza per materia (locale) più pronunciata. Anche il pluralismo dei decidenti ha una duplice caratteristica: a) Si tratta di individui differenti b) Tali individui non condividono la stessa visione delle cose. La natura frammentaria del materiale giuridico è più evidente di fronte ad una questione nuova. Il ragionamento analogico contribuisce a rendere le soluzioni dei casi più prevedibili, dando peso a decisioni esistenti e alla dogmatica esistente. Tuttavia questo avviene solo se si assume che nonostante la natura frammentaria del materiale giuridico vi siano dei valori e dei principi comunemente accettati. In altri termini, il ragionamento analogico funziona solo se sullo sfondo si presume un certo (alto) grado di accordo su alcuni valori. L’uso delle analogie nel diritto serve dunque a compensare la indeterminazione che deriva dalla natura frammentaria e dal pluralismo dei decidenti. L’analogia viene fatta valere perché il questo modo si rende il diritto più replicabile e dunque dà agli avvocati la possibilità di predire le conclusioni di casi nuovi. Si tratta naturalmente di un valore relativo, che può essere superato da altri valori, qualora sia più opportuno distinguere piuttosto che assimilare. BILANCIAMENTO E PONDERAZIONE: regole e principi: Si distinguono rispetto a due parametri: la loro struttura e la diversa modalità di applicazione. La differenza fra regole e principi attiene non alla struttura dell’enunciato ma al significato normativo. Questo significato che uno stesso enunciato può avere il valore di una regola: “tutti i ladri devono essere puniti”, ma può anche essere interpretato come un principio nella forma “l’ordinamento garantisce la proprietà privata”. Principi generali del diritto: norme implicite ricavate dall’intero sistema. Sul presupposto che il legislatore sia razionale. Principi riassuntivi e non costitutivi di un sistema : conservazione dei documenti normativi, della separazione dei poteri, di legalità per l’amministrazione. Principi supremi: normogenetici. Generano tutte le altre norme (Dworkin). L’effetto che producono sulle altre norme è il cd. effetto di irradiazione. DAL PUNTO DELLA STRUTTURA: Le regole comandano, autorizzano, vietano o permettono qualcosa in modo definitivo. Le regole vengono definite precetti definitivi. I principi sono valori da tutelare, obiettivi da conseguire nonché la ragione propulsiva per la ricerca di determinati effetti. Precetto di ottimizzazione: mandato per la realizzazione di un certo fine. BILANCIAMENTO (pp. 59 e ss. Trujillo): Collisione nel caso concreto Prevalenza nel caso concreto Il Bilanciamento sfugge ad un controllo pubblico razionale? Alexy offre dei criteri razionali. 1 “quanto più alto è il grado di non adempimento o di lesione di un principio, tanto più alta deve essere l’importanza attribuita all’adempimento di un altro principio”. Verifica delle possibilità fattuali di realizzazione di un principio: a) Adeguatezza: si può pregiudicare un principio solo per realizzarne un altro. b) Necessità: fra due mezzi che realizzano un principio va scelto quello che lede in modo minore il principio concorrente. Proporzionalità: “quanto maggiore è il grado di non realizzazione o di violazione di un certo principio, tanto maggiore deve essere l’importanza associata alla realizzazione del principio concorrente”. Corte Costituzionale Sentenza 6 febbraio 2007, n. 26 Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento – principio del giusto processo – incompatibilità – conseguenze – incostituzionalità della inappellabilità [art. 593 c.p.p., art. 111 Cost., L. 46/2006] La legge 46/2006 è costituzionalmente illegittima, perché in contrasto con il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost., nella parte in cui vieta al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento; l’alterazione del trattamento paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame, infatti, non può essere giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalità, sulla base delle rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla radice della riforma. […] Considerato in diritto 1. – La Corte d’appello di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, salvo che ricorrano le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, cod. proc. pen. – ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado – e sempre che tali prove siano decisive. Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata risulterebbe incompatibile con gli artt. 3 e 24 Cost., giacché – consentendo all’imputato di appellare contro le sentenze di condanna, senza accordare al pubblico ministero lo speculare potere di proporre appello contro le sentenze assolutorie, se non in una ipotesi talmente circoscritta da apparire «poco più che teorica» – porrebbe l’imputato in «una posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti la collettività», i cui interessi vengono tutelati dal dirittodovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, impedendo, al tempo stesso, una esplicazione adeguata di tale tutela. Verrebbe violato, inoltre, il precetto dell’art. 111 Cost., in forza del quale ogni processo deve svolgersi «nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale», in quanto la norma denunciata non consentirebbe all’accusa di far valere le sue ragioni con strumenti simmetrici a quelli di cui dispone la difesa. La medesima norma eluderebbe, da ultimo, il vincolo posto dal principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), cui dovrebbe ritenersi connaturata la previsione di un secondo grado di giudizio di merito anche a favore del pubblico ministero. 4. – In riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., la questione è fondata. Giova premettere come, secondo quanto reiteratamente rilevato da questa Corte, il secondo comma dell’art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione) – nello stabilire che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità» – abbia conferito veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, «pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali» (ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). Anche dopo la novella costituzionale, resta pertanto pienamente valida l’affermazione – costante nella giurisprudenza anteriore della Corte (ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del 1992) – secondo la quale, nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: potendo una disparità di trattamento «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia» (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). Alla luce di tale consolidato indirizzo, le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici – essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di libertà personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna – impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria – tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) – sono invece compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: a) e, cioè, che esse, per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; b) e, per un altro verso, risultino comunque contenute – anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) – entro i limiti della ragionevolezza. Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparità e l’ampiezza dello “scalino” da essa creato tra le posizioni delle parti: mirando segnatamente ad acclarare l’adeguatezza della ratio e la proporzionalità dell’ampiezza di tale “scalino” rispetto a quest’ultima. Siffatta verifica non può essere pretermessa, se non a prezzo di un sostanziale svuotamento, in parte qua, della clausola della parità delle parti: non potendosi ipotizzare, ad esempio, che la posizione di vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l’organo dell’accusa nella fase delle indagini preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi – posizione di vantaggio che riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche al carattere “invasivo” e “coercitivo” di determinati mezzi d’indagine – abiliti di per sé sola il legislatore, in nome di un’esigenza di “riequilibrio”, a qualsiasi deminutio, anche la più radicale, dei poteri del pubblico ministero nell’ambito di tutte le successive fasi. Una simile impostazione – negando, di fatto, l’esistenza di limiti di compatibilità costituzionale alla distribuzione asimmetrica delle facoltà processuali tra i contendenti – priverebbe di ogni concreta valenza la clausola di parità: risultato, questo, tanto meno accettabile a fronte della sua attuale assunzione ad espresso ed autonomo precetto costituzionale. 5. – All’indicata chiave di lettura si è, in effetti, costantemente ispirata la giurisprudenza di questa Corte relativa alla tematica – che viene qui specificamente in rilievo – delle possibili dissimmetrie a sfavore del pubblico ministero in punto di poteri di impugnazione. 5.1. – Nello scrutinare le questioni di legittimità costituzionale sollevate a tal proposito, questa Corte ha sempre recepito come corretta la premessa fondante di esse: che, cioè, la disciplina delle impugnazioni, quale capitolo della complessiva regolamentazione del processo, si collochi anch’essa – sia pure con le peculiarità che poco oltre si evidenzieranno – entro l’ambito applicativo del principio di parità delle parti; premessa, questa, la cui validità deve essere confermata. Il principio in parola non è infatti suscettibile di una interpretazione riduttiva, quale quella che – facendo leva, in particolare, sulla connessione proposta dall’art. 111, secondo comma, Cost. tra parità delle parti, contraddittorio, imparzialità e terzietà del giudice – intendesse negare alla parità delle parti il ruolo di connotato essenziale dell’intero processo, per concepirla invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e ciò al fine di desumerne che l’unico mezzo d’impugnazione, del quale le parti dovrebbero indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il ricorso per cassazione per violazione di legge, previsto dall’art. 111, settimo comma, Cost.. Una simile ricostruzione finirebbe difatti per attribuire al principio di parità delle parti, in luogo del significato di riaffermazione processuale dei principi di cui all’art. 3 Cost., una antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno plausibile a fronte del tenore letterale della norma costituzionale, nella quale la parità delle parti è enunciata come regola generalissima, riferita indistintamente ad «ogni processo» e senza alcuna limitazione a determinati momenti o aspetti dell’iter processuale. Né può trarsi argomento, in contrario, dallo specifico risalto che il legislatore costituzionale ha inteso assegnare al valore del contraddittorio nel processo penale, attestato dalle puntuali “direttive” al riguardo impartite nel quarto e nel quinto comma dell’art. 111 Cost.: non potendosi ritenere, anche sul piano logico, che tale distinto valore – anziché affiancarsi, rafforzandolo, al principio di parità – sia destinato ad esplicare un ruolo limitativo del medesimo; così da legittimare l’idea – palesemente inaccettabile rispetto ad altri tipi di processo, quale, ad esempio, il processo civile – per cui, nel processo penale, la clausola di parità opererebbe solo nei confini del procedimento di formazione della prova. 5.2. – Ciò posto, questa Corte ha ribadito che, anche per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni, parità delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione di poteri e facoltà. A tal proposito – sulla premessa che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 280 del 1995; ordinanza n. 316 del 2002) – questa Corte ha in particolare rilevato come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato. Il potere di impugnazione della parte pubblica trova, infatti, copertura costituzionale unicamente entro i limiti di operatività del principio di parità delle parti – “flessibile” in rapporto alle rationes dianzi evidenziate – non potendo essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost. (sentenza n. 280 del 1995; ordinanze n. 165 del 2003, n. 347 del 2002, n. 421 del 2001 e n. 426 del 1998); mentre il potere di impugnazione dell’imputato viene a correlarsi anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso (sentenza n. 98 del 1994). Ciò non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbano comunque rappresentare – ai fini del rispetto del principio di parità – soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità dianzi lumeggiati: non potendosi ritenere, anche su questo versante – se non a prezzo di svuotare di significato l’enunciazione di detto principio con riferimento al processo penale – che l’evidenziata maggiore “flessibilità” della disciplina del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni normative in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalità. 5.3. – In simile ottica, questa Corte si è quindi ripetutamente pronunciata – tanto prima che dopo la modifica dell’art. 111 Cost. – nel senso della compatibilità con il principio di parità delle parti della norma che escludeva l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato, anche nella sola forma dell’appello incidentale, salvo si trattasse di sentenza modificativa del titolo del reato (artt. 443, comma 3, e 595 cod. proc. pen.). Al riguardo, si è infatti osservato come la soppressione del potere della parte pubblica di impugnare nel merito decisioni che segnavano «comunque la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l’azione intrapresa» – essendo lo scarto tra la richiesta dell’accusa e la sentenza sottratta all’appello non di ordine «qualitativo», ma meramente «quantitativo» – risultasse razionalmente giustificabile alla luce dell’«obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta» (sentenza n. 363 del 1991; ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del 1991): rito che – sia pure per scelta esclusiva dell’imputato, dopo le modifiche attuate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 – «implica una decisione fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata, fuori delle garanzie del contraddittorio» (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001). Tali caratteristiche del giudizio abbreviato – che conferiscono un particolare risalto alla dissimmetria di segno opposto, riscontrabile a favore del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, le cui risultanze sono direttamente utilizzabili ai fini della decisione (al riguardo, si veda la sentenza n. 98 del 1994) – valevano, dunque, a rendere la scelta normativa in discorso «incensurabile sul piano della ragionevolezza in quanto proporzionata al fine preminente della speditezza del processo» (sentenza n. 363 del 1991). Fine al quale non avrebbe potuto essere invece sacrificato – per la ragione dianzi indicata – lo speculare potere di impugnazione dell’imputato (sentenza n. 98 del 1994). 6. – Ben diversa è la situazione nel caso oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità. 6.1. – Al di sotto dell’assimilazione formale delle parti – «il pubblico ministero e l’imputato possono appellare contro le sentenze di condanna» (ergo, non contro quelle di proscioglimento) – la norma censurata racchiude una dissimmetria radicale. A differenza dell’imputato, infatti, il pubblico ministero viene privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo veda totalmente soccombente, negando per integrum la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati. Né varrebbe, al riguardo, opporre che l’inappellabilità – sancita per entrambe le parti – delle sentenze di proscioglimento si presta a sacrificare anche l’interesse dell’imputato, segnatamente allorché il proscioglimento presupponga un accertamento di responsabilità o implichi effetti sfavorevoli. Tale conseguenza della riforma – in ordine alla quale sono stati prospettati ulteriori e diversi problemi di costituzionalità, di cui la Corte non è chiamata ad occuparsi in questa sede – non incide comunque sulla configurabilità della rilevata sperequazione, per cui una sola delle parti, e non l’altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé completamente sfavorevole. È evidente, poi, come tale sperequazione non venga attenuata, se non in modo del tutto marginale, dalla previsione derogatoria di cui al comma 2 dell’art. 593 cod. proc. pen., in forza della quale l’appello contro le sentenze di proscioglimento è ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado: previsione non presente nel testo originariamente approvato dal Parlamento, ma introdotta a fronte dei rilievi su di esso formulati dal Presidente della Repubblica con il messaggio trasmesso alle Camere il 20 gennaio 2006 ai sensi dell’art. 74, primo comma, Cost., nel quale si era segnalato, tra l’altro, come «la soppressione dell’appello delle sentenze di proscioglimento» determinasse – stante la «disorganicità della riforma» – una condizione di disparità «delle parti nel processo […] che supera quella compatibile con la diversità delle funzioni svolte dalle parti stesse». Risulta, infatti, palese come l’ipotesi considerata – sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive nel corso del breve termine per impugnare (art. 585 cod. proc. pen.) – presenti connotati di eccezionalità tali da relegarla a priori ai margini dell’esperienza applicativa (oltre a non coprire, ovviamente, l’errore di valutazione nel merito). Altrettanto evidente, ancora, è come l’eliminazione del potere di appello del pubblico ministero non possa ritenersi compensata – per il rispetto del principio di parità delle parti – dall’ampliamento dei motivi di ricorso per cassazione, parallelamente operato dalla stessa legge n. 46 del 2006 (lettere d ed e dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., come sostituite dall’art. 8 della legge): e ciò non soltanto perché tale ampliamento è sancito a favore di entrambe le parti, e non del solo pubblico ministero; ma anche e soprattutto perché – quale che sia l’effettiva portata dei nuovi e più ampi casi di ricorso – il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito dall’appello. 6.2. – La rimozione del potere di appello del pubblico ministero si presenta, per altro verso, generalizzata e “unilaterale”. È generalizzata, perché non è riferita a talune categorie di reati, ma è estesa indistintamente a tutti i processi: di modo che la riforma, mentre lascia intatto il potere di appello dell’imputato, in caso di soccombenza, anche quando si tratti di illeciti bagatellari – salva la preesistente eccezione relativa alle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda (art. 593, comma 3, cod. proc. pen.; si veda, altresì, per i reati di competenza del giudice di pace, l’art. 37 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) – fa invece cadere quello della pubblica accusa anche quando si discuta dei delitti più severamente puniti e di maggiore allarme sociale, che coinvolgono valori di primario rilievo costituzionale. È “unilaterale”, perché non trova alcuna specifica “contropartita” in particolari modalità di svolgimento del processo – come invece nell’ipotesi già scrutinata dalla Corte in relazione al rito abbreviato, caratterizzata da una contrapposta rinuncia dell’imputato all’esercizio di proprie facoltà, atta a comprimere i tempi processuali – essendo sancita in rapporto al giudizio ordinario, nel quale l’accertamento è compiuto nel contraddittorio delle parti, secondo le generali cadenze prefigurate dal codice di rito. 7. – A fronte delle evidenziate connotazioni, l’alterazione del trattamento paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame, non può essere giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalità, sulla base delle rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla radice della riforma. 7.1. – A sostegno della soluzione normativa censurata, si è rilevato, anzitutto, che l’avvenuto proscioglimento in primo grado – rafforzando la presunzione di non colpevolezza – impedirebbe che l’imputato, già dichiarato innocente da un giudice, possa essere considerato da altro giudice colpevole del reato contestatogli «al di là di ogni ragionevole dubbio», secondo quanto richiesto, ai fini della condanna, dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., come novellato dall’art. 5 della stessa legge n. 46 del 2006. In simile situazione, la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare un individuo già risultato innocente verrebbe dunque ad assumere una connotazione “persecutoria”, contraria ai «principi di uno Stato democratico» (in questo senso, in particolare, l’illustrazione della proposta di legge A.C. 4604 da parte dei relatori alla Commissione giustizia della Camera dei deputati). Al riguardo, è peraltro sufficiente osservare come la sussistenza o meno della colpevolezza dell’imputato «al di là di ogni ragionevole dubbio» rappresenti la risultante di una valutazione: e la previsione di un secondo grado di giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio nell’opportunità di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso dunque presupporre esatte, equivalendo ciò a negare la ragione stessa dell’istituto dell’appello. In effetti, se il doppio grado mira a rafforzare un giudizio di “certezza”, esso non può non riflettersi sui diversi approdi decisori cui il giudizio di primo grado può pervenire: quello di colpevolezza, appunto, ma, evidentemente, anche quello – antitetico – di innocenza. In tale ottica, l’iniziativa del pubblico ministero volta alla verifica dei possibili (ed eventualmente, anche evidenti) errori commessi dal primo giudice, nel negare la responsabilità dell’imputato, non può qualificarsi, in sé, “persecutoria”; essa ha, infatti, come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e – tramite quest’ultima – l’effettiva attuazione dei principi di legalità e di eguaglianza, nella prospettiva della tutela dei molteplici interessi, connessi anche a diritti fondamentali, a cui presidio sono poste le norme incriminatrici. 7.2. – A fondamento della scelta legislativa in esame viene allegata, per altro verso, l’esigenza di uniformare l’ordinamento italiano alle previsioni dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98; nonché dell’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881. Tali norme internazionali pattizie prevedono che ogni persona condannata per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza o la condanna siano riesaminati da un tribunale superiore o di seconda istanza: principio che – si sostiene – verrebbe vulnerato nel caso di condanna dell’imputato in secondo grado, conseguente all’appello del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento emessa in primo grado (in questa prospettiva, si veda la relazione del proponente alla proposta di legge A.C. 4604). Con riguardo ad entrambe le norme, questa Corte ebbe, peraltro, già in precedenza a rilevare come il riesame ad opera di un tribunale superiore, da esse previsto a favore dell’imputato, non debba necessariamente coincidere con un giudizio di merito, anziché con il ricorso per cassazione; e ciò perché l’obiettivo perseguito è quello di «assicurare comunque un’istanza davanti alla quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo ove tali errori risultino accertati» (sentenza n. 288 del 1997; si veda, altresì, la sentenza n. 62 del 1981). Al riguardo, non è, d’altro canto, senza significato la circostanza che il legislatore costituzionale del 1999 – nel riformulare l’art. 111 Cost., nell’ottica di un suo adeguamento ai principi del «giusto processo» – non sia intervenuto sul tema delle impugnazioni, continuando a riferirsi al ricorso per cassazione per violazione di legge come unico rimedio impugnatorio costituzionalmente imposto. Dirimente è, peraltro, il rilievo che, alla luce della disciplina – più recente ed analitica di quella del Patto internazionale – dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convezione europea (su cui soprattutto fanno leva i lavori parlamentari), il diritto della persona dichiarata colpevole di un reato al riesame della «dichiarazione di colpa o di condanna», da parte di un tribunale superiore, può essere oggetto di eccezioni – oltre che «in caso di infrazioni minori» e «in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata» – anche quando essa «sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento» (paragrafo 2 del citato art. 2). Quest’ultima eccezione presuppone, evidentemente, che la legge interna contempli un potere di impugnazione contra reum, e quindi a favore dell’organo dell’accusa; essa implica pertanto il riconoscimento che tale potere – anche quando si tratti di impugnazione di merito – è compatibile con il sistema di tutela delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto conferma la legislazione vigente in buona parte dei Paesi dell’Europa continentale. 7.3. – Si pone l’accento, da ultimo, sul rapporto solo «mediato» che il giudice dell’appello ha con le prove (in tale ottica, si veda nuovamente la citata illustrazione dei relatori della proposta di legge A.C. 4604): reputandosi, in specie, che comporti una situazione di diminuita garanzia – in rapporto ai principi di oralità e immediatezza, ispiratori del processo penale nel modello accusatorio – un assetto nel quale la decisione di proscioglimento di un giudice (quello di primo grado), che ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti, può essere ribaltata da altro giudice (quello di appello), che fonda invece la sua decisione su una prova prevalentemente scritta. Ai fini della risoluzione dell’odierno incidente di costituzionalità, non è peraltro necessario scrutinare la condivisibilità o meno di tale affermazione, la quale evoca tensioni interne al vigente ordinamento processuale, connesse al mantenimento di impugnazioni di tipo tradizionale nell’ambito di un processo a carattere tendenzialmente accusatorio. A prescindere, difatti, dal rilievo che l’ipotizzata distonia del sistema – ove effettivamente riscontrabile – sussisterebbe anche in rapporto alle sentenze di condanna, per le quali il pubblico ministero mantiene il potere di appello, avuto riguardo alla possibile modifica in peius della decisione da parte del giudice di secondo grado come conseguenza di divergenti valutazioni di fatto (le quali portino, ad esempio, al mutamento del titolo del reato o al riconoscimento di una circostanza aggravante); è assorbente la considerazione che il rimedio all’eventuale deficit delle garanzie che assistono una parte processuale va rinvenuto – in via preliminare – in soluzioni che escludano quel difetto, e non già in una eliminazione dei poteri della parte contrapposta che generi un radicale squilibrio nelle rispettive posizioni. All’obiezione, poi, che le possibili soluzioni alternative al problema dianzi evidenziato, almeno ove calibrate sull’attuale assetto del sistema delle impugnazioni, peserebbero negativamente sui tempi di definizione del giudizio, è agevole replicare che neppure la ragionevole durata del processo – principio che, per costante affermazione di questa Corte, va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219 del 2004; ordinanze n. 420 e n. 418 del 2004, n. 251 del 2003, n. 458 e n. 519 del 2002) – può essere perseguita, come nella specie, attraverso la totale soppressione di rilevanti facoltà processuali di una sola delle parti. E ciò a prescindere dalla possibilità – da più parti prospettata e che resta aperta alla valutazione del legislatore – di una revisione organica del regime delle impugnazioni, intesa ad eliminare le tensioni da cui, per quanto accennato, il problema stesso trae origine. 8. – Nel suo carattere settoriale, per contro, la novella censurata ha, inoltre, alterato il rapporto paritario tra i contendenti con modalità tali da determinare anche una intrinseca incoerenza del sistema. Per effetto della riforma, infatti, mentre il pubblico ministero totalmente soccombente in primo grado resta privo del potere di proporre appello, detto potere viene invece conservato dall’organo dell’accusa nel caso di soccombenza solo parziale, vuoi in senso “qualitativo” (sentenza di condanna con mutamento del titolo del reato o con esclusione di circostanze aggravanti), vuoi anche in senso meramente “quantitativo” (sentenza di condanna a pena ritenuta non congrua). 9. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque ribadire che, nella cornice dei valori costituzionali, la parità delle parti non corrisponde necessariamente ad una eguale distribuzione di poteri e facoltà fra i protagonisti del processo. In particolare, per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni – ferma restando la possibilità per il legislatore, dianzi accennata, di una generale revisione del ruolo e della struttura dell’istituto dell’appello – non contraddice, comunque, il principio di parità l’eventuale differente modulazione dell’appello medesimo per l’imputato e per il pubblico ministero, purché essa avvenga nel rispetto del canone della ragionevolezza, con i corollari di adeguatezza e proporzionalità, che si sono a più riprese ricordati. Nella specie, per contro, la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, eccede il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e “unilaterale” della menomazione stessa: oltre a risultare – per quanto dianzi osservato – intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna. Le residue censure dei giudici rimettenti restano di conseguenza assorbite. 10. – L’art. 1 della legge n. 46 del 2006 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva. Correlativamente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva; 2) dichiara l’illegittimità costituzione dell’art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2007. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2007. INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE Vi è una specificità nell’interpretazione costituzionale? In altri termini, i giudici costituzionali funzionano in modo diverso dai giudici ordinari o amministrativi? Sicuramente vi sono differenze di tipo formale fra interpretazione ordinaria e costituzionale. 1) In relazione all’organo (Corte Costituzionale), nell’ipotesi di sindacato accentrato; 2) In relazione all’oggetto di interpretazione (leggi anziché regolamenti). Ma vi sono anche alcune differenze di natura sostanziale. Per i giudici costituzionali, le questioni relative all’interpretazione sono amplificate. Si noti che il dibattito intorno alla natura dei precetti costituzionali è noto alla dottrina costituzionalistica italiana fin dall’entra in vigore della Costituzione. Ad esempio, se Vezio Crisafulli riteneva le norme costituzionali immediatamente vincolanti, Azzariti invece ne sottolineava la natura programmatica. Nell’immediato dopoguerra prevalse il primo orientamento. Le norme costituzionali sono immediatamente precettive ed incidono sull’azione politica (Nigro, Costituzione ed effettività, 1709; Dogliani, p: 67). VEZIO CRISAFULLI La costituzione rappresenta l’a-priori costitutivo della legittimazione del sistema politico; Fra questo sistema e la società civile non esiste continuità (anzi la costituzione ricostruisce lo stato sulle ceneri della guerra). La forma di stato con una sua razionalità interna è, appunto, la costituzione formale. Da questa posizione fondamentale la costituzione va interpretata in ogni sua parte magis ut valeat, ed è integralmente obbligante. La posizione occupata nel sistema delle fonti e la politicità dell’oggetto non attribuiscono alla costituzione alcuno status peculiare; L’interpretazione della costituzione con gli stessi metodi dell’interpretazione della legge artt. 12 e 28 delle Preleggi al codice civile. GAETANO AZZARITI Le norme costituzionali hanno prevalentemente natura programmatica; Sono norme a fattispecie aperta; La costituzione è un atto politico oltre che giuridico. Cfr. SLIDE SULL’INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE. Originalismo: quella teoria secondo cui la costituzione va interpretata rimanendo fedeli alle intenzioni originarie dei costituenti. Sa un punto di vista filosofico politico, l’originalismo assume che la forza del diritto costituzionale risiede nella sua rigidità: con la conseguenza che i giudici non sono autorizzati a piegare la costituzione neppure per adattarla al mondo che cambia. Il giudice Antonin Scalia è rappresentativo di questa posizione. Teoria del diritto come integrità: Ronald Dowrkin asserisce che l’interpretazione (non solo costituzionale) può essere compresa attraverso la metafora della novella a più mani. Il diritto è una prassi a cui contribuiscono vari soggetti (legislatori, giudici, giuristi, ma anche semplici cittadini). La bravura dell’interprete consiste nel ricostruire il filo conduttore del romanzo e garantire così integrità. La direzione tuttavia non è rimessa alla semplice soggettività degli interpreti ma va invece ricondotta all’esistenza dei diritti. In particolare, il principio alla luce del quale interpretare il sistema giuridico americano è quello dell’eguale rispetto. Il principio d’eguaglianza (come eguale considerazione e rispetto per tutti i cittadini da parte) è il principio a cui l’integrità del diritto si deve ispirare. Giudice arbitro (Roberts): Di tenore esattamente opposto è l’ideologia interpretativa del giudice Roberts, attuale presidente della Corte Suprema (simile ideologia ispira anche il giudice Zagrebelski in Italia). La metafora utilizzata dal giudice per descrivere il ruolo delle corti costituzionali è quella dell’arbitro (umpire di baseball): la corte costituzionale non deve suggerire alcuna teoria ma deve limitarsi ad applicare la costituzione (formalismo). Minimalismo interpretativo Cass Sunstein: la tesi di Cass Sunstein è che la costituzione è uno strumento per risolvere i conflitti nascenti dal pluralismo ma anche per preservarlo. Proprio perché la costituzione nasce come risposta a conflitti – che altrimenti verrebbero risolti con la violenza e con la soppressione del dissenso – allora la giustizia costituzionale deve anch’essa rispondere a questa esigenza. Il minimalismo interpretativo è quello stile interpretativo che evita di andare troppo in fondo alle questioni: ad esempio, sull’aborto: anziché diffondersi sulla legittimità o meno del diritto ad abortire sarebbe più opportuno fare riferimento a principi meno scottanti, e più diffusi, tipo il principio di eguaglianza (negare il diritto all’aborto penalizza più le donne che gli uomini). Oppure, come ha fatto la corte costituzionale italiana, anziché affrontare di petto il diritto all’aborto ha soltanto stabilito che le norme penali che puniscono severamente il medico che procura l’aborto della paziente consenziente sono incostituzionali per violazione del principio di proporzionalità. Pragmatismo: Posner (rinvio). Sentenze. Corte sentenza 347/98 del 26/09/1998 costituzionale Sentenza Corte Costituzionale n. 347 del 26 settembre 1998: «Disconoscimento di paternità» REPUBBLICA IN NOME DEL POPOLO ITALIANA ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: omissis ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 235 del codice civile, promosso con ordinanza emessa il 14 marzo 1997 dal Tribunale di Napoli nel procedimento civile vertente tra A. W. e A. T. ed altri, iscritta al n. 387 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 1997. Visto l’atto di costituzione di A. T.; Udito nell’udienza pubblica del 27 gennaio 1998 il Giudice relatore Fernando Santosuosso. Ritenuto in fatto 1. Nel corso di un procedimento civile promosso da A. W. contro la propria moglie A. T. ed il curatore speciale del minore A. M. per il disconoscimento della paternità nei confronti del bambino, il Tribunale di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 235 del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione. Premette il giudice a quo che dalle pacifiche risultanze probatorie della causa emerge che l'attore è affetto da impotentia generandi e che il figlio partorito dalla moglie è stato concepito mediante inseminazione artificiale eterologa; ritiene altresì dimostrato che, quantunque il matrimonio tra i due sia successivamente entrato in crisi (tanto da essere in corso il giudizio di separazione legale), il marito aveva a suo tempo prestato il proprio consenso a che la moglie venisse fecondata artificialmente per concepire detto figlio, così come era avvenuto anche per un altro figlio nato precedentemente. Sulla base di questi elementi il Tribunale osserva che nel nostro ordinamento il consenso prestato dal marito (cosciente della propria impotenza) all'inseminazione artificiale eterologa della moglie non può ritenersi idoneo ad escludere l'esperibilità dell'azione di disconoscimento di paternità prevista dall'art. 235, numero 2), del codice civile. A tale conclusione si perviene perché non sussiste, nel caso specifico, alcun rapporto biologico di sangue, ed il consenso non può valutarsi alla stregua di un'implicita rinunzia all'azione, rinunzia inammissibile trattandosi di diritti indisponibili. Il Tribunale di Napoli dà conto del fatto che una simile interpretazione delle norme è stata contraddetta da molte autorevoli voci dottrinali, secondo le quali il consenso prestato dal padre all'inseminazione eterologa dovrebbe tradursi nella conseguente improponibilità dell'azione di disconoscimento; soluzione questa già recepita anche nella legislazione positiva di diversi Stati. Tuttavia il giudice a quo ribadisce che, quando dalla lettera della norma traspare la volontà del legislatore, non è possibile far prevalere l'interpretazione teleologica su quella letterale. Pertanto, poiché la norma positiva individua nell'impotentia generandi una delle cause legittimanti per l'azione di disconoscimento, la medesima non può essere esclusa nel caso in esame. Dopo aver interpretato le norme nei predetti termini, il rimettente osserva che da una simile lettura deriva la palese violazione dei principi di cui agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost. Anche la Corte costituzionale (sentenze n. 341 del 1990 e n. 429 del 1991), del resto, ha riconosciuto la preminente centralità dell'interesse del minore in tema di dichiarazione della paternità o maternità naturale e di adozione. Nel caso dell'inseminazione eterologa è evidente che consentire l'azione di disconoscimento viene a ledere in modo irreversibile le prerogative del figlio. Nessun rapporto, infatti, egli può ragionevolmente stabilire con chi (peraltro anonimo) si è limitato a donare il seme senza assunzione di alcuna responsabilità; per cui il minore viene ad essere per sempre privato della figura paterna, perdendo il diritto alla propria identità ed al proprio nome ed assumendo uno status simile a quello dei figli di genitori ignoti. La palese gravità di siffatte conseguenze - neppure eliminabili tramite un eventuale risarcimento dei danni, stante la natura non monetizzabile del bene perduto rende del tutto irrazionale la norma impugnata, che dovrebbe pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non preclude l'azione per il disconoscimento di paternità al padre legittimo che abbia prestato il proprio consenso all'inseminazione eterologa della moglie. 1. Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si è costituita A. T., convenuta nel giudizio a quo, associandosi alla richiesta di accoglimento della sollevata questione. La parte privata, nel fare proprie le argomentazioni del Tribunale di Napoli, evidenzia soprattutto come l'ammissibilità dell'azione di disconoscimento - azione che dimostra una totale violazione da parte del padre dei doveri di genitore - si traduca in una gravissima lesione dei diritti della madre e del minore. La prima, infatti, pur essendo coniugata, si vede ridotta al rango di ragazza-madre di un figlio, pur ottenuto col consenso del marito, mentre il piccolo perde il nome, l'identità personale e la serenità necessaria per una crescita equilibrata. Considerato in diritto 1. Il Tribunale di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 235, cod. civ., in relazione agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, in quanto il primo comma, numero 2, consentirebbe di esperire l’azione per il disconoscimento di paternità al marito che, affetto da impotenza nel periodo che va dal trecentesimo al centottantesimo giorno prima della nascita del figlio concepito durante il matrimonio, abbia dato il proprio consenso all’inseminazione artificiale eterologa della moglie. Il giudice a quo presuppone che nell’attuale sistema, stante il tenore letterale della disposizione in esame, al consenso prestato dal marito all’inseminazione eterologa della moglie non possa essere collegato alcun effetto preclusivo dell’azione di disconoscimento, ove ricorra una delle ipotesi (nel caso, impotenza a generare) previste dalla legge. Ad avviso del giudice rimettente la norma anzidetta sarebbe in contrasto con gli evocati parametri costituzionali, in quanto: è interesse del minore non vedersi privato del nome, dell’identità personale e della stessa possibilità di avere un padre; risponde a fondamentali princìpi costituzionali che ogni figlio abbia diritto ad essere mantenuto, istruito ed educato dai propri genitori, tali dovendosi considerare quelli che hanno preso la decisione della sua procreazione; mentre nessun rapporto di paternità potrebbe essere instaurato col padre biologico. 1. La questione è inammissibile. Il giudice rimettente - pur rilevando la mancanza di una puntuale disciplina legislativa che stabilisca la legittimità o meno ed i limiti della fecondazione assistita, regolando inoltre i rapporti fra i soggetti coinvolti nelle relative vicende, tra cui la posizione del minore - parte dal presupposto che il caso particolare sul quale è chiamato a decidere (nascita di un bambino mediante fecondazione assistita eterologa, in costanza di matrimonio, col consenso di entrambi i coniugi) rientri nella portata dell’art. 235, primo comma, numero 2, cod. civ., ma solleva dubbi di legittimità costituzionale, considerate le conseguenze che egli ritiene di dover trarre da questa disposizione. Sennonché questa norma riguarda esclusivamente la generazione che segua ad un rapporto adulterino, ammettendo il disconoscimento della paternità in tassative ipotesi, quando le circostanze indicate dal legislatore facciano presumere che la gravidanza sia riconducibile, in violazione del dovere di reciproca fedeltà, ad un rapporto sessuale con persona diversa dal coniuge. La possibilità che ipotesi nuove, non previste al tempo dell’approvazione di una norma, siano disciplinate dalla stessa non è da escludersi in generale. Ma tale possibilità implica un’omogeneità di elementi essenziali e un’identità di ratio; nella cui carenza l’estensione della portata normativa della legge si risolverebbe in un arbitrio. È quanto accadrebbe una volta che, ai fini dell’esperibilità dell’azione di disconoscimento di paternità, l’ipotesi in esame fosse equiparata a quelle, tanto dissimili, previste dall’art. 235 del codice civile. 1. L’estraneità della fattispecie oggetto del giudizio alla disciplina censurata comporta l’inammissibilità della sollevata questione; dalla quale tuttavia emerge una situazione di carenza dell’attuale ordinamento, con implicazioni costituzionali. Non si tratta in alcun modo, in questa occasione, di esprimersi sulla legittimità dell’inseminazione artificiale eterologa, né di mettere in discussione il principio di indisponibilità degli status nel rapporto di filiazione, principio sul quale sono suscettibili di incidere le varie possibilità di fatto oggi offerte dalle tecniche applicate alla procreazione. Tutto ciò resta fuori dal presente giudizio di costituzionalità. Si tratta invece di tutelare anche la persona nata a seguito di fecondazione assistita, venendo inevitabilmente in gioco plurime esigenze costituzionali. Preminenti in proposito sono le garanzie per il nuovo nato (v. le sentenze n. 10 del 1998; n. 303 del 1996; n. 148 del 1992; nn. 27 e 429 del 1991; e nn. 44 e 341 del 1990), non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli artt. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima - in base all’art. 2 Cost. - ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità: diritti che è compito del legislatore specificare. 1. L’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. Tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 235 del codice civile sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, dal Tribunale di Napoli con l’ordinanza di cui in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 settembre 1998. Presidente: Renato Redattore: Fernando SANTOSUOSSO GRANATA E’ legittimo il divieto del matrimonio fra persone dello stesso sesso? SENTENZA N. 138 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156bis del codice civile, promossi dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 3 aprile 2009 e dalla Corte d’appello di Trento con ordinanza del 29 luglio 2009, iscritte ai nn. 177 e 248 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti gli atti di costituzione di G. M. ed altro, di E. O. ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, dell’Associazione radicale Certi Diritti, e di C. M. ed altri (fuori termine); udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo; uditi gli avvocati Alessandro Giadrossi per l’Associazione radicale Certi Diritti e per M. G. ed altro, Ileana Alesso e Massimo Clara per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per C. M. ed altri, Vittorio Angiolini, Vincenzo Zeno-Zencovich e Marilisa D’Amico per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per E. O. ed altri e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Il Tribunale di Venezia in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso». Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso dai signori G. M. ed S. G., entrambi di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto del 3 luglio 2008, col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta. Il funzionario, infatti, ha ritenuto illegittima la pubblicazione, perché in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano «è inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi», come dovrebbe desumersi dall’insieme delle disposizioni che disciplinano l’istituto medesimo, del quale tale diversità «costituisce presupposto indispensabile, requisito fondamentale, a tal punto che l’ipotesi contraria, relativa a persone dello stesso sesso, è giuridicamente inesistente e certamente estranea alla definizione del matrimonio, almeno secondo l’insieme delle normative tuttora vigenti», anche secondo l’orientamento della giurisprudenza. L’atto oggetto dell’opposizione cita anche un parere del Ministero dell’interno, in data 28 luglio 2004, nel quale si legge che «in merito alla possibilità di trascrivere un atto di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, si precisa che in Italia tale atto non è trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento non è previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso in quanto contrario all’ordine pubblico»; affermazione ribadita con circolare dello stesso Ministero in data 18 ottobre 2007. Il Tribunale veneziano richiama gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che nel nostro ordinamento non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, i citati atti del Ministero dell’interno si riferirebbero all’ordine pubblico internazionale e non a quello pubblico interno e, comunque, sarebbero contrari alla Costituzione e alla Carta di Nizza, sicché andrebbero disapplicati. In ogni caso, l’interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana ed, in particolare, con gli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 di questa. Il rimettente prosegue osservando che, sulla base di tali argomenti, gli istanti hanno chiesto al Tribunale, in via principale, di ordinare all’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia di procedere alla pubblicazione del matrimonio; in via subordinata, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 Cost. Tanto premesso, il Tribunale di Venezia rileva che, nell’ordinamento vigente, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è né previsto né vietato espressamente. È certo, tuttavia, che sia il legislatore del 1942, sia quello riformatore del 1975 non si sono posti la questione del matrimonio omosessuale, all’epoca ancora non dibattuta, almeno in Italia. Peraltro, «pur non esistendo una norma definitoria espressa, l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso. Se è vero che il codice civile non indica espressamente la differenza di sesso tra i requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e sospettate d’incostituzionalità, si riferiscono al marito e alla moglie come “attori” della celebrazione (artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale (artt. 143 e ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)». Ad avviso del Tribunale, proprio per il chiaro tenore delle norme indicate non è possibile, allo stato delle disposizioni vigenti, operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna». D’altra parte, prosegue il rimettente, «non si può ignorare il rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali». Secondo il Giudice di Venezia, il primo parametro è quello di cui all’art. 2 Cost., nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, non soltanto nella sua sfera individuale ma anche, e forse soprattutto, nella sua sfera sociale, cioè «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», delle quali la famiglia deve essere considerata la prima e fondamentale espressione. Infatti, la famiglia è la formazione sociale primaria nella quale si esplica la personalità dell’individuo e vengono quindi tutelati i suoi diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di persona coniugata), che assurge a segno caratteristico all’interno della società e che attribuisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari e non sostituibili mediante l’esercizio dell’autonomia negoziale. Il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale (artt. 12 e 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, artt. 8 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), nonché in ambito nazionale (art. 2 Cost.). La libertà di sposarsi o di non sposarsi, e di scegliere il coniuge autonomamente, riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità, sicché si risolve in una scelta sulla quale lo Stato non può interferire, se non sussistono interessi prevalenti incompatibili, nella fattispecie non ravvisabili. L’unico importante diritto, in relazione al quale un contrasto si potrebbe ipotizzare, sarebbe quello, spettante ai figli, di crescere in un ambiente familiare idoneo, diritto corrispondente anche ad un interesse sociale. Tale interesse, tuttavia, potrebbe incidere soltanto sul diritto delle coppie omosessuali coniugate di avere figli adottivi. Si tratterebbe, però, di un diritto distinto rispetto a quello di contrarre matrimonio, tanto che alcuni ordinamenti, pur introducendo il matrimonio tra omosessuali, hanno escluso il diritto di adozione. In ogni caso, la disciplina di tale istituto nell’ordinamento italiano, ponendo l’accento sulla necessità di valutare l’interesse del minore adottando, rimette al giudice ogni decisione al riguardo. Il rimettente, poi, prende in esame l’art. 3 Cost., rilevando che, poiché il diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali, come l’orientamento sessuale, con conseguente obbligo per lo Stato d’intervenire in caso d’impedimenti al relativo esercizio. Pertanto, se la finalità perseguita dall’art. 3 Cost. è quella di vietare irragionevoli disparità di trattamento, la norma implicita che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, così seguendo il proprio orientamento sessuale (non patologico né illegale), non ha alcuna giustificazione razionale, soprattutto se posta a confronto con l’analoga situazione delle persone transessuali che, ottenuta la rettifica dell’attribuzione del sesso ai sensi della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di nascita (il Tribunale ricorda che la conformità a Costituzione della citata normativa è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 165 del 1985). Secondo il rimettente, le affermazioni contenute in tale pronuncia ben potrebbero ritenersi applicabili anche agli omosessuali. Comunque, la legge n. 164 del 1982 avrebbe «profondamente mutato i connotati dell’istituto del matrimonio civile, consentendone la celebrazione tra soggetti dello stesso sesso biologico ed incapaci di procreare, valorizzando così l’orientamento psicosessuale della persona». In questo quadro, non sarebbe giustificabile la discriminazione tra omosessuali che non vogliono effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento, ai quali il matrimonio è precluso, ed i transessuali che sono ammessi al matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso biologico ed essendo incapaci di procreare. Le opinioni contrarie al riconoscimento della libertà matrimoniale tra persone dello stesso sesso sulla base di ragioni etiche, legate alla tradizione o alla natura, non potrebbero essere condivise, sia per le radicali trasformazioni intervenute nei costumi familiari, sia perché si tratterebbe di tesi pericolose, in passato utilizzate per difendere gravi discriminazioni poi riconosciute illegittime, come le disuguaglianze tra i coniugi nel diritto matrimoniale italiano anteriore alla riforma o le discriminazioni in danno delle donne. Del resto, «per i diritti degli omosessuali, così come per quelli dei transessuali, vi sono fortissime spinte, provenienti dal contesto europeo e sopranazionale, a superare le discriminazioni di ogni tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive». Il Tribunale di Venezia, in relazione all’art. 29, primo comma, Cost., osserva che il significato della norma non è quello di riconoscere il fondamento della famiglia in una sorta di “diritto naturale”, bensì quello di affermare la preesistenza e l’autonomia della famiglia rispetto allo Stato, così imponendo dei limiti al potere del legislatore statale, come emerge dagli atti relativi al dibattito svolto in seno all’Assemblea costituente, nel ricordo degli abusi in precedenza compiuti a difesa di una certa tipologia di famiglia. Peraltro, che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità dell’art. 29 Cost. e che famiglia e matrimonio siano istituti aperti alle trasformazioni, sarebbe dimostrato dall’evoluzione che ne ha interessato la disciplina dal 1948 ad oggi. Il rimettente procede ad una ricognizione della normativa in materia, ricorda gli interventi di questa Corte a tutela dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nonché la riforma attuata con la legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e rileva che il significato costituzionale di famiglia, lungi dall’essere ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile, si è al contrario dimostrato permeabile ai mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul regime giuridico familiare. Sarebbero prive di fondamento, quindi, le tesi che giustificano l’implicito divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso ricorrendo ad argomenti correlati alla capacità procreativa della coppia ed alla tutela della procreazione. Al riguardo, sarebbe sufficiente sottolineare che la Costituzione e il diritto civile non prevedono la capacità di avere figli come condizione per contrarre matrimonio, ovvero l’assenza di tale capacità come condizione d’invalidità o causa di scioglimento del matrimonio, sicché quest’ultimo e la filiazione sarebbero istituti nettamente distinti. Una volta escluso che il trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa trovare fondamento nel dettato dell’art. 29 Cost., tale norma, nel momento in cui attribuisce tutela costituzionale alla famiglia legittima, non costituirebbe un ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma anzi dovrebbe assurgere ad ulteriore parametro in base al quale valutare la costituzionalità del divieto. Infine, il rimettente richiama l’art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Richiama al riguardo, quali norme interposte, gli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). In particolare, con riferimento all’art. 8, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe accolto una nozione di “vita privata” e di tutela dell’identità personale non limitata alla sfera individuale bensì estesa alla vita di relazione, arrivando a configurare un dovere di positivo intervento degli Stati per rimediare alle lacune suscettibili d’impedire la piena realizzazione personale. È citata la sentenza Goodwin c. Regno Unito in data 17 luglio 2002, con la quale la Corte di Strasburgo ha dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale con persona del suo stesso sesso originario. Il Tribunale di Venezia pone l’accento sul fatto che anche la Carta di Nizza sancisce i diritti al rispetto della vita privata e familiare (art. 7), a sposarsi e a costituire una famiglia (art. 9), a non essere discriminati (art. 21), collocandoli tra i diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non andrebbero trascurati, poi, gli atti delle Istituzioni europee, che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali, ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti, atti che rappresentano, a prescindere dal loro valore giuridico, una presa di posizione a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio, o comunque alla unificazione legislativa, nell’ambito degli Stati membri, della disciplina dettata per la famiglia legittima, da estendere alle unioni omosessuali (tali atti sono richiamati nell’ordinanza). Da ultimo, il rimettente rileva che, negli ordinamenti di molte nazioni con civiltà giuridica affine a quella italiana, si va delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. Infatti, in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna) il divieto di sposare persone dello stesso sesso è stato rimosso, mentre altri Paesi prevedono istituti riservati alle unioni omosessuali con disciplina analoga a quella del matrimonio, a volte con esclusione delle disposizioni relative alla potestà sui figli e all’adozione. Fra i Paesi che ancora non hanno introdotto il matrimonio o forme di tutela paramatrimoniale, molti prevedono forme di registrazione pubblica delle famiglie di fatto, comprese quelle omosessuali. Sulla base delle considerazioni esposte, il Tribunale veneziano perviene al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, che inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso logico-giuridico da compiere per pervenire alla decisione della causa. 2. - I signori G. M. e S. G., si sono costituiti nel giudizio di legittimità costituzionale, con ampia memoria depositata il 20 luglio 2009. Dopo avere esposto i fatti da cui la vicenda prende le mosse ed aver riportato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, le parti private, sottolineata la rilevanza della questione proposta, osservano che il rimettente ha riconosciuto un dato incontrovertibile, cioè che nel vigente ordinamento non sussiste alcun divieto espresso che impedisca a due persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. La necessaria eterosessualità dello stesso nascerebbe da una tradizione interpretativa, sorta in un contesto sociale del tutto diverso dall’attuale e tramandata in modo tralaticio, anche per i riflessi della disciplina canonistica dell’istituto sul sistema civilistico. La dimensione storica del fenomeno, tuttavia, non potrebbe essere di ostacolo ad una rivisitazione della fattispecie, come hanno fatto altre Corti costituzionali straniere. Né si potrebbe dedurre che l’eterosessualità sia un carattere indefettibile dell’istituto matrimoniale interpretando l’art. 29 Cost. a partire dalla lettera del codice civile vigente, perché quell’articolo non costituzionalizza i caratteri dell’istituto matrimoniale previsti dalla legge ordinaria o emergenti dalla sua costante interpretazione. Il codice civile sarebbe oggetto e non parametro del giudizio e, in ogni caso, «non potrebbe divenire cifra per leggere il dato costituzionale. Sarebbe, infatti, una petizione di principio affermare che il codice non viola il diritto a contrarre matrimonio ex art. 29 poiché tale disposizione, alla luce del codice stesso, prevede l’unione solo fra persone di sesso diverso. Con un aprioristico rinvio per presupposizione, infatti, si attuerebbe una sovversione della gerarchia delle fonti». Pertanto, alla luce del principio personalistico che pervade l’intera Carta costituzionale, bisognerebbe individuare il significato delle parole “matrimonio” e “famiglia”, utilizzate nel citato art. 29. Detta norma privilegia la famiglia fondata sul matrimonio. Ad avviso degli esponenti, da ciò deriva che, se nella nostra società anche due persone dello stesso sesso possono formare una famiglia, escluderle dal vincolo matrimoniale non soltanto crea una discriminazione priva di qualsiasi razionalità, ma fa sì che migliaia di cittadini si vedano negate dallo Stato quelle tutele che altrimenti spetterebbero loro in virtù della norma costituzionale. La fattispecie non sarebbe assimilabile alle unioni di fatto eterosessuali, che trovano altrove copertura costituzionale (art. 2 Cost.), perché nelle unioni di fatto vi è una chiara scelta delle parti di non rendere giuridico il progetto di vita che lega i conviventi, mentre per le coppie formate da persone dello stesso sesso tale libertà non sussiste nella misura in cui non possono scegliere se sposarsi oppure no. Richiamata la nozione di famiglia come “società naturale”, contenuta nell’ordinanza di rimessione, gli esponenti osservano che l’interesse protetto dall’art. 29 Cost. è, in primo luogo, il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, al riparo da indebite ingerenze dello Stato, tutte le volte in cui una persona decida di realizzare se stessa in una relazione familiare. Per le persone omosessuali tale diritto risulterebbe, attualmente, del tutto conculcato. Non sarebbe possibile sostenere che i costituenti abbiano eletto l’eterosessualità a caratteristica indefettibile della famiglia, i cui diritti sono riconosciuti e garantiti dall’art. 29 Cost., tanto da escludere dall’ambito applicativo di tale norma le coppie formate da persone dello stesso sesso. Per le parti private sarebbe certo che il fenomeno sussistesse anche ai tempi della Assemblea costituente, ma, in quanto socialmente non rilevante, non poteva allora essere preso in alcuna considerazione. Ciò vorrebbe dire che non si è optato per la famiglia eterosessuale a scapito di quella omosessuale, riservando a questa una minore dignità sociale e giuridica. Tale stato di cose, però, non potrebbe impedire una rilettura del sistema, in considerazione delle mutate condizioni sociali e giuridiche, stante la rilevanza, sotto questo profilo, del diritto comunitario, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., e soprattutto dei principi supremi dell’ordinamento, quali l’eguaglianza (e quindi la non discriminazione) e la tutela dei diritti fondamentali. Le parti private proseguono osservando che il diritto vivente connota l’istituto matrimoniale di una caratteristica (l’eterosessualità), che l’art. 29 Cost. non suggerisce affatto, così impedendo alle persone omosessuali di godere pienamente della loro cittadinanza e del diritto a realizzare se stesse affettivamente e socialmente nell’ambito della famiglia legittima. Né sarebbe possibile che “società naturale” sia intesa come luogo della procreazione, in quanto il matrimonio civile non sarebbe più istituzionalmente orientato a tale finalità. Dal 1975 l’impotenza non costituisce causa d’invalidità del matrimonio, se non quando sia materia di errore in cui sia incorso l’altro coniuge (art. 122 cod. civ.). Inoltre, possono contrarre matrimonio anche le persone che, avendo cambiato sesso, sono inidonee alla generazione e quelle che, a causa dell’età, tale attitudine più non hanno. In definitiva, la procreazione sarebbe soltanto un elemento eventuale nel rapporto coniugale e ciò dimostrerebbe quanto lontano sia il concetto di famiglia da accogliere nell’ambito dell’art. 29 Cost. rispetto a quello della tradizione giudaico-cristiana. Il matrimonio sarebbe, senza dubbio, l’unione di due esistenze, i cui fini fondamentali coincidono con i diritti e i doveri che i coniugi assumono al momento della celebrazione in base all’art. 143 cod. civ., fini ai quali è estranea la prospettiva, soltanto eventuale, della procreazione, altrimenti si dovrebbe considerare impossibile la celebrazione di un matrimonio tutte le volte in cui sia naturalisticamente impossibile per i nubendi procreare. Gli esponenti passano, poi, a trattare del diritto al matrimonio come diritto fondamentale della persona, richiamando (tra l’altro) la giurisprudenza di questa Corte, che ha declinato il diritto stesso sia sotto il profilo della libertà di contrarre il matrimonio con la persona prescelta (sentenza n. 445 del 2002), sia sotto quello della libertà di non sposarsi e di unirsi in altro modo (sentenza n. 166 del 1998), e rilevando che i cittadini omosessuali non possono godere di queste due libertà. Dopo avere illustrato gli aspetti e le finalità di quel diritto, nonché le prospettive correlate al suo esercizio anche nel quadro della tutela delle minoranze discriminate, essi pongono l’accento sull’esigenza che il citato diritto fondamentale sia garantito a tutti senza alcuna distinzione, anche nel caso in cui un cittadino si trovi in quella particolare condizione personale che è l’omosessualità. E ciò non in astratto, secondo la tesi di quanti ritengono che sarebbe rimessa al legislatore ordinario la scelta sull’ammissione o meno al matrimonio delle coppie formate da persone dello stesso sesso. In presenza di un diritto fondamentale spetta alla Corte costituzionale, o al giudice di merito in via interpretativa, rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il godimento a tutti, tanto più se si considera che non si sta parlando di un divieto normativo bensì di una mera prassi interpretativa. Nel caso in esame, «realizzarsi pienamente come persona significa poter vivere fino in fondo il proprio orientamento sessuale, scegliendo come partner di vita, all’interno di una relazione giuridica qualificata qual è il matrimonio, una persona del proprio sesso». Pertanto l’interpretazione che esclude le coppie formate da persone dello stesso sesso dal matrimonio, ad avviso degli esponenti, costituisce un limite irragionevole all’esercizio della libertà personale, disconoscendo la capacità della persona di scegliere ciò che è meglio per sé in una dimensione relazionale. Le parti private richiamano, poi, la tesi secondo cui l’art. 29 Cost. escluderebbe la riconoscibilità giuridica delle coppie omosessuali, anche soltanto attraverso un istituto alternativo al matrimonio, e ne sostengono l’infondatezza, rilevando che il detto articolo non può essere interpretato in modo da violare uno dei principii fondamentali dell’ordinamento costituzionale, ossia il principio di eguaglianza. Dopo avere argomentato diffusamente sul punto, anche in ordine ai profili economici dell’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, gli esponenti osservano che nella nostra società, non più caratterizzata da un’omogeneità sul piano culturale, il principio di eguaglianza deve assumere una dimensione nuova, volta a favorire il pluralismo e l’inclusione sociale. Con tale concezione contrasta un uso del diritto che abbia come effetto di escludere un soggetto dal godimento di un diritto o libertà fondamentale in virtù di una sua condizione personale. E ciò senza considerare la contemporanea violazione dell’art. 2 Cost., perché in tal modo s’impedisce l’esercizio del diritto alla piena realizzazione di sé. Inoltre, le parti private pongono l’accento sulla normativa comunitaria e internazionale già richiamata nell’ordinanza di rimessione. Esse, poi, criticano la tesi secondo cui un giudice, fosse anche la Corte costituzionale, non potrebbe spingersi fino al punto di accogliere la richiesta dei ricorrenti diretta ad ottenere le pubblicazioni matrimoniali sul presupposto del riconoscimento del loro diritto a sposarsi. Ribadito che si è in presenza di una prassi interpretativa, derivante da elementi testuali della legislazione ordinaria, risalente a ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione, e che tale prassi contrasta (per quanto detto in precedenza) con norme e principi supremi di rango costituzionale, gli esponenti sostengono che, nel caso in esame, non si tratta di creare un istituto nuovo, o di affermare l’esistenza di un nuovo diritto (operazioni precluse al potere giudiziario), perché il diritto al matrimonio sussiste già ed ha chiari connotati, ma, pur essendo un diritto fondamentale, ne viene concesso il godimento soltanto alle persone eterosessuali. Infine, sono richiamati alcuni passaggi argomentativi di Corti straniere, che si sono occupate della tenuta costituzionale, nei rispettivi sistemi, del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. In chiusura, si chiede a questa Corte di acquisire un’adeguata base informativa sul numero di coppie formate da persone dello stesso sesso, che vivono sul territorio italiano, e sull’impatto dell’attuale prassi interpretativa, che esclude le persone dello stesso sesso dal matrimonio, sul loro benessere psicosociale. 3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 21 luglio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, manifestamente infondata. La difesa dello Stato prende le mosse dal rilievo che la normativa riguardante l’istituto del matrimonio, sia quella prevista dal diritto civile, sia quella di rango costituzionale, si riferisce senz’altro all’unione fra persone di sesso diverso. Il requisito della diversità del sesso, che si ricava direttamente dall’art. 107 cod. civ., nonché da altre numerose disposizioni dello stesso codice, è tradizionalmente e costantemente annoverato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra i requisiti indispensabili per l’esistenza del matrimonio. Infatti, ad avviso dell’Avvocatura generale, l’istituto del matrimonio nel nostro ordinamento si configura come un istituto pubblicistico diretto a disciplinare determinati effetti, che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone di sesso diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione). Il richiamo all’art. 2 Cost., operato dal rimettente, non sarebbe decisivo né conferente. Tale disposto, per costante interpretazione di questa Corte, «deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali, quando meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti» (sentenza n. 98 del 1979), tra i quali non sarebbe compresa la pretesa azionata dai ricorrenti nel giudizio a quo. La collocazione dell’art. 2 Cost. fra i “principi fondamentali” ed invece la collocazione dell’art. 29 nel titolo II tra i “rapporti etico-sociali” costituirebbero non soltanto l’argomentazione testuale, ma anche l’argomentazione più significativa per escludere la fondatezza dell’assunto contenuto nell’ordinanza di rimessione, non essendo ovviamente vietata nel nostro ordinamento la convivenza tra persone dello stesso sesso. Infatti, la dottrina più recente tende a ricondurre la tutela delle coppie omosessuali nell’ambito della tutela delle coppie di fatto. Non sussisterebbe alcuna violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., perché questo impone un uguale trattamento per situazioni uguali e trattamento differenziato per situazioni di fatto difformi. La difesa dello Stato osserva che la dottrina, nel commentare il citato art. 3, ha ritenuto il divieto di discriminazione in base al sesso «in qualche misura meno rigido rispetto ad altri», sia sul piano della correlazione di alcune distinzioni ad obiettive differenze tra i sessi, sia sul piano normativo, nella misura in cui in Costituzione si rinvengono norme idonee a giustificare, entro certi limiti, distinzioni fondate sul sesso, «in particolare, gli articoli 29, 37 e 51». La dottrina avrebbe anche ritenuto il richiamo al principio di ragionevolezza, espresso nel medesimo art. 3 Cost., non pertinente nel caso in esame, perché un trattamento normativo differenziato potrebbe ritenersi “ragionevole”, in quanto diretto a realizzare altri e prevalenti valori costituzionali. Neppure sarebbe pertinente il riferimento alla giurisprudenza in tema di illegittime discriminazioni subite in precedenza dalle persone transessuali, perché il problema della “identità di sesso biologico” in quell’ipotesi avrebbe assunto una rilevanza diversa. Quanto all’art. 29 Cost., detta norma, stabilendo che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», delinea una “relazione biunivoca” tra le nozioni in essa richiamate e, altresì, «vincola il legislatore a tenere distinte la disciplina dell’istituzione familiare da quelle eventualmente dedicate a qualsiasi altro tipo di formazione sociale, ancorché avente caratteri analoghi». Ad avviso dell’Avvocatura, in esito al dibattito sviluppatosi nell’Assemblea costituente in sede di elaborazione dell’art. 29, si sarebbero delineate due ricostruzioni circa il significato di tale norma. La prima sottolinea il carattere pregiuridico dell’istituto familiare, identificando un solo modello univoco e stabile; la seconda attribuisce all’art. 29 un contenuto mutevole con l’evoluzione dei costumi sociali. Parte della dottrina, invece, ha superato tale dicotomia, ritenendo che la norma faccia riferimento ad un modello di famiglia che, per quanto suscettibile di sviluppi e cambiamenti, sia però caratterizzato “da un nucleo duro”, che trova «il suo contenuto minimo e imprescindibile nell’elemento della diversità di sesso fra i coniugi» e perciò mantiene il significato originario fissato nella Carta, senza mutarlo in maniera differente e distante dall’iniziale formulazione. Infine, non sarebbe ravvisabile contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. La difesa dello Stato premette che l’ordinamento comunitario non ha legiferato in materia matrimoniale, ma si è limitato in varie risoluzioni ad indicare criteri e principi, lasciando ai singoli Paesi membri la facoltà di adeguamento delle legislazioni nazionali. La libertà lasciata ai legislatori europei ha dato luogo, perciò, a molteplici forme di tutela delle coppie omosessuali. Non vi sarebbe contrasto con gli artt. 7, 9 e 21 della Carta di Nizza, parte integrante del Trattato di Lisbona, in quanto proprio l’art. 9, che riconosce il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, rinvia alla legge nazionale per la determinazione delle condizioni per l’esercizio di tale diritto. Per quel che riguarda gli obblighi internazionali e, in particolare, il rispetto della CEDU, la citata normativa del codice civile italiano non appare in contrasto con gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della CEDU, dal momento che proprio l’art. 12 non solo riafferma che l’istituto del matrimonio riguarda persone di sesso diverso, ma rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del relativo diritto. In definitiva, al di là del carattere eterogeneo dei modelli di riconoscimento adottati dagli Stati europei, l’elemento che li accomuna sarebbe la “centralità del legislatore” nel processo d’inclusione delle coppie omosessuali nell’ambito degli effetti legali delle discipline di tutela. Peraltro, un intervento della Corte costituzionale di tipo manipolativo non sarebbe realizzabile attraverso un’operazione lessicale di mera sostituzione delle parole “marito” e “moglie”, con la parola “coniugi”, perché in realtà si tratterebbe di operare un nuovo disegno del tessuto normativo codicistico, alla luce di una norma costituzionale che proprio ad esso rimanda; e tale compito sarebbe necessariamente riservato al legislatore. 4. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso. La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso un decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; e il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale. La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, esamina la questione di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti. Dopo aver ricordato l’ordinanza del Tribunale di Venezia, la rimettente osserva che, rispetto all’epoca nella quale sono state emanate le norme disciplinanti il matrimonio, «si è verificata un’inarrestabile trasformazione della società e dei costumi che ha portato al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale ed al contestuale spontaneo sorgere di forme diverse di convivenza che chiedono (talora a gran voce) di essere tutelate e disciplinate». In questo quadro, ad avviso della Corte trentina è necessario chiedersi se l’istituto del matrimonio, nell’attuale disciplina, sia o meno in contrasto con i principii costituzionali. L’interrogativo si porrebbe, in particolare, rispetto al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. In sostanza, poiché il diritto di contrarre matrimonio costituisce «un momento essenziale di espressione della dignità umana (garantito costituzionalmente dall’art. 2 Cost. e, a livello sopranazionale, dagli artt. 12 e 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, dagli artt. 8 e 12 CEDU e dagli artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), vi è da chiedersi se sia legittimo impedire quello tra omosessuali ovvero se, invece, esso debba essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato di intervenire in caso di impedimenti all’esercizio di esso». Sarebbe innegabile che la questione sia rilevante ai fini della decisione, perché la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme disciplinanti il matrimonio, nella parte in cui non consentono il matrimonio tra omosessuali, influirebbe in modo determinante sull’esito del giudizio a quo. Inoltre, non si potrebbe sostenere che la questione sia manifestamente infondata, perché «quanto sopra osservato non può essere superato da un’interpretazione secondo cui il matrimonio deve e può essere consentito solo a coppie eterosessuali a ragione della sua funzione sociale, principio secondo taluni ricavabile dall’art. 29 Cost. (norma che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio). Detto principio, infatti, si limita a riconoscere alla famiglia un suo ruolo naturale, nel senso che da un lato lo Stato non può prescindere da tale realtà sociale a cui tende per natura la stragrande maggioranza degli individui e, dall’altro, afferma che la famiglia è fondata sul matrimonio; ma certo esso non giunge ad escludere la tutela della famiglia di fatto (che prescinde dal matrimonio) o ad affermare la funzione della famiglia come granaio dello Stato». Ad avviso della rimettente, «l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, molto ben ricordata dal Tribunale di Venezia nell’ordinanza sopra citata, restituisce oggi un concetto di famiglia che porta ad escludere che in forza dell’art. 29 Cost. possa darsi rilevanza solo alla famiglia legittima funzionalmente finalizzata alla capacità procreativa dei coniugi sicché, semmai, è anche in relazione a tale norma di rango costituzionale che la questione sollevata deve essere giudicata meritevole di attenzione da parte del Giudice delle leggi». 5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 3 novembre 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. La difesa dello Stato svolge argomenti analoghi a quelli esposti nel giudizio promosso con l’ordinanza del Tribunale di Venezia. 6. - Si sono altresì costituite, con atto depositato il 2 novembre 2009, le parti private nel giudizio promosso con l’ordinanza della Corte di appello di Trento, signori O. E. e L. L. e signore Z. E. e O. M., dichiarando di ritenere ammissibile e fondata la questione sollevata e chiedendone l’accoglimento. 7. - In quest’ultimo giudizio ha spiegato intervento, con atto depositato il 3 novembre 2009, l’Associazione radicale Certi Diritti, in persona del segretario e legale rappresentante pro-tempore, che, richiamando gli obiettivi statutari dell’Associazione medesima, ha dichiarato di ritenersi legittimata ad intervenire e di ritenere ammissibili e fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Trento, riservandosi ogni ulteriore opportuna illustrazione delle proprie difese e il deposito di ogni eventuale documentazione. 8.- Con atto depositato il 25 febbraio 2010 nel giudizio di legittimità costituzionale promosso con la citata ordinanza della Corte di appello di Trento, hanno spiegato intervento i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z. Gli intervenienti, tutti di sesso maschile, premettono che, con tre atti in pari data 5 novembre 2009, comunicati con lettere inviate l’11 novembre 2009, l’ufficiale di stato civile del Comune di Milano ha reso noto il rifiuto di procedere alle pubblicazioni di matrimonio da loro richieste. Essi osservano che l’interesse proprio e diretto ad intervenire è sorto in data successiva alla scadenza degli ordinari termini del giudizio costituzionale e per questo motivo l’atto di intervento è depositato nel termine di venti giorni antecedenti la data dell’udienza fissata per la discussione. Considerato che si tratta di circostanza temporale indipendente dalla volontà dei ricorrenti e comprovata da documenti formati dalla pubblica amministrazione, richiamato per quanto occorra in via analogica il disposto dell’art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto tempestivo e chiedono, comunque, di essere rimessi in termini. Inoltre, essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto ammissibile, alla luce delle innovazioni introdotte dalla Corte costituzionale, che ha espresso negli ultimi anni un orientamento progressivamente favorevole all’ammissibilità, caso per caso, «soprattutto laddove soggetti singoli o associazioni vantassero un rapporto diretto con la questione di legittimità costituzionale in un processo che ha ad oggetto un interesse pubblico: quello alla decisione sulla legittimità costituzionale della legge». In questo quadro, l’interesse diretto, specifico e concreto degli intervenienti alla pronuncia di questa Corte non potrebbe essere posto in dubbio, perché la declaratoria di fondatezza della questione consentirebbe di ottenere le pubblicazioni di matrimonio già richieste e rifiutate dall’ufficiale di stato civile in base al rilievo dell’inammissibilità, nel vigente ordinamento, di matrimoni tra persone dello stesso sesso. Nel merito, gli intervenienti svolgono considerazioni analoghe a quelle già in precedenza richiamate a sostegno della fondatezza della questione. 9. - In prossimità dell’udienza di discussione le parti private nei due giudizi di legittimità costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Associazione radicale Certi Diritti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive richieste. Considerato in diritto 1. - Il Tribunale di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso». Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso da due persone di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta, ritenendola in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano, sarebbe incentrato sulla diversità di sesso tra i coniugi. Il Tribunale veneziano riferisce gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che, nel vigente ordinamento, non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un suo divieto espresso tra persone dello stesso sesso. Essi si richiamano alla Costituzione e alla Carta di Nizza, rimarcando che l’interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe costituzionalmente illegittima con particolare riguardo agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, e 29 Cost. Tanto premesso, il rimettente rileva che, nell’ordinamento italiano, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato in modo espresso. Peraltro, pure in assenza di una norma definitoria, «l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso». Ad avviso del Tribunale, il chiaro tenore delle disposizioni del codice, regolatrici dell’istituto in questione, non consentirebbe di estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna». D’altra parte, secondo il Tribunale non si possono ignorare le rapide trasformazioni della società e dei costumi, il superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale, la nascita spontanea di forme diverse (seppur minoritarie) di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i princìpi costituzionali. Ciò posto, il Tribunale di Venezia, prendendo le mosse dal rilievo che il diritto di sposarsi costituisce un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale ed in ambito nazionale (art. 2 Cost.), illustra le censure riferite ai diversi parametri costituzionali evocati, pervenendo al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione promossa, che inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso logico-giuridico da compiere al fine di pervenire alla decisione della causa. 2. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso. La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’articolo 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso il decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; ed il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale. La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, passa all’esame della questione di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti, svolgendo, in relazione alle censure prospettate, considerazioni analoghe a quelle esposte dal Tribunale di Venezia. 3. - I due giudizi di legittimità costituzionale, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza. 4. - In via preliminare, deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi dell’Associazione radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z. Ciò in applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, richiamato nell’ordinanza, secondo cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura, avuto altresì riguardo al rilievo che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del detto giudizio di legittimità. 5. - La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost., deve essere dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007, n. 463 del 2002). 6. - Le dette ordinanze muovono entrambe dal presupposto che l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può menzionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile. In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio», come rileva l’ordinanza del Tribunale veneziano. Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che (peraltro, come obiter dicta) si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976). 7. - Ferme le considerazioni che precedono, si deve dunque stabilire se il parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata (con eventuale applicazione dell’art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale. 8. - L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate. Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza. 9. - La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è fondata. Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere). Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata. Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale. Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa. Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto. Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale. In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio. Il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), non è pertinente. La normativa ora citata – sottoposta a scrutinio da questa Corte che, con sentenza n. 161 del 1985, dichiarò inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale all’epoca promosse – prevede la rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza di sentenza del tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato dall’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali (art. 1). Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da quella omosessuale e, perciò, inidonea a fungere da tertium comparationis. Nel transessuale, infatti, l’esigenza fondamentale da soddisfare è quella di far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto è indispensabile, di regola, l’intervento chirurgico che, con la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a realizzare tale coincidenza (sentenza n. 161 del 1985, punto tre del Considerato in diritto). La persona è ammessa al matrimonio per l’avvenuto intervento di modificazione del sesso, autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a coloro che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento per confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale previsto nel vigente ordinamento. 10. - Resta da esaminare il parametro riferito all’art. 117, primo comma, Cost. (prospettato soltanto nell’ordinanza del Tribunale di Venezia). Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme interposte, gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952); pone l’accento su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002), che dichiarò contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale (dopo l’operazione) con persona del suo stesso sesso originario, sostenendo l’analogia della fattispecie con quella del matrimonio omosessuale; evoca altresì la Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, in particolare, l’art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non essere discriminati); menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee, «che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti»; infine, segnala che nell’ordinamento di molti Stati, aventi civiltà giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. Ciò posto, si deve osservare che: a) il richiamo alla citata sentenza della Corte europea non è pertinente, perché essa riguarda una fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un transessuale che, dopo l’operazione, avendo acquisito caratteri femminili (sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col quale però non poteva sposarsi «perché la legge l’ha considerata come uomo» (punto 95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato disciplina e soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982. E, comunque, già si è notato che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame. Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto». A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso». Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna. Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento. Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall’esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso. Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una declaratoria d’inammissibilità della questione proposta dai rimettenti, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi: a) dichiara inammissibile, in riferimento agli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le ordinanze indicate in epigrafe; b) dichiara non fondata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra indicati del codice civile sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le medesime ordinanze. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alessandro CRISCUOLO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA Allegato: ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010 ORDINANZA Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza della Corte di appello di Trento depositata il 29 luglio 2009 (n. 248 R.O. del 2009); rilevato che in tale giudizio è intervenuta l’Associazione Radicale Certi Diritti, in persona del Segretario e legale rappresentante p.t., con atto depositato il 3 novembre 2009; che nel medesimo giudizio sono intervenuti, con atto depositato il 25 febbraio 2010, i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z., tutti di sesso maschile; che né l’Associazione Radicale, né i signori di cui all’intervento in data 25 febbraio 2010 sono stati parti nel giudizio a quo; che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei Ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale), le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008, n. 245 del 2007; ordinanza n. 414 del 2007); che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti a detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo; che, pertanto, sia l’intervento dell’Associazione Radicale Certi Diritti sia quello spiegato con l’atto depositato il 25 febbraio 2010 devono essere dichiarati inammissibili, indipendentemente dal carattere tardivo di quest’ultimo (ordinanza n. 119 del 2008). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili gli interventi dell’Associazione Radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giudiziari, sistemi Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004) di Carlo Guarnieri di Carlo Guarnieri Giudiziari, sistemi sommario: 1. La funzione giudiziaria: rendere giustizia. 2. Il giudice. 3. Le strutture. 4. Il processo. 5. Sistema giudiziario e sistema politico. 6. Le prospettive. □ Bibliografia. 1. La funzione giudiziaria: rendere giustizia La presenza di istituzioni deputate a risolvere i conflitti che non riescono a essere negoziati in modo autonomo dagli interessati è una condizione necessaria affinché un sistema politico possa svolgere in modo efficace le sue funzioni collettive. L'amministrazione della giustizia è la principale di queste istituzioni, essendo quel "complesso di strutture, procedure e ruoli mediante il quale il sistema politico, di cui quello giudiziario è un sottosistema, soddisfa una delle funzioni essenziali per la sua sopravvivenza: l'aggiudicazione delle controversie sull'applicazione concreta delle norme riconosciute dalla società" (v. Marradi, 19832, p. 1045). Perciò, trattandosi di un'articolazione del sistema politico, quello giudiziario partecipa, anche se con caratteristiche proprie, al processo mediante il quale vengono prodotte le "decisioni collettivizzate sovrane" (v. Sartori, 1990, p. 257), la cui capacità di imporsi si basa in ultima istanza sull'uso legale della forza. D'altra parte, la risoluzione dei conflitti tramite l'applicazione di norme non è una prerogativa del solo sottosistema giudiziario, che non la monopolizza e può anzi trovarsi a competere con altre istituzioni, politiche e sociali (v. Komesar, 1994). Soprattutto, non si tratta della sola attività che di fatto il giudiziario svolge. Nell'aggiudicare controversie, ad esempio, esso partecipa alla più ampia funzione di controllo sociale (v. Friedman, 1975). Applicando norme a casi concreti, le strutture giudiziarie adempiono anche a una funzione che, in linea di principio, si distingue da quella amministrativa per il diverso livello di generalità: le decisioni sono rivolte agli individui coinvolti in un contenzioso, piuttosto che a intere categorie di cittadini. Inoltre, i provvedimenti adottati dalle corti presentano sempre ambiti di discrezionalità, sia pure di dimensioni variabili, e assolvono pertanto anche una funzione normativa (v. Cappelletti, 1984). La creatività delle decisioni giudiziarie, a prescindere dal fatto che venga o meno formalmente riconosciuta, ha come conseguenza quella di inserire le corti nei processi di definizione e messa in atto delle politiche pubbliche. Non va infine dimenticato che nel caso di interessi individuali e collettivi frustrati nelle arene politiche si può invocare l'intervento del giudice per tentare di ottenere in questa sede ciò che è stato negato in altre sedi istituzionali (v. Harlow e Rawlings, 1992; v. Komesar, 2001). In questo modo le corti forniscono un canale di articolazione delle domande in grado di funzionare quando altri canali, per ragioni diverse, risultano ostruiti o comunque difficilmente percorribili (v. Zemans 1983; v. Cross, 1999). In sintesi, dal punto di vista della scienza politica il sistema giudiziario appare come una componente funzionalmente specializzata del sistema politico. In quanto tale, concorre ad assegnare d'autorità risorse o valori contesi da individui - e, con crescente frequenza, anche da gruppi - e presenta ambiti rilevanti di sovrapposizione funzionale con altri apparati pubblici. Gli ultimi decenni del secolo scorso ne hanno visto crescere la rilevanza politica nelle democrazie consolidate e anche in quelle di recente instaurazione, dove le esperienze dei regimi non democratici precedenti hanno spinto a rafforzare le garanzie dei cittadini e quindi anche la posizione del sistema giudiziario (v. de Vergottini, 2000). 2. Il giudice La funzione propria del sistema giudiziario - la risoluzione delle controversie - è attribuita a una specifica figura istituzionale, il giudice. Per quanto complesse, le interazioni osservabili in un'aula di giustizia ripropongono solitamente lo schema elementare di una 'triade': un rapporto conflittuale tra due soggetti che vede l'intervento di un terzo, neutrale e disinteressato al suo esito, col compito di prendere una decisione con cui si sanziona la violazione di una norma giuridica (v. Shapiro, 1981). Sia l'efficacia della funzione giudiziaria, sia il consenso nei suoi confronti dipendono dunque in modo critico dal fatto che il giudice sia e appaia effettivamente al di sopra delle parti. Diversi sono gli strumenti che vengono utilizzati per assecondare questo obiettivo. Un primo insieme riguarda i principî che governano il procedimento giudiziario (v. Marradi, 19832). Possono essere intesi come limiti formali ai poteri delle corti e diventano quindi altrettante garanzie basilari per quanti devono sottostare alle loro decisioni (v. sotto, cap. 4). Più diretta è la relazione che si stabilisce tra imparzialità del giudice e garanzie di indipendenza, che costituiscono il principale strumento con cui il giudice è posto al riparo da pressioni o interferenze che possano piegarne l'attività decisionale a scopi di parte. L'indipendenza risponde all'obiettivo di creare le condizioni - organizzative, istituzionali e politiche in senso lato - affinché il giudice possa comportarsi secondo i dettami del proprio ruolo, ossia interpretare e applicare la legge in modo imparziale, senza attendersi benefici né temere sanzioni per le decisioni che prende. Infatti, conviene tenere ferma la distinzione tra mezzi e fini: tra 'garanzie istituzionali' che circondano il singolo giudice e il corpo giudiziario - cui si farà riferimento parlando appunto di indipendenza - e obiettivi cui queste sono preordinate, ossia 'comportamenti' imparziali e autonomi (v. Russell, 2001). Il ruolo che le corti svolgono nel sistema politico è comunque influenzato da numerosi fattori e l'indipendenza di cui godono è solo uno di essi, per quanto di cruciale importanza. Non esiste quindi una relazione diretta fra garanzie di indipendenza e autonomia decisionale (v. Ramseyer e Rasmusen, 1997). Storicamente, la nozione di indipendenza ha avuto come referenti principali l'esecutivo e, in una certa misura, anche il legislativo. Di recente, hanno iniziato a essere considerate anche le forme di influenza, solitamente meno visibili, che si manifestano entro l'organizzazione cui il giudice appartiene. Hanno assunto rilievo le relazioni che si sviluppano in senso orizzontale, con colleghi di pari grado o anche con il pubblico ministero, e soprattutto quelle che presuppongono un dislivello gerarchico, poiché i titolari di posizioni direttive generalmente controllano risorse che si prestano a esercitare forme improprie di influenza. Si possono perciò individuare due versanti del concetto di indipendenza (v. Russell, 2001): quella cosiddetta 'esterna' fa riferimento alle garanzie volte a preservare la magistratura da interferenze che possono provenire dall'ambiente politico e sociale, vale a dire le altre branche di governo, le parti in giudizio, i gruppi d'interesse, ma anche i mezzi di comunicazione; l'indipendenza 'interna', invece, riguarda le interazioni che si sviluppano entro il corpo giudiziario e consiste in garanzie che mirano a proteggere il giudice da pressioni organizzative interne. Le magistrature dei regimi democratici, pur con una serie di tratti comuni, si differenziano ancor oggi per l'assetto organizzativo: di tipo burocratico per quelle operanti nei paesi di civil law, che riprendono i tratti dei corpi amministrativi, mentre in quelle dei paesi di common law prevale la dimensione professionale. Si tratta di una distinzione ideal-tipica, dato che i singoli casi sono spesso molto complessi: tradizionalmente, la magistratura francese è stata molto vicina al tipo burocratico, mentre la magistratura inglese è quella che meglio rappresenta il tipo professionale (v. Guarnieri e Pederzoli, 2002). Entrambi i tipi hanno conosciuto negli ultimi tempi trasformazioni significative. La tendenza a tutelare meglio i diritti individuali non ha mancato di riflettersi positivamente sulle garanzie di indipendenza dei giudici, che sono state rafforzate, soprattutto là dove erano meno solide, nei paesi di civil law. Allo stesso tempo, l'aumento, quantitativo, ma soprattutto qualitativo dei compiti attribuiti al giudiziario si è tradotto in una maggior cura nel processo di reclutamento. I sistemi anglo-americani si sono mantenuti maggiormente nel solco della tradizione, ma ciò non impedisce di cogliere modificazioni di una certa portata che si manifestano con l'emergere di una 'carriera', in alcuni casi prossima a essere istituzionalizzata, come si desume dalla tendenza, nel Regno Unito, a scegliere i giudici fra coloro che hanno svolto funzioni giudiziarie a tempo parziale o, negli Stati Uniti, a promuovere alle corti d'appello i giudici di primo grado. La soluzione di continuità rispetto al passato è invece abbastanza netta in molti sistemi continentali. Qui il reclutamento è spesso controllato e gestito da apposite scuole, che sembrano aver modificato gli atteggiamenti del corpo giudiziario, favorendone una certa diversificazione culturale. Inoltre, inserimenti di personale esterno vengono fatti con maggior frequenza. Per rafforzare la propria indipendenza, molti ordinamenti si sono dotati, in epoca più o meno recente, di nuovi attori istituzionali, i Consigli superiori della magistratura, che per molti aspetti hanno segnato un punto di svolta nelle relazioni tra giustizia e politica (v. sotto, cap. 5). 3. Le strutture L'espandersi e il diversificarsi dell'intervento legislativo, il progressivo riconoscimento di nuovi diritti e la crescente domanda di giustizia che si accompagna a questi fenomeni si riflettono anche sulle strutture dei sistemi giudiziari, che tendono sempre più a prevedere procedure semplificate o a orientarsi verso forme non giudiziarie di risoluzione delle controversie (v. Blankenburg, 2001). La tradizionale distinzione fra paesi di civil law e paesi dicommon law continua comunque a mantenere il proprio valore. In particolare, nell'ambito della tradizione di civil law i sistemi giudiziari sono spesso costituiti da un numero variabile di sottosistemi - fra cui spicca quello della giustizia amministrativa - che operano in modo relativamente autonomo gli uni rispetto agli altri. La frammentazione interna che ne deriva si riflette anche sullo status dei giudici, che qui formano corpi distinti, ciascuno dei quali è soggetto a una propria normativa per quanto concerne le assunzioni, la carriera, ecc. Invece, i paesi anglosassoni - e soprattutto gli Stati Uniti - si avvicinano maggiormente al caso di una giurisdizione unica, dato che vi manca un complesso realmente separato di corti speciali. Crescente rilievo ha assunto la giustizia costituzionale, cui spetta risolvere una gamma relativamente ampia di controversie che possono insorgere nel sistema politico. Basti pensare ai conflitti tra i diversi poteri dello Stato o tra governo centrale e autonomie locali, che vedono come controparti in giudizio istituzioni pubbliche. Non meno importanti sono i conflitti sulla conformità degli atti normativi alla costituzione, che possono essere avviati da autorità pubbliche espressamente indicate dalla legge, nonché, come spesso accade, da singoli cittadini. Anche perché attivata ormai con notevole frequenza, questa è forse la funzione politicamente più incisiva fra tutte quelle che possono essere attribuite al giudice: mediante il controllo di costituzionalità, infatti, una norma votata da una maggioranza parlamentare può essere abrogata da una decisione che, nella maggior parte dei casi, trae origine da un'azione individuale. La seconda metà del Novecento ha visto la giustizia costituzionale diffondersi, specie nei paesi dell'Europa continentale. L'instaurazione di regimi democratici è stata spesso caratterizzata dall'istituzione di forme di controllo di costituzionalità: Italia e Germania subito dopo la seconda guerra mondiale, Spagna e Portogallo negli anni settanta, i paesi dell'Europa orientale e dell'America Latina negli anni novanta. Non sono mancate significative innovazioni anche nei paesi di common law: nel 1982 il Canada ha adottato la Canadian charter of rights and freedoms, che ha introdotto anche in quel paese il controllo giudiziario di costituzionalità; nel Regno Unito, ilHuman rights act 1998 ha attribuito alle corti il potere di valutare la conformità delle leggi ai diritti individuali riconosciuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Anche se il giudice non può abrogare una norma legislativa, ma solo dichiararne l'incompatibilità con la Convenzione, si tratta di un'innovazione di grande rilievo per quel paese. I paesi dell'Europa continentale tendono ad affidare il controllo di costituzionalità ad apposite corti e non al giudice ordinario. Anche relativamente a questa funzione è prevalsa la scelta di istituire nuove unità organizzative, piuttosto che fare assegnamento su quelle già esistenti, frammentando così ulteriormente il sistema giudiziario. Va però tenuto presente che le corti costituzionali europee hanno preso forma in contesti politici particolari, spesso segnati da esperienze autoritarie (quando non totalitarie) più o meno protratte nel tempo (v. Shapiro e Stone Sweet, 1994) e dalla conseguente incertezza circa la lealtà ai principî democratici dei corpi giudiziari ereditati dai passati regimi. A queste corti è stata dunque riservata un'apposita posizione nel sistema giudiziario, tale da riflettere in buona sostanza il ruolo intrinsecamente politico che di fatto svolgono. Si contraddistinguono, infatti, per una composizione molto diversa da quella tipica delle altre corti, ordinarie e speciali, dato che generalmente una parte almeno dei loro componenti viene nominata dalle altre istituzioni politiche (v. Stone Sweet, 2000). 4. Il processo Come accennato, il consenso nei confronti del procedimento giudiziario - e quindi anche la sua efficacia - viene di solito rafforzato da una serie di principî. Rientrano tra questi il principio del giudice 'naturale', da cui discende l'obbligo di apprestare regole che consentano di individuare l'organo competente a decidere prima dell'insorgere della controversia, per evitare così che esso sia scelto in relazione ai singoli casi ingenerando con ciò sospetti di parzialità. L'impossibilità per il giudice di procedere in mancanza di una richiesta esterna si traduce invece nel principio di 'passività': il procedimento deve essere iniziato da un attore diverso da quello che dovrà decidere il caso, il pubblico ministero (come solitamente avviene nelle cause penali) o un privato (nelle cause civili). Perciò, al giudice non spetta alcun potere di controllo sulla formazione dell'agenda decisionale, che viene definita da altri. Si tratta di un limite considerevole al suo potere e tende a fugare il sospetto di un interesse personale al caso. Il principio del 'contraddittorio' conferisce alle parti il diritto di esporre le proprie rispettive posizioni, di modo che la sentenza possa apparire come l'esito di una ponderata valutazione di tutti gli elementi presentati alla corte. Anche il principio di 'legalità' concorre a rafforzare l'imparzialità, imponendo al giudice di applicare norme preesistenti, e quindi conosciute o conoscibili dalle parti, senza modellarle in modo discrezionale e dunque potenzialmente arbitrario. Infine, il giudice è tenuto a spiegare nelle 'motivazioni' della sentenza il ragionamento seguito nel collegare i fatti esposti con le norme applicabili. Così la decisione può essere presentata come la risposta fornita ai litiganti, in maniera tecnica e impersonale, non dalla corte ma dal sistema normativo. Le democrazie contemporanee hanno visto i propri sistemi giudiziari adeguarsi in misura sempre maggiore a questi principî e in particolare a quelli del giudice naturale, della sua passività e del contraddittorio. La conseguenza è stata un certo appesantimento delle procedure che, insieme alla crescita della domanda di giustizia, ha inciso negativamente sulla durata dei processi. In genere, si è cercato di ovviare al problema attraverso una differenziazione delle procedure, affidando i casi considerati di minore rilievo a modalità alternative di risoluzione dei conflitti, caratterizzate da minori formalità e da minori costi, o addirittura, come vedremo fra poco, ampliando i poteri del pubblico ministero. Perciò, nell'ambito dei sistemi giudiziari contemporanei può sembrare poco realistico parlare di processo al singolare. I procedimenti tendono a essere sempre più numerosi e spesso variano al variare del loro oggetto e delle stesse corti che li amministrano. Un elemento di particolare rilievo sono comunque i mutamenti che hanno investito le regole che stabiliscono quali attori possono intentare un causa o parteciparvi. In termini generali, tutti i sistemi riconoscono questa cosiddetta 'legittimazione ad agire' a soggetti individuali che abbiano un interesse diretto e personale. Si tratta di un filtro che tende a precludere l'accesso alla giustizia ai gruppi e fa del procedimento giudiziario uno strumento poco adatto per articolare richieste con cui si intendano promuovere o proteggere interessi collettivi (v. Harlow e Rawlings, 1992; v. Komesar, 1994). Di recente, però, negli Stati Uniti prima e in Europa poi, il processo ha cominciato ad aprirsi a nuove forme di rappresentanza in giudizio - class actions, actions d'intérêt collectif,Verbandsklagen (v. Cappelletti, 1994) - che consentono l'azione a 'classi' di cittadini. Può trattarsi di gruppi organizzati che usano il processo per affermare e tutelare interessi circoscritti o particolaristici (v. Cross, 1999), oppure di associazioni che agiscono in difesa di interessi diffusi, come quelli dei consumatori. È evidente che in questi casi la rilevanza delle istanze rivolte al giudice e le possibili ricadute della sua decisione tendono a essere maggiori di quelle normalmente associate a un'azione individuale. Anzi, sviluppi di questo tipo mettono bene in evidenza la funzione politica delle corti e il fatto che siano percepite in misura crescente come un canale capace di operare parallelamente ad altri e più classici canali istituzionali di partecipazione al processo politico e in competizione con essi (v. Hershkoff e McCutcheon, 2000; v. Komesar, 2001; v. Sarat e Scheingold, 1997). Quanto alla struttura interna del processo, la classica contrapposizione tra rito inquisitorio e rito accusatorio, con cui vengono delineate le differenze rispettivamente tra i paesi continentali e il mondo anglosassone, mantiene una sua validità, pur trascurando la specificità dei singoli casi. Mentre il modello inquisitorio si caratterizza per una concentrazione di poteri in capo al giudice, quello accusatorio è invece imperniato sulle parti e soprattutto sui loro rappresentanti legali, gli avvocati. Laddove il primo prefigura il processo come un'indagine ufficiale condotta da un funzionario pubblico cui si riserva un ruolo attivo, il secondo lo concepisce come uno scontro tra due litiganti posti su un piano di perfetta parità formale davanti a una corte per definizione passiva, che interviene, cioè, solo in caso di violazione delle regole del gioco. Ancora, se lo stile inquisitorio è volto all'accertamento della verità, quello accusatorio assegna la ragione a chi meglio argomenta la propria tesi. In estrema sintesi, a un processo guidato e diretto dal giudice in ogni sua fase si contrappone un processo lasciato al controllo delle parti (v. Reichel, 19992, p. 56). Comunque, questi costrutti, oltre a non essere sempre in grado di catturare la varietà degli assetti processuali, non chiariscono le ragioni che possono spiegare le diverse impostazioni (v. Damasíka, 1986). La diversa allocazione dei poteri tra il giudice e le parti può essere infatti collegata agli obiettivi assegnati al processo: la 'risoluzione dei conflitti' è certamente la sua funzione primaria, ma il processo si presta a essere utilizzato anche come strumento di 'attuazione delle scelte politiche', pur nell'ambito circoscritto della singola controversia. Nel primo caso viene pensato come una semplice arena istituzionale messa a disposizione dei contendenti affinché questi possano confrontare le rispettive pretese in modo autonomo, entro un quadro di regole volte essenzialmente a garantire una decisione che ponga termine alla lite. Nel secondo, la disputa, anche se di natura civile, tende a essere percepita come problema pubblico, rispetto al quale il processo è un mezzo con cui applicare le scelte collettive - la legge - e ribadire i valori generali che le sottendono. Quindi, una cultura politica attenta ai diritti e alle libertà individuali tenderà verosimilmente a privilegiare lo schema 'avversariale' dello scontro ad armi pari tra litiganti, lasciando loro margini abbastanza ampi per organizzare un confronto dialettico che si configura in buona sostanza come 'affare delle parti'. Di converso, nei casi in cui si ritiene che l'interesse collettivo debba prevalere sulle particolari aspirazioni o preferenze dei singoli è più probabile che il processo diventi 'affare dello Stato', assumendo quindi il profilo di un'inchiesta volta a ristabilire un ordine giuridico violato e affidata perciò al controllo di un funzionario pubblico, il giudice. Se da una parte il modello ideale di riferimento sembra essere quello del mercato, dall'altra è invece forte la presenza di una mano pubblica che si fa carico di definire e perseguire il bene comune (v. Damasíka, 1986). In questo contesto, le tendenze verso un contenimento del ruolo dello Stato, manifestatesi a partire dagli anni ottanta con alterna efficacia in molti paesi a regime democratico, non hanno però arrestato la crescita della rilevanza politica delle decisioni giudiziarie. Anzi, il processo di deregolazione delle attività economiche ha teso a rafforzare il ruolo della giustizia civile o di quella amministrativa (v. Kagan, 2001) e spesso ha dato luogo alla creazione di ibridi istituzionali - le cosiddette 'autorità amministrative indipendenti' - che mescolano in varia misura tratti giudiziari e amministrativi (v. La Spina e Majone, 2000). Anche nel settore penale sono emerse tendenze di vario segno. Da un lato, i modelli processuali di tipo accusatorio - che sembrano meglio garantire l'imparzialità del giudice - hanno incontrato crescente favore anche nei paesi di civil law (v. Delmas-Marty, 1995); dall'altro, si è assistito a un rafforzamento del ruolo del pubblico ministero, l'attore che nel processo penale rappresenta tradizionalmente gli interessi della collettività, dello Stato (v. Jehle, 2000). Diversi sono gli elementi che hanno rafforzato il ruolo del pubblico ministero. In paesi come la Germania e l'Italia, per esempio, l'abolizione del giudice istruttore e l'introduzione di modelli processuali tendenzialmente accusatori ne hanno certamente accentuato il ruolo nella fase pre-dibattimentale (v. Delmas-Marty, 1995). Si è inoltre manifestata la tendenza a riconoscere al pubblico ministero maggiori garanzie, pur attenuate rispetto a quelle del giudice e - con l'eccezione dell'Italia - tali da escludere che si possa parlare di indipendenza istituzionale (v. Di Federico, 1998). Questa evoluzione va collegata al rilievo acquisito dall'azione penale e alle sue possibili implicazioni politiche. Le nuove forme di criminalità e la maggiore richiesta di sicurezza da parte dei cittadini hanno infatti contribuito ad alimentare una ipertrofia del diritto penale, che ha dilatato progressivamente il proprio ambito, anche con la creazione di nuove tipologie di reati, talora definiti in termini più generali rispetto alle fattispecie tradizionali (v. Garapon e Salas, 1996). Se per un verso questo fenomeno amplia le competenze del pubblico ministero, e verosimilmente anche la sua discrezionalità, per un altro rende ancora più avvertita l'esigenza di filtrare i casi, rafforzando dunque la posizione delle strutture che presidiano l'accesso. Infatti, il tentativo di decongestionare il sistema giudiziario ha favorito il ricorso a procedure alternative di trattamento della devianza che assumono forme concrete alquanto diverse, ma non di rado attribuiscono un ruolo significativo al pubblico ministero, il quale in pratica può trovarsi a svolgere compiti quasi-giudiziari (v. Delmas-Marty, 1995; v. Fionda, 1995). In questo contesto lo stesso principio di obbligatorietà dell'azione penale ha perso rilievo, fatto che si è riflesso, ad esempio in Germania, in misure che ne hanno anche formalmente circoscritto l'applicazione (v. Jehle, 2000). Va aggiunto che l'iniziativa penale si presta a essere utilizzata anche per fini diversi da quelli formalmente enunciati, o quanto meno può ingenerare il sospetto di un suo uso partigiano. In molti paesi, l'intervento sulla corruzione politico-amministrativa offre del resto un esempio emblematico dell'impatto della funzione requirente. In questi casi si è talvolta manifestata una sorta di 'criminalizzazione' della responsabilità politica, con uomini di governo sottoposti a procedimento penale non solo e non tanto per corruzione o finanziamento illecito della politica, quanto per via di decisioni prese nell'esercizio delle proprie funzioni (v. Beaud, 1999). Nel complesso, questi elementi agiscono dunque in direzioni diverse. Comportano cioè la previsione di meccanismi che, da una parte, consentano di ancorare l'iniziativa penale e l'attuazione delle politiche criminali al circuito delle scelte collettive e, dall'altra, ne inibiscano l'uso strumentale o fazioso o volto a snaturarne i caratteri (v. Di Federico, 1998). 5. Sistema giudiziario e sistema politico Le relazioni fra giustizia e politica nei regimi democratici hanno conosciuto di recente mutamenti di rilievo. È infatti aumentata notevolmente l'incidenza politica dell'azione giudiziaria. Si sono ampliati gli ambiti decisionali in cui i giudici intervengono, con un allargamento delle materie oggetto di decisione giudiziaria: è la cosiddetta 'giudiziarizzazione della politica' (v. Tate e Vallinder, 1995). Alla giustizia non tocca più solo giudicare delle controversie fra cittadini, pur influenti, o fra cittadino e amministrazione, ma anche valutare la compatibilità della legge con un insieme di norme superiori, fino a risolvere i conflitti fra le principali istituzioni politiche e talvolta a esercitare una sorta di azione di responsabilità nei confronti dei titolari delle funzioni di governo. Esistono fattori di lungo periodo che favoriscono questo aumento dell'incidenza politica del sistema giudiziario. Fra questi vanno ricordati soprattutto il crescente intervento pubblico nella vita sociale ed economica e un'evoluzione degli atteggiamenti dei cittadini che mette un forte accento sui diritti individuali (v. Shapiro, 1993). In particolare, sono importanti l'affermarsi dello Stato sociale e il crescente 'gigantismo' delle organizzazioni economiche e sociali (v. Cappelletti, 1984). L'espansione dei diritti sociali, la crescita degli apparati amministrativi incaricati di tutelarli, la crescente, e inevitabile, delega all'esecutivo di funzioni un tempo riservate al legislativo e l'aumentata rilevanza che decisioni di soggetti formalmente privati hanno per un numero sempre più ampio di cittadini hanno moltiplicato le occasioni di conflitto fra cittadini, Stato e grandi organizzazioni, e perciò rafforzato il bisogno di tutela nei confronti di apparati amministrativi che sempre più si ingeriscono nella vita dei singoli. Proprio per le sue caratteristiche procedurali, che fanno sì che una risposta alle domande del cittadino vada comunque data, il sistema giudiziario si è trovato sollecitato a intervenire a difesa degli interessi dei singoli nei confronti delle grandi organizzazioni pubbliche e private. Inoltre, si sono modificati gli atteggiamenti individuali e collettivi nei confronti del diritto. Si è sviluppata una domanda di giustizia sempre più pervasiva, che sta diventando uno dei tratti caratteristici dei regimi democratici contemporanei. La 'sete di diritti' individuali e collettivi - alimentata dal costituzionalismo liberale, nazionale e sovranazionale, dall'affermarsi dello Stato sociale e soprattutto dell'individualismo della cosiddetta 'società orizzontale' - si rivolge con sempre maggiore frequenza ai tribunali per tentare di far valere pretese che altrove non hanno trovato risposta (v. Friedman, 1985 e 1999). Non tutti i sistemi politici hanno conosciuto in eguale misura questo fenomeno. In linea di principio, condizione necessaria perché il potere giudiziario si espanda è la presenza di attori politicamente influenti interessati al suo rafforzamento e in grado di favorire decisioni che vadano in questa direzione (v. Epp, 1998). Questi attori sono motivati ad agire in tal modo da due ordini di considerazioni: devono ritenere di avere qualcosa da guadagnare da un aumento del rilievo politico delle decisioni giudiziarie, devono cioè ritenere che esse saranno loro più favorevoli rispetto a quelle prese in altra sede, specie dove prevale il principio maggioritario; devono inoltre esser convinti che le decisioni giudiziarie godano di un certo grado di legittimità ed efficacia, vengano cioè considerate legittime, e quindi accettate, dalla comunità politica e siano in grado di produrre i risultati attesi. L'azione di questi gruppi deve comunque produrre decisioni che aumentino l'incidenza politica della magistratura e ne rafforzino l'indipendenza. Fra le prime vanno annoverate quelle misure che tendono ad ampliare il raggio d'azione degli organi giudiziari o quelle che aumentano le possibilità di invocare l'intervento del giudice. Infatti, quanto più basse sono le soglie d'accesso al sistema, specie per i gruppi di interesse, tanto più importante risulta il peso relativo della giustizia, che può essere così utilizzata come canale di articolazione delle domande politiche accanto agli altri canali istituzionali (v. Cappelletti, 1989, pp. 213-308; v. Harlow e Rawlings, 1992; v. Komesar, 2001). Importante è anche il ruolo del pubblico ministero. L'analisi comparata indica che un pubblico ministero indipendente e nel contempo legato al corpo giudiziario sul piano organizzativo e culturale - il caso cioè delle strutture a corpo unico, come in Francia e soprattutto in Italia - è un elemento che esalta fortemente il rilievo politico della magistratura (v. Di Federico, 1998). Importanti sono poi i poteri del giudice. Un assetto processuale di tipo inquisitorio, che affida al giudice un ruolo più attivo, tende ad accrescerne la capacità di intervento in ambito politico e sociale. Lo stesso si può dire per il controllo di costituzionalità, almeno nella misura in cui la magistratura ordinaria partecipa a tale funzione. A differenza di quanto accade negli Stati Uniti, il modello europeo concentra tale potere nelle mani di apposite corti, ma lascia comunque ai giudici ordinari il compito di filtrare i ricorsi, cosa che attribuisce loro margini di intervento e di valutazione discrezionale. Così il principio di subordinazione alla legge, tradizionalmente molto forte nell'Europa continentale, è stato lentamente ma progressivamente eroso. Le prerogative in tal modo assunte dalle magistrature europee sono state ulteriormente rafforzate dagli sviluppi in atto sul piano comunitario e internazionale. Ad esempio, il controllo diffuso delle leggi, che il legislatore continentale ha respinto all'interno dei singoli ordinamenti nazionali, ricompare sulla scena sovranazionale traducendosi nel potere formalmente riconosciuto a tutti i giudici dell'Unione Europea di disapplicare una legge nazionale ritenuta in contrasto con una norma comunitaria (v. Guarnieri e Pederzoli, 2002, pp. 149-152). Infine, contano gli attori chiave del sistema giudiziario: i giudici. Se l'indipendenza istituzionale è una condizione necessaria ma non sufficiente perché la magistratura intervenga politicamente, è altrettanto importante che i giudici abbiano la volontà di intervenire. Per questo, una concezione attivista del ruolo del giudice è un elemento di pari, se non superiore, importanza. La definizione del ruolo giudiziario è influenzata dalle modalità di reclutamento e formazione dei giudici e in generale dal loro status. A questo proposito, i mutamenti che si sono avuti di recente in molti paesi di civil law hanno modificato profondamente alcuni caratteri strutturali di quelle magistrature. Le garanzie di indipendenza sono state quasi dappertutto rafforzate, così come sono mutate le modalità con cui l'influenza politica può essere esercitata sul corpo giudiziario (v. Guarnieri e Pederzoli, 1997, pp. 130-135). Infatti, se nelle magistrature professionali le considerazioni politiche entrano direttamente nel processo di reclutamento, nei paesi di civil law il reclutamento dei giudici viene invece effettuato tramite un concorso pubblico che, per la sua natura prevalentemente tecnica, non offre alla politica particolare spazio. Queste magistrature erano caratterizzate, almeno un tempo, da un assetto gerarchico e quindi da una carriera: l'influenza degli altri poteri dello Stato - l'esecutivo e, in misura inferiore, il legislativo - si esercitava soprattutto attraverso gli alti magistrati, di solito nominati dal governo. Il ritorno della democrazia in Europa nell'ultimo dopoguerra ha però segnato l'inizio di una fase di profonde riforme nei sistemi giudiziari dei paesi di civil law. Abbiamo già osservato che l'introduzione del controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi ha favorito l'emergere di un atteggiamento più critico nei confronti della legge. Nei paesi dell'Europa latina (Francia, Italia, Portogallo e Spagna) l'istituzione di Consigli superiori della magistratura ha trasformato radicalmente il tradizionale assetto istituzionale delle magistrature burocratiche, se non altro per il fatto che questi organi sono composti in buona parte da magistrati eletti dai propri colleghi. Una prima conseguenza dell'istituzione di un Consiglio superiore è ovviamente un aumento dell'indipendenza esterna, dovuta alla riduzione dei tradizionali poteri dell'esecutivo. Inoltre, tale istituzione tende a rafforzare anche l'indipendenza interna della magistratura, dato che di regola tutti i suoi gradi vi sono rappresentati. Del resto, nei paesi che hanno introdotto un Consiglio superiore la tradizionale carriera tende a essere progressivamente sostituita con meccanismi di avanzamento basati piuttosto sull'anzianità di servizio, che riducono ulteriormente i poteri dell'alta magistratura. L'indebolimento del legame gerarchico comporta conseguenze molto importanti per il corpo giudiziario. Il gruppo di riferimento dei giudici muta e tende a diversificarsi. Gli attori tradizionali - gli alti gradi e anche la dottrina accademica - perdono importanza, dal momento che non sono più i soli a valutare la capacità professionale del giudice, i cui stessi contenuti tendono a sfumare: non sono più solo le conoscenze giuridiche - o la conformità ai valori dell'élite giudiziaria - a essere rilevanti. D'altra parte, altri attori, esterni al sistema giudiziario, acquistano una nuova importanza. Innanzitutto, i gruppi politici presenti in parlamento, cioè i partiti, qualora siano in grado di influire sulla scelta dei componenti del Consiglio. Ma anche i mezzi di comunicazione di massa, che sono interessati all'azione della magistratura in quanto offre loro un prezioso materiale e possono amplificare l'azione del magistrato, apportandogli allo stesso tempo cospicue gratificazioni (v. Soulez-Larivière, 1993; v. Giglioli, 1996; v. Garapon, 1996). Inoltre, l'istituzione di un Consiglio superiore favorisce la crescita di un nuovo protagonista, le associazioni di magistrati, le quali tendono ad acquisire un ruolo dirigente all'interno di un organo elettivo quale spesso è il Consiglio, dal momento che organizzano la partecipazione elettorale dei magistrati. Nel caso italiano, per esempio, non vi sono componenti togati eletti che non siano sostenuti dall'una o dall'altra corrente. In effetti, le decisioni del Consiglio sono il prodotto di un processo che vede interagire i rappresentanti dei gruppi politici e delle associazioni giudiziarie: sono dunque gli allineamenti fra i vari raggruppamenti a essere veramente importanti. A mano a mano che l'azione giudiziaria acquista importanza, il Consiglio diviene il luogo istituzionale in cui la magistratura o, meglio, i suoi rappresentanti eletti possono negoziare con i rappresentanti del mondo politico, entrando così in relazione con esso in modo nuovo, almeno rispetto al passato (v. Guarnieri, 1992; v. Rebuffa, 1993). Gli ultimi decenni del secolo scorso hanno visto pertanto affermarsi quella che possiamo chiamare la 'terza via' dell'influenza politica, accanto a quelle dei paesi anglosassoni e della tradizione burocratica. L'istituzione di un Consiglio superiore ha comportato un mutamento cruciale nell'assetto gerarchico tradizionale, con un'erosione dei poteri dell'esecutivo e degli alti gradi, una conseguente diversificazione della composizione del gruppo di riferimento e il suo spostamento, almeno parziale, all'esterno dell'organizzazione. Tutti elementi che sembrano aver favorito un'evoluzione in senso attivista del ruolo giudiziario. 6. Le prospettive L'espansione del potere giudiziario costituisce senza dubbio una delle principali novità nel panorama recente delle democrazie contemporanee. L'instaurazione di regimi democratici in Europa orientale e in America Latina ha comportato un deciso rafforzamento dell'indipendenza della magistratura, spesso accompagnato dall'introduzione di forme di controllo giudiziario di costituzionalità. Si tratta però di regimi in via di consolidamento, dove non è ancora chiaro il ruolo che concretamente assumerà il sistema giudiziario (v. Zaffaroni, 1994; v. Larkins, 1996; v. Magalhôes, 1999; v. de Vergottini, 2000). È soprattutto nelle democrazie consolidate dell'Europa continentale che la seconda metà del Novecento ha registrato mutamenti notevoli rispetto al passato, quando la magistratura era collocata in una posizione di sostanziale subordinazione nei confronti delle istituzioni rappresentative. Lo stesso processo di integrazione europea non ha mancato di avere una notevole influenza sull'evoluzione dei sistemi giudiziari, anche se questo non significa necessariamente una convergenza che porti a una più o meno completa assimilazione (v. Legrand, 1996; v. Markesinis, 1997). Come abbiamo accennato, la possibilità per il giudice nazionale di richiedere alla Corte europea di giustizia una decisione sulla compatibilità di norme nazionali con norme comunitarie, e di decidere poi di conseguenza, ha prodotto una situazione che di fatto molto si avvicina al controllo diffuso di costituzionalità tipico degli Stati Uniti d'America. Anche l'azione della Corte europea dei diritti dell'uomo - che investe un numero maggiore di paesi - ha avuto conseguenze non troppo diverse, delineando così un quadro in cui la tradizionale distinzione fra controllo diffuso (tipico degli Stati Uniti) e accentrato (caratteristico dei sistemi dell'Europa continentale) non è più così netta. Il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel maggio del 1999, ha poi inserito fra le competenze dell'Unione Europea gran parte delle materie che riguardano l'amministrazione della giustizia. È così in corso un tentativo di rendere più omogenei gli assetti dei paesi dell'Unione, ma soprattutto di facilitare le comunicazioni fra i sistemi giudiziari nazionali. In campo penale si è anche manifestata la tendenza a coordinare, almeno in settori considerati di rilevanza comunitaria, l'esercizio dell'azione penale. All'inizio del 2001 ha iniziato a funzionare Eurojust, un'unità composta da magistrati e funzionari di polizia dei paesi dell'Unione, con il compito di facilitare il coordinamento soprattutto nel settore delle indagini sulla criminalità organizzata, e nel prossimo futuro è previsto che i mandati d'arresto possano essere eseguiti senza ricorrere alle tradizionali procedure che di solito attribuiscono un ruolo cruciale ai ministeri della giustizia e degli esteri. Nel frattempo, è ormai all'ordine del giorno l'istituzione di un procuratore incaricato di esercitare l'azione penale a livello europeo (v. Rancé e de Baynast, 2001). È dunque probabile che presto potremo assistere a indagini penali che si svilupperanno da un paese dell'Unione a un altro senza sostanziale soluzione di continuità. Del resto, si tratta di fenomeni che rientrano in una tendenza più generale che ha conosciuto di recente una forte accelerazione e ha portato a parlare di giustizia 'universale', 'senza frontiere' o transnazionale (v. Roht-Arriaza, 2001). Infatti, sempre più importante è il ruolo dei tribunali sovranazionali: oltre a quelli già citati, bisogna ricordare i tribunali internazionali di giustizia per i crimini contro l'umanità e soprattutto la Corte penale internazionale, entrata in funzione nel 2003. Avviene poi sempre più di frequente che individui o gruppi cerchino, al di là dei confini nazionali, il tribunale che ritengono più conveniente per ottenere soddisfazione alle proprie domande. Un caso particolarmente clamoroso è stato quello dell'ex capo dello Stato del Cile, Augusto Pinochet, arrestato nel 1998 da un tribunale inglese su richiesta di un giudice istruttore spagnolo che indagava sui gravi reati commessi in quel paese durante il regime da questi capeggiato. Anche se in seguito il governo britannico ha deciso di rilasciare Pinochet, per via delle sue condizioni di salute, è stato stabilito un precedente significativo. Il processo di giudiziarizzazione è stato accolto quasi sempre con favore, con la parziale eccezione di coloro - soprattutto uomini politici - che ne hanno fatto le spese. Negli Stati Uniti molti giuristi accademici, delusi dalla prudenza del Partito democratico e dalle difficoltà di far passare riforme incisive a livello politico, hanno cominciato a guardare sempre di più alla Corte Suprema, che con la presidenza di Earl Warren aveva assunto un profilo nettamente 'liberale' (v. Shapiro, 1995). Anche in Europa, buona parte dei giuristi - e ovviamente dei magistrati - ha visto di buon occhio una magistratura più forte (v. Renoux, 1999; v. Robert e Cottino, 2001). Raramente però è stato affrontato il problema di giustificare la posizione di un potere giudiziario indipendente in una democrazia. Di solito si tende a negare la presenza di un reale potere giudiziario - ad esempio riproponendo una concezione del ruolo del giudice che ne nega la creatività, senza alcuno sforzo per verificarne la corrispondenza con la realtà (v. Guarnieri, 1992, pp. 118-128) - o magari a giustificarlo sulla base di un giudizio sbrigativamente negativo sul funzionamento delle istituzioni rappresentative (v. Pizzorno, 1998). La giudiziarizzazione presenta senz'altro delle conseguenze positive: una magistratura più forte significa, almeno in linea di principio, più forti garanzie per i cittadini, dato che così il giudice ha maggiori possibilità di svolgere il ruolo di terzo imparziale nelle controversie che vedono il cittadino confrontarsi con lo Stato. Inoltre, un aumento dell'incidenza politica del sistema giudiziario significa che un nuovo canale viene aperto alle domande che si rivolgono al sistema politico. Singoli e gruppi hanno così a disposizione un nuovo modo per cercare di ottenere soddisfazione alle proprie richieste, con la conseguenza che ne esce migliorata la capacità complessiva di risposta del sistema politico (v. Shapiro, 1995, pp. 61 ss.). D'altra parte, l'espansione dell'azione giudiziaria non ha sempre e solo conseguenze positive. In primo luogo, non è detto che il procedimento giudiziario sia in grado di svolgere in modo soddisfacente i nuovi compiti che si trova ad affrontare (v. Rosenberg, 1991; v. Shapiro, 1993, pp. 61 ss.). Esso si caratterizza per essere vincolato a una serie di principî che ne limitano la capacità di raggiungere obiettivi (v. sopra, cap. 4). Modificarli non può che erodere la legittimità dell'azione del giudice, elemento cruciale per ottenere il rispetto delle sue decisioni. Inoltre, il processo di giudiziarizzazione tende a sottrarre competenze alle arene decisionali governate dal principio maggioritario, o dove comunque hanno migliore accesso i gruppi che dispongono di risorse politico-elettorali. Perciò, anche se non sempre le istituzioni rappresentative si distinguono per la loro ricettività, non bisogna dimenticare che la giudiziarizzazione tende a dare maggior spazio a quei gruppi che dispongono di risorse da impiegare nell'arena giudiziaria: ad esempio, conoscenze specialistiche o anche semplicemente possibilità di stare a lungo in giudizio (v. Cross, 1999). Infine, la giudiziarizzazione non solo comporta una certa frammentazione del potere politico, ma tende anche a erodere la responsabilità politica, cioè il principio, fondamentale in una democrazia, che vi sia sempre in ultima istanza un responsabile per le principali decisioni che toccano la comunità, qualcuno cioè che possa essere sostituito attraverso la competizione elettorale. Giudiziarizzare la politica significa dare più potere a chi non può essere democraticamente sostituito, affievolendo così il principio della responsabilità democratica dei governanti. È certamente vero che le democrazie contemporanee non concedono al principio maggioritario una preminenza assoluta. Dato che si contraddistinguono per limitare l'esercizio del potere, prevedono limiti a quanto la maggioranza può decidere e affidano spesso alla magistratura il compito di farli rispettare. D'altra parte, proprio la loro caratteristica di regimi politici dove il potere viene limitato implica che lo stesso potere giudiziario debba incontrare dei limiti. Il problema - sempre aperto - è semmai quello di individuarli. A ogni modo, forse come reazione all'espansione del potere giudiziario, di recente ha cominciato a manifestarsi una tendenza che, pur riconoscendo la necessità di garantire l'indipendenza dei giudici, sottolinea l'esigenza di introdurre forme di responsabilità - intese in senso lato, di accountability - che tengano conto della duplice natura della funzione giudiziaria, servizio pubblico ma allo stesso tempo esercizio di potere politico (v. Hammergren, 2001). Nella realtà, il processo di giudiziarizzazione della politica spinge individui e gruppi a cercare di influire in qualche modo sulla magistratura, spesso innescando così un processo di politicizzazione della giustizia. Esempi di questa tendenza sono gli interventi ormai sempre più evidenti di gruppi di vario tipo nel processo di reclutamento dei giudici statunitensi. Così, la nomina o l'elezione di un giudice, soprattutto se della Corte Suprema federale, sono ormai diventate occasione perché i vari gruppi mettano in campo le proprie risorse, con i meno dotati in netto svantaggio. Oltretutto, in questo modo l'interpretazione delle norme dipende, e soprattutto appare sempre più dipendere, dagli orientamenti politici dei giudici (v. Tiller e Cross, 1999). Comunque, in quel paese la nomina in tarda età, insieme al prestigio e alle garanzie della posizione, rafforzano l'indipendenza del giudice, dato che la toga viene vista come il coronamento della carriera professionale: rarissimi sono i casi di giudici che abbandonano le corti superiori per accettare altre posizioni. Perciò, l'influenza della politica, difficilmente evitabile nella misura in cui cresce l'incidenza politica delle decisioni giudiziarie, viene incanalata e circoscritta al momento del reclutamento: il sistema politico può magari influenzare il profilo politico-culturale complessivo della magistratura, ma non le singole decisioni (v. Shapiro, 2001). Nell'Europa continentale la crescita dell'incidenza politica del giudiziario si è accompagnata alla diminuzione dei poteri dell'esecutivo e degli alti gradi della magistratura, con la carriera dei magistrati affidata a organi composti in varia misura da politici e magistrati. La pressione politica si è così incanalata verso questi organi facilitando lo sviluppo di una sorta di processo di co-decisione corporativa, dove gli aspetti salienti dei rapporti fra politica e giustizia diventano oggetto di trattazione - e contrattazione - fra i rappresentanti della classe politica e quelli della magistratura associata. È questa l'unica novità istituzionale di rilievo. Non sono state invece affrontate le implicazioni sull'assetto della magistratura derivanti dall'assunzione da parte dei giudici di un ruolo più fortemente politico. Il bilanciamento del potere giudiziario è sostanzialmente affidato all'influenza che la politica può esercitare tramite i Consigli superiori. Non si può infine tralasciare il fatto che i nuovi compiti che il giudice si trova ad affrontare sembrano richiedere un profondo ripensamento dei contenuti della sua professionalità. La tradizionale formazione tecnico-giuridica, pur con i suoi meriti, non sembra più sufficiente. Oggi, molto più che un tempo, la legge non è in grado di offrire al giudice scelte di valore pre-confezionate (v. Díez-Picazo, 1997, pp. 34-38). Il giudice deve spesso dare concretezza a valori, talvolta fra loro in contraddizione, mentre cresce la necessità di disporre di conoscenze in campo economico-sociale: necessità che non sempre può essere soddisfatta ricorrendo a periti esterni. Scarso è l'aiuto della formazione tradizionale che, nei paesi dell'Europa continentale e specie in Italia, non ha mai dato spazio a conoscenze che non siano quelle giuridico-formali. Al contrario degli Stati Uniti, le facoltà di giurisprudenza europee non si sono aperte alle conoscenze delle scienze sociali. I margini di discrezionalità di cui il giudice gode sono però crescenti e con sempre maggiore difficoltà possono essere inquadrati all'interno delle categorie tradizionali della dottrina giuridica continentale; ma ancora poco o nulla viene fatto per addestrare il giudice all'esercizio di questa discrezionalità, ad esempio mettendone in luce tutte le implicazioni e facilitando una riflessione sui compiti della funzione giudiziaria in una società democratica. Le modalità di reclutamento prevalenti in questi paesi, che inseriscono nel corpo neolaureati, privi di reali esperienze professionali, hanno ulteriormente aggravato queste carenze, cui in certi casi si è cercato di ovviare con l'istituzione di scuole giudiziarie o potenziando il reclutamento laterale. Il fatto è che la professionalità del giudice non è mai un dato acquisito una volta per tutte, ma evolve con l'evolversi dei contenuti della funzione giudiziaria. Oltre a difenderne l'indipendenza - poiché un giudice professionalmente competente tende a identificarsi maggiormente col proprio ruolo - essa svolge anche un ruolo indispensabile per legittimare la sua funzione, dato che compito istituzionale del giudice è appunto quello di risolvere controversie secondo la legge e il diritto. bibliografia Beaud, O., Le sang contaminé. Essai critique sur la criminalisation de la responsabilité des gouvernants, Paris: PUF, 1999. Blankenburg, E., Indicators of growth of the systems of justice in Western Europe of the 1990s: the legal profession, courts, litigation and budgets, Washington: The World Bank, 2001. Cappelletti, M., Giudici legislatori?, Milano: Giuffrè, 1984. Cappelletti, M., The judicial process in comparative perspective, Oxford: Clarendon Press, 1989. Cappelletti, M., Le dimensioni della giustizia, Bologna: Il Mulino, 1994. Cross, F. B., The judiciary and public choice, in "Hastings law journal", 1999, L, pp. 355-382. Damasíka, M. 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