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l`identificazione proiettiva e la soggettività del terapeuta nella pratica
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Facoltà di Psicologia
II Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica
L’ IDENTIFICAZIONE PROIETTIVA E LA SOGGETTIVITA’ DEL TERAPEUTA
NELLA PRATICA CLINICA
Relatore Prof. Angelo Mario Campora
Specializzando
Correlatore Prof.Vittorio Lingiardi
Alessia Mezzani
Anno Accademico 2008-2009
1
INDICE
Introduzione…………………………………………………………………….. pp. 3-7
1 Identificazione Proiettiva. Evoluzione storica del concetto……………….. pp. 8-9
1.1 La prima formulazione del concetto: Melanie Klein………………….
pp. 10-16
1.2 Il contributo di Herbert Rosenfeld……………………………………… pp. 16-23
1.3 Il contributo di Wilfred R. Bion………………………………………… pp. 23-26
1.4 Ulteriori contributi al concetto di Identificazione Proiettiva………….
pp. 27-32
1.5 Interrogativi e questioni controverse: un intenso dibattito…………… pp. 33-35
2 Controtransfert. Teorizzazioni attuali sulla soggettività del terapeuta…... pp. 36-37
2.1 Breve excursus storico: dalle origini ad una nuova visione…………… pp. 37-40
2.2 La soggettività del terapeuta al di là dell’Atlantico: le prospettive pp. 40-50
post-moderne
2.3 La messa in atto di controtransfert……………………………………... pp. 50-56
2.4 Considerazioni conclusive……………………………………………….. pp. 56-62
3 Paziente e terapeuta nel contesto clinico…………………………………… pp. 63-64
3.1 Il percorso intrapreso insieme…………………………………………... pp. 64
3.1.1 Marco e i suoi sintomi…………………………………………………. pp. 64-65
3.1.2 I cambiamenti di vita………………………………………………….. pp. 66
3.1.3 La descrizione di sé……………………………………………………. pp. 66-67
2
3.1.4 Gli eventi significativi………………………………………………….
pp. 67-68
3.1.5 La storia………………………………………………………………... pp. 68-69
3.1.6 La moglie……………………………………………………………….. pp. 69
3.1.7 Lo stile narrativo………………………………………………………. pp. 70-71
3.1.8 La struttura dei colloqui………………………………………………. pp. 71-72
3.1.9 Progressivamente……………………………………………………… pp. 72-75
3.2 Riflessioni cliniche……………………………………………………….. pp. 75
3.2.1 Inseguendo il tema degli oggetti interni: i personaggi del copione…
pp. 76-82
3.2.2 L’interazione paziente terapeuta……………………………………... pp. 83-84
3.2.2.1 La noia……………………………………………………………….. pp. 84-86
3.2.2.2 La sonnolenza………………………………………………………... pp. 86-89
3.3 Quali insegnamenti?................................................................................... pp. 89-91
3.4 L’inizio di un cambiamento……………………………………………... pp. 91-94
3.5 Note conclusive…………………………………………………………… pp. 94-95
Bibliografia……………………………………………………………………..
3
pp. 96-106
INTRODUZIONE
Questo lavoro ha preso le mosse da un vissuto emozionale intenso sorto in me,
ossia una terapeuta in formazione (il che implica anche inesperta), durante lo
svolgimento di alcuni colloqui clinici, fonte di perplessità, interrogativi e
preoccupazione, ma nello stesso tempo così affascinante da catturare attenzione e
stimolare curiosità.
Dall’esigenza di dare senso a questa esperienza e dai dubbi ed interrogativi sorti,
ha avuto inizio un percorso fatto di riflessioni, studi e letture che hanno esitato
anche in questo lavoro.
Lo sforzo e l’auspicio è stato quello di poter trasformare un’esperienza,
inizialmente, sconcertante e poco codificabile in un’esperienza dotata di un nuovo
significato, dalla quale trarre utili insegnamenti.
Terapeuti esperti potrebbero chiedersi: “Controtransfert. Che c’è di nuovo?” E’
vero, sul piano teorico nulla di nuovo, ma sul piano esperienziale mi sono
imbattuta in qualcosa di insolito e inatteso. Credo di aver provato una sensazione
simile a quanto descritto da Patrick Casement (1989) quando afferma: “sono
riuscito a capire il concetto di identificazione proiettiva solo quando mi è capitato
di esserne il destinatario”. Per quanto mi riguarda, a differenza di Casement,
ritengo più opportuno affermare di aver iniziato a comprendere tale concetto a
seguito della mia esperienza.
Avevo già letto il lavoro di Ogden (1994) a riguardo, ma, nonostante la chiarezza
espositiva dell’autore, rimaneva per me un concetto sfuggente. Scissione,
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proiezione e introiezione slegati l’uno dall’altro avevano un senso ben preciso nella
mia mente e rappresentavano rassicuranti riferimenti nel mio ridotto armamentario
teorico, ma condensati in un unico concetto perdevano le loro connotazioni chiare
e ben delineate.
Questo lavoro inizia proprio con il concetto di identificazione proiettiva,
ripercorrendone l’evoluzione. Dalla iniziale formulazione proposta da Melanie
Klein, nel 1946, seguiremo il suo lungo e controverso percorso. Grazie al lavoro ed
alle acute osservazioni cliniche di autori come Rosenfeld, Bion, Grotstein,
Grinberg, Ogden, per citare coloro che maggiormente vi si sono soffermati, lo
stesso ha progressivamente assunto una connotazione più ampia e ricca.
Da processo intrapsichico unipersonale, di cui viene sottolineata la funzione
difensiva, progressivamente ne viene colta la funzione comunicativa e sottolineata
la valenza interpersonale ed il carattere bidirezionale, per cui anche chi riceve la
proiezione (contenitore) svolge un ruolo importante nell’accogliere, elaborare e
restituire senso a ciò che è stato proiettato (contenuto). Emerge, così, la sua
importanza all’interno della dinamica di transfert-controtransfert. Ad essere
oggetto di attenta osservazione non è più, solo, colui che proietta (il paziente), ma
anche colui che riceve la proiezione (il terapeuta) ed il modo in cui vi reagisce.
Non era possibile, pertanto, non approfondire la tematica della soggettività del
terapeuta, il controtransfert, cosa che verrà fatta nel secondo capitolo in cui, non
potendo offrire una revisione sistematica dell’intera e vasta letteratura
sull’argomento, sosteremo prevalentemente sulle recenti formulazioni emerse dal
contesto statunitense.
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E’ stato molto interessante scoprire che, come per l’identificazione proiettiva,
anche il percorso evolutivo di questo concetto è stato lungo e travagliato.
Comparso sulla scena psicoanalitica con la connotazione di ostacolo e
impedimento per il processo terapeutico, come si legge negli scritti di Freud del
1912, rimase nell’ombra per diversi anni. Solo intorno agli anni ’50 tornò alla
ribalta grazie ai contributi di Winnicott (1949), Paula Heimann (1950) e Racker
(1970) e sotto una nuova veste: “uno strumento di ricerca nell’inconscio del
paziente” si potrà leggere nello scritto di P.Heimann del 1950. Da allora una
maggiore attenzione è stata posta sul terapeuta e la sua soggettività.
In relazione a questo concetto, oggi possiamo rintracciare punti di convergenza tra
teorizzazioni differenti. Sia gli autori aderenti alla prospettiva delle relazioni
oggettuali, che hanno abbracciato ed ampliato il concetto di identificazione
proiettiva, sia gli autori appartenenti al filone intersoggettivista statunitense, con il
loro concetto di enactment controtransferale, oggi riconoscono il controtransfert
come una creazione congiunta di paziente e terapeuta. Quindi il controtransfert
assume una duplice connotazione: di ostacolo al trattamento e di utile strumento; la
soggettività del terapeuta può essere messa al servizio del processo terapeutico.
Progressivamente è cresciuta la consapevolezza della complessità dell’interazione
tra paziente e terapeuta, il processo terapeutico è un processo bipersonale, in cui il
livello intrapsichico e quello interpersonale sono strettamente intrecciati, in cui
esiste una “comunicazione interattiva inconscia” (P.Casement, 1989) tra paziente e
terapeuta.
Fermo restando che la soggettività del terapeuta non può essere l’unico mezzo
attraverso il quale orientare il proprio lavoro con il paziente, la stessa può essere
6
uno tra i tanti strumenti che si hanno a disposizione per svolgere il complesso
compito di aiutare il paziente nel suo percorso di autonoconoscenza.
Devo ammettere che il concetto di messa in atto controtransferale, come quello di
identificazione proiettiva, ad una prima e superficiale lettura hanno avuto per un
momento un effetto rassicurante, sulla scia dell’ingenua ed erronea idea di aver
trovato una facile scappatoia, una deresponsabilizzazione rispetto ad alcuni aspetti
dell’incontro clinico, ad alcuni vissuti emozionali, ad alcuni sottili avvenimenti
verificatisi nell’incontro con il paziente che, per le loro caratteristiche peculiari
(es.: l’intensità dei vissuti emozionali, il fatto che si verificassero con quel
particolare paziente e non con altri e che contrastavano con la mia immagine
personale e con il mio ideale di terapeuta e di processo terapeutico) hanno
richiamato la mia attenzione, perplessità, curiosità, oltre ad aver sollevato dubbi e
penosi interrogativi.
Il lungo percorso trasformativo del concetto di controtransfert è avvenuto anche
dentro di me. Dall’iniziale, se vogliamo narcisistica ed onnipotente, sensazione che
tutto quanto appena esposto dipendesse esclusivamente da me, dalla mia
inesperienza, incapacità, macchie cieche e quant’altro, su cui avrei dovuto
esercitare un controllo, per passare all’idea, anche qui se vogliamo come difesa
narcisistica, che potesse dipendere esclusivamente dal paziente, che fosse una
creazione del paziente.
Gradualmente, alla luce di queste teorizzazioni potevo riflettere in modo nuovo su
quanto sperimentato e cercare di coglierne la natura intersoggettiva, cercare di
rintracciarne i contributi di entrambi.
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Ciò che inizialmente era stato fonte di non poca preoccupazione e sgomento
poteva, allora, trasformarsi in qualcosa di istruttivo ed in una fonte di preziose
informazioni sul paziente e sulla dinamica interazionale instauratasi tra noi?
Nell’ultima parte di questo lavoro, oltre ad essere illustrato brevemente ciò che ha
caratterizzato il percorso terapeutico prima del verificarsi dell’intenso vissuto
emozionale in oggetto, verranno proposte una serie di riflessioni nel tentativo di
mostrare gli sforzi fatti per dotare di significato tale esperienza.
Il tentativo e l’auspicio è stato quello di rintracciare in essa spunti utili per fare luce
sulla particolare dinamica creatasi tra terapeuta e paziente, per arrivare a cogliere
aspetti del suo mondo interno e, in questo modo, cercare di porre al servizio del
percorso terapeutico quanto emerso dalla propria soggettività.
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1 IDENTIFICAZIONE PROIETTIVA
Evoluzione storica del concetto
Premessa
Il tentativo e lo scopo di questo capitolo è quello di tracciare una linea storico
evolutiva del concetto di identificazione proiettiva.
Il compito appare non facile considerata la mole di contributi forniti
sull’argomento e considerata la complessità del concetto stesso che ha suscitato
interesse, critiche e interrogativi nel mondo della psicoanalisi.
Storicamente, il termine identificazione proiettiva, venne introdotto da Melanie
Klein nel 1946, ma ha una sua preistoria nella clinica e nella teoria psicoanalitica
degli anni precedenti (R.Speziale Bagliacca, 1983). Lo testimonia l’interesse di
Freud per la proiezione che, insieme all’introiezione, viene indicata come
manifestazione del “linguaggio dell’istinto orale” in “Pulsioni e i loro destini”
(1915) dove venne utilizzato, anche se non nominato, il concetto di identificazione
proiettiva (J.S.Grotstein, 1983). Un ulteriore suo fondamento è rappresentato dalla
teoria dell’identificazione narcisistica in “Lutto e melanconia” (1917) e dallo
studio delle proiezioni deliranti di Schreber (1911).
È stata importante, nell’evoluzione del concetto, anche l’individuazione di una
identificazione tramite proiezione da parte di Victor Tausk (1919). Tuttavia, grazie
alla Klein venne fornito uno strumento utile alla pratica clinica e alla riflessione
teorica (R.Speziale Bagliacca, 1983) e un modello esplicativo delle relazioni che
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l’Io intrattiene con gli oggetti, dalle forme più arcaiche, confuse e parziali alle più
evolute, complete e chiaramente individuate (G.Di Chiara, 1983).
Pertanto, proprio dai lavori di questa autrice, avrà inizio la descrizione di questo
concetto. Numerosi altri autori, dopo di lei, anche di orientamenti diversi da quello
kleiniano, si sono occupati di identificazione proiettiva arricchendola, ma
contribuendo anche allo sviluppo di molte sue concezioni nella letteratura
“oscurandone, via via, il significato; il termine è stato usato per indicare troppe
cose diverse, da troppe persone diverse in troppe circostanze diverse”, come
afferma Kernberg (1988), e ciò ha sollevato dubbi e interrogativi; Kulish (1986)
afferma che “chiedere ad un concetto psicoanalitico di essere una fantasia, una
difesa, un tipo di relazione oggettuale e anche una forma di comunicazione
significa chiedergli troppo”.
Di fatto, alcune questioni rimangono tuttora aperte e l’indagine sull’identificazione
proiettiva prosegue ancora oggi. Ciò, pur non rendendo semplice il compito di
tracciarne il percorso evolutivo in modo lineare ed esaustivo, ha reso stimolante
l’approfondimento di questo costrutto di per sé molto affascinante.
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1.1 La prima articolazione del concetto: Melanie Klein
Il concetto di “identificazione proiettiva” è stato introdotto nel 1946 da Melanie
Klein, in “Notes on some schizoid mechanisms”, nel corso della sua elaborazione
della posizione schizo-paranoide, una costellazione di relazioni oggettuali, angosce
e difese contro di esse tipiche dei primissimi periodi di vita (terzo o quarto mese).
In questa fase cominciano a operare i processi di proiezione e introiezione che
regolano l’interazione dell’individuo con gli oggetti esterni (B. Joseph, 1987;
W.W.Meissner, 1987). L’autrice, inizialmente, non sembrò riservare al concetto
introdotto l’importanza e l’utilità clinica che andò acquistando nel tempo, infatti,
come indicato da E. Bott Spillius (1983), lo aveva definito “quasi casualmente e
subito lo rifiutò”, pur utilizzandolo maggiormente in ambito clinico di quanto non
vi abbia fatto riferimento nelle sue pubblicazioni (E.Bott Spillius, 1995).
Nell’opera kleiniana l’identificazione proiettiva è un meccanismo di difesa in cui
parti del Sé e degli oggetti interni sono scissi e proiettati sull’oggetto esterno (seno
della madre), che diventa posseduto e controllato dalle parti proiettate, con le quali
viene inoltre identificato (H.Segal, 1964). Essa deriva da fantasie e impulsi
infantili sadico-orali, sadico-uretrali e sadico-anali volti ad attaccare il corpo
materno, durante il processo di sviluppo in cui il meccanismo di difesa
fondamentale contro l’ansia persecutoria è la scissione. Infatti, nei primi tre o
quattro mesi di vita (posizione schizo-paranoide) l’io non è integrato ed è soggetto
a scindere se stesso (M.Klein, 1955) e gli impulsi libidici e aggressivi convergono
e sono diretti verso il seno e il corpo della madre (G. Regazzoni Goretti, 2007). In
questo modo il bambino crea le immagini di un seno buono e uno cattivo, che,
11
attraverso l’introiezione, contribuiranno alla formazione dell’Io e del Super-io
(M.Klein, 1946).
Per comprendere meglio le formulazioni teoriche sopra espresse e lo stesso
concetto di identificazione proiettiva è importante esplicitare alcune considerazioni
teoriche sviluppate da Melanie Klein (1946) nel suo lavoro sui meccanismi
schizoidi.
In questo lavoro l’autrice sostiene che: “Si abbiano relazioni oggettuali già
all’inizio della vita e che il primo oggetto sia il seno materno, che viene scisso in
seno buono (gratificante) e seno cattivo (frustrante)… Ho avanzato l’ipotesi che la
relazione con il primo oggetto comporti l’introiezione e la proiezione dello stesso,
in modo che fin dall’inizio le relazioni oggettuali sono modellate dall’interazione
tra introiezione e proiezione, tra oggetti e situazioni interni e oggetti e situazioni
esterni… Nei primi mesi di vita l’ansia viene vissuta in prevalenza come paura
della persecuzione e… questo contribuisce al formarsi di certi meccanismi e certe
difese caratteristiche degli stati paranoide e schizoide. Tra le più importanti di
queste difese è il meccanismo della scissione in oggetti interni e oggetti esterni, in
emozioni ed Io.” (M.Klein, 1946).
L’autrice, quindi, sottolinea l’importanza dei processi di scissione e diniego nella
fase evolutiva in cui “la libido orale predomina ancora, le fantasie e gli impulsi
libidici e aggressivi vengono alla ribalta da altre fonti e portano a una confluenza
di desideri orali, uretrali e anali sia libidici che aggressivi”(ibid.).
Nel descrivere le fantasie di attacco verso la madre afferma che:
“seguono due linee principali: in una predominano gli impulsi orali di succhiare,
mordere, svuotare e derubare il corpo della madre dei suoi contenuti buoni.
Nell’altra predominano gli impulsi anali e uretrali che comportano l’espellere
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sostanze nocive (escrementi) fuori dal sé all’interno della madre, insieme alle parti
dell’io odiate e scisse… sono destinati non solo a danneggiare, ma anche a
controllare e prendere possesso dell’oggetto” (ibid.).
La madre, nel contenere le parti cattive del Sé, non è percepita come oggetto
separato, ma come il Sé cattivo. Nel terminare la descrizione di questo complesso
insieme di processi l’autrice afferma: “Questo conduce a una forma particolare di
identificazione che stabilisce il prototipo di una relazione oggettuale aggressiva.
Io propongo per questi processi il termine di identificazione proiettiva” (M. Klein,
1946).
Nello stesso lavoro, l’autrice descrive un altro tipo di identificazione proiettiva in
cui, insieme alle parti cattive del Sé, anche le parti buone e amate della propria
persona sono proiettate nell’oggetto esterno. Questa forma di identificazione
proiettiva viene considerata indispensabile per lo sviluppo di buone relazioni
oggettuali (ibid.).
L’identificazione proiettiva, quindi, viene concettualizzata come un meccanismo di
difesa, una fantasia onnipotente in cui le parti del sé “cattive”, odiate e rifiutate
sono scisse e proiettate nella madre o nel suo seno allo scopo di danneggiarlo o
prenderne possesso per controllarlo. Questo processo ha la peculiarità di condurre
alla fusione e alla identificazione delle parti proiettate del Sé con gli oggetti
esterni. Scissione, proiezione e identificazione sono correlate ad importanti
angosce paranoidi poiché gli oggetti, carichi delle parti odiate del Sé, diventano dei
persecutori. Ciò porta a un aumento di ansia persecutoria e conseguente
incremento di odio verso l’oggetto e a un impoverimento e indebolimento dell’Io.
Anche l’eccessiva proiezione di parti buone fa sentire l’Io svuotato e fa sentire
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l’oggetto illusoriamente dotato di straordinarie qualità (oggetto idealizzato) da cui
l’Io diventa dipendente.
Da quanto esposto possiamo notare come il fenomeno dell’identificazione
proiettiva assume un significato ampio e ricco di implicazioni. Da una parte è un
processo strettamente connesso con le relazioni oggettuali (identificazione
proiettiva normale), in quanto “è un fenomeno che riguarda sempre due persone”
(S.Manfredi Turillazzi, 1985). L’identificazione e la successiva introiezione delle
parti buone del Sé proiettate nell’oggetto, ossia l’introiezione di un oggetto buono,
fa sentire l’Io arricchito e influisce sul modo in cui l’Io si scinde e si proietta, in
particolare si instaura un equilibrio tra proiezione e introiezione (M.Klein, 1955),
che è essenziale per la capacità del bambino di sviluppare buone relazioni di
oggetto e di integrare il proprio Io (G.Di Chiara, F.Flegenheimer, 1985).
Dall’altra, se usata in modo eccessivo, difensivo (identificazione proiettiva
patologica) può condurre agli effetti patologici della perdita del senso di identità
separata, della confusione e dell’indebolimento dell’Io (H.Rosenfeld, 1980;
L.Grinberg, 1982; S.Turillazzi Manfredi, 1985; G.Di Chiara, F.Flegenheimer,
1985), può essere implicata negli stati di distacco autistico, nella claustrofobia e
nell’agorafobia (J.S.Grotstein, 1983) e, come indicato da Regazzoni Goretti G.
(2007), “l’annullamento della differenza e del senso di separatezza dall’oggetto
può essere uno degli scopi di questo processo”.
In questo modo l’identificazione proiettiva si riferisce sia ai processi di scissione
dell’Io che alle relazioni oggettuali “narcisistiche” create dalla proiezione di parti
del Sé negli oggetti (H.Rosenfeld, 1980; L.Grinberg, 1982). Questa forma di
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identificazione proiettiva sembra essere, inizialmente, quella su cui l’autrice si è
maggiormente soffermata nelle sue elaborazioni teoriche.
Nel 1955, nello scritto “Sull’identificazione”, la Klein estende il concetto di
identificazione
proiettiva
per
evidenziare,
oltre
la
forma
patologica
precedentemente studiata, una forma in cui si configura come processo normale
della vita psichica.
In questo lavoro, la Klein usa le vicissitudini del protagonista –Fabian- del
racconto del romanziere francese Julien Green “If I were you” per sottolineare la
stretta relazione tra identificazione proiettiva ed empatia. In particolare lei scrive:
“Dopo la metamorfosi in Fruges, Fabian ritrova parti della sua personalità e,
nello stesso tempo, accade qualcosa di molto importante. Fabian-Fruges nota che
le sue esperienze (trasformazioni in altri personaggi) gli hanno consentito una
miglior comprensione di Poujars, Esmenard e dello stesso Fruges, e che egli è ora
in grado di provare comprensione per le sue vittime” (M.Klein, 1955).
Qui l’identificazione proiettiva è vista come base dell’empatia che permette di
condividere affettivamente gli stati emozionali di un’altra persona. Attraverso
questo processo ci si può porre nei panni dell’altro per capirne sentimenti,
comportamenti, atteggiamenti e reazioni. Inoltre, con la proiezione di parti buone,
di parti più coese di Sé l’identificazione proiettiva è essenziale per lo sviluppo di
buone relazioni oggettuali. L’autrice afferma:
“Io sostengo che il grado in cui l’individuo sente che il suo Io è sommerso negli
oggetti con i quali esso si identifica mediante introiezione o proiezione è della più
alta importanza per lo sviluppo dei rapporti con l’oggetto e determina altresì la
forza o la debolezza dell’Io” (ibid.).
15
Appare chiaro come nelle formulazioni teoriche della Klein il concetto di fantasia
inconscia abbia una rilevanza predominante. La costituzione degli oggetti, delle
istanze psichiche, la formazione dei simboli, del pensiero astratto e concreto, i
meccanismi di difesa, il linguaggio poggiano le loro basi sulla fantasia inconscia.
L’autrice postula che il mondo interno iniziale sia fantasmatico e il mondo esterno
si vada costituendo, mediante processi proiettivi e introiettivi, per rettificazione del
primo (M.Klein, 1946). Quindi, la fantasia inconscia media lo sviluppo psichico.
La stessa identificazione proiettiva è un processo che avviene nella fantasia,
operando una modificazione nel vissuto che il soggetto ha di se stesso e del mondo
(S.Turillazzi Manfredi, 1985). Le parti di Sé messe nell’oggetto sono messe
all’interno della rappresentazione dell’oggetto, all’interno dell’oggetto fantasticato
(J.Sandler, 1987). Anche Hanna Segal (1964) considera l’identificazione proiettiva
una fantasia che determina effetti nel mondo interno della persona che la utilizza,
mentre l’oggetto “non è segnato dal processo”.
Nelle definizioni iniziali del concetto, esso sembra avere le caratteristiche di un
processo intrapsichico e unidirezionale, di cui vengono sottolineate le
caratteristiche patologiche e i molteplici scopi così riassunti dalla Segal(1964):
“L’identificazione proiettiva ha parecchi scopi: può essere diretta verso l’oggetto
ideale per evitare la separazione, o può essere diretta verso l’oggetto cattivo per
controllare la sorgente di pericolo. Varie parti del Sé possono essere proiettate,
con vari scopi: parti cattive del Sé per liberarsene, come per attaccare e
distruggere l’oggetto; parti buone possono essere proiettate per evitare la
separazione, per tenerle al sicuro da cose cattive interne o per migliorare
l’oggetto esterno”.
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Progressivamente, però, sembra essere raggiunta un’ottica più ottimista
(W.Baranger, 1971) nel considerare l’identificazione proiettiva base dell’empatia e
processo fondamentale nello sviluppo di buone relazioni oggettuali. Già nel
racconto If I were you la Klein, nel descrivere l’incontro tra Fabian e il cameriere
dice: ”Questo tentativo di proiezione non approda a nulla, perché in questa fase
egli (Fabian) tiene conto ancora dei sentimenti delle sue vittime prescelte e il
cameriere, quando Fabian gli chiede se gli piacerebbe mutare la propria
condizione con la sua, dice di no”(M.Klein, 1955).
G.Regazzoni Goretti (2007) ritiene che da queste parole si può dedurre che
l’identificazione proiettiva richiede una particolare disposizione mentale sia in chi
la usa che in chi la riceve, quindi già nelle formulazioni iniziali essa è considerata
il frutto di un’intensa relazione tra soggetto ed oggetto.
1.2 Il contributo di Herbert Rosenfeld
Herbert Rosenfeld, seguendo le teorizzazioni della Klein, ha dato importanti
contributi sulle applicazioni cliniche della teoria dell’identificazione proiettiva, in
particolare considerandola una chiave per capire le psicosi (J.S.Grotstein, 1983;
G.Di Chiara, F.Flegenheimer, 1985; T.H.Ogden, 1994).
L’autore ne tratta ampliamente nei lavori compresi in Stati psicotici (1973),
considerandola il principale fattore tecnico per il trattamento di queste patologie e
utilizzandola per tracciare le origini della depersonalizzazione e degli stati
confusionali.
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Grazie alla sua vasta esperienza clinica ha potuto descrivere il ruolo e l’importanza
dell’identificazione proiettiva nella struttura dell’Io e nelle relazioni oggettuali, in
particolare, dei pazienti psicotici, fornendo importanti contributi alla comprensione
e al trattamento di tale patologia.
Rosenfeld (1947, 1950, 1952) ritiene che l’identificazione proiettiva si basa in
primo luogo su un rapporto oggettuale di natura primitiva, che comporta la
proiezione dentro l’oggetto degli oggetti introiettati e di parti del Sé. Egli ritiene
che, fin dalla nascita, il bambino abbia impulsi e fantasie libidiche e aggressive di
entrare nel corpo della madre con parti di se stesso. Dalle fantasie aggressive ha
origine l’angoscia paranoide sia per il fatto che la madre e il Sé che entra in essa
possano essere distrutti, sia per il fatto che la madre si trasforma in persecutore
che, a sua volta, può entrare nell’Io per prenderne possesso in modo vendicativo.
Inoltre, l’identificazione proiettiva può essere usata come meccanismo di difesa in
cui le parti buone e cattive dell’Io sono scisse e proiettate negli oggetti esterni che
diventano, poi, identificati con le parti proiettate del Sé.
Nei pazienti schizofrenici l’identificazione proiettiva è usata in modo eccessivo,
l’autore dice: “…anche qui sembra dipendere dalla quantità e dalla intensità delle
forze distruttive che si volgono contro il Sé se si ha la depersonalizzazione o un
grado variabile di disintegrazione dell’Io” (H.Rosenfeld, 1947) e ancora in un
altro articolo: “ La gravità del processo dipende da un fattore quantitativo, cioè da
quanta parte dell’Io e quanta parte delle forze istintuali sono coinvolte nella
regressione alla fase più primitiva dello sviluppo” (H.Rosenfeld, 1952). L’Io,
invece di essere rafforzato da questo processo, “perde la propria capacità di
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funzionare e ne può conseguire una grave scissione e disintegrazione e la perdita
dei sentimenti” (H.Rosenfeld, 1950).
È importante sottolineare che l’autore distingue tra due tipi di identificazione
proiettiva: 1) un’identificazione proiettiva usata come comunicazione, 2)
un’identificazione proiettiva usata per sbarazzare il Sé di parti non volute
(H.Rosenfeld, 1980).
Il primo tipo di identificazione proiettiva può essere riscontrato sia nei pazienti
nevrotici che psicotici. I meccanismi proiettivi vengono utilizzati per comunicare
con gli altri.
Nello psicotico, tali meccanismi sembrano essere una distorsione o intensificazione
della relazione infantile normale, basata sulla comunicazione non verbale tra
infante e madre. In questa relazione, impulsi, parti del Sé e angosce difficili da
tollerare sono proiettate nella madre affinché essa le contenga e allevi l’angoscia
con il suo comportamento (è ciò che Bion (1970) ha descritto come “capacità di
reverie”).
Il paziente psicotico può usare questo processo nel transfert, consciamente o
inconsciamente, proiettando impulsi e parti del Sé nell’analista in modo che
l’analista senta e capisca i suoi vissuti, li contenga finché perdono le loro
connotazioni minacciose e insopportabili e sia capace di dar loro significato
attraverso le interpretazioni. Le interpretazioni rendono le reazioni e i vissuti
infantili del paziente accessibili al Sé più sano, che può, così, cominciare a
riflettere su esperienze che prima erano minacciose e prive di significato. Questo
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tipo di comunicazione implica la ricettività del paziente alla capacità dell’analista
di capirlo, pertanto deve essere riconosciuto e interpretato (H.Rosenfeld, 1980).
Per quanto riguarda il secondo tipo di identificazione proiettiva, l’autore (1980)
distingue diversi modi in cui può essere usata l’identificazione proiettiva, fornendo
così una chiave di lettura per alcuni sintomi psicotici come la depersonalizzazione,
la catatonia, i disturbi del pensiero.
a) Uso dell’identificazione proiettiva per il diniego della realtà psichica.
In questa situazione le parti del Sé, gli impulsi e le angosce sono scisse e
proiettate nell’analista con lo scopo di evacuare il contenuto mentale
disturbante. Ciò porta al diniego della realtà psichica. Questi pazienti
dissimulano l’evacuazione e la negazione dei propri problemi e reagiscono
alle interpretazioni con violento risentimento poiché rappresentano la
violenta restituzione dei suoi contenuti mentali indesiderati e insopportabili
da parte dell’analista.
b) Uso dell’identificazione proiettiva come controllo onnipotente del corpo e
della mente dell’analista.
Si tratta di una frequente relazione transferale basata su un tipo di relazione
d’oggetto infantile molto primitiva. Il paziente crede di essere penetrato
onnipotentemente nell’analista, ciò porta a fusione o confusione con
l’analista e ad angosce relative alla perdita del Sé. Solitamente si assiste alla
proiezione di parti pazze del Sé; l’analista viene, così, percepito come
impazzito e ciò provoca estrema angoscia. Il paziente, infatti, teme una
ritorsione da parte dell’analista, ossia, che rimetta la follia nuovamente al
20
suo interno, privandolo della sua sanità mentale. Questa identificazione
proiettiva onnipotente interferisce con la capacità di pensiero verbale e
astratto, porta al pensiero concreto e alla confusione tra realtà e fantasia. Nel
momento in cui il paziente è dominato da processi di pensiero concreto,
comprende male le interpretazioni, poiché le parole e i loro contenuti sono
sperimentati come oggetti concreti e non come simboli.
La perdita della capacità di pensiero simbolico, già descritta da Hanna Segal
(1957), deriva da una identificazione proiettiva eccessiva che oblitera la
differenziazione tra il Sé e gli oggetti. Come Hanna Segal (1957), che ritiene
che la differenziazione tra il Sé e la rappresentazione oggettuale sia
necessaria per mantenere la normale formazione del simbolo, che è basata
sull’introiezione di oggetti vissuti come separati dal Sé, anche Harold
Searles (1974) indica che i disturbi del pensiero concreto dipendono dalla
labilità dei confini dell’Io, quando il Sé e l’oggetto non sono chiaramente
differenziati. In questi casi è molto difficile usare le interpretazioni,
Rosenfeld, quindi, suggerisce di ricorrere ai processi proiettivi usati a scopo
di comunicazione, poiché ritiene che tutti e tre i tipi di identificazione
proiettiva finora descritti operano simultaneamente.
c) Uso dell’identificazione proiettiva per maneggiare l’invidia.
Il paziente psicotico, che vive uno stato di fusione con l’analista, attribuisce
a se stesso tutto il valore che ha l’analista (narcisismo onnipotente). Nel
momento in cui comincia a sentirsi separato dall’analista, compaiono
violenti impulsi distruttivi che possono essere espressione della rabbia
collegata all’angoscia di separazione, ma spesso hanno un carattere
21
invidioso.
Le
reazioni
aggressive
appaiono,
chiaramente,
a
ogni
interpretazione che mostra le capacità dell’analista di comprendere. Il
paziente si sente umiliato e cerca di distruggere le interpretazioni
ridicolizzandole o rendendole prive di significato. A volte il rifiuto può
manifestarsi con sintomi fisici come il vomito. La parte sana del paziente
vive queste reazioni invidiose come inaccettabili, per questo sono mobilitate
molte difese contro questa invidia primitiva. Una delle difese utilizzate è la
scissione e proiezione della parte invidiosa del Sé in un oggetto esterno.
Un’altra difesa è correlata alle fantasie onnipotenti di penetrare all’interno
dell’oggetto
ammirato
e
invidiato
per
assumere
il
suo
ruolo.
L’identificazione proiettiva totale con un oggetto invidiato permette di
negare l’invidia, ma essa riappare nel momento in cui il Sé e l’oggetto si
separano. Secondo Rosenfeld (1973), l’identificazione proiettiva è parte di
“una relazione narcisistica primitiva” con la madre in cui ogni separazione
tra il Sé e l’oggetto viene negata. L’identificazione proiettiva onnipotente
permette di evitare sia i sentimenti aggressivi causati da frustrazione, che i
sentimenti d’invidia. Per questo motivo l’autore ritiene che, nel paziente
psicotico, l’identificazione proiettiva sia più una difesa contro l’invidia
eccessiva, legata al narcisismo del paziente, che contro l’angoscia di
separazione.
d) Uso dell’identificazione proiettiva come relazione oggettuale parassitaria.
Nella relazione oggettuale parassitaria, il paziente psicotico ha la fantasia di
vivere completamente all’interno di un oggetto, l’analista, e si comporta
come un parassita che vive delle capacità dell’analista. In questo caso,
l’identificazione proiettiva totale è, sia una difesa contro l’invidia e la
22
separazione, che una manifestazione aggressiva. Si tratta di una
combinazione di difesa e passaggio all’atto aggressivo. I pazienti
“parassitari” hanno un atteggiamento passivo, silenzioso e inerte, confidano
interamente nell’analista come fosse responsabile della loro vita, della loro
sopravvivenza, difendendosi, in questo modo, da ogni emozione dolorosa.
Poiché l’ostilità domina il quadro e il lavoro con questi pazienti può essere
minimo, è importante distinguere le forme croniche di parassitismo
dall’identificazione proiettiva massiva nell’analista che assomiglia al
parassitismo, ma ha una durata inferiore e risponde più facilmente alle
interpretazioni. Questa può verificarsi quando si avvicina una separazione o
quando gelosia e invidia sono stimolate dalla vita esterna.
e) Uso dell’identificazione proiettiva come relazione oggettuale delirante.
Nei pazienti schizofrenici con gravi deliri si può ritrovare un’identificazione
proiettiva totale, in cui hanno la fantasia di vivere completamente all’interno
dell’oggetto del delirio. Questi pazienti sono distaccati, assorti nelle loro
allucinazioni e possono proiettare il loro vissuto allucinatorio sull’analista.
Vivere all’interno dell’oggetto del delirio permette di evitare qualsiasi
collegamento con il mondo reale e, così, eludere la dipendenza da un oggetto
reale. Questo mondo o oggetto delirante sembra essere dominato da una
parte onnipotente del Sé, che esercita un’influenza sulle parti sane della
personalità allo scopo di allontanarle dalla realtà. Ciò porta a un costante
acting-out verso gli oggetti esterni che sono usati per l’identificazione
proiettiva e, quando le parti sane del Sé sono imprigionate all’interno
23
dell’oggetto delirante, può seguirne una paralisi fisica e mentale: una
catatonia.
1.3 Il contributo di Wilfred R. Bion
Come Rosenfeld, anche Bion (1954; 1956) considera l’identificazione proiettiva
una chiave per comprendere le psicosi.
Nei lavori raccolti in “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico” (1970),
l’autore approfondisce vari aspetti dell’identificazione proiettiva nella schizofrenia.
Essa viene presentata come un meccanismo fondamentale nel processo
schizofrenico, in quanto rappresenterebbe il fattore di differenziazione tra
personalità psicotica e non psicotica. Nella prima, l’identificazione proiettiva
svolge il ruolo che la rimozione svolge nella parte non psicotica (W.R.Bion, 1956).
Seguendo il modello della Klein, per Bion, l’identificazione proiettiva rappresenta
una fantasia onnipotente per cui parti indesiderate della personalità o degli oggetti
interni sono rinnegate, proiettate e contenute all’interno dell’oggetto in cui sono
state proiettate. Di conseguenza l’oggetto è vissuto come se fosse controllato dalle
parti proiettate e impregnato delle loro qualità (L.Grinberg, 1982; J.S.Grotstein,
1983; W.W.Meissner, 1987). Nelle condizioni psicotiche opererebbe una forma di
identificazione proiettiva patologica che dipende dai seguenti fattori: 1) conflitto
perenne tra istinti di vita e di morte; 2) preponderanza delle pulsioni distruttive; 3)
odio per la realtà esterna e interna; 4) relazione d’oggetto esigua ma tenace
(W.R.Bion, 1956). In queste condizioni l’invidia e la voracità sono intensificate, la
scissione delle parti dell’Io è intensificata e da luogo a una frammentazione delle
24
parti dell’Io, a una proiezione violenta sull’oggetto e a uno svuotamento dell’Io. Le
parti frammentate, attraverso la proiezione, penetrano e inglobano l’oggetto reale e,
in modo corrispondente, l’oggetto diventa persecutorio e attacca la parte proiettata
spogliandola di qualsiasi realtà o vitalità, trasformandosi in un “oggetto bizzarro”
composto di parti del Sé e dell’oggetto. Questo processo conduce a un
all’allontanamento sempre maggiore dalla realtà (L.Grinberg, 1982; J.S.Grotstein,
1983). Attraverso l’identificazione proiettiva patologica, il paziente tenta di
liberarsi di tutte le funzioni dell’Io che corrispondono al principio di realtà
(pensieri, coscienza, attenzione, giudizio); essa è diretta contro l’apparato
percettivo, contro le matrici di pensiero (W.R.Bion, 1956).
Bion, nei suoi lavori successivi (1959a, 1962a, 1962b), amplia il concetto di
identificazione proiettiva prendendo in considerazione anche il suo grado di
funzionamento normale, per cui da una fantasia onnipotente inconscia intrapsichica
vengono incluse dimensioni reali interpersonali e comunicative (J.S.Grotstein,
2005).
Egli postula l’esistenza di una identificazione proiettiva realista come fondamento
dello sviluppo normale, importante nella formazione dei simboli e nella
comunicazione umana, sottolineandone, così, gli aspetti comunicativi e relazionali
(Grinberg L., 1982; Di Chiara G., Flegenheimer F., 1985; Wright K., 2007).
Attraverso il suo modello della relazione “contenitore-contenuto” egli postula che
l’infante, per mezzo dell’identificazione proiettiva, proietta i propri contenuti
distruttivi (contenuto) nella madre (contenitore), che con la sua capacità di reverie,
li contiene, li elabora, li metabolizza in modo da neutralizzare la distruttività e
permettendo la reintroiezione da parte del bambino, perché il contenuto è reso più
25
tollerabile. La madre, nel fare esperienza di ciò che è stato proiettato, riesce a
sostenere quell’esperienza emotiva, laddove il bambino non riesce. Il bambino, a
sua volta, può identificarsi e introiettare la modalità in cui la madre gestisce
l’esperienza emotiva, “può studiare le proprie sensazioni attraverso l’effetto che
esse producono nella persona in cui le ha proiettate” (W.R.Bion, 1959a). In
questo modo, l’identificazione proiettiva rappresenta la modalità attraverso la
quale il lattante può comunicare le sue emozioni primitive alla madre, facendole
sentire ciò che lui prova. Essa è la relazione fondamentale che si instaura tra il
neonato e la sua nutrice ed è questa relazione che viene interiorizzata per dare
origine all’apparato cognitivo del bambino (L.Generali Clemens, 1983; G.Di
Chiara, F.Flegenheimer, 1985; W.W.Meissner, 1987).
In questo modo, mentre la Klein ha enfatizzato gli aspetti intrapsichici e
individuali, Bion amplia la concettualizzazione unidirezionale e intrapsichica
dell’identificazione proiettiva trasformandola in un processo interpersonale,
bidirezionale, in cui la capacità ricettiva della madre ha un ruolo importante
(W.R.Bion, 1959a; J.S.Grotstein, 1983; K.Wright, 2007). Infatti, se la madre
fallisce nel suo ruolo di contenimento delle proiezioni del bambino, ostacolando
l’uso della scissione e dell’identificazione proiettiva, gli impulsi distruttivi si
intensificheranno provocando una identificazione eccessiva che impedisce il
normale sviluppo e lo sviluppo di una funzione alfa, intesa come la possibilità di
differenziare gli elementi coscienti (elementi alfa) e incoscienti (elementi beta)
(W.R.Bion, 1962a).
Nel lavoro “Attacchi al legame” (1959a) e nel lavoro “Esperienze nei gruppi
(1959b), Bion evidenzia che l’identificazione proiettiva svolge un ruolo molto
26
importante nell’interazione tra paziente e analista nella terapia individuale, come
nei gruppi di qualsiasi genere. L’analista, come la madre, deve accogliere le
proiezioni del paziente, comprenderle e rispondere adeguatamente a esse. In questo
processo, “l’analista è al polo ricevente dell’identificazione proiettiva e sente di
essere manipolato come se stesse recitando una parte nella fantasia di qualcun
altro” (W.R.Bion, 1959b): l’identificazione proiettiva è una fantasia, ma è anche la
manipolazione di una persona da parte di un’altra persona (G.Di Chiara,
F.Flegenheimer, 1985).
Allo stesso modo, nei gruppi, avvengono molte forme di identificazione e
proiezione.
C’è
una
identificazione
normale,
transitoria,
che
permette
l’unificazione del gruppo per raggiungere un obiettivo comune. Possono, poi,
sorgere identificazioni di natura più patologica quando si verificano elementi di
attrito. Ad esempio, se il leader non cede alla pressione di diventare l’ideale del
gruppo, il gruppo si divide in sottogruppi o “gruppi in assunto di base” dove,
attraverso l’identificazione proiettiva, i membri hanno proiettato aspetti di sé negli
altri membri e ogni membro è identificato con ogni altro (W.R.Bion, 1959b).
Il modello bi-personale da lui proposto, tiene conto dei cambiamenti dinamici nelle
relazioni con l’oggetto che dipendono dall’efficacia dell’oggetto come contenitore
per l’identificazione proiettiva (J.S.Grotstein, 2005). L’autore, infatti, afferma: ”Il
paziente fa qualcosa all’analista e l’analista fa qualcosa al paziente, non è solo
una fantasia onnipotente” (1980). In questo modo l’identificazione proiettiva
diventa un processo fondamentale che sottostà al transfert e al controtransfert
(G.Di Chiara, F.Flegenheimer, 1985).
27
1.4 Ulteriori contributi al concetto di identificazione proiettiva
Il concetto di identificazione proiettiva, grazie alle descrizioni, agli arricchimenti
teorici e alla utilità clinica sottolineata dagli autori precedentemente citati, fonte di
interesse e dibattiti come vedremo più avanti, ha continuato a essere studiato da
molti autori subendo ulteriori arricchimenti per la sua comprensione.
Autori come Leon Grinberg, James S.Grotstein e Thomas H.Ogden ritengono che
sia un processo fondamentale nella pratica e nella teoria psicoanalitica fornendo un
contesto per comprendere i fenomeni clinici (G.Di Chiara, F.Flegenheimer, 1985).
Leon Grinberg, nel suo lavoro sulla Teoria dell’identificazione (1982), traccia
un’interessante classificazione delle identificazioni proiettive con lo scopo di
spiegare le diverse caratteristiche del loro funzionamento focalizzando l’attenzione
sull’aspetto qualitativo del meccanismo.
L’autore sostiene che le modalità di funzionamento delle identificazioni proiettive
variano in funzione dello stato psichico che può essere normale o patologico in
relazione ad una serie di fattori: maggiore e minore predominio degli impulsi
aggressivi, grado di tolleranza alla frustrazione, tipo di contatto con la realtà
esterna e psichica, stato di funzionamento dell’Io, qualità dei meccanismi difensivi
e qualità dei legami di oggetto. In questo modo si avrà una qualità di
funzionamento normale dell’identificazione proiettiva che determina la relazione
di empatia con l’oggetto e crea la base della comunicazione. Ciò dipenderà dalla
qualità con cui hanno funzionato le identificazioni proiettive delle prime relazioni
d’oggetto e il tipo di ripercussione che hanno prodotto nel soggetto. La qualità e la
28
quantità con cui interviene l’identificazione proiettiva permette di determinare la
gravità dei diversi quadri clinici.
Nella schizofrenia, in altre psicosi e nelle psicopatie essa funziona con particolare
violenza. Inoltre, le tendenze e fantasie corrispondenti a ognuna delle fasi libidiche
condizionano i contenuti delle identificazioni proiettive, quindi potranno emergere
identificazioni proiettive con contenuti orali, anali, uretrali e genitali.
Grinberg considera l’identificazione proiettiva un fenomeno “bidirezionale”:
“il soggetto, attraverso l’atteggiamento, il modo in cui guarda e parla, i gesti e i
contenuti di ciò che dice, evoca risposte emozionali nell’oggetto: simpatia, noia,
ostilità, fastidio, ecc. L’oggetto, a sua volta, funziona con le sue rispettive
identificazioni proiettive, pertanto si produce uno scambio in entrambe le
direzioni” (L.Grinberg, 1982).
Grotstein (1983) distingue due forme di identificazione proiettiva: una
identificazione proiettiva, non difensiva, in o su un oggetto senza trasformazione
del Sé e dell’oggetto per la quale utilizza il termine di esternalizzazione, che dà
luogo a crescita e maturazione; una identificazione proiettiva difensiva che
provoca una trasformazione del Sé e dell’oggetto.
L’autore, a differenza della Klein che focalizza la sua attenzione sul processo di
fusione con l’altro derivante dall’identificazione proiettiva (M.Klein, 1955), pone
l’accento su ciò che accade prima, ossia, il desiderio di negare la propria esistenza
implicato nel meccanismo. Egli sostiene che scissione e identificazione proiettiva
lavorino in coppia, in particolare l’identificazione proiettiva opererebbe “come
appendice della scissione assegnando a un contenitore una percezione o una parte
di Sé scisse” (J.S.Grotstein, 1983).
29
Da ciò ne consegue che non può esserci alcuna identificazione proiettiva nel vuoto,
perché essa si produca è necessaria la concezione di un contenitore in grado di
accogliere la proiezione. È un fenomeno che comporta un soggetto e un oggetto
che può essere intrapsichico o interpersonale. Ogni identificazione proiettiva viene
effettuata in un oggetto interno (oggetto-Sé) o nell’immagine di un oggetto esterno
(rappresentazione
dell’oggetto),
ciò
porta
alla
necessità
di
distinguere
l’identificazione proiettiva intrapsichica da quella interpersonale, distinzione data
dalla misura in cui i confini tra il Sé e i suoi oggetti sono definiti. In merito l’autore
sottolinea come entrambe “siano fenomeni transferali di oggetti-Sé”, esse possono
sovrapporsi e, se i confini tra il Sé e i suoi oggetti non sono definiti in modo pieno,
possono essere indistinguibili.
Come Bion, anche Grotstein assegna un ruolo importante all’oggetto ricevente le
proiezioni (il terapeuta):
“…l’esistenza dell’identificazione proiettiva dipende, in fondo, da chi la riceve.
Quanto più l’oggetto terapeutico è empatico verso le identificazioni proiettive del
paziente e quanto meno queste ultime sono proiettive e identificatorie, tanto più
esse diventano comunicazioni che possono avere per il paziente il significato di un
arricchimento. Nello stesso tempo, le identificazioni proiettive su cui il paziente
non è pronto a riflettere devono essere contenute dal terapeuta..” (J.S.Grotstein,
1983).
Lo scopo delle interpretazioni è quello di aiutare il paziente ad osservare la
modalità in cui le sue proiezioni sono state ricevute e riconosciute dall’analista
(A.Malin, J.S.Grotstein, 1966). Riprendendo i concetti di Robert Langs (1976),
suggerisce l’importanza, per il terapeuta, di porre attenzione all’esperienza che il
paziente ha di lui poiché i pazienti sono molto sensibili alle proiezioni dei terapeuti
30
e le scissioni e le identificazioni proiettive attraversano il sistema in entrambe le
direzioni caratterizzando il processo terapeutico come un campo bipersonale
(J.S.Grotstein, 1983).
Emerge sempre più chiaramente come, progressivamente, l’attenzione si sia
spostata dal versante intrapsichico a quello interpersonale. L’identificazione
proiettiva non sembra più essere solo qualcosa che si verifica nello psichismo
dell’individuo, ma si produce nell’ambito di una relazione interpersonale, indica un
fenomeno relazionale e rappresenta la forma più importante di comunicazione tra
terapeuta e paziente (S.Turillazzi Manfredi, 1985; G.Di Chiara, F.Flegenheimer,
1985; L.Pistorio, 2005).
Un definizione di identificazione proiettiva che sottolinea proprio l’importanza
della relazione interpersonale tra paziente e analista è quella proposta da Thomas
Ogden (1994), in cui il meccanismo rimane intrapsichico, ma ne viene sottolineata
la
valenza
relazionale
(M.Bolko,
A.Merini,
1991).
L’autore
considera
l’identificazione proiettiva una formulazione ponte che permette di descrivere
l’interazione tra i fenomeni dell’area intrapsichica e quelli dell’area interpersonale.
Egli la definisce in questo modo:
“l’identificazione proiettiva non è un concetto meta psicologico, è piuttosto un
fenomeno reale in cui colui che proietta ha la fantasia inconscia di liberarsi di una
parte di Sé non desiderata, inclusi i propri oggetti interni; di depositarla in
un’altra persona; e, infine, di recuperare una versione modificata di ciò che era
stato espulso.” (T.H.Ogden, 1994).
A partire da questa definizione l’autore articola la sua descrizione trifasica del
meccanismo:
31
Prima fase
Nella prima fase c’è il desiderio inconscio di sbarazzarsi di aspetti di Sé, inclusi i
propri oggetti interni, perché minacciano di distruggere il Sé o perché rischiano di
essere attaccati da altri aspetti del Sé e devono essere custoditi all’interno di una
persona capace di proteggerli.
Seconda fase
La seconda fase è caratterizzata dalla “pressione interpersonale” per cui chi
proietta esercita una pressione psicologica e/o comportamentale sul ricevente
affinché senta e si comporti in modo corrispondente alla fantasia proiettiva
inconscia. Ogden parla di una pressione reale non immaginaria e, affinché possa
verificarsi l’identificazione proiettiva, deve esistere un rapporto interpersonale tra
chi proietta e chi riceve.
Terza fase
Nella terza fase si parla di “reinternalizzazione”, in quanto la parte prima proiettata
verrebbe ora reintroiettata. In questa fase, il ricevente sperimenta se stesso nel
modo in cui è ritratto nella fantasia proiettiva. Se è in grado di contenere le
proiezioni e trattarle in modo diverso da colui che proietta, può restituirle
trasformate e pronte per la reinternalizzazione. Viene preso a modello il concetto di
“contenitore” di Bion (1962b) che con la sua reverie trasforma i contenuti
proiettati dal paziente. In questo modo il processo di reinteriorizzazione offre al
proiettante l’occasione per scoprire nuovi modi di trattare sentimenti che prima
desiderava ripudiare (T.H.Ogden, 1994; P.Migone, 1998).
32
Così formulata, l’identificazione proiettiva assolve più funzioni: come difesa
permette di prendere le distanze dalla parte di Sé indesiderata e, nello stesso tempo,
di conservare quella stessa parte di Sé nel ricevente; come modalità di
comunicazione consente di ricevere comprensione da parte del ricevente che,
attraverso la pressione interpersonale, sperimenta un complesso di sentimenti
simili a quelli di colui che proietta; come tipo di relazione oggettuale permette di
rapportarsi con un oggetto che viene vissuto come parzialmente separato, quindi
capace
di
contenere
le
parti
proiettate,
e
contemporaneamente
come
sufficientemente indifferenziato alimentando l’illusione che sperimenti allo stesso
modo i sentimenti del proiettante; come percorso verso il cambiamento
psicologico dal momento che chi proietta può identificarsi con la modalità con cui
il ricevente gestisce i sentimenti proiettati (ibid.).
La capacità dell’identificazione proiettiva di indicare un fenomeno relazionale,
come qualcosa che consente un continuo scambio di elementi emotivi (A.Ferro,
1992) si ritrova anche nella definizione proposta da Turillazzi Manfredi (1985).
L’autrice, che ritiene utile, per la comprensione del modo in cui opera
l’identificazione proiettiva, inserire il concetto all’interno di una teoria degli
oggetti (interni), sostiene che:
“si tratti di un’azione complessa, specifica della relazione analitica, in cui la
fantasia inconscia del paziente di mettere nell’analista i propri oggetti interni, o
meglio il loro modo di funzionare, è agita e attualizzata attraverso comunicazioni
verbali e non verbali, destinate a evocare e a provocare, in un’altra persona,
emozioni, affetti e atteggiamenti propri. Tutto questo è l’esternalizzazione di una
relazione oggettuale interna” (S.Turillazzi Manfredi, 1985).
33
1.5 Interrogativi e questioni controverse: un intenso dibattito
Prima di concludere questa parte dedicata all’evoluzione storica del concetto di
identificazione proiettiva, sembra interessante sottolineare, ancora, la portata di
tale concetto che si evince dall’interesse suscitato anche in analisti non
appartenenti alla scuola kleiniana. Tale interesse se, da una parte ha fornito utili
arricchimenti, dall’altra ha sollevato interrogativi di ordine teorico che, per alcuni,
lo hanno reso un “inestricabile intreccio di questioni anche contraddittorie”
(Bolko M., Merini A., 1991).
Una questione, fonte di accesi dibattiti, riguarda la differenza tra proiezione e
identificazione proiettiva. Diverse sono le posizioni assunte dagli autori che si sono
soffermati sullo studio del concetto. Bott Spillius (1983), Grotstein (1983) e
Meissner (1988) ritengono che non sia utile distinguere la proiezione
dall’identificazione proiettiva (E.Bott Spillius, 1983), dal momento che ogni
proiezione comporta un certo grado di identificazione e chi esercita una proiezione,
con il suo comportamento, farà trasparire il vissuto o l’aspettativa che l’altro
risponda in modo complementare alla proiezione, così da indurlo a rispondere alla
richiesta implicita della proiezione (J.S.Grotstein, 1983). Per Meissner (1988),
quindi, si può parlare solo di “configurazioni di proiezione e introiezione”.
L’autore, più in generale, ridimensiona l’utilità clinica e teorica del concetto,
proponendo una ben precisa delimitazione della sua applicazione ossia “…un
meccanismo intrapsichico che opera come parte di un processo psicotico”
(W.W.Meissner, 1988).
Di parere diverso sono Wolheim (1969), Grinberg (1982), Kernberg (1987) e
Ogden (1994). I primi due autori ritengono che la differenza consista nel contenuto
34
delle proiezioni e nella finalità dell’operazione. Rispetto al contenuto delle due
operazioni, la proiezione riguarderebbe qualità o proprietà come idee, pulsioni,
affetti e atteggiamenti, mentre l’identificazione proiettiva riguarderebbe,
concretamente, parti dell’Io e degli oggetti interni. Rispetto alla finalità, invece, la
proiezione implicherebbe il desiderio di rimanere in contatto con la proprietà
proiettata (pensiero), mentre l’identificazione proiettiva comporterebbe il desiderio
di liberare le nostre menti, di sbarazzarsi del pensiero e dell’oggetto interno
(R.Woleim, 1969; L.Grinberg, 1982). Kernberg considera la proiezione un
meccanismo di difesa più maturo rispetto all’identificazione proiettiva, che si
riscontra in pazienti con una organizzazione nevrotica della personalità, in cui non
si ha empatia con ciò che si è proiettato, né induzione nell’oggetto di un’esperienza
intrapsichica corrispondente. Mentre l’identificazione proiettiva viene considerata
un meccanismo difensivo primitivo, tipico delle organizzazioni borderline e
psicotiche della personalità, in cui si mantiene empatia con gli aspetti proiettati e
questi ultimi vengono introdotti nella vita inconscia dell’oggetto nel corso della
reale interazione con esso (O.F.Kernberg, 1987). Infine Ogden ritiene che nella
proiezione manchi l’esperienza soggettiva di sentirsi uniti alla persona che riceve
la proiezione, il ricevente è sperimentato come estraneo, sconosciuto, minaccioso e
ciò la differenzia dall’identificazione proiettiva (T.H.Ogden, 1994).
Come evidenziato da Speziale Bagliacca, nella sua introduzione al testo di
Grotstein (1983), sembra che le critiche di questi autori all’unificazione dei due
concetti siano convincenti e i due termini, proiezione e identificazione non siano
assimilabili. Inoltre, come indicato da Di Chiara (1983), i due termini non
sembrano assimilabili a causa del diverso modello teorico dal quale traggono
origine:
35
“una difficoltà a intendersi è prodotta dall’usare il modello (dell’identificazione
proiettiva) valido e nell’ambito della teoria strutturale e in quello della teoria
degli oggetti interni, laddove per il primo erano usati i concetti di proiezione e
identificazione, mentre quello di identificazione ha avuto la sua culla nel modello
di un apparato mentale fatto dalle relazioni dell’Io con oggetti interni” (G.Di
Chiara, 1983).
Quindi, per evitare la confusione concettuale in cui una fantasia inconscia e un
modo di relazionarsi vengano amalgamati e confusi, “occorrerebbe distinguerli e
cercare di classificare varie modalità espressive all’interno di queste due aree e
cercare una più precisa individuazione dei vari aspetti e manifestazioni
dell’identificazione proiettiva” (R.Speziale Bagliacca, 1983).
36
2 CONTROTRANSFERT
Teorizzazioni attuali sulla soggettività del terapeuta
Premessa
Nel capitolo precedente si sono cercate di evidenziare le modificazioni subite dal
concetto di identificazione proiettiva. Originariamente formulato come fenomeno
intrapsichico dalla Klein, ha assunto progressivamente un’accezione interpersonale
coinvolgendo entrambi i partecipanti alla relazione, quindi anche il terapeuta. Il
focus si è spostato dal soggetto come fonte di proiezione (paziente), all’oggetto ed
alla sua disponibilità e capacità ricettiva dell’identificazione proiettiva (analista).
Questo porta a volgere l’attenzione sulla soggettività del terapeuta e, quindi, sul
controtransfert.
Come l’identificazione proiettiva, anche il concetto di controtransfert ha subito
importanti modificazioni.
Di conseguenza, pur focalizzando l’attenzione sugli sviluppi più recenti a riguardo,
sarà necessaria una breve premessa storica che permetta di inquadrare le radici da
cui gli stessi hanno preso la loro forma peculiare.
Intanto, è possibile accennare che all’interno del movimento psicoanalitico il
vertice dell’attenzione è stato progressivamente rivolto anche agli aspetti
interpersonali del processo terapeutico e ciò si è verificato sia in Europa che in
America, pur con caratteristiche diverse. Come indicato da Gabbard (1995), che
nel suo lavoro sottolinea l’importanza dell’ uso del controtransfert nella
37
psicoanalisi attuale, esso, oggi, costituisce un terreno comune condiviso fra tutte le
scuole di psicoanalisi.
Il filo conduttore che lega le diverse prospettive teoriche è il riconoscimento della
potenziale utilità del controtransfert; in Europa come in America sono stati
sviluppati concetti sovrapponibili, i termini “enactment controtransferale”,
“identificazione proiettiva” e “ responsività di ruolo” implicano che il
controtransfert porti con sé i contributi propri dell’analista e del paziente.
Non avendo la pretesa di proporre una articolata rassegna storica di tutto il
movimento psicoanalitico, in questo capitolo verranno presentati alcuni sviluppi
recenti che hanno animato il contesto della psicoanalisi statunitense e, attraverso i
contributi di alcuni autori, si cercherà di illustrare l’enfasi posta sulla soggettività
del terapeuta e la conseguente valorizzazione del controtransfert e degli enactment
controtransferali.
2.1 Breve excursus storico: dalle origini ad una nuova visione
Per iniziare si può porre l’accento sugli affetti, cui la psicoanalisi si è avvicinata
con prudenza a causa di un’iniziale tendenza a dare validità ai dati misurabili e
verificabili per dovere di “scientificità”. Gli stessi, inizialmente, sono stati presi in
considerazione come indicatori di conflitti o sintomi di funzionamento patologico.
Lo stesso è valso per il transfert, in principio considerato una variabile negativa da
superare, un intralcio al trattamento, divenne poi il fulcro del trattamento (S.
Turillazzi Manfredi, M.Ponsi, 1999; V. Bonaminio, 2007). Progressivamente, se
pur con remore, è stato possibile prendere in esame e considerare importanti per il
38
processo terapeutico i movimenti affettivi non solo del paziente, ma anche del
terapeuta, il controtransfert.
Ci fu un riconoscimento tardivo dei fenomeni di controtransfert da parte di Freud
(1910), riconoscimento legato all’osservazione del lavoro dei suoi allievi (Jung,
Ferenczi), in cui il controtrasfert venne visto come una risposta endopsichica del
medico sorta per influsso del paziente che va padroneggiata, in quanto può rendere
difficile se non impossibile cogliere gli aspetti inconsci dell’altro. Nel 1912, Freud
riprese il tema in “Consigli al medico nel trattamento analitico” (S.Freud, 1912)
concettualizzando il controtrasfert come un serio ostacolo al lavoro analitico,
capace di determinare “macchie cieche” nella percezione analitica da affrontare
tramite l’autoanalisi e l’analisi personale. Come per gli affetti, è possibile che
questa visione del controtrasfert fosse dovuta all’influenza della scienza positivista,
dominante in quell'epoca, ed alla difficoltà di affermarsi da parte della psicoanalisi
proprio a causa del suo oggetto di studio (C.Albarella, M.Donadio, 1986; M.
Pierantozzi, 1992).
Da allora, fino agli anni '50, la problematica del controtransfert non fu
particolarmente approfondita. I maggiori contributi sul tema vennero sviluppati da
autori della "scuola inglese", influenzata da Melanie Klein, allieva di Ferenczi che
può essere considerato il capostipite del filone psicoanalitico che ammette un
valore agli affetti del terapeuta, alla partecipazione emozionale dell'analista alla
relazione. In Inghilterra, infatti, compaiono contributi emblematici a riguardo da
parte di Winnicott (1949) "L'odio nel controtransfert", e da parte di Paula Heimann
(1950) "Sul Controtransfert".
39
Winnicott, impegnato nel trattamento di pazienti gravi, distingue "un
controtransfert autenticamente oggettivo, ...l'amore e l'odio dell'analista,
oggettivamente osservabili, in relazione alla personalità ed al comportamento
effettivi del paziente” (D.W.Winnicott, 1949), ammettendo la possibilità che alcune
risposte controtransferali non siano legate ai conflitti inconsci dell’analista, ma
siano risposte adeguate al comportamento e atteggiamento del paziente spogliando
il controtransfert della sua accezione negativa e considerandolo utile soprattutto nel
trattamento di pazienti gravi.
L'articolo della Heimann è stato particolarmente significativo, in quanto “ in
Europa si apre una nuova strada per la teoria della tecnica: il controtransfert
diventa uno strumento di analisi” (S.Turillazzi Manfredi, 1989). L'autrice
concettualizza il controtransfert come intera risposta emotiva dell’analista al
paziente nella situazione analitica; esso:
“non costituisce solo una parte della relazione analitica, ma è una creazione del
paziente”, “ il controtransfert è uno strumento di ricerca nell’inconscio del
paziente” (P.Heimann, 1950).
Le premesse sulle quali poggia questa conclusione si ritrovano nel suo considerare
la relazione analitica come un incontro tra due inconsci, quello dell’analista e del
paziente; le “percezioni inconsce” dell’analista sono più profonde e precoci di
quelle coscienti e, in questo modo, sono più vicine agli elementi di urgenza del
paziente. La risposta emotiva dell’analista rappresenta, così, un indicatore
sensibile dei processi inconsci del paziente e una guida per la scelta di
interpretazioni efficaci. L’analista avrebbe un punto di osservazione privilegiato
fornitogli dalla sua analisi personale che gli permette un uso più adeguato delle sue
40
determinanti inconsce. (Albarella C.,Donadio M., 1986; Meterangelis G., Spiombi
G., 2003).
Negli stessi anni in cui Paula Heimann formula queste osservazioni, Racker
(1970)1, in Argentina, approfondisce la tematica del controtransfert articolando il
suo originale e sistematico lavoro "Studi sulla tecnica psicoanalitica, Transfert e
Controtransfert". L’autore, nel suo lavoro, giunge alle stesse considerazioni
dell'autrice inglese e le
amplia (M. Pierantozzi, 1992; S.Turillazzi Manfredi,
M.Ponsi, 1999; Meterangelis G., Spiombi G., 2003).
Sulla scia di questi contributi e per effetto della progressiva enfasi posta sulla
natura relazionale del processo terapeutico si è andata sviluppando, in Europa
come in America, una nuova concezione del controtransfert, non più considerato
solo un ostacolo al trattamento, ma una fonte di informazioni sul paziente e
sull'andamento del processo terapeutico, determinando cambiamenti rilevanti sul
piano clinico. Una maggiore attenzione è andata volgendosi verso il ruolo del
terapeuta e la sua soggettività.
2.2 La soggettività del terapeuta al di là dell'Atlantico: le prospettive
postmoderne
Agli inizi degli anni '80, nella letteratura psicoanalitica nord-americana, iniziano ad
essere prodotti numerosi lavori riguardanti la soggettività dell'analista e
l'intersoggettività del processo analitico. In particolare, si sviluppano posizioni in
Qui è riportata la data della pubblicazione del testo nell’edizione italiana. L’autore, in realtà, approfondisce la
tematica sul controtransfert in una serie di studi svolti nel periodo compreso tra il 1948 e il 1968.
1
41
contrasto con il modello dominante identificato, sul piano teorico, con la teoria
pulsionale
e
con
la
psicologia
dell'Io
“centrate
sugli
aspetti
costituzionali/pulsionali e intrapsichici dell’individuo” (J.L., Fosshage, 2004) e,
sul piano clinico, con una posizione di neutralità, astinenza, anonimato e
oggettività da parte dell'analista; viene sfidata la concezione di una psicoanalisi
come psicologia unipersonale.
Possiamo rintracciare le origini dello spostamento in senso relazionale della
psicoanalisi e dello sviluppo di una prospettiva interrelazionale/intersoggettiva,
organizzata intorno allo studio dei processi interattivi, a partire dagli studi di
D.Stern sullo sviluppo infantile, dal modello interpersonale di H.S.Sullivan e dai
tentativi di integrare l'Infant Research e la psicoanalisi.
Pur essendo confluite varie scuole di pensiero all'interno di questa prospettiva e
nonostante il termine intersoggettività venga usato in modi differenti, è possibile
delineare un comun denominatore tra queste teorizzazioni: la mente è concepita
come diadica, interpersonale e interazionale, può essere compresa solo all'interno
della "matrice relazionale"; il processo terapeutico si costruisce a partire dalle
reazioni reciproche fra i due partecipanti alla relazione (L.Aron, 1996); l'analista
ha accesso alla psicologia del paziente attraverso la propria soggettività. Come
indicato da diversi autori (Beebe, Jaffe, Lachmann, 1992; Fosshage, 1992;
Greemberg, 1995): “i modelli relazionali ed intersoggettivi sostengono che lo
sviluppo normale e patologico, il transfert e gli obiettivi terapeutici emergano e
siano definiti da sistemi interattivi e relazionali” (J.L.Fosshage, 2004).
42
I cambiamenti, rispetto ad una teoria classica basata sull'idea che sia possibile
pervenire ad una conoscenza oggettiva della realtà esterna, si riflettono nelle
teorizzazioni proposte.
Tra gli autori che si sono impegnati in una revisione delle basi teoriche e
metodologiche della psicoanalisi possiamo annoverare Gill (1994) e Hoffmann
(1991), Storolow e Atwood (1992), Mitchell (1993).
Gill e Hoffmann propongono un nuovo modello teorico clinico, il costruttivismo,
organizzato intorno all’interazione delle due menti della coppia analitica, in cui
viene sottolineato che paziente e analista partecipano insieme alla costruzione del
processo analitico (S. Filippini, M. Ponsi, 1993; S.Turillazzi Manfredi, M.Ponsi,
1999; G.O.Gabbard, 2002). Gill (1984) modifica radicalmente la teoria del
transfert, non più visto come ripetizione di un modello intrapsichico basato su
relazioni del passato, ma influenzato dal comportamento reale dell’analista:
“ setting e comportamento dell'analista hanno un'influenza, che varia da un grado
minimo a un massimo, sulle manifestazioni degli schemi dell'interazione
interpersonale, schemi potenzialmente organizzati a livello intrapsichico e che, in
questo senso, influiscono sul transfert. L'espressione del transfert è sempre
influenzata da un'interazione "qui e ora" tra l'analista e il paziente.” (M.M. Gill,
1984).
Quindi, l’analista entra nel processo con la sua soggettività e influenza il materiale
analitico.
All’interno di questa prospettiva il controtranfert non è considerato una reazione al
paziente in cui l’esperienza dell’analista sia unicamente “reattiva”, ma, come
sottolinea Hoffmann (1991), l’analista contemporaneamente risponde alle pressioni
43
del paziente e dà inizio alle sequenze interattive. In questo modo l’analista non
viene confinato o nel ruolo di colui che reagisce o nel ruolo di colui che dà inizio
ad una sequenza interattiva. Transfert e controtransfert sono co-creati sulla base
della reciproca influenza di paziente e terapeuta (G.O.Gabbard, 2001).
Storolow e Atwood (1992), impegnati in una concettualizzazione in senso
intersoggettivista della psicoanalisi sotto l’influenza della Psicologia del Sé, si
concentrano sulla definizione di campo intersoggettivo in cui l’enfasi è posta sull’
hic et nunc e sulla simmetria, parziale e funzionale, tra analista e analizzando
costitutiva del contesto intersoggettivo. Nella situazione analitica il contesto è il
campo stesso, inteso come “ intersezione di due soggettività” (G.E.Atwood,
R.D.Storolow, 1984), sistema di continua influenza reciproca, in cui ciascun
partner è “contestualizzato” dall’altro; “paziente e analista insieme formano un
indissolubile sistema psicologico” (G.E. Atwood, R.D.Storolow, 1992). Gli autori
sottolineano l’impossibilità di una posizione oggettiva dell’analista, sostengono
che la soggettività dell’analista influenza la percezione del paziente e lo stesso
processo psicoanalitico e considerano importante il completo coinvolgimento da
parte dell’analista nella situazione analitico-relazionale (G.O.Gabbard, 2001;
G.O.Gabbard, 2002; B.Beebe, F.M.Lachmann, 2003; E.Mangini, 2003).
In questa ottica la psicoanalisi rappresenta:
“ il tentativo dialogico di due persone che insieme cercano di comprendere
l’organizzazione dell’esperienza emotiva di una persona costruendo insieme il
senso della loro esperienza configurata in modo intersoggettivo” (G.E.Atwood,
R.D.Storolow, 1992).
44
All’interno della prospettiva della “ Psicoanalisi Relazionale” S. Mitchell (1988)
propone la sua teoria della “relazione-conflitto”, facendo riferimento alla teoria
delle relazioni oggettuali di Fairbairn e Winnicott e ad autori come Sullivan e
Levenson, in cui i conflitti sono visti come configurazioni relazionali e non come
tensioni tra istanze intrapsichiche. Si può affermare che l’autore abbia gettato un
ponte tra la tradizione interpersonale e le teorie delle relazioni oggettuali (S.
Filippini, M.Ponsi, 1993; G.O.Gabbard, 2002; J.L.Fosshage, 2004).
Secondo Mitchell lo sviluppo individuale avviene all’interno di una “matrice
relazionale” che ogni persona costruisce attraverso le sue esperienze affettive
significative. Questa prospettiva, similmente a quella costruttivista, sottolinea il
processo di reciproca, bidirezionale influenza e di costruzione del significato tra
paziente e analista; la relazione analitica è costituita dall’interazione di due persone
che concorrono insieme al processo terapeutico portando il proprio contributo
personale e creativo.
Hirsch (1996), nel suo articolo, ha evidenziato come “l’accettazione della
inevitabile partecipazione controtransferale da parte dell’analista ha portato gli
analisti di questa corrente ad usare con maggior libertà i dati dell’esperienza
personale come strumento di comprensione del paziente” (I.Hirsch, 1996).
Mitchell (1988), infatti, ritiene che l’analisi sia determinata dalla presenza
involontaria dell’analista nella matrice transfert-controtransfert:
“Finché l'analista non partecipa affettivamente alla matrice relazionale del
paziente, non si scopre al suo interno, finché l'analista non è in un certo senso
affascinato dalle richieste del paziente, plasmato dalle proiezioni del paziente,
reso ostile e frustrato dalle difese del paziente, il paziente non è pienamente
45
coinvolto e la profondità dell'esperienza analitica viene almeno in parte perduta”
(Mitchell, 1988).
In questa prospettiva diventa importante riconoscere e affrontare il coinvolgimento
controtransferale per evitare una “interminabile ripetizione relazionale” (I.Hirsch,
1996). La soggettività dell’analista, come il suo controtransfert, non possono
essere celati al paziente, la sua funzione analitica è caratterizzata da elementi
appartenenti alla sua affettività, espressività, mentalità; come dice Aron (1996):
“L’interpretazione è l’espressione personale e soggettiva che l’analista ha del
paziente. Nell’interpretazione l’analista, in quanto partecipa con la propria
soggettività, si rivela al paziente. Perciò, essa è, anche, un atto interpersonale”.
La partecipazione e il coinvolgimento dell’analista, considerati come ostacoli da
eliminare, diventano indispensabili all’azione terapeutica (I.Hirsch, 1996).
Come indicato da Harold P. Blum (1986):
“C’è stato un notevole spostamento d’interesse verso il controtransfert e le
reazioni emotive, i valori, gli interessi personali dell’analista che hanno
un’influenza sulla situazione analitica non solo in modo lampante, ma anche
attraverso sottili componenti verbali e non verbali…così che ciascuna coppia
(analitica) è differente, con la sua propria e unica disposizione di transfertcontrotransfert”.
In questo clima culturale innovativo, molti altri autori, senza proporre modelli
teorici revisionisti, presentano scritti clinici in cui sottolinenano l’influenza della
“soggettività” dell’analista, quanto la partecipazione al processo analitico sia
segnata da fattori personali e quindi come non sia possibile una sua obiettività e
46
neutralità(T.J.Jacobs, 1986, 1993; M.Abend, 1989; J.T. McLaughlin, 1991;
O.Renik, 1993, 2001; H.B.Levine, 1994; H.F.Smith, 1997, 2000, 2004).
Questa attenzione rivolta alla soggettività del terapeuta ha dei risvolti importanti
sul modo di concettualizzare il controtransfert. Analisti legati ad una posizione
teorica “classica” (T.Jacobs, 1993; M.Abend, 1989; J.F.Chused, 1991;
J.T.McLaughlin, 1991; O.Renik, 1993; H.B.Levine, 1994; H.F.Smith, 1997) si
sono scostati da una visione del controtransfert unicamente come transfert
dell’analista nei confronti del paziente, per abbracciare una visione più ampia che
comprenda sia aspetti legati alla propria soggettività, che aspetti che sono
influenzati dal materiale del paziente. Il controtransfert rappresenta, così, una
creazione congiunta (jointly created phenomenon come dice Gabbard, 2001)
dell’analista e dell’analizzando e può essere utilizzato proficuamente per la
comprensione del paziente e per favorire l’andamento del processo terapeutico.
Questo emerge nei lavori proposti dai diversi autori e, nella presentazione di
materiale clinico, essi utilizzano e valorizzano aspetti diversi legati alla propria
soggettività.
Jacobs (1993) sostiene che “le esperienze interiori dell’analista spesso portano
alla comprensione delle esperienze interiori del paziente e l’elaborazione delle
resistenze dell’analista, oltre a quelle del paziente, determinano progressi
nell’analisi” (T.H.Jacobos, 1993). In particolare, l’autore esplicita e utilizza le
proprie sensazioni fisiche, le reazioni emotive, i pensieri, le fantasie che emergono
in lui durante il colloquio clinico considerandole comunicazioni inconsce
provenienti dal paziente che contribuiscono alla comprensione dell’interazione tra
paziente e analista, alla formulazione degli interventi e influenzeranno lo
47
svolgimento del processo analitico. Attraverso l’analisi delle proprie esperienze
che si verificano durante i colloqui si può far luce sulle proprie resistenze e
conflitti, si possono comprendere le “transazioni” che si verificano tra l’analista ed
il paziente e quindi si può comprendere il mondo interiore del paziente, le sue
resistenze ed i suoi conflitti.
Abend (1989), in accordo con la teoria Kleiniana, afferma che “il controtransfert
dell’analista può contenere informazioni utili sul paziente e l’auto-analisi può
essere utilizzata come raccolta di dati sul paziente e per formulare gli interventi”
(S.M.Abend, 1989). Per l’autore il compito principale del clinico consiste nel
distinguere quali reazioni saranno utili e quali potranno essere di ostacolo alla
comprensione del paziente.
Smith (1997, 2000) nei suoi scritti sottolinea gli effetti facilitativi e ostativi del
controtransfert e come essi operino simultaneamente. Pur ritenendo utili le
esperienze interiori dell’analista e i momenti di auto-analisi delle stesse per far
chiarezza sulla dinamica instauratasi con il paziente, ritiene opportuno che
l’attenzione del clinico oscilli in modo equilibrato tra paziente e analista per evitare
una focalizzazione eccessiva su di sé, durante il colloquio, che possa distrarre
dall’analisi del paziente. Nel presentare materiale clinico, l’autore sottolinea come
le sue riflessioni su di sé avvengono in un secondo momento, dopo il colloquio, o
sono momentanee durante il colloquio. In particolare, in un suo articolo
(H.F.Smith, 1997), utilizza un sogno verificatosi due giorni dopo la seduta con un
paziente per comprendere la dinamica di transfert-controtransfert tra sé e la
paziente.
48
Levine (1994), pone attenzione alle proprie reazioni emotive ed ai ricordi di
esperienze personali passate evidenziando l’influenza che hanno sui propri
interventi e come riflettano in parte “l’attualizzazione di alcuni aspetti conflittuali
del paziente…l’attualizzazione di una componente importante delle relazioni
oggettuali interne del paziente” e, in parte, “l’attivazione di alcuni vecchi conflitti
personali di cui non ero ancora consapevole” (H.B.Levine, 1994).
In un’ottica un po’ più radicale Renik (1993), sottolinea come la soggettività
dell’analista è insita in ogni aspetto dell’attività analitica, persino nei
comportamenti che egli crede neutrali e obiettivi, ed influenza costantemente il
processo analitico. L’obiettività e la neutralità dell’analista sono un ideale, al punto
che il punto di vista dell’analista e quello del paziente sono posti sullo stesso
piano:
“Non può esserci un interprete della realtà privilegiato all’interno della coppia
analitica. Analista e paziente sviluppano una propria interpretazione della realtà
ed operano sulla base di essa. Durante l’analisi il progresso si realizza attraverso
l’interazione tra due interpretazioni individuali” (O.Renik, 1993).
Dal momento che la soggettività dell’analista permea tutto il suo modo di essere e
tutto ciò che fa e dice all’interno della relazione terapeutica, essa non può essere
controllata, né riconosciuta prima che si manifesti, pertanto è più proficuo
utilizzarla (O.Renik, 1995). A questo riguardo, ad esempio, l’autore (1993)
presenta una vignetta clinica in cui descrive le sue sensazioni fisiche ed emotive, in
particolare il suo sentirsi immobilizzato, durante una seduta psicoanalitica. Aver
prestato attenzione alla propria esperienza interiore, al modo in cui si manifestava
all’interno dell’ora analitica, ha favorito l’auto-analisi e, di conseguenza, il
49
riconoscimento della motivazione personale sottesa a tale atteggiamento e del
bisogno del paziente di stimolare quel tipo di risposta. Come
evidenziato
dall’autore, ciò gli ha permesso di interrompere sequenze interattive che sarebbero
state più al servizio dei suoi bisogni che del paziente, nonostante tale
consapevolezza fosse emersa solo dopo la manifestazione di aspetti relativi alla
propria persona.
Alla luce di questi contributi è possibile notare come si è passati da una prospettiva
in cui l’analista “specchio” riflette i contenuti emotivi dei pazienti e vi risponde in
modo neutrale e silenzioso “segno della radicale asimmetria tra paziente e
analista” (E.Mangini, 2003), ad una prospettiva in cui l’analista è inevitabilmente
coinvolto nella relazione con il paziente, la influenza e ne è influenzato, come
espresso da McLaughlin (1991): “il coinvolgimento esiste da entrambe le parti del
divano analitico”. Prestare attenzione alle proprie esperienze soggettive emerse
durante l’incontro analitico, la loro attenta elaborazione ed analisi può trasformarle
in un utile strumento per la comprensione del mondo interiore del paziente e per
l’andamento del percorso terapeutico.
Inoltre, emerge una diversa visione del processo analitico non più considerato un
processo unipersonale, unicamente concentrato sul paziente, ma considerato come
uno sforzo congiunto di due persone (processo bipersonale) in cui il livello
intrapsichico e quello interpersonale sono strettamente intrecciati; in cui i due
partecipanti all’interazione si influenzano reciprocamente e, in questo modo, sono
entrambi emotivamente coinvolti nella relazione e, in ultimo, in cui l’analista entra
in gioco con i propri bisogni e desideri, con la propria soggettività.
50
Nella rassegna proposta da Mangini (2003) sugli sviluppi recenti della psiconalisi,
l’autore sottolinea come: “ la metafora dello specchio opaco, verrà sostituita,
soprattutto dagli autori nordamericani, dall’imago di un analista meno neutrale e
più partecipante, uno psicoanalista che, sulla scia di una valorizzazione del
controtransfert, può in certi casi agire all’interno del setting (enactment), fino a
rilevare e mettere in gioco delle parti di sé (self-disclosure). ” (E.Mangini, 2003).
Di fatto la messa in atto (enactments) di controtransfert (Filippini S., M.Ponsi,
1993; G.O.Gabbard, 1999; 2003), distinta dall’agito, ha assunto nel contesto
statunitense un valore clinico con effetti, anche, sulla tecnica psicoanalitica.
Senza avere l’intenzione di proporre una lunga dissertazione a riguardo, ritengo sia
importante soffermarsi un poco su questa questione soprattutto per la sua rilevanza
dal punto di vista della pratica clinica e dell’utilizzo del controtransfert, almeno nel
contesto culturale nord-americano.
2.3 La messa in atto di controtransfert
L’introduzione del concetto di enactment si trova in T.J.Jacobs (1986) per indicare
quegli elementi di controtransfert che, fuori dalla consapevolezza cosciente, si
manifestano in modi sottili, attraverso canali non verbali come i gesti e la postura,
nelle situazioni in cui sono presenti situazioni sincronizzate di transfertcontrotransfert (G.O.Gabbard, 2003). E’ importante sottolineare che l’autore, con il
termine controtransfert, fa riferimento ad esperienze appartenenti al passato
dell’analista rivissute nell’interazione con il paziente, quindi ad una concezione
“classica” del controtransfert (T.J.Jacobs, 1986).
51
McLaughlin (1991) definisce l’enactment come:
“ogni comportamento, anche verbale, di entrambi i partecipanti alla relazione
analitica, ma specificamente riferito alle componenti non verbali, gestuali e
posturali, scaturito dall’intensificarsi della componente di azione delle nostre
parole” (J.T.McLaughlin, 1991).
In questo modo l’enactment si riferisce ad una situazione interazionale le cui radici
sono inconsce in entrambi (I.Hirsch, 1996); “pattern inconsci di interazioni
diadiche ai quali contribuiscono sia il paziente che l’analista, ma che
generalmente sono iniziati dal paziente” (J.L.Fosshage, 2004).
Date queste premesse, il termine Enactment starebbe ad indicare un atto il cui
intento è quello di forzare l’altro ad un’azione che non riguarda specificatamente i
contenuti
verbali.
L’”en”
rafforzativo
sottolineerebbe
l’intensità
della
sollecitazione che induce all’atto e farebbe riferimento ai contenuti psichici
inconsci dell’analista, alle sue “macchie cieche” (A.De Marchi, 2000). Sempre
nello stesso articolo, McLaughlin propone anche una definizione più specifica:
“quelle interazioni regressive all’interno della coppia, che ciascuno sperimenta in
conseguenza al comportamento dell’altro” (J.T.McLaughlin, 1991), dando, così,
importanza alla persona dell’analista all’interno del processo analitico, dal
momento che le sue reazioni emotive, anche se stimolate dal paziente,
appartengono alla sua storia personale ed ai suoi personali conflitti.
J.F.Chused
(1991),
come
McLaughlin,
sottolinea
l’aspetto
bipersonale
dell’enactment: “la messa in atto ha luogo quando il tentativo di realizzare una
fantasia di transfert provoca una reazione controtransferale” (J.F.Chused, 1991).
52
Il comportamento dell’analizzando elicita una reazione nell’analista, anche se essa
non si traduce necessariamente in un vero e proprio agito controtransferale.
Nel contributo di De Marchi (2000) sull’argomento, viene specificato come la
“messa in atto” sia motivata da elementi inconsci di entrambi, paziente e analista,
quindi la stessa assume il significato di segnale della presenza di componenti
inconsce che trovano nell’atto una forma di espressione. Inoltre, i pazienti che
possono provocare nell’analista reazioni “difensive” a questo livello e indurre una
messa in atto, sarebbero quelli “la cui patologia è legata a difficoltà precoci, che
investono il Sé e le identificazioni primarie” (A.De Marchi, 2000).
Ritengo importante, all’interno di questa trattazione, anche il contributo Fred Bush
(2007) sugli enactment difensivi. Secondo l’autore il termine si riferisce ad “una
difesa che si sviluppa col crescere nel paziente di una temporanea consapevolezza
dei sentimenti primari di transfert” (F.Bush, 2007), caratteristica nell’analisi di
pazienti nevrotici e con disturbi del carattere in forme meno gravi. In questo tipo di
messa in atto: “l’analista prova un controsentimento che deve calmare le paure del
paziente. L’analista incosciamente svolge un ruolo per aiutare a proteggere il
paziente da un pensiero o un sentimento pericoloso. Il controtransfert dell’analista
serve a tenere in funzione la difesa…è una reazione empatica inconscia al
sentimento di pericolo del paziente” (ibid.).
Gli autori statunitensi ( T.J.Jacobs, 1991; J.F.Chused, 1991; O.Renik, 1993;
H.B.Levine,1994) sono giunti a considerare la messa in atto di controtransfert
come inevitabile all’interno del processo analitico: “l’enactment, come il transfert,
è continuo, presente in tutte le interazioni e, nell’analista, è l’inevitabile
conseguenza della componente interattiva del transfert” (T.J.Jacobs, 1991), anche
53
Levine (1994) sottolinea la sua inevitabilità: “lo sviluppo del transfert ed il suo
enactment sono inevitabili per entrambi i partecipanti nella relazione analitica”
(H.B.Levine, 1994). Va notato, però, come Jacobs non sia molto chiaro a riguardo
dal momento che sostiene anche che, attraverso un’attenta autoanalisi, la
consapevolezza del controtransfert possa permettere di evitare gli enactments
(I.Hirsch, 1996).
La questione, quindi, riguarda la sua utilità per l’andamento del processo analitico.
Alcuni autori sottolineano come il fattore che promuove il cambiamento del
paziente sia l’elaborazione interpretativa dell’ enactment.
J.F.Chused (1991) sostiene che può avere un valore nel momento in cui consente
di esaminare retrospettivamente ciò che è accaduto; secondo Hirsch (1996)
“Chused crede che gli enactments siano fondamentalmente errori dell’analista”,
quindi l’utilità non risiede nell’atto stesso, ma nelle osservazioni e nella
comprensione che ne derivano, essendo favorevole ad una flessibilità analitica in
cui gli errori portino ad un arricchimento del processo analitico. Anche Levine
(1994) sostiene che attraverso l’enactment possono emergere alcune fantasie,
conflitti o relazioni oggettuali interne del paziente. L’analista, lasciandosi
coinvolgere nel processo analitico, può utilizzare il proprio controtransfert
(mobilizzato da alcuni aspetti del paziente) per riconoscere, comprendere e
interpretare il flusso di enactment che si verificano nel processo analitico.
Renik (1993), similmente alle considerazioni formulate in anni precedenti da
Levenson (1985), arriva alla conclusione che la consapevolezza del controtransfert
emerge necessariamente dopo una messa in atto di controtransfert; pur ritenendo
utile l’auto-analisi per prevenire comportamenti dannosi o infruttuosi per il
54
processo analitico, l’autore ammette che “prima che io ne diventi consapevole,
l’elemento controtransferale era stato già determinante sulla mia attività e sulla
mia tecnica” (O.Renik, 1993), ma è l’elaborazione interpretativa dell’azione che
favorisce il cambiamento del paziente.
Mentre altri, come Jacobs (1993), ritengono che a promuovere il cambiamento sia
l’opera sinergica di eventi, che hanno luogo all’interno della relazione, ed
interpretazioni di quegli eventi.
Anche teorici relazionali come Mitchell (1988) e Aron (1991) sono arrivati alla
conclusione che le messe in atto controtransferali sono inevitabili ed utili per il
trattamento analitico: “L’analista, almeno in una certa misura, è considerato parte
della matrice relazionale dell’analizzando. In nessun modo può evitare i ruoli e le
configurazioni
che
gli
vengono
assegnati
entro
il
mondo
relazionale
dell’analizzando. …se l’analista non entra nel mondo relazionale del paziente
l’esperienza analitica non sarà ottimale” (S.A.Mitchell, 1988).
In questo modo l’enactment assume una rilevanza particolare per l’elaborazione
del processo analitico. Nella sua definizione, secondo Ponsi (1999), rientra anche
quella di controtransfert, la formula enactment di controtransfert pone in evidenza
il ruolo attivo dell’analista all’interno del setting. Questo ruolo oscilla tra quello di
soggetto e oggetto e, secondo Aron (1991), è proprio nella capacità di oscillare tra
questi due ruoli che si realizza la funzione dell’analista e si differenzia rispetto a
quella del paziente. La irriducibile soggettività dell’analista (per utilizzare
l’espressione di Renik, 1993) porta con sé la consapevolezza che anche una
maggior responsività umana può essere un elemento utile per la tecnica analitica, il
coinvolgimento personale dell’analista all’interno della relazione analitica si
55
esplica anche attraverso una serie di messe in atto che modificano la tradizionale
tecnica analitica di ascolto pacato e riflessivo (G.O.Gabbard, 1995).
Il riconoscimento che i dati provenienti dalla propria persona possono aiutare a
comprendere meglio la realtà psichica del paziente, che una certa quantità di
caratteristiche personali si manifestano in modo inevitabile durante l’analisi ha
fatto sì che questa variabile venisse incorporata nel processo analitico. L’uso che
viene fatto della propria soggettività varia tra i diversi autori e può andare da
un’attenta riflessione ed auto-analisi fino alla self-disclosure.2
Gli Psicoanalisti Relazionali ritengono che l’espressione e la rivelazione della
soggettività dell’analista all’interno della relazione analitica sia utile. Aron (1996)
invita il paziente ad essere curioso riguardo alla soggettività dell’analista;
Benjamin (1990) è favorevole all’espressione della soggettività dell’analista
perché, il riconoscimento della differente soggettività e della separatezza tra
paziente e analista, promuove la crescita; Hoffmann (1994) parla di quei momenti
in cui l’analista “butta via il manuale” e risponde in modo profondamente
personale (J.L.Fossahge, 2004); Renik (2001) propone di “giocare a carte scoperte”
con il paziente, perché la comunicazione esplicita della propria esperienza risulta
di fondamentale importanza nel determinare la cooperazione tra analista e paziente.
Gli analisti classici contemporanei come Jacobs e McLauglin, invece, sono molto
restii all’auto-disvelamento con i propri pazienti, nonostante Jacobs, nei suoi lavori
sveli numerosi aspetti della propria persona. A questo riguardo è interessante
Come evidenziato da Mangini (2003), non esistono norme o prescrizioni per l’uso della self-disclosure. Se essa,
come la neutralità, scaturisce solo da imposizioni tecniche, distaccandosi dall’hic et nunc della relazione, può essere
dannosa.
2
56
notare che l’autore stesso sottolinea il rischio di una esagerata attenzione da parte
dell’analista per la propria esperienza soggettiva: “sembra che il compito sia quello
di andare alla ricerca della mente dell’analista (piuttosto che cercare di capire la
mente del paziente)” (T.J.Jacobs, 1997).
2.4 Considerazioni conclusive
Gli autori che, inizialmente, sono stati per me fonti di inspirazione e riflessione
clinica e teorica sono Thomas Ogden (1994) con il suo lavoro sull’identificazione
proiettiva e Joseph e Anne Marie Sandler (1998) con il loro contributo sugli
oggetti interni. A partire da loro la mia attenzione è andata volgendosi verso coloro
che si sono occupati di identificazione proiettiva e di controtransfert. Questo
percorso di studi e letture mi ha portato a non poter prescindere dai contributi
offerti dalla letteratura psicoanalitica americana contemporanea a riguardo.
Credo, più in generale, che il valore delle teorizzazioni qui presentate, se pur in
modo non esaustivo, stia nell’aver contribuito ad aumentare la consapevolezza
della complessità dell’interazione tra paziente ed analista, oltre all’importanza
della partecipazione dell’analista al processo terapeutico.
Più in particolare, nel tentativo di riprendere le fila del discorso che qui si vuole
proporre sul controtransfert e sull’uso che può essere fatto della soggettività del
terapeuta, ritengo molto interessanti ed illuminanti i contributi di autori come
Jacobs (1986, 1993), Renik (1993), Levine (1994). Il loro sguardo attento ai propri
vissuti emozionali, il soffermarsi sui propri accadimenti interni e soprattutto lo
sforzo di dare senso alle proprie reazioni emotive, riflettono l’importanza di
57
considerare il controtransfert come una creazione congiunta di paziente e terapeuta.
Cito questi autori in particolare, nonostante questa concezione del controtransfert
emerga anche in altri (vedi ad es. Mitchell, 1988; Abend, 1989 e Smith, 1997,
2000, 2004), perché ritrovo in loro quell’attenzione a reazioni emotive (irritazione,
ansia), a sensazioni fisiche (sensazione di immobilità, aumento dei battiti cardiaci)
ed al modo in cui si riflettono nel nostro rapportarci al paziente, che anche io ho
riposto sulle mie reazioni emotive e sensazioni fisiche, emerse in modo particolare
(ed imprevisto) in una fase del lavoro clinico con un paziente, e con le quali ho
dovuto “fare i conti”. Quindi non perché altre esperienze personali, come i sogni, i
ricordi, le fantasie non vengano menzionate da questi, come da altri autori, e non
perché non siano utilizzate in modo altrettanto proficuo.
Al di là delle descrizioni di questi aspetti della soggettività del terapeuta, ciò che
più colpisce è lo sforzo e la capacità di dare senso alle reazioni personali che
emergono durante i colloqui con il paziente. Dare senso sia rintracciando in esse i
propri bisogni, difese, conflitti, i propri contributi personali, sia rintracciando i
contributi del paziente.
Dalle concettualizzazioni esposte (in Abend, 1989 e Smith, 1997, 2000 per citarne
alcuni) e dalle esemplificazioni cliniche proposte (Jacobs, 1986, 1993; Renik, 1993
e Levine, 1994) emerge l’idea che il paziente, a volte, attualizza uno scenario
interno, inducendo l’analista ad assumere ruoli già scritti nel suo mondo psichico.
Tuttavia, nel rintracciare i personali contributi alle esperienze vissute, emerge
come l’esperienza dell’analista, fonte di indizi utili sulla dinamica intrapsichica del
paziente, non sia una replica esatta della rappresentazione interna del sé o
dell’oggetto proiettati dal paziente. “Gli affetti e le fantasie del paziente trovano,
58
nell’analista, un soggetto che interviene su di essi con un contributo originale”
(S.Bordi, 1995); la soggettività del terapeuta, i propri conflitti, le sue dinamiche
oggettuali interne, “determineranno le dimensioni di questo ruolo” (G.O.Gabbard,
2003).
Credo che sia molto importante, nel proprio lavoro clinico, tenere a mente questa
formulazione per poter osservare, con uno sguardo nuovo e più attento, i propri
accadimenti interni ed anche la particolare dinamica che si instaura tra paziente e
terapeuta, oltre la dinamica intrapsichica del paziente. Come indicato da Gabbard
(2003):
“ l’idea che il controtransfert rappresenti una creazione congiunta dell’analista e
dell’analizzando riflette un movimento verso una concezione dell’analisi come
processo bipersonale, nel quale l’intrapsichico e l’interpersonale sono
inestricabilmente connessi. Sentimenti appassionati sorgono in entrambe le parti
in conseguenza della reciproca influenza.” (G.O.Gabbard, 2003).
All’interno dei diversi contributi, una parte importante, è dedicata all’autoanalisi
delle esperienze personali e ritengo che questo aspetto abbia una rilevanza di non
poco conto nel lavoro clinico. Leggendo le esemplificazioni cliniche proposte da
Jacobs (1986, 1993), Renik (1993), Levine (1994), Smith (1997, 2000) si può
sempre rintracciare una certa dedizione all’analisi delle proprie esperienze
personali, analisi che permette di comprendere e discernere cosa appartiene a sé
stessi e cosa al paziente, così che possa essere restituito qualcosa che abbia a che
fare con il paziente, piuttosto che qualcosa che ha a che fare con il terapeuta.
Di fatto, l’importanza dell’analisi delle reazioni controtransferali è sottolineata da
molti autori ed assume i toni di una “raccomandazione”: Loewald (1984) ritiene
59
che il controtransfert può essere posto al servizio del processo analitico, ma
riferendosi al controtransfert analizzato, non al controtransfert inconscio che può
persistere, proprio perché non analizzato. Anche Tyson (1984) sottolinea che
“l’analisi del controtransfert ed il pieno apprezzamento delle sue determinanti e
ramificazioni può fornire indizi e spunti per la comprensione analitica del
paziente. Un ostacolo può essere convertito in un aiuto se l’interferenza del
controtransfert ed i suoi effetti sono analizzabili e reversibili”.
Come loro, questa sottolineatura ho potuto ritrovarla negli autori di oltre oceano
(Blum, 1986; Abend, 1989; Smith, 1997, 2000; Jacobs, 1986, 1993; Chused, 1991;
McLaughlin, 1991; Gabbard, 2003 solo per citarne alcuni) e negli autori italiani.
Quanto utili sono state le seguenti indicazioni: “il lavoro di ricerca ed
elaborazione degli aspetti inconsci che sono in gioco è lungo e complesso, spesso
impossibile: richiede tempo, tolleranza di sentirsi scalzato da un’illusoria
posizione di superiorità, consapevolezza che ci sono comprensioni che si riescono
a realizzare solo in presenza e con il contributo dell’altro…” (A.Ferruta, 1998);
“l’autoanalisi del controtransfert fornisce la forza per uscire dalla follia in
solitudine dell’analista con il paziente e per trasformare la terrificante simmetria
in conoscenza” (L.Russo, 1998), e ancora: “per l’analista è indispensabile saper
operare distinzioni nell’ambito della propria soggettività, usando la capacità
autoanalitica” (L.Russo, 2003).
Quanto preziose queste affermazioni: “l’analista ascolta il paziente, e ascolta
molto anche sé stesso…la specificità della sua funzione risiede nella capacità di
contenere i molti dati in arrivo sia dal paziente che da sé stesso e di sottoporli ad
un’attenta elaborazione” (S.Turillazzi Manfredi, M.Ponsi, 1999); “aspiriamo al
fatto che un’autoconoscenza profonda e una profonda capacità di autoanalisi ci
60
aiuteranno a preservare i nostri interventi ed i nostri atteggiamenti dagli aspetti
della persona dell’analista durante il lavoro analitico” (E.L.Bichi, 2003).
L’accento posto sull’attenta osservazione ed analisi della propria soggettività ai
miei occhi ha assunto le caratteristiche di un prezioso monito a non lasciarsi andare
a facili entusiasmi, perché il controtransfert mantiene una duplice connotazione di
ostacolo e strumento di conoscenza (H.V.Loewald, 1984; R.L.Tyson, 1984;
H.P.Blum, 1986; S.M.Abend, 1989; S.Turillazzi Manfredi, 1989; H.F.Smith;
A.Ferruta, 1998).
E’ necessario dover sostare, contenere ciò che rileviamo dei nostri accadimenti
interni, dei nostri atteggiamenti prima che possano essere utilizzati. Solo così sarà
possibile restituire qualcosa al paziente che lo riguarda, in cui possa riconoscersi e
sentirsi riconosciuto e così procedere nel suo faticoso e, a volte, doloroso percorso
di autoconoscenza. Un lavoro difficile e complesso che, con l’armamentario in fieri
di esperienza, conoscenza ed autoconoscenza a mia disposizione, ho cercato di
affrontare. Anche perché lo ritengo un compito doveroso per la responsabilità che
si ha nei confronti di ogni paziente.
Ancora un’ultima considerazione rispetto al concetto di messa in atto
controtransferale.
Rintracciando
in
esso
dei
punti
di
convergenza
e
sovrapposizione con i concetti di identificazione proiettiva e di risonanza di ruolo,
per me ha assunto un valore particolare: quello di un’opportunità trasformativa.
Nel momento in cui mi sono sentita e mi sento (mi scopro) in “errore”, per
l’atteggiamento assunto, per il vissuto intenso provato, per un gesto, per il tono di
voce, per la scelta delle parole e molto altro, recuperare questo concetto può offrire
la possibilità di osservare tutto ciò con uno sguardo nuovo e più attento.
61
Evitando sterili ed inutili autoflagellazioni, esso offre la possibilità di iniziare a
riflettere e andare alla ricerca del mio contributo e di quello del paziente,
rintracciarne il senso in me e, se c’è, nella relazione-interazione con quel paziente,
a scopo trasformativo. Trasformare quell’esperienza “sconcertante” in un pensiero.
Questo concetto contiene in sé anche il rischio che possa essere utilizzato per
giustificare grossolane violazioni e gravi acting out di controtransfert. In questo
modo, gli avvertimenti di cui sopra si dimostrano particolarmente opportuni,
Gabbard (2003) a riguardo afferma:
“nell’idea che la messa in atto di controtransfert possa essere utile rientra la
consapevolezza di sé stesso, da parte dell’analista, nel momento stesso in cui mette
in atto il proprio controtransfert in una forma attenuata o parziale” e più avanti
“in ogni risposta controtransferale l’analista deve cercare di valutare il peso
relativo dei propri contributi e di quelli del paziente. Parte fondamentale di questo
processo di riflessione è determinare quale ruolo, se c’è, l’analista assuma tra i
personaggi del mondo interno del paziente.” (G.O.Gabbard, 2003).
Nella mia esperienza, come Renik (1993), mi sono potuta rendere conto che stava
accadendo qualcosa nell’interazione tra me e il paziente, solo nel momento in cui e
dopo aver “messo in atto” (dopo aver svolto un ruolo, reagito alle proiezioni) il
mio controtransfert in una forma che non ha portato ad una grave violazione del
setting, ma che ai miei “occhi” ha assunto un’evidenza tale da non poter più
passare inosservata, portando con sé inizialmente sconcerto, disorientamento, molti
dubbi e interrogativi. Progressivamente, però si è aggiunta la curiosità e il
desiderio di capire cosa stava accadendo e se, e come, poterne trarre spunti utili.
62
Credo veramente che un processo terapeutico sia fatto di una miriade di
accadimenti interni ed esterni più o meno evidenti, che le dinamiche intrapsichiche
e quelle interpersonali siano sempre in gioco entrambe. All’interno di tutta questa
complessità credo si possa guardare agli enactments che si verificano con uno
sguardo più indulgente, andando alla ricerca dei significati di cui sono portatori.
Senza lasciarsi prendere da facili entusiasmi a riguardo, credo che, nel tentativo di
comprendere ed aiutare il paziente, oltre all’attento ascolto del paziente
(“nell’ascolto psicoanalitico la risposta è differita” S.Turillazzi Manfredi, 1999)
ed all’insieme di strumenti a disposizione del terapeuta per questo difficile
compito, ci possa essere spazio per la propria soggettività, in modo che essa, anche
quando si manifesta in modi imprevisti, possa essere messa al servizio del processo
terapeutico.
Alla luce di tutto ciò ritengo opportuno citare ancora Gabbard, perché la sua
affermazione racchiude, in breve, quanto si è tentato di formulare fin qui: “il
controtransfert è una reazione nel terapeuta creata in parte dai contributi del
passato del terapeuta (conflitti personali, rappresentazioni interne del Sé e
dell’oggetto) e, in parte, dai sentimenti indotti dal comportamento del paziente. Il
controtransfert è sia una sorgente di informazioni preziose sul mondo interno del
paziente sia un’interferenza con la terapia” (G.O.Gabbard, E.P.Lester, 1999;
G.O.Gabbard, 2001; G.O.Gabbard, 2002; G.O.Gabbard, 2003).
63
3 PAZIENTE E TERAPEUTA NEL CONTESTO CLINICO
Premessa
Ciò che verrà tratteggiato qui di seguito è la esemplificazione clinica del percorso
terapeutico, ancora in fase di svolgimento, di Marco3. Data l’impossibilità di
fornire un quadro dettagliato dei singoli colloqui e dato lo scopo del presente
lavoro, verranno sintetizzati gli elementi principali emersi già nei primi colloqui e
ripresi più volte nel corso del percorso terapeutico, mentre verranno proposti gli
stralci di alcuni resoconti dei colloqui dell’ottavo mese di terapia.
Prima di procedere, giova precisare che i colloqui vengono svolti, vis a vis e con
frequenza settimanale, all’interno di una struttura pubblica (Consultorio Familiare),
cui si può accedere previa compilazione di una breve scheda telefonica, indicante i
dati personali e, a brevi linee, i motivi della richiesta.
I primi quattro colloqui sono stati condotti da due terapeuti, me e una collega che,
come previsto dal contesto di tirocinio, doveva essere affiancata a un collega “più
esperto” prima di poter svolgere colloqui di consultazione da sola ed io ero la
presunta esperta!
Il percorso terapeutico ha avuto inizio a metà del mese di ottobre del 2008, cinque
mesi dopo i primi colloqui di consultazione, a causa della mancanza di
disponibilità di uno spazio nell’immediato all’interno della struttura.
3
Il nome è stato modificato per i ben noti motivi di privacy del paziente. I restanti dati personali, invece
corrisponderanno al vero.
64
Durante la fase di attesa sono stati svolti colloqui di sostegno a cadenza mensile,
con la sola presenza del terapeuta con cui Marco avrebbe svolto il percorso
terapeutico.
3.1 Il percorso intrapreso insieme
Ho incontrato Marco, per la prima volta, nel mese di aprile del 2008. Si è rivolto al
Consultorio perché dice di soffrire di vertigini da circa tre anni e ultimamente
(mese di marzo) ha avuto alcuni attacchi di panico, verificatisi sempre di notte, di
cui uno di forte intensità proprio due settimane prima.
Dopo essersi documentato sulla sua sintomatologia, dopo essersi confrontato con
alcuni conoscenti, anche loro “vittime” di attacchi di panico e con la moglie, che
ha sofferto dello stesso problema in passato e che ha risolto grazie ad una terapia di
gruppo, si è convinto che deve farsi aiutare.
I colloqui di consultazione, di fatto, si concludono con la proposta di affrontare un
percorso individuale volto ad approfondire alcune tematiche emerse in questa fase
iniziale, allo scopo di cogliere il senso e le origini dei sintomi attuali e trarne un
sollievo, proposta che Marco accetta senza esitazioni.
Di seguito è riportato il sunto e la riorganizzazione di alcuni elementi principali,
della sua storia e della sua persona, emersi durante tutto il percorso.
3.1.1 Marco e i suoi sintomi
Marco ha 37 anni e un aspetto da “bravo ragazzo” con i suoi lineamenti regolari,
una fisicità robusta e curata nel suo abbigliamento casual.
65
I primi colloqui vertono sulla storia dei suoi sintomi fisici. Negli ultimi tre anni ha
iniziato a soffrire di vertigini, sbandamenti e sensazioni di spossatezza, che lo
hanno indotto a sottoporsi a una serie di esami medici nel tentativo di rintracciarne
le cause e, per il momento, gli è stata diagnosticata una “sensibilità
neurovegetativa”. Ciò che lo ha spinto a richiedere un aiuto psicologico, però, è
stato un recente attacco di panico, verificatosi di notte, che lo ha molto preoccupato
per intensità e durata, lui stesso lo descrive: “Come un susseguirsi di tanti piccoli
attacchi per tre ore”.
Si sofferma a lungo sui sintomi fisici sperimentati (vampate, tremori, tachicardia,
affanno) e sul senso di spossatezza e apatia che lo hanno attanagliato per molte ore
al termine dell’attacco di panico, omettendo gli aspetti emotivi ad essi associati.
Nonostante ciò, l’angoscia, la preoccupazione e la paura traspaiono nei suoi
racconti dall’espressione del suo viso molto seria, dalla necessità di fornire con
dovizia di dettagli ciò che aveva vissuto, come se si sforzasse di rendere quanto più
chiara possibile l’idea di tale esperienza e, nello stesso tempo, come se avesse la
convinzione che l’altro non potesse, neanche lontanamente, immaginare il vissuto
di un’esperienza simile.
Da subito sottolinea che l’aspetto che più lo preoccupa è il senso di apatia e
spossatezza vissuti in seguito all’attacco di panico, perché capaci di compromettere
tutti i programmi per la giornata successiva “andare a lavoro, portare mio figlio a
scuola, andare in palestra”, programmi inderogabili cui non può sottrarsi.
66
3.1.2 I cambiamenti di vita
Parla dei cambiamenti avvenuti nella sua vita negli ultimi anni, tra cui annovera il
matrimonio, avvenuto nel 2001, la nascita del figlio tre anni fa e cambiamenti
nell’ambito lavorativo. Si sofferma e ritorna spesso, durante i colloqui, sui
cambiamenti lavorativi. Da un intenso e frenetico lavoro come barista, a tecnico
informatico fino ad impiegato presso una RSA, sempre tre anni fa. Il lavoro attuale
lo ha costretto ad uno stile di vita più sedentario “il lavoro che faccio non mi
stanca…per me è come se non lavorassi”, stravolgendo completamente i suoi ritmi
abituali.
3.1.3 La descrizione di sé
Si descrive come una persona molto socievole “Marco con chiunque lo metti da 0
a 60 anni sta”; adattabile, per esprimere questa sua caratteristica si definisce come
“un quadro astratto, nel senso che da qualsiasi punto lo guardi ci puoi vedere
sempre qualcosa”; ragionevole “sono una persona tranquilla che se ti deve di’ ‘na
cosa te la dice,ma tranquilla”; molto dinamica “abituato a correre come un treno
tra lavoro,interessi, fidanzata…” che vuole e deve sempre trovare qualcosa da fare
perché “non tollero l’apatia, la pigrizia porta a impigrirsi sempre di più”;
pragmatica ed efficiente, capace di analizzare i problemi ed individuarne subito la
soluzione per non doverci tornare su ancora una volta. Da sempre abituato a non
parlare dei suoi problemi con i familiari, già nel primo colloquio dirà: “Quando
Marco c’ha un problema è di Marco e basta, tanto è inutile parlarne, tanto il
problema resta mio, non è che gli altri te lo risolvono, anzi poi magari si
angosciano ed è peggio”. Non ha problemi però a parlarne durante i colloqui
perché “qui nasce e qui muore”, come se non dovesse preoccuparsi delle
67
conseguenze sull’altro come invece avviene nelle relazioni intime. In un’altra
occasione dirà: “Qui parlo di cose che fuori non escono perché per me venire qui è
un modo per avere i mezzi per capire e superare questa situazione”, come se
facesse un uso intellettualmente strumentale della terapia.
Il suo parlare è sempre molto logico e razionale, non c’è molto spazio per le
emozioni. Ripete più volte che “volere è potere” e che a tutto c’è una soluzione,
tutto sembra ridursi ad una questione di logica, per lui le cose sono “bianche o
nere” e patisce i tentativi dell’altro nel convincerlo che sono “panna”; inoltre ama
parlar chiaro e non ama le questioni lasciate in sospeso. A riguardo, sollecitato più
volte, riesce a raccontare due situazioni, risalenti a circa dieci anni prima, il cui
ricordo è vivido anche sul piano emotivo, tanto da tornare spesso, ancora oggi, con
il pensiero su tali circostanze.
3.1.4 Gli eventi significativi
La prima situazione riguarda l’area lavorativa: fu assunto in un bar con una
qualifica superiore ai colleghi più anziani perché esperto nel settore, ma loro
progressivamente lo “boicottarono”. A suo dire lui era più efficiente e più
disponibile verso la clientela a differenza dei colleghi sicuramente esperti, ma
ormai anziani e stanchi di un lavoro così frenetico. Nonostante il proprietario
vedesse che lavorava più e meglio di loro “si comportò da uomo di paglia”, si
lasciò influenzare dai loro commenti fino a licenziarlo. Ancora oggi nutre rabbia
verso il datore di lavoro per come si è comportato, ma lui non avrebbe potuto
opporsi a tale situazione poiché “sul lavoro devi sottostare al volere del capo
perché il lavoro ti serve, lui ha il coltello dalla parte del manico e tu devi
sopportare”.
68
La seconda situazione riguarda l’ambito sentimentale: racconta della sua relazione
molto intensa con F., una ragazza conosciuta quando faceva le consegne per il
negozio in cui lei lavorava, relazione durata circa un anno. Stavano molto bene
insieme, avevano anche deciso di sposarsi, ma alcuni mesi prima della data del
matrimonio le morì la nonna, cui era molto legata, ed il loro rapporto cambiò. Lei
si chiuse in se stessa, non c’era più la stessa intimità, lo stesso coinvolgimento.
Inizialmente rispettò ed accettò questo stato di cose fin quando decise che non
aveva senso continuare in questo modo e pose fine, pur contro voglia, alla
relazione e lei non fece obiezioni. Ancora oggi ricorda in modo nostalgico i bei
momenti trascorsi insieme e l’intensità dei sentimenti provati, intensità che non ha
più risperimentato. Vorrebbe sapere come sta, cosa fa, se sta bene e vorrebbe
capire cosa fosse successo tra loro, perché di fatto non sa cosa abbia provocato un
tale cambiamento da parte di lei.
3.1.5 La storia
Marco non parla della sua storia, si limita a dire che dell’infanzia non ha ricordi,
ma solo dei flash. Può dire solo che era un bambino vivace, che il padre non c’era
mai per lavoro, che ha un fratello maggiore di tre anni molto diverso da lui
caratterialmente, tanto che ancora oggi non hanno molti rapporti, cosa che
attribuisce anche alla distanza. Della madre racconta solo: “ così presa dai
figli…con lei non posso parlare altrimenti si preoccupa”, frase vaga che lascia
spazio a numerosi interrogativi.
Le volte in cui fa riferimento alla sua storia, riesce a tornare solo sugli anni della
tarda adolescenza, anni in cui, finite le scuole, decise subito di iniziare a lavorare
per non gravare economicamente sulla famiglia che non navigava in acque felici.
69
Infatti, accenna che i genitori spesso litigavano a causa dei problemi economici,
litigi i cui effetti sarebbero, a suo dire, ricaduti maggiormente sul fratello rispetto a
lui. Lui, più ribelle e dinamico, a volte interveniva e si metteva in mezzo.
3.1.6 La moglie
La figura della moglie emerge a tratti e per “differenza” rispetto a lui. Lui
pragmatico e programmatico (non è che sono preciso è che se faccio una cosa
subito, tipo pulire lo specchio del bagno dopo averlo schizzato con l’acqua, poi
non ci devo ripassare, è uno spreco di tempo. Io sono sempre andato avanti non
sono mai tornato indietro), la moglie disordinata e disorganizzata, l’ordine è una
delle fonti di rimprovero da parte di lei che lo vorrebbe meno “ossessionato” a
riguardo. Lui più abituato a non esprimere i propri sentimenti e le proprie
preoccupazioni, lei più capace di esternarle. Lui razionale e risoluto, lei emotiva
(rispetto ad un problema magari mia moglie si appanica e se ci appanichiamo in
due non se ne esce). Lui autonomo ed autosufficiente, abituato a gestirsi e
risolversi i problemi da solo, lei, abituata a condividere i propri problemi con la
famiglia, è cresciuta in un ambiente protettivo (lei ha vissuto nella bambagia).
Utilizza queste differenze per motivare la sua ferma opposizione all’idea, proposta
dalla moglie, che ciò che sta accadendo oggi possa avere a che fare con la sua
storia, in particolare con sua madre “ maniaca dell’ordine e della pulizia”, anche
perché ritiene di dover essere molto grato ai suoi genitori per i sacrifici fatti nel
crescerlo ed educarlo.
70
3.1.7 Lo stile narrativo
Vorrei soffermarmi anche sulle modalità con cui gli stessi contenuti sono espressi,
perché consentono di aggiungere informazioni su Marco e sulla modalità
relazionale che adotta durante i colloqui clinici, modalità che non subisce
variazioni nel passaggio dal contesto consultivo a quello della presa in carico.
Marco parla molto, utilizza un registro linguistico generico, generale, vago e
confondente per descrivere se stesso e gli altri. Tutto quello che racconta non è
mai, o quasi, circostanziato da fatti o esempi specifici che possano confermare o
contraddire ciò che afferma. Il tono di voce è piuttosto monotono, le sue lunghe
divagazioni sulle proprie idee, convinzioni, valori, atteggiamenti e azioni non
lasciano molto spazio agli aspetti emotivi.
Durante il flusso dei suoi discorsi non c’è neanche molto spazio per l’altro, è
difficile inserirsi ed intervenire. Ha la tendenza a non rispettare i turni del dialogo,
interrompe il suo interlocutore prima che abbia terminato la sua frase e ricomincia
a parlare come se avesse già capito cosa l’altro stia per dire o proporre. La
sensazione è che il suo soliloquio potrebbe essere interminabile, tanto da avere
difficoltà anche a terminare i colloqui, ad una frase conclusiva o di commiato lui
tende a ribattere come se dovesse avere l’ultima parola e continua a parlare mentre
si accinge alla porta.
Un altro aspetto particolare che caratterizza i primi colloqui è l’uso impersonale
della seconda persona singolare “TU” per rivolgersi alle due consultanti. Pur
usando il tu non si rivolge mai specificatamente ad una delle due, come se parlasse
con un’unica generica persona. Questa modalità particolare di rivolgersi all’altro
71
cambierà solo apparentemente in seguito, quando nella stanza ci saremo solo io e
lui, infatti il tu verrà sostituito con voi. Anche in questo caso, l’uso del voi non è
“reverenziale”, ma è un uso impersonale. Ad esempio Marco dirà sempre “da
quando vengo da voi al consultorio” associato ad un gesto con le mani come a
comprendere l’intera istituzione, alternato ad un “da quando ho iniziato la terapia
qui al consultorio”, come se non potesse/volesse mai riferirsi a me in particolare.
3.1.8 La struttura dei colloqui
I colloqui sembrano aver, da subito, assunto una struttura fissa: hanno solitamente
inizio con un breve resoconto della settimana relativo al suo stato ansioso, per poi
passare ad una lunga e vaga dissertazione sulle sue riflessioni e sforzi cognitivi di
dare senso agli attacchi di panico, con riferimenti al suo modo di essere, di vedere
la vita etc. etc., mentre io mi concentro molto ad ascoltare i suoi lunghi discorsi,
perché il loro carattere così vago e generico mi disorienta e sento la necessità di
stare molto attenta nel timore di lasciarmi sfuggire qualcosa di importante,
qualcosa di nuovo. A questo sforzo attentivo si aggiunge lo sforzo di rintracciare
un senso in questo fiume di parole, senso che spesso mi è difficile trovare.
Ai tentativi di inserirmi nei suoi lunghi discorsi, per cercare di soffermarci a
riflettere sul senso di alcuni aspetti di sé, Marco mi interrompe e mi costringere a
riprendere più volte le frasi che tento di pronunciare. Spesso, alle mie richieste di
chiarimenti, alle osservazioni su alcuni aspetti e modalità relazionali, ai tentativi di
risignificare alcuni aspetti di sé che riporta come inoppugnabili (es. rispetto
all’operazione che avrebbe dovuto subire il figlio per l’asportazione delle adenoidi
dirà: io sono curioso, mi piace documentarmi per non trovarmi impreparato nelle
situazioni e di fronte ai problemi, perché con il lavoro che faccio ne vedo tante)
72
risponde sostenendo che “è sempre stato così” o “è una vita che fa così” o che lui è
fatto in quel modo.
3.1.9 Progressivamente…
Progressivamente gli attacchi di panico lasciano il posto a “episodi ansiosi”, però,
siamo consapevoli entrambi che ciò non rappresenta un cambiamento significativo,
ma è legato alla sua capacità di adottare efficaci ed efficienti strategie preventive
(non va al cinema, non si muove al buio etc.) modalità cui è avvezzo o, come lui
stesso afferma, “lo so che sono dei palliativi, non mi sento sicuro di essere in
grado di gestirli”. Nonostante questa consapevolezza in questo periodo (prima
dell’estate) si sente come in “uno stato di grazia”, a differenza del periodo in cui
viveva gli attacchi di panico, non riuscendo ad attribuire questo “cambiamento” a
qualcosa in particolare dirà più volte: “Chissà i cambi di turno a lavoro e poi sto
cercando di evitare di sovraccaricarmi troppo, come facevo prima, forse questo mi
fa stare meglio, però non lo so proprio” (nessun accenno alla terapia).
Proprio in questo periodo comincio ad accorgermi di provare sempre meno
curiosità per il paziente, di sperimentare, durante gli incontri, noia ed un senso di
demoralizzazione. Anche prima dell’inizio dei colloqui provo un senso di
pesantezza immaginando di dover affrontare il suo riempire il colloquio con un
fiume di parole da cui non sembra possibile sviluppare utili elementi di
comprensione o interpretazione. Inizialmente non mi ero soffermata attentamente
su queste sensazioni, le avevo registrate, ma ero ancora troppo presa a sforzarmi di
seguire il fluire dei suoi discorsi. Ciò che si è verificato durante un colloquio mi ha
costretta a riflettere più attentamente su ciò che stava accadendo tra me e Marco.
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Nei tre colloqui precedenti a quello in questione si verificano alcuni scambi tra noi
che credo siano significativi e offrano spunti di riflessione ulteriore su ciò che
verrà a breve descritto.
4 giugno 2009
Inizia dicendo che nonostante le ultime due settimane sono state molto intense è stato piuttosto
bene. Il figlio dovrà essere operato nuovamente di adenoidi e a riguardo dirà: “Non sono
d’accordo con il primario, per me due più due fa quattro non fa cinque o tre. Se c’era la
probabilità che doveva essere rioperato perché farla? Io già avevo dubbi, glielo avevo detto al
primario perché mi ero documentato, ma i medici non ti dicono le cose come stanno, ti parlano
dall’alto al basso come se tu non capisci nulla, poi io ci lavoro e lo so che persone sono”.
(Mentre parla mi colpisce il fatto che sembra volersi mettere sullo stesso piano del medico, come
se non ci fosse una differenza tra loro e mentre provo un senso di fastidio mi scopro a pensare
“che tipo, ne vuole sapere più del medico!”, rifletto un po’ sul senso di fastidio e penso che mi
sento chiamata in causa dalla sua frase svalutante).
Lui intanto va avanti dicendo che in queste situazioni però mantiene sempre lucidità e le affronta
in modo razionale, già sua moglie si “appanica”.
11 giugno 2009
Durante questo colloquio afferma che sta imparando a convivere con i suoi episodi di ansia che
capitano quando vede scene in movimento e quando si ritrova al buio. Sottolinea che rispetto a
7/8 mesi fa ora metterebbe la firma a stare come sta. Attribuisce ciò ai cambiamenti nella
turnazione sul lavoro ed ai suoi sforzi di non sovraccaricarsi troppo. Ora non si sente più in colpa
per il fatto di ritagliarsi degli spazi per sé, perché sente di averne bisogno. Ci soffermiamo sul
suo “adattarsi” agli episodi ansiosi ricollegandolo a situazioni in cui lui si è “dovuto adattare”,
come la situazione lavorativa spiacevole di cui più volte ha parlato. Dice: “In quella situazione
non dipendeva da me, io non sopporto l’arroganza e la prepotenza” e più avanti “avrei voluto
affrontare la situazione in modo diverso”. Gli chiedo in che modo. “non lo so”. Fa una pausa e
continua: “Avrei detto le cose come stavano, in modo diretto, ma non potevo farlo mi si sarebbe
ritorto contro”. Provo a fargli notare che, comunque, questa situazione per come si è conclusa ha
avuto i suoi effetti lasciandogli un senso esasperazione e rabbia. Risponde: “Io non sono capace
ad esternare, queste questioni le vivo con me stesso, non sono mai stato abituato a parlare,
quello di stare solo con me stesso è un pilastro su cui ho costruito la mia vita e mi ha dato tanto,
non ho rimpianti rifarei tutto uguale”.
19 giugno 2009
Durante questo colloquio faticosamente, dopo lunghe dissertazioni sul suo affrontare in modo
pragmatico e con razionalità le questioni della vita, sul finire dell’ora, emergono ricordi relativi
ai giorni immediatamente precedenti all’intenso attacco di panico vissuto più di un anno fa, che
74
riporta arricchendoli di aspetti emotivi che non aveva mai citato prima. Dice, con un tono
emotivo più partecipe e un timbro di voce più caldo: “Pochi giorni prima dell’attacco si sono
sommate una serie di cose. Di solito se devo fare una cosa in dieci minuti, la risolvo in cinque,
ma quella volta qualunque cosa pensavo di fare, non c’era soluzione era come se mi trovavo in
vicolo cieco”. (Mi colpisce la metafora del vicolo cieco ed il senso d’impotenza che rievoca, ma
non riuscirò a soffermarmi molto su questo aspetto, prima della fine dell’ora, perché mi
interrompe ripetutamente e ho la sensazione che non voglia farmi parlare, come se temesse le
mie parole e i loro effetti). Lui, infatti, dirà: “Non lo so, parliamo di più di un anno fa, non
ricordo bene cosa ho provato per questo ho fatto l’esempio del vicolo cieco”. Dopo avermi
interrotto: “Scusi se la interrompo, ma quando sono in vacanza mi sento bene, sono più
rilassato…comunque non lo so parliamo più di un anno fa”.
Arriviamo così al colloquio del 26 giugno.
Fa molto caldo, mi sento stanca e poco entusiasta di incontrare Marco, vorrei già essere alla fine
del colloquio.
Alle 16:00 vado a chiamarlo, è già in sala d’attesa ad attendermi. Ci accomodiamo e lui, come
sempre, inizia con il resoconto della settimana, questa volta non ci sono stati episodi particolari.
Continua dicendo che si muove ancora in via preventiva, che non è emotivamente sicuro che gli
attacchi di panico non verranno più e che lo fanno sentire impotente perché le conseguenze fanno
saltare tutti i suoi programmi. Senza pause continuerà a dire che è sempre stato abituato a
programmare le sue giornate per non sprecare tempo. Mentre parla io comincio a sentire una
forte sonnolenza, gli occhi mi bruciano e penso che sia dovuto al caldo. Questo torpore mi mette
molto a disagio e comincio a vagare tra una serie di possibili spiegazioni: mi sono svegliata
molto presto, la stanchezza accumulata durante la mattinata, il caldo. Mi rimprovero per aver
concordato con lui degli incontri pomeridiani, ai quali arrivo, dopo aver attraversato la città,
sempre un po’ affannata nel timore di trovare qualche imprevisto lungo il tragitto che possa
causare un ritardo, cosa che non si è mai verificata, in effetti anche io sono “un soggetto
ansioso”! Marco continua a parlare, parlare e la mia apprensione aumenta, sento di faticare a
tenere gli occhi aperti, vorrei alzarmi, uscire dalla stanza e prendere una boccata d’aria, ma non
posso. Penso che tutto questo non dovrebbe succedere e mi irrigidisco sempre più sulla sedia,
tenendo le braccia conserte premute con forza all’altezza del mio stomaco, come se questa
pressione possa mantenermi sveglia e presente, nel tentativo di celare agli occhi del paziente
questo stato di torpore e di mantenere un contegno. Intanto il tempo passa e Marco continua a
parlare.
Quando, lentamente, questa sgradevole sensazione comincia a dissolversi e rivolgo l’attenzione a
Marco, lui sta parlando dell’operazione che avrebbe dovuto subire, evidenziandone la banalità,
infatti ciò che lo infastidisce non è l’operazione in sé, ma le conseguenze: dovrà stare “fermo”
per venti giorni. Mentre dice: “Non mi tiro mai indietro di fronte ai problemi, questa operazione
è una cosa che devo fare, non mi piace lasciare le cose in sospeso, infatti la farò in fin dei conti
è una stupidaggine, ci sono cose ben più gravi. A me mi scoccia per le conseguenze, sono
sempre stato dinamico e stare venti giorni fermo certo non è una cosa che mi piace, ma qualcosa
mi inventerò, lo so che andrà così.”, io comincio a provare un profondo senso di tristezza e
solitudine, che non riesco bene a definire e a decifrare, mentre mi torna in mente la sua frase:
“Vede sono abituato a stare da solo, anche a casa, avevamo tutti orari diversi, mangiavo sempre
da solo”. Queste sensazioni mi accompagneranno fino al termine del colloquio .
75
Ciò che si è verificato durante questo colloquio mi ha particolarmente turbato. Non
mi era mai capitato con nessun paziente e neanche con Marco di vivere
un’esperienza simile. Sono uscita dal colloquio col mio fardello di emozioni
spiacevoli: vergogna, colpa, dispiacere, perplessità. Tutte le possibili cause e
giustificazioni che avevo tentato di darmi non erano soddisfacenti: stanchezza per
il risveglio all’alba e una mattinata di lavoro? Improbabile, gli incontri con Marco
avvengono regolarmente di pomeriggio e sempre in concomitanza con la mia
“alzataccia”! Il caldo? Ancor più improbabile, solitamente gli incontri proseguono
fino a luglio, se fosse così cosa avrei fatto quando le temperature fossero
ulteriormente aumentate?! Mi era difficile comprendere anche quell’improvviso
senso di solitudine e tristezza. Da allora ho cominciato ad interrogarmi su questa
esperienza, nel tentativo di rintracciare il senso non solo in me, ma tra me e il
paziente.
3.2 Riflessioni cliniche
Il tentativo qui e quello di proporre alcune osservazioni rispetto al materiale
presentato, con lo scopo di offrire una lettura dello stesso in linea con ciò che si è
cercato di evidenziare nel presente lavoro, utilizzando anche gli spunti offerti dai
contributi teorici menzionati.
Tutto ciò, con la consapevolezza che la lettura proposta non sia l’unica possibile,
poiché il materiale clinico offre un’ampia varietà di letture e lo stesso materiale
può essere osservato e dotato di significato da molteplici angolature che mettono in
risalto aspetti differenti, ma non per questo differenti per importanza.
76
3.2.1 Inseguendo il tema degli oggetti interni: i personaggi del copione
Per iniziare, utilizzando le teorizzazioni di J.Sandler e A.M.Sandler (1998),
proveremo a seguire il tema degli Oggetti Interni per formulare alcune ipotesi su
come un oggetto reale possa corrispondere ad una certa organizzazione del mondo
interno di Marco.
Come proposto dagli autori J.Sandler e A-M.Sandler (1998), gli oggetti interni
sono strutture costituitesi nel corso dello sviluppo del soggetto e sono influenzati
dalle percezioni soggettive e dalle fantasie del bambino. Gli oggetti interni, a loro
volta, influenzano la percezione, il pensiero, la fantasia, le relazioni con le persone
nella vita quotidiana, il transfert e molti altri aspetti dell’esperienza e del
comportamento.
Le relazioni oggettuali interne trovano espressione in modelli comportamentali
ripetitivi che possono essere ritradotti nelle relazioni oggettuali di fantasia e
attualizzati nel transfert e nel controtransfert. Esse, investite e motivate dagli
affetti, sono attualizzate nel transfert, sia in forma di fantasie specifiche di
desiderio sia in tratti di carattere patologici, che costituiscono manifestazioni
automatizzate di relazioni interne inconsce e si attivano come espressione del
desiderio inconscio di stabilire una particolare relazione con gli altri al fine di
provocare una specifica rispondenza di ruolo.
Il mondo rappresentazionale, metaforicamente paragonabile al palcoscenico di un
teatro in cui i personaggi sulla scena corrispondono a rappresentazioni del Sé e
degli oggetti ed il loro aspetto e la loro espressione particolare corrispondono alle
immagini del Sé e degli oggetti (J.Sandler, B.Rosenblatt 1987), è costituito dalle
77
rappresentazioni del Sé e dell’oggetto, del Sé ideale e dell’oggetto ideale. Queste
rappresentazioni sono tra loro legate in relazioni di desiderio affettivamente
investite che riflettono la graduale elaborazione delle pulsioni e di altre forze
motivazionali. Pertanto la fantasia inconscia include desideri specifici di relazioni
gratificanti tra il Sé e gli oggetti significativi, quindi assume la forma di desiderio
di relazioni specifiche del Sé con l’oggetto, cioè di relazioni fantasticate e
desiderabili tra la rappresentazione del Sé e le rappresentazioni oggettuali.
Inoltre, la fantasia inconscia, che può essere anche il bisogno di evitare esperienze
dolorose e preservare sicurezza e benessere, può essere vista come il
soddisfacimento di un desiderio, ma, paradossalmente allo stesso tempo,
rappresenta un desiderio insoddisfatto. E’ un soddisfacimento di desiderio in
quanto costituisce una “soluzione”, creata inconsciamente, dei conflitti suscitati dal
desiderio più primitivo di cui è la rappresentante. Essa stessa continua ad esistere
proprio perché è un desiderio insoddisfatto (J.Sandler, A-M.Sandler 1998).
Date queste premesse teoriche proviamo ad osservare i personaggi nominati da
Marco, nel tentativo di rintracciarne informazioni utili sul suo mondo interno,
tenendo anche a mente il suo modo peculiare di entrare in relazione con l’altro
(transfert).
Durante gli incontri nei discorsi di Marco emergeranno alcune figure: Il datore di
lavoro, che si comporta da uomo di paglia; la ex fidanzata, che soffre per la morte
della nonna; il fratello, che subisce gli effetti negativi dei litigi tra i genitori; la
madre, cui non si possono raccontare le proprie preoccupazioni per non farla
preoccupare (maniaca dell’ordine e della pulizia a dire della moglie); la moglie che
è emotiva e si “appanica” di fronte ai problemi.
78
Queste figure, che dovrebbero essere significative, sembrano caratterizzate ed
accomunate dalla fragilità. Una fragilità in cui non si può cercare e trovare alcun
sostegno, anzi, al contrario, una fragilità che rimanda angoscia e preoccupazione.
Inoltre, il datore di lavoro e la ex fidanzata, sembrano figure con le quali si era
creato un legame significativo: nel primo caso, il datore di lavoro rappresenta una
figura autorevole, rispetto alla quale Marco è, per la natura stessa del rapporto, in
posizione di dipendenza; nel secondo, F. rappresenta una figura capace di suscitare
intense emozioni, capace di creare un rapporto di vicinanza affettiva, un legame
emotivo appunto che contiene in sé anche aspetti di dipendenza affettiva. Entrambe
queste figure, però, si dimostreranno inaffidabili e abbandoniche, rimandandogli
l’immagine di un Sé impotente. Il datore di lavoro “subisce” l’influenza dei
colleghi anziani, non riconosce l’impegno (investimento) che Marco mette in
questo “rapporto” di lavoro, non tiene conto delle sue doti e lo licenzia e lui,
impotente, può solo subire questa situazione. F., emotivamente provata dal lutto
della nonna, ritirerà il suo investimento affettivo, si chiuderà in se stessa, lasciando
Marco impotente, solo e confuso (non capisce cosa sia accaduto). Di fatto, anche la
madre e la moglie, fragili, emotivamente incapaci di accogliere e contenere gli
sfoghi emotivi di Marco, si dimostrano abbandoniche, “costringendolo” ad
affrontare da solo i propri problemi e preoccupazioni e a farsi carico dei loro.
All’interno di questo scenario il padre è una figura assente, che non c’è mai per
lavoro. E’ possibile che, anche il padre, figura poco presente fisicamente, possa
non aver rappresentato un punto di riferimento emotivo, qualcuno capace di
riconoscere i suoi bisogni emotivi. Nei discorsi di Marco non emergerà quasi mai
79
e, le poche volte in cui viene nominato, emerge sempre con la stessa connotazione,
né più né meno.
Un aspetto che colpisce è che le figure che emergono sono ben poco caratterizzate,
di loro Marco ci dà ben poche informazioni, vengono liquidate con brevi frasi o
commenti. Si ha l’impressione che siano evanescenti. Nonostante la presenza di
queste figure, sembra che la scena sia dominata da un’unica persona: lui solo.
Se è questo lo scenario portato da Marco potremmo ipotizzare che il suo mondo
rappresentazionale sia caratterizzato da rappresentazioni di relazioni tra il Sé e un
oggetto poco contenitivo e incapace di riconoscere gli affetti e i bisogni, perché
fragile e assente, e inaffidabile, capace di esporre ad un rifiuto umiliante.
Il desiderio di affidarsi e di vicinanza emotiva non può essere soddisfatto, la
vicinanza affettiva genera un unico e generale sentimento di angoscia perché l’altro
rappresenta una minaccia, in quanto capace di generare ulteriore angoscia, per la
sua fragilità e incapacità di accogliere e contenere i bisogni emotivi dell’altro, e
sentimenti di impotenza e umiliazione a seguito del suo rifiuto.
Le indicazioni teoriche di Bion (1959) possono tornarci utili. Facendo uso
dell’identificazione proiettiva, il bambino può studiare le proprie sensazioni
attraverso l’effetto che producono nell’oggetto in cui le ha proiettate. Può
sviluppare, così, la funzione alfa, che a sua volta permette di trasformare gli
elementi beta (impressioni sensoriali, esperienze emotive vissute come “cose-insé”, non rappresentabili) in elementi alfa e “l’apparato per pensare i pensieri”.
All’interno di questo processo è importante la capacità di reverie del contenitore.
Se il contenitore è incapace di contenere le sue sensazioni, o l’odio e l’invidia non
80
permettono che il contenitore eserciti tale funzione, allora, non riuscendo a
fronteggiare emozioni troppo violente, il legame tra sé e “seno” deve essere
abolito, come la vita emotiva (W.Bion, 1959).
L’assenza di maggiori informazioni sulla sua storia infantile non ci permette di
affermare che quanto indicato da Bion sia ciò che Marco ha sperimentato, però il
suo non “poter” far preoccupare la madre incuriosisce, fa pensare a un dover
aderire a un ideale materno da non infrangere, oltre a rimandare l’immagine di una
madre che non riesce a contenere in sé e a trasformare le intense emozioni del
figlio in “elementi alfa”, riproiettandoli come intensa angoscia.
Nelle sue affermazioni di “dover sempre analizzare le situazioni per poter cadere
sempre in piedi” e “doversi parare le spalle” sembra contenuta la rappresentazione
di un Sé che si muove all’interno di un mondo minaccioso, dove l’altro non può
essere una fonte di rassicurazione e sostegno, capace di benevola accettazione, ma
costituisce anch’esso una potenziale minaccia. Quale strategia (difesa) possibile,
all’interno di un mondo del genere, se non rifugiarsi in una sorta di onnipotenza
narcisistica in cui, di lui, possa emergere solo la parte indipendente e
autosufficiente, esercitando un controllo onnipotente sulla propria realtà interna
che gli permette di non sperimentare il bisogno dell’altro, alimentando, così, la
“rassicurante” sensazione di poter fare tutto da solo; in cui l’altro c’è, ma deve
essere tenuto a distanza, non può essere investito affettivamente e dotato
sentimenti, emozioni, bisogni, di una vitalità che rischia di generare una indefinita
angoscia. Ancora Bion (1962b):
“questa condizione nasce dal bisogno di sbarazzarsi delle complicazioni emotive
provocate dall’essere consapevoli della vita e di avere relazioni con oggetti che
81
hanno vita, il paziente si presenta come una persona incapace di provare
gratitudine o interesse, sia per sé che per gli altri.”.
Allora, forse è possibile ipotizzare che i “personaggi” fragili che nomina, possano
rappresentare la parte fragile di sé, non riconosciuta e accolta, che deve tenere
scissa (H.Rosenfeld, 1973) e proiettata negli altri, con cui non entrare in contatto
perché capace di infrangere la sua illusoria onnipotente autosufficienza e quindi
risvegliare quei sentimenti di angoscia e impotenza (sperimentati durante e dopo
gli attacchi di panico) che più lo preoccupano.
Di fronte allo scenario che Marco offre, soffermandoci un attimo su questa madre
poco contenitiva e questo padre assente, potremmo cercare di rintracciare il senso,
la funzione dei suoi attacchi di panico. Utilizzando gli spunti offerti da Pozzetti
(2007) e Campora (2008), potremmo ipotizzare che, forse, non a caso essi
compaiano di notte, al buio, dove: “il timore del buio costituisce il prototipo della
mancanza dell’Altro” (R.Pozzetti, 2007) e possano avere a che fare con: “ la
scarsa inclusione e con la parziale capacità di custodire internamente un oggetto
affettivizzato positivamente, che è quello che viene a mancare quando si sentono in
balia del panico” (A.M.Campora, 2008). Di fronte ad una madre che va protetta,
piuttosto che dalla quale ricevere protezione, forse l’attacco di panico esprime
anche “l’angoscia della madre”, in Pozzetti (2007) si leggerà: “Si tratta di
proteggerla dal rischio di rimanere sola oppure di evitare l’angoscia inerente il
distacco da lei. O ancora di un incontro con la strutturale mancanza di
padronanza”, forse quella mancanza di padronanza di fronte alle intense emozioni
di Marco, mancanza di padronanza ad offrire ad esse un contenimento, oltre che un
nome e un senso, per cui la strategia possibile sembra essere stata quella di
82
imparare a fare da solo, diventare precocemente adulto e autonomo, per offrire
protezione a sé stesso oltre che alla madre. Attraverso i suoi attacchi di panico
sembra emergere anche un’altra mancanza, quella del padre: “ la carenza del padre
reale quale agente della castrazione simbolica…che può sottrarre all’angoscia
della madre” (R.Pozzetti, 2007), per cui attraverso il panico Marco sembra cercare
di recuperare un limite immaginario, recuperare quella funzione paterna fonte di
limitazioni e restrizioni, ma anche capace di operare “il taglio simbolico che
risolve il timore della perdita” (ibid.). Le sue sensazioni di vertigine hanno fatto la
loro comparsa tre anni fa, momento in cui è diventato padre, forse il padre che non
c’era mai è anche un padre assente a livello simbolico, che non può ritrovare in sé
ora che suo figlio lo richiama a svolgere questa funzione e che forse lo costringe a
fare i conti con la mancanza di un riferimento interno cui fare affidamento, da qui
l’angoscia di fronte ad una propria funzione paterna che vacilla, perché fragile.
La mancanza dell’Altro nello svolgimento delle sue funzioni è possibile che abbia
evocato, oltre al dolore, anche rabbia, quella rabbia che Marco sembra aver
spostato sul datore di lavoro, ma che sembra avere a che fare con una mancata
soluzione di problemi edipici in cui “ permangono le fantasie aggressive e
rabbiose nei confronti dei genitori che non riescono ad essere gestite ed integrate”
(A.M.Campora, 2008) e forse possono essere messe a tacere attraverso l’attacco di
panico. Marco di fatto sembra evitare il conflitto, non può esprimere rabbia perché
essa forse espone al rischio della rottura del rapporto e, quindi, della perdita.
83
3.2.2 L’interazione paziente terapeuta
Forse, ora, possiamo guardare con occhi nuovi Marco e la nostra interazione,
possiamo iniziare a “riscoprire la relazione con il paziente, trasformare
l’esperienza della relazione col paziente” (T.H.Ogden, 2009).
La sua verbosità, la sua narrazione astratta ed organizzata intellettualmente, su temi
monotoni e ripetitivi lo fanno apparire come incapace di scambi emotivi intensi.
Per citare B.Joseph (1991): “…questi pazienti, anche quando sono ampiamente
capaci di verbalizzare, in realtà stanno facendo un largo uso dell’agire, talvolta
con il linguaggio stesso.” Ed io mi trovo intenta nello sforzo cognitivo di capire,
senza riuscirvi, il senso dei lunghi discorsi astratti di Marco, come afferma
B.Joshep (1991): L’analista si trova impegnato in un notevole sforzo intellettuale
per capire cosa si richieda da lui”. Ma questo sforzo intellettuale sembra
espressione del controllo, del dover prestare attenzione ad ogni dettaglio per il
timore che qualche elemento importante sfugga. Sforzo intellettuale in cui non c’è
spazio per il sentire. Controllo che Marco esercita a scopo preventivo, capace di
prevenire anche le emozioni, forse per questo importante per sopravvivere.
Nonostante Marco sembri collaborativo, sempre presente e puntuale agli
appuntamenti, tutti i miei sforzi appaiono vani. Il suo stile narrativo rimane
astratto, organizzato intellettualmente. Come indicato nella riorganizzazione del
materiale clinico, la sua motivazione alla terapia poggia sul ricavare mezzi
intellettuali (venire qui è un modo per avere i mezzi per capire e superare questa
situazione), non c’è spazio per le emozioni, “La motivazione all’analisi poggia sul
bisogno di guadagnare mezzi intellettuali per sostenere una sorta di illusoria
autosufficienza” (G.Moccia, 2005) , “…il paziente parla in modo adulto, ma si
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tiene in rapporto con l’analista soltanto come un suo pari.” (B.Joseph, 1991), si ha
l’impressione di trovarsi di fronte a uno dei pazienti “antianalitici” descritti dalla
Mc Dougall (1993), con cui il processo terapeutico non sembra avviarsi.
3.2.2.1 La noia
Progressivamente, comincio a sperimentare noia e demoralizzazione, che tento di
combattere con i miei sforzi attentivi ed intellettualizzanti continuando a colludere,
così, con la “parte pseudo collaborativa”(B.Joseph, 1991) di Marco.
Osservando
con
più
attenzione
questa
sensazione,
senza
liquidarla
semplicisticamente come una scontata reazione ai suoi racconti apatici, essa può
essere portatrice di informazioni utili su ciò che sta accadendo tra noi e perché.
Il suo stile narrativo, come l’uso del “voi”, gli permettono di mantenere anche me a
distanza di sicurezza per mantenere il suo equilibrio psichico (B.Joseph, 1991).
Può usare la terapia solo attraverso gli elementi cognitivi della relazione, non la
reciprocità affettiva. Ed io, con i miei sforzi attentivi, ho accettato il ruolo di colei
che può occuparsi solo della parte “pseudo adulta” di Marco, incapace, come le
sue figure di riferimento e se stesso, di riconoscere emotivamente, all’interno di
questo tripudio di efficacia, efficienza e autonomia, la sua parte più fragile e
bisognosa così da non intaccare l’equilibrio che si è faticosamente costruito.
Anche io rappresento una minaccia, non può investirmi affettivamente, non può
riconoscermi un valore, può solo rappresentarmi come un “voi-istituzione” astratta,
per non minare la certezza che ha della propria indipendenza, autosufficienza o
superiorità narcisistica (B.Joseph, 1991). Può annullarmi, facendo tutto da solo per
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proteggersi dal rischio di un rifiuto o abbandono, che correrebbe se riconoscesse
l’importanza dell’altro e quindi il suo bisogno dell’altro.
Forse, allora, la noia che sperimento può essere osservata come ciò che Ogden
(1999) chiama il “terzo analitico”, un terzo soggetto creato dallo scambio
inconscio tra analista e analizzando. Da una parte essa contiene il mio bisogno di
prendere le distanze da Marco (vorrei essere già a fine colloquio), di cedere
all’indifferenza per proteggermi dalla frustrante sensazione di essere annullata, non
riconosciuta, priva di valore, inutile e impotente. Incapace di contenere queste
sensazioni, quel senso di devitalizzazione e isolamento mi ritiro in me stessa, nel
distacco emotivo, nel torpore psichico nel tentativo di preservare la sensazione di
esserci, di continuare ad esistere.
Dall’altra ci può dire anche qualcosa di Marco, di ciò che lui chiama “apatia”,
“pigrizia” che teme, perché non consente di aderire al proprio ideale di efficienza
ed efficacia infrangendo tutti i suoi programmi, e dalla quale fugge in un agire
frenetico. Forse entrambe rimandano a un senso di isolamento, di vuoto relazionale
e interiore in cui non si può sperimentare come un soggetto dotato di un insieme di
bisogni, affetti, intenzioni (G.Moccia, 2005), aggiungerei fantasie e sogni (Marco
non porta sogni), tutti elementi che deve tenere lontano dalla consapevolezza e che
non hanno trovato riconoscimento nell’altro. Forse rimandano a quel “ vuoto
lasciato dall’assenza dell’altro” (J.McDougall, 1993) che non sembra essere
riuscito a colmare, ma che forse rimanda anche ad un: “troppo pieno di oggetti
spenti, la cui presenza inibisce lo slancio affettivo e libidico verso l’esterno”
(A.Correale, 2005), un senso di vuoto con cui è difficile prendere contatto e che
sembra cercare di colmare “riempiendo” le sue giornate con molteplici attività.
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I suoi lunghi discorsi devono riempire uno spazio vuoto, “parole non dette da
nessuno a nessuno” (T.H.Ogden, 1999), che rimandano a un nulla, al senso di
inutilità e impotenza difficili da sostenere e dai quali, entrambi, cerchiamo di
difenderci facendo ricorso al ritiro narcisistico. Sembra, così, realizzarsi il tentativo
di Marco di nascondersi agli occhi dell’altro, di seppellire la parte di sé capace di
suscitare interesse (attivazione affettiva) sotto il flusso dei suoi discorsi astratti, per
l’inconscia aspettativa che non
verrà riconosciuta, accettata, contenuta
esponendolo, ancora una volta, al rifiuto ed alla solitudine che ne consegue,
inducendo inconsciamente l’altro a perdere interesse, a ritrarsi da lui, ricreando,
ancora una volta, un “vuoto tra sé e l’altro…cancellando degli effetti
insopportabili” (Mc Dougall, 1993). La noia come espressione della “mancanza di
un contatto più intenso e reale” (A.Correale, 2005), contatto di cui Marco sembra
avere paura e bisogno nello stesso tempo (A.Campora, 2008).
3.2.2.2 La sonnolenza
Se l’attivazione affettiva genera un difensivo distacco, allora potremmo riflettere
meglio sulla sonnolenza e quel senso di solitudine che tanto mi hanno turbato.
Forse, sollecitato dai miei interventi che lo avevano riportato al penoso vissuto
(non c’era soluzione come se mi trovavo in un vicolo cieco) dei giorni precedenti
l’attacco di panico più violento, per proteggersi da me e ripristinare una distanza
sopportabile anche da queste sensazioni spiacevoli ha dovuto esercitare quella
“pressione”, di cui parlano gli autori che si sono occupati di identificazione
proiettiva e messa in atto controtransferale.
87
Per potersi liberare del doloroso fardello dell’impotenza e dell’inutilità, unite
all’angoscia che evoca il “ vicolo cieco”, sensazioni che sembra non poter/voler
rievocare, mi induce in uno stato di impotenza attraverso la sonnolenza. Se io
provo sonnolenza, se sono inerme (addormentata) non posso rappresentare una
fonte di pericolo, non posso cercare di farlo entrare in contatto con le emozioni,
quindi la sofferenza. In questo modo io assumo il ruolo di colei che si chiude in se
stessa (come F.), che si “appanica” e preoccupa (come la madre e la moglie),
presente fisicamente, ma non emotivamente che non riesce, così, ad ascoltare,
accogliere, contenere ciò che lui comunica, ma che almeno non evoca dolore.
Mentre lui può continuare a fare tutto da solo, conservando il ruolo di colui che
gestisce, affronta e risolve i propri problemi in autonomia.
Quell’apprensione che aumenta nel sentirmi assonnata, unita a sentimenti di
vergogna e agli sforzi di mantenere un contegno, forse ha a che fare con
l’impossibilità di aderire ad un ideale che non prevede che un terapeuta si
addormenti davanti al proprio paziente e ricorda l’ideale di bravo figlio che non fa
preoccupare la madre, di bravo dipendente efficiente sul lavoro, di bravo marito
che non entra in conflitto con la moglie, cui cerca di aderire Marco.
Rifletto sulla mia reazione di solitudine e tristezza. Credo che l’esperienza
difensiva di torpore psichico, di sonnolenza mi avessero resa sensibile al dolore
che si cela dietro l’uso delle difese maniacali, al dolore per il senso di solitudine e
isolamento che si accompagnano ai propri sentimenti di impotenza, che si
accompagnano al senso di vuoto relazionale.
Marco sembra capace di trattare la sua tendenza a fare tutto da solo, a gestire in
piena autonomia problemi e preoccupazioni come un aspetto del suo carattere, non
88
solo immodificabile e ormai scontato, ma come un aspetto che conferma e sostiene
il senso di autonomia ed efficacia e di cui sembra emergere solo la connotazione
positiva. La cortina di fumo dell’autonomia sembra capace di celare, non solo la
fragilità, ma anche i sentimenti di solitudine che il vuoto relazionale e
l’impossibilità di affidarsi portano con sé. Non credo che la mia sonnolenza sia
passata inosservata agli occhi di Marco, forse nel vuoto relazionale di quel
momento, più intenso e intensamente percepito, mi fa sperimentare quei sentimenti
che nel proprio intimo ancora non può rappresentarsi, nella speranza che io possa
dargli voce.
Ancora un’ultima considerazione, credo che il mio sentirmi assonnata abbia
protetto entrambi anche da un altro sentimento, emerso raramente durante i nostri
incontri (sono uno che se ti deve di’ ‘na cosa te la dice, ma tranquillo), la rabbia.
Nella necessità di annullare l’altro perché fonte di dolore, si esprime la rabbia
verso l’altro che non è stato disponibile ad accogliere e comprendere, verso l’altro
che è mancato. Ma questa rabbia Marco non può esprimerla, come non ha potuto
dire al datore di lavoro le cose come stavano (in alcuni colloqui, in relazione ai
rimbrotti della moglie su questioni che definisce, minimizzandole, “questioni
gestionali non serie”, dirà: “preferisco evitare, ci possiamo confrontare, ma poi se
uno vuole avere ragione per forza allora lascio perdere, non mi ci metto
neanche”), forse perché romperebbe un equilibrio (del rapporto con la moglie dice:
“sento che con mia moglie c’è collaborazione”) interno ed esterno. Non può
esprimerla neanche nei miei confronti, può tenermi a distanza esercitando un
controllo su di me e su se stesso.
89
La sonnolenza protegge dalla consapevolezza e dall’espressione della rabbia.
Frustrata, demoralizzata dai discorsi di Marco, dal suo fare tutto da solo
spogliandomi di ogni valore e ruolo, mi ritiro nel sonno per non sentire l’irritazione
(quel fastidio emerso in uno dei colloqui precedenti, ma presto sopito) che però
trova espressione anche in questo modo: addormentandomi non è Marco che non
prende ciò che io tento di dargli (non riconosce e apprezza i miei sforzi), ma sono
io che rifiuto di offrirgli qualcosa.
3.3 Quali insegnamenti?
Questa esperienza, per quanto dolorosa, è stata molto istruttiva, permettendomi,
anzi
costringendomi
a
riflettere
più
attentamente
sulle
caratteristiche
dell’interazione tra me e Marco.
Condivido ciò che è abilmente, quanto schiettamente, espresso negli scritti di
H.Searles (1959) rispetto all’importanza di “aprire gli occhi” su ciò che si sta
verificando in sé e tra paziente e terapeuta perché: “ quando un terapeuta non osa
nemmeno riconoscere tali risposte in sé stesso la situazione tende tanto più a
rimanere bloccata a questo livello” (H.F.Searles, 1959), e ancora più avanti:
“questi sentimenti gli arrivano come tutti i sentimenti, senza etichette che mostrino
da dove sono arrivati, e solo se egli è relativamente aperto e accetta la loro
emergenza nella sua consapevolezza, ha la possibilità di arrivare a cogliere…il
loro significato nel suo lavoro con il paziente” (ibid.).
La fragilità che si cela dietro la corazza dell’autonomia e indipendenza non era di
certo qualcosa di nuovo, in precedenza avevamo riflettuto sul bisogno di tenere
90
tutto sotto controllo come difficoltà ad affidarsi, sul bisogno di riempire le giornate
con molteplici attività come espressione del timore di soffermarsi su se stesso e
magari scorgere un senso di vuoto interiore, ma mai con particolare intensità e
partecipazione emotiva da parte di entrambi.
Tenere a mente gli intenti comunicativi presenti nelle strategie difensive del
paziente (W.Bion, 1959a; H.Rosenfeld, 1980; T.H.Ogden, 1994), anche nell’uso
dell’identificazione proiettiva, nel suo stile narrativo e nella modalità di interagire
con me è stato istruttivo per poter iniziare ad ascoltarlo in modo nuovo.
Potendo guardare alla sensazione di noia, di sonnolenza e solitudine come un
processo intersoggettivo, piuttosto che un’esperienza ascrivibile esclusivamente al
terapeuta o come mera costruzione del paziente, allora forse se ne può far tesoro
nel tentativo di promuovere un cambiamento qualitativo all’interno della relazione.
Le osservazioni di Ogden (1999) a riguardo sono state molto preziose. L’autore usa
il termine reverie per riferirsi ad un insieme di eventi come le fantasticherie,
fantasie, sensazioni corporee, umori, immagini che attraversano la mente
dell’analista, considerandole eventi privati e personali e, contemporaneamente,
costruzioni intersoggettive inconsce che si verificano all’interno della situazione
analitica in cui “ analista e analizzando insieme contribuiscono e partecipano a
un’ intersoggettività inconscia” (T.H.Ogden, 1999). L’autore, come gli autori
americani sopra citati (Jacobs, 1986, 1993; Levine, 1994; Renik, 1993), mostra
abilmente la capacità di sostare, descrivere e utilizzare le proprie reverie per
favorire il processo analitico, nonostante sia un processo complicato poiché la loro
simbolizzazione richiede tempo “le reverie devono poter acquistare gradualmente
il loro senso, senza che analista e analizzando si sentano costretti a farne un uso
91
immediato”(T.H.Ogden, 1999), ma lo squilibrio psichico che suscitano può
rivelarsi uno strumento utile per dare un senso a ciò che accade a livello inconscio
nella relazione analitica.
Nella mia esperienza non c’è, di certo, la stessa ricchezza e complessità che
ritroviamo nei resoconti degli autori sopra citati e, cercare di dare senso a quelle
sensazioni così intense quanto, inizialmente, indecifrabili provate durante quel
particolare incontro con Marco, di fatto, non è stato facile né immediato, però mi
ha permesso di cominciare a considerare in modo diverso la mia esperienza con
Marco ed il nostro percorso insieme.
3.4 L’inizio di un cambiamento
Proviamo, ora, ad illustrare quello che definirei l’inizio di un processo, perché
sarebbe esagerato sostenere che i sentimenti di isolamento e vuoto relazionale
siano del tutto scomparsi, o che si sia verificato un radicale mutamento nello stile
di vita e nelle modalità relazionali di Marco, ma ora, queste sensazioni e questi
elementi, possono rientrare all’interno di una visione più ampia, forse ciò che Bion
(1959b) indica con queste parole:
“… essendo stato cambiato dall’esperienza del partecipare nella particolare
paralisi del, o attacco al, pensare che caratterizza lo specifico stato
intersoggettivo, l’analista è ora in una posizione nuova dalla quale comprendere
ciò che si sta verificando”.
Di seguito, gli stralci di alcuni colloqui svolti alcuni mesi dopo l’ultimo colloquio
riportato.
92
01 ottobre 2009
Nella prima parte del colloquio parla del suo aver iniziato a pensare che l’accumulo di tensioni,
che non esterna, si esprimano con l’attacco di panico, per questo motivo sta cercando di
diminuire i propri ritmi, anche se questa modalità non gli appartiene. Ritorna sui ritmi frenetici
cui era abituato, sui cambiamenti nello stile di vita intervenuti in questo ultimo decennio e sul
suo pragmatismo. Continua dicendo: “Io sono un tipo molto analitico, preferisco giocare
d’anticipo così che riesco a cadere sempre in piedi. Faccio così per poter avere le spalle parate
di fronte ai problemi”. Io, intanto, penso alla solitudine contenuta in queste affermazioni ed alla
sensazione che non ci possa essere nessuno capace di “guardargli le spalle”. Provo a dirgli: “Da
ciò che dice sembra che ci sia sempre qualcuno o qualcosa che possa colpire alle spalle o che
possa farla cadere”, non riesco quasi a terminare la frase che subito risponde: “Io sono un
ottimista, però ho imparato che chi fa da sé fa per tre, quello dell’autonomia è proprio un mio
bisogno, finite le scuole sono andato subito a lavorare un po’ per le ristrettezze economiche, un
po’ perché non mi piaceva studiare e ho fatto esperienze che mi hanno portato dove sono oggi.
Devo molto al mio modo di essere, al fatto che mi sono fatto da solo sul lavoro e anche i miei
problemi non li esterno perché sono miei e devo risolverli da me”. Io mi trovo a dirgli, con un
tono di voce più caldo di quanto accadesse in passato, più profondo: “ Marco, però, non le
sembra che accanto a questa immagine autonoma di sé, di sé che deve risolvere i suoi problemi
da solo, emerga anche molta solitudine?”.
Questa volta non mi interrompe, sembra ascoltarmi attentamente e mi guarda negli occhi mentre
parlo, sembra che ci sia un clima emotivo diverso. Lui aspetta ancora un attimo prima di
rispondere, poi, anche lui con un timbro di voce diverso, più profondo, più emotivo, come se,
oltre a parlare con me, parlasse anche con se stesso, dice: “Sì è vero c’è anche solitudine”. Fa
ancora una pausa e continua: “Io però ci sono abituato anche in famiglia non siamo mai stati
molto uniti, come ho già detto io e mio fratello non c’eravamo mai, mio padre anche stava fuori
tutto il giorno”.
Io: “Forse il fatto che lei si sia ben adattato a questo stato di cose però potrebbe non escludere
necessariamente che lei non avrebbe desiderato una maggior unione, la possibilità di avere
qualcuno su cui poter fare affidamento”. Rimane in silenzio, un po’ assorto e accenna un: “Sì,
forse è così”.
Gradualmente, mi è stato possibile fargli notare il modo in cui si rivolge a me, il
suo uso del “voi”: come se anche con me sentisse di dover fare tutto da solo, come
ha sempre fatto, e mi chiedo se ciò abbia radici lontane e se possa essere legato al
fatto di non aver sentito di poter ricevere la comprensione ed il sostegno dell’altro.
Lentamente Marco sembra più disposto a prendere contatto con un’immagine di sé
diversa, non improntata solo all’autonomia ed efficienza.
93
15 ottobre 2009
Questa volta non inizia con il resoconto della settimana, il suo modo di parlare sembra meno
distaccato, appare quasi commosso: “In questi giorni ho fatto un sacco di pensieri, ho avuto la
febbre e quando non posso fare nulla mi vengono i pensieri.” Rimane in silenzio, un silenzio
autoriflessivo. Attendo ancora un po’, poi gli chiedo: “A cosa ha pensato?”. Lui: “Beh riflettevo
sul fatto che mi sono reso conto che finora io mi sono sempre attaccato a cose materiali,
pratiche mentre c’è gente che fa riferimento a cose spirituali.” Continua: “le cose materiali sono
effimere, prima o poi finiscono, mentre una cosa spirituale non decade. Io però sono sempre
andato avanti, basandomi su cose concrete, in modo frenetico e non mi sono mai soffermato
sulle cose mie. Forse è proprio per questa frenesia, per questo mio incentrismo che poi vado in
sovraccarico”.
Marco continuerà le sue riflessioni anche nei colloqui successivi, in uno dirà: “Vede
finora io mi sono basato sempre su me stesso, a questo mio incentrismo, contando solo sulle mie
forze fisiche e mentali, ora però” fa una pausa poi riprende: “ nel senso che mi rendo conto che
io posso vacillare, però in effetti io non conto su nessuno, conto solo su di me è per questo che se
io vacillo per me è un macello perché poi come faccio?”. Il modo in cui parla non sembra più
distaccato, sembra in contatto con la sua “preoccupazione”, sembra appartenergli e sembra
poterla comunicare in modo più affettivo, come qualcosa da poter condividere con me.
I momenti di assenza di comunicazione affettiva, ora, cominciano ad essere
affiancati a momenti in cui Marco è disposto ad utilizzare una comunicazione
connotata emotivamente. A poco a poco, oltre all’ansia ed alle strategie messe in
atto per gestirla, si può iniziare a parlare anche delle sue preoccupazioni e paure
che possono emergere non più, solo, come quesiti logici e razionali, cui trovare una
soluzione intellettuale. Sembra che inizino ad essere qualcosa di cui si può parlare
in modo diverso, qualcosa da condividere. Forse ora Marco è un po’ più disposto
ad una vicinanza affettiva con me e la noia è andata scemando.
Inizialmente, avevo sviluppato una visione radicata e ristretta di me e del paziente
(W.Bion, 1959b; T.H.Ogden, 1994, 2009) fatta di colloqui monotoni, ripetitivi, in
cui non c’era possibilità di una vicinanza affettiva, in cui mi lasciavo
demoralizzare dalle sue asserzioni immodificabili su modalità o atteggiamenti (“ho
94
sempre fatto così”) tanto da arrivare a pensare che, forse, il massimo risultato
possibile fosse quel suo “stato di grazia” fatto di episodi ansiosi da tenere sotto
controllo attraverso azioni preventive, anche se limitanti. Incapace (impotente),
come lui, di pensare e proporre alcuna trasformazione a questo stato di cose.
Progressivamente, a seguito dell’episodio di sonnolenza unito ai sentimenti di
solitudine, è stato possibile iniziare a riconoscere la mia partecipazione “ a una
delle fantasie inconsce del paziente” (W.Bion, 1959b; ma anche T.H.Ogden, 1994
e J.Sandler, A.M.Sandler, 1998), la particolare dinamica instauratasi tra noi e le
forme di comunicazione “non mediata” (P.Casement, 1989) che Marco adotta per
esprimere alcune sue difficoltà. Ora mi è possibile osservarlo con occhi nuovi,
senza sentirmi così fortemente tenuta a distanza, mi è più facile comprendere e
accettare gli scambi proposti ad un livello cognitivo, più che emotivo e tollerare i
sentimenti di isolamento e impotenza che ancora emergono.
3.5 Note conclusive
Il tentativo, qui proposto, è stato quello di mostrare il lento e graduale cammino di
un’ esperienza che ha preso avvio da un improvviso e ben poco decifrabile vissuto
da parte del terapeuta.
Progressivamente, osservando più attentamente quel vissuto, cercando di
rintracciarne il senso all’interno della più ampia dinamica di transfertcontrotransfert, facendo riferimento ai concetti di identificazione proiettiva, messa
in atto di controtransfert e messa in atto di ruolo, è stato possibile riflettere sulla
propria “esperienza emotiva vissuta” (W.Bion, 1962), vivere con la propria
95
esperienza di sentirsi impotenti e soli (sognare sé stessi in esistenza W.Bion,
1962), pensare ciò che ancora era difficilmente rappresentabile per il paziente, ma
che stava tentando di comunicare con tutti i mezzi a propria disposizione.
Soffermandosi su quanto emerso dalla propria soggettività, poter considerare
quanto emerso come una “creazione congiunta” (G.O.Gabbard, 2003) cui avevamo
partecipato entrambi, ognuno con la propria soggettività, in un sistema di influenza
reciproca, ha portato alla ricerca di indizi e spunti per la comprensione del
paziente, così che un “errore”, un vissuto disturbante potesse essere trasformato in
un pensiero. Un pensiero da poter mettere al servizio del percorso terapeutico, che
potesse contenere qualcosa in cui il paziente poteva riconoscersi.
Molta strada dobbiamo ancora percorrere io e Marco. Credo che questo sia solo
l’inizio di un processo in cui, facendo tesoro di quanto già vissuto, si possa andare
avanti alla ricerca di una maggior comprensione della relazione-interazione tra noi,
di una maggior comprensione del mondo interno di Marco, di una maggior
comprensione di sé da parte di entrambi, costruendo di volta in volta il senso della
nostra esperienza condivisa.
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