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Resistenza e «zona grigia
Resistenza e «zona grigia» di Agostino Giovagnoli È sempre più diffusa la convinzione che quanto accaduto in Italia tra il 1943 e il 1945 costituisca un’unica grande «zona grigia», un groviglio ormai inestricabile di violenze, ambiguità, mistificazioni, di cui è possibile dare solo un giudizio moralmente negativo. Solo in parte ciò accade ad opera di storici, come mostra il caso del volume di successo di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti 1, che incrocia realtà e fantasia. Le pagine più importanti sono, non a caso, quelle finali in cui la protagonista, un personaggio immaginario, confessa il suo peso segreto: il dubbio angoscioso che il padre comunista abbia ucciso, senza motivo, alcuni fascisti a guerra finita. Se però si prende alla lettera il volume di Pansa, come se fosse un libro di storia, si getta un’ombra di generale discredito su tutto quello che realmente è successo prima del 25 aprile, a partire dall’armistizio dell’8 settembre 1943. Leggendo il racconto si ha, infatti, la sensazione di trovarsi davanti a una grande violenza indistinta, una vasta «zona grigia», perché l’autore insiste sulla confusione e sulle ambiguità che circondano le motivazioni degli atti di violenza. La narrazione oscilla tra vendette contro il nemico di ieri, ritorsioni terribili per qualche violenza subita o del tutto gratuite ed eliminazione preventiva del nemico di classe o di avversari politici, compresi antifascisti o partigiani. Si descrivono forme estreme di anticlericalismo o esempi di sadismo fine a se stesso e tutto confluisce in un’immagine confusa di accanimento contro vinti inermi ad opera di vincitori crudeli. 46 Agostino Giovagnoli 1. Vinti, vincitori e vittime Il libro di Pansa ha riscosso tanto successo anche perché ha incontrato convinzioni sempre più diffuse. In questo senso, le capacità del giornalista e del romanziere si sono unite all’abilità di cogliere il momento giusto e sfruttare, anche commercialmente, un lungo lavoro condotto negli anni precedenti da storici ed altri studiosi nel senso del cosiddetto «revisionismo». Ma la sovrapposizione tra ricostruzioni letterarie (che non vincolano l’autore alla verità documentaria) e i giudizi storici (che si presume fondati sulle regole della ricerca scientifica) è un male da evitare. Il sangue dei vinti, infatti, non è quello delle vittime e ribaltare semplicemente i ruoli, in sede letteraria ma con implicazioni di tipo storico, significa compiere un’operazione non etica, bensì politica. Compiere fino in fondo la scelta di spostarsi sul terreno del giudizio etico, sempre restando fedeli alla verità storica, implicherebbe infatti anzitutto l’esigenza di prendere chiaramente posizione sul problema della violenza all’interno di un conflitto bellico, durante una guerra civile o anche in tempi di pace. Ma questa presa di posizione manca nel libro di Pansa e in tanti di coloro che si sono facilmente accodati al suo successo. Prendere posizione in modo chiaro sotto il profilo etico implica, infatti, assumere il punto di vista delle vittime, e ciò non avviene se si continua a parlare di vincitori e di vinti, sia pure ribaltando i ruoli e simpatizzando per i secondi invece che per i primi. Nell’immediato dopoguerra, l’interesse si concentrò anzitutto sui perseguitati dal fascismo che alla fine risultarono vincitori, e cioè gli antifascisti, mentre in secondo piano scivolarono coloro che erano stati «solo» vittime inermi, come gli ebrei. Negli ultimi anni, invece, la situazione si è capovolta: alla Resistenza viene negato valore mentre si esaltano i vinti del 25 aprile, trascurando ancora una volta chi fu «solamente» vittima, fino a trascinare talvolta anche gli ebrei non nella categoria delle vittime ma in quella dei vinti, cui spetterebbe qualche tardiva «vittoria» a titolo di risarcimento. Ma in entrambi i casi, le vittime vengono trascurate, mentre si evita di pronunciarsi con chiarezza sulle responsabilità compiute da chi ha infierito su di esse (responsabilità che non sono né cancellate né attenuate se poi chi ha infierito sulle vittime si è successivamente trovato nella spiacevole condizione di vinto), mentre continua a mancare una circostanziata denuncia del male che Resistenza e «zona grigia» 47 ha generato tutto questo. Indubbiamente, il rapporto tra storia e morale appare importante per comprendere in profondità le vicende italiane tra il 1943 e il 1945, e affrontare anche su questo terreno la domanda cruciale che attraversa tutto il dibattito sulla violenza «inutile» del XX secolo: come è stato possibile? Ma, per accostare adeguatamente storia e morale, è necessario affrontare sia i problemi politici sia quelli etici, senza confonderli, esplicitando chiaramente i criteri di giudizio cui ci si ispira. 2. Due accezioni di «zona grigia» Com’ è noto, il termine «zona grigia» è stato utilizzato anzitutto da Primo Levi 2 per indicare una «rete di rapporti umani [...] non riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori» all’interno del Lager. Lo scrittore metteva in guardia contro la tentazione di voler distinguere sempre e immediatamente tra il bene e il male nel mondo non solo terribile ma anche «indecifrabile» di Auschwitz. La «zona grigia» – proseguiva Levi – è quella della protekcja e della «collaborazione» che si sviluppa intorno al potere, perché «quanto è più dura l’oppressione, tanto è più diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare con il potere». Espressione emblematica di tale perversa collaborazione è costituita, com’è noto, dalle lugubri figure dei kapos (in francese kapò), componente indispensabile senza la quale la macchina del genocidio non poteva funzionare. Levi si addentra nell’analisi di questa figura – di cui l’espressione limite è rappresentata dai Sonderkommandos – e, pur riconoscendo che anche fuori del Lager «esistono persone, grigie, ambigue pronte al compromesso», sottolinea la specificità del kapò come prodotto dell’esasperazione generatasi nei campi di concentramento, nel contesto di un’organizzazione totalitaria del potere. Nella «zona grigia», invece, Renzo De Felice ha collocato «la maggioranza degli italiani» che dopo l’8 settembre si posero in un «atteggiamento di sostanziale estraneità se non di rifiuto, sia nei confronti della RSI che della Resistenza» 3. La sua «zona grigia» coincide sostanzialmente con l’«attesismo civile», la cui ragione ultima non fu politica: «Primum vivere fu l’imperativo interiore della gente. Sparire, rinchiudersi nel proprio guscio, non compromettersi con nessuna delle parti in lotta, sperare in una rapida fine della guerra [...] per tentare di attraversare il dramma in corso 48 Agostino Giovagnoli col minimo di danni e di sacrifici» 4. De Felice ha sostanzialmente riportato in sede storiografica la tesi di fondo, se così si può dire, del film di Alberto Sordi Tutti a casa, stigmatizzando il rifiuto di combattere, non importa se da una parte o dall’altra. «Il movimento partigiano e il fascismo repubblicano sorsero spontaneamente, sulla spinta di nuclei politicamente motivati, reciprocamente indipendenti», ma la maggioranza fu composta di «gente che faceva poca differenza tra il rosso e il nero, che all’atto pratico non distingueva granché fra tedeschi e anglo-americani, che soprattutto non riusciva a capire come mai ci fosse ancora qualcuno ostinatamente disposto a combattere». Le due definizioni di «zona grigia» fanno evidentemente riferimento a situazioni contraddistinte da gradi molto differenti di libertà e, quindi, anche di responsabilità: non è certo la stessa cosa essere sottoposti al potere totalitario che domina il Lager o trovarsi nella condizione di poter scegliere tra la fuga e il combattimento. Analogamente, c’è pure una profonda differenza, sul piano del giudizio etico, tra collaborare attivamente all’annientamento dell’altro e «tornare a casa» rinchiudendosi in un egoismo indifferente. Ci sono, però, anche punti di contatto: entrambe le definizioni convergono sulla constatazione che ad Auschwitz, come in Italia tra il 1943 e il 1945, ciò che prevalse fu l’istinto di sopravvivenza, con la conseguenza di annientare «la moralità, la solidarietà nazionale, il patriottismo e gli ideali di libertà, di giustizia e di dignità umana». Benché i valori cui fanno riferimento i due autori si radichino in un substrato comune e siano in parte gli stessi, la loro prospettiva etica non è identica. Primo Levi è oppresso dalla tragedia di un’umanità costretta a contraddire le sue istanze più profonde, senza che ciò cancelli o attenui la colpa di cooperare alla morte altrui o, anche, di riuscire a salvare se stessi. In Renzo De Felice, invece, prevale lo sdegno per quanti sono fuggiti dalla guerra, sottraendosi alla scelta per uno o l’altro degli schieramenti in lotta, indipendentemente dalle conseguenze delle loro scelte. Tragedia della contraddittorietà umana, da una parte, ideale eroico della lotta per la lotta, a prescindere dalle motivazioni che l’ispirano, dall’altra. Si potrebbe dire, quantomeno, che mentre il primo fa riferimento all’etica della responsabilità, il secondo si ispira invece a quella delle intenzioni. Finora, per l’Italia tra il 1943 e il 1945, si è parlato di «zona grigia» nel senso indicato da De Felice, in sintonia con le molte- Resistenza e «zona grigia» 49 plici, seppure opposte, rivisitazioni di quel periodo in chiave di dialettica tra vincitori e vinti. Ma varrebbe la pena di chiedersi se sia possibile applicare a questo passaggio storico un approccio simile a quello suggerito da Primo Levi. L’ottica di De Felice presuppone, infatti, che la seconda guerra mondiale abbia sempre conservato il carattere di nobile conflitto e che i suoi contendenti si siano sempre ispirati ad elevate idealità. Ma la disumanizzazione del Lager non è estranea alla logica della guerra: senza la «morte di massa» indotta dalla vicenda bellica non ci sarebbe stata una diffusione sistematica della violenza «inutile», non motivata, cioè, da ragioni politiche o militari e per cui la distruzione dell’altro costituisse un fine e non un mezzo. Sotto molti aspetti, il secondo conflitto mondiale è stato nel suo complesso, e non solo in alcuni singoli aspetti, un’enorme violenza inutile e i comportamenti individuali e collettivi vanno collocati entro questa grande violenza inutile. Ciò vale, parzialmente, anche per il «ritorno a casa» di una parte degli italiani – ci furono infatti molte e significative eccezioni –, le cui ragioni furono complesse e variegate. Indubbiamente, furono presenti opportunismi e viltà ed è comprensibile che si considerino poco nobili l’interesse esclusivo per sé e l’indifferenza per i drammi altrui, anche se molti si trovarono davvero in una «condizione estrema», per dirla con Todorov, il che dovrebbe indurre a sospendere il giudizio. Ma è difficile considerare negativamente la speranza «in una rapida fine della guerra», come scrive De Felice, a proposito di un’immane tragedia come la seconda guerra mondiale. Perché si dovrebbe considerare moralmente spregevole il desiderio nutrito allora da molti che finissero al più presto uccisioni, ferimenti, distruzioni tanto grandi? Spesso, tra l’altro, a tale speranza si accompagnarono ideali elevati o comportamenti altruistici, da parte di quanti, nei modi più diversi, sacrificarono se stessi per affrettare la pace o per proteggere altri dalla violenza. Nella sostanza, insomma, si tratta di comportamenti opposti alla complicità nella catena del genocidio di cui parla Levi a proposito del Lager: in questa luce, il modo di intendere la «zona grigia» appare non solo diverso ma addirittura opposto in Levi e in De Felice. Il contrasto di giudizio etico sugli avvenimenti concreti ha radici infatti in una prospettiva di fondo opposta: il primo riflette sulle conseguenze nefaste di una violenza tanto grande da travolgere tutto e tutti senza lasciare a nessuno la possibilità dell’innocenza; il secondo invece esalta la violenza, sotto forma di 50 Agostino Giovagnoli conflitto bellico che si presuppone svolgersi all’interno di alcune regole, e disprezza coloro che la rifiutano o che se ne sottraggono. Sotto questo profilo, la differenza tra Levi e De Felice non riguarda solo l’alternativa tra etica della responsabilità ed etica delle intenzioni, ma anche il giudizio morale di fondo sulla violenza come male (magari inevitabile) o come bene (seppure minore rispetto ad altri). 3. Speranze di pace In Italia, alla speranza di pace si legò progressivamente la crisi del consenso, da cui poi scaturì il crollo del regime. Fino a qualche tempo fa, era diffusa la tesi che gli italiani non avessero mai nutrito un consenso vasto e convinto nei confronti del fascismo. Si trattava di una forzatura e, negli ultimi anni, l’indagine storica ha invece ampiamente documentato l’esistenza di molte e diffuse forme di un consenso nei confronti del regime, che si disgregò progressivamente durante la guerra. Il rifiuto di massa del fascismo, infatti, non fu determinato in primo luogo dall’antifascismo ma dal conflitto e dalle sue conseguenze: è dunque nell’esperienza della guerra che si deve anzitutto indagare per ricostruire la transizione alla democrazia. Sul piano storico, una più precisa consapevolezza del progressivo distacco della società italiana dal regime negli anni della guerra cominciò ad emergere, verso la fine degli anni Settanta, anche grazie a ricerche riguardanti i cattolici e l’istituzione ecclesiastica durante il conflitto. A partire dal 1939, infatti, la Chiesa si espresse in Italia in modo sempre più esplicito contro la guerra e a favore della pace, raccogliendo un’esasperazione crescente della popolazione italiana – militari e civili – provocata da un conflitto sempre più manifestamente inutile, rovinoso, doloroso. Nel corso della guerra, si sviluppò così una sintonia crescente tra Chiesa cattolica e società italiana intorno alla speranza della pace, come ha messo in luce Andrea Riccardi: fonti ecclesiastiche, come i diari dei parroci o le omelie dei vescovi, appaiono in questo senso rivelatrici di sentimenti di pace sempre più diffusi tra gli italiani. Il caso della Chiesa mostra, ma si potrebbero fare anche altri esempi, quanto sia improprio ridurre la ricerca della pace ad espressione di vigliaccheria e di opportunismo, negarne motivazioni moralmente elevate e ignorare le forti ragioni Resistenza e «zona grigia» 51 che la rendevano un’opzione storicamente più valida della lotta per la lotta. Andamento della guerra e declino del consenso, com’è noto, furono all’origine del 25 luglio e dell’8 settembre 1943, che a giudizio di molti ha segnato irreparabilmente la storia d’Italia. La debolezza dell’Italia come nazione in tutto il periodo successivo avrebbe «la causa prima, ma ancora operante [...] nella condizione morale evidenziata dall’8 settembre e nel rifiuto della classe dirigente postfascista di riconoscerlo» 5. In realtà, fin dall’inizio del conflitto era emersa, secondo De Felice, una radicale «debolezza etico-politica degli [...] italiani e quindi la loro impreparazione morale ad affrontare il cimento della guerra» 6, ma si deve guardare soprattutto all’ 8 settembre 1943 come «pagina fondamentale della storia d’Italia che bisogna studiare» per «capire il danno alla moralità nazionale consumato in quel biennio e le ragioni della mancata ricostruzione di quel tessuto morale andato perduto» 7. Furono, infatti, «in pochi ad affrontare il dramma dell’8 settembre senza calpestare patriottismo e dignità nazionale, etica militare e società civile [...]. L’8 settembre ci fu uno sciopero morale» 8. Successivamente nulla ha potuto riscattare la débâcle, morale prima ancora che militare, dell’8 settembre 1943. In particolare, non lo ha fatto la Resistenza: nel corso della «guerra civile», infatti, gran parte degli italiani ha preferito occultarsi in una grande «zona grigia», morale prima ancora che politica o militare. Si deve dedurne che sarebbe stato meglio se l’Italia non avesse stipulato l’armistizio e avesse continuato la guerra a fianco dei nazisti? Nessuno è giunto a sostenere una tesi così estrema, anche perché la guerra fascista, come ha efficacemente messo in luce Emilio Gentile, non era una guerra patriottica e contraddiceva gli interessi nazionali: era una «guerra rivoluzionaria», in altre parole una sorta di guerra condotta per motivi ideologici che non riguardavano gli interessi degli italiani o le esigenze della loro difesa 9. Nel 1943 a questi vizi di origine si aggiunsero anche le pesanti sconfitte militari ed appare perciò difficile negare che, a quel punto, fosse opportuno far uscire l’Italia al più presto dal conflitto. Indubbiamente, pesava sulla classe dirigente una pesante responsabilità di compiere questa delicata operazione nel modo migliore possibile, il che non avvenne: tale classe dirigente abbandonò improvvisamente i propri compiti, come mise emblematicamente in luce la fuga del re. In questo contesto va giudicato il «tutti a casa» 52 Agostino Giovagnoli di cui s’è parlato: emergono, infatti, differenze profonde in base alla responsabilità rivestita in quel momento dai diversi protagonisti di quella fuga, uomini di governo o semplici cittadini, generali o soldati, militari o civili e così via. In questo senso, è giusto insistere sul modo in cui la classe dirigente italiana che si era formata durante il ventennio fascista si comportò in quei giorni, ma non si capisce perché giudicare negativamente il diffuso senso di liberazione che accompagnò la dissociazione dello Stato italiano dalla guerra fascista sancita dall’armistizio dell’8 settembre. Più problematica appare invece la possibilità di considerare positivamente chi volle continuare quella guerra, non per fedeltà alla nazione, per l’interesse dell’Italia, ma per coerenza con la propria militanza fascista, come il gruppo dirigente della Repubblica Sociale. Dall’8 settembre ebbero inizio molti diversi percorsi individuali, sulla cui complessità e diversificazione, com’è noto, ha scritto da tempo Claudio Pavone 10. Tra le espressioni più negative di questa fase, Renzo De Felice ha indicato il fenomeno della renitenza alla leva da parte della Repubblica Sociale Italiana, anch’essa, a suo avviso, espressione soprattutto di opportunismo, che raggiunse le sue punte più alte a Roma, anche per via della presenza ecclesiastica 11. In questo modo, nell’ottica di De Felice, appare in una luce negativa la particolare «supplenza» esercitata in quegli anni dalla Chiesa, che invece Federico Chabod ha considerato in tutt’altra chiave 12. Con il crollo del regime, infatti, la Chiesa, che pure si era legata al fascismo e che avrebbe dovuto risentire del suo crollo, divenne per molti un importante punto di riferimento, mentre veniva meno ogni altra autorità istituzionale. Non si trattò, però, di un’alleanza intorno ad atteggiamenti opportunistici o a forme di indifferenza verso ciò che stava accadendo. Dopo il lavoro pionieristico di Andrea Riccardi 13, la ricerca promossa dall’Istituto Luigi Sturzo nel 1995 su Cattolici, Chiesa, Resistenza 14 ha fatto emergere un fittissimo tessuto di iniziative e di interventi, individuali e collettivi, spontanei e organizzati, in cui protezione delle popolazioni e forme di solidarietà fecero in molti casi assumere alla Chiesa quel ruolo di defensor civitatis riconosciuto a diversi suoi esponenti. Non solo ma anche intorno all’istituzione ecclesiastica si coagularono energie morali e materiali estranee e contrarie alla guerra fascista e alla sua continuazione. Ciò spiega perché non solo i cattolici si ritrovarono vicini alle istituzioni cattoliche, ma anche molti altri, di diverso sentire e talvol- Resistenza e «zona grigia» 53 ta di opposto orientamento, che cercavano di ricevere o di dare solidarietà. Si tratta di un movimento molecolare, spesso sommerso, attraversato da spinte diverse e anche in contraddizione tra loro, all’interno di una vasta gamma di atteggiamenti ideali e pratici. Ma non tutto, insomma, fu veramente «grigio» nella vasta «zona grigia» di coloro che, solo apparentemente, non si schierarono o, meglio, che non si schierarono per una delle parti in lotta ma si schierarono, a volte in modo molto eloquente, dalla parte delle vittime contro i loro carnefici. Com’è noto, è difficile restare veramente equidistanti quando lo scontro si fa aspro e la situazione diventa estremamente polarizzata. In molte situazioni, dove ciò si verificò, anche i cattolici, come tutti gli altri, furono forzati a collocarsi in uno dei due campi, sia pure attraverso una grande varietà di mediazioni e sfumature. Intorno al movimento molecolare suscitato dalla speranza della pace e dalle spinte di solidarietà, si stabilirono collegamenti tra posizioni di attesismo cattolico e forme di impegno resistenziale. Sono numericamente limitati, anche se non insignificanti, i casi di preti che hanno scelto per la Resistenza o sono entrati nelle bande partigiane come cappellani. Tuttavia, a mano a mano che lo scontro diventava più aspro, la protezione della popolazione e le forme di solidarietà esercitate da ecclesiastici hanno assunto sempre di più un’esplicita connotazione antitedesca e antifascista, perché sempre di più opporsi alla violenza inutile ha significato opporsi a chi la esercitava, e cioè ai tedeschi e ai fascisti. Anche tra coloro che si collocarono molto lontano dalla «zona grigia», come i condannati a morte della Resistenza, è possibile trovare speranze di pace, tensione verso il futuro, solidarietà con altri, oltre a manifestazioni di idealismo patriottico e di militanza politica, espresse persino davanti alla fine imminente. Colpisce, rileggendo queste lettere, notare pure la presenza di riferimenti religiosi, come la richiesta e l’offerta di perdono, la speranza in un futuro più forte della morte e l’invito ad adoperarsi per realizzare una società più giusta e solidale. Negli ultimi anni, chi si opponeva a fascisti e nazisti poteva pensare sempre più fondatamente di lavorare per il futuro e di affrettare la pace, trovandosi in sintonia con altri che sentivano l’importanza di queste prospettive. È probabile che, anche dall’altra parte, qualcuno pensasse qualcosa di analogo, ma le circostanze rendevano sempre più problematico conciliare speran- 54 Agostino Giovagnoli ze per il futuro e desiderio di pace con l’ostinazione richiesta a chi continuava a combattere pur conoscendo l’inevitabilità di una fine sempre più prossima, non solo delle proprie persone ma anche della propria causa. Per questo, sulla Repubblica Sociale Italiana ha pesato sempre di più una cappa di morte, efficacemente descritta da Luigi Ganapini 15. Senza negare che anche tra «i ragazzi di Salò» ci siano state forti idealità, non sembra totalmente casuale che soprattutto nelle loro file si sia pensato di cercar la «bella morte». La vera «zona grigia», infatti, non coincide con lo spazio intermedio tra i due schieramenti, ma fu occupata da quanti, anche tra coloro che continuarono a battersi per motivi ideali, non avvertirono un senso di saturazione per la morte di massa e di rigetto della violenza inutile: non avvertirono cioè che, nelle situazioni estreme, i mezzi contano più dei fini e che la violenza inquina e squalifica qualunque causa, anche la più nobile. Le convergenze tra aspirazione alla pace e causa resistenziale non implicano certo che la Chiesa, la maggioranza dei cattolici o di coloro che si rivolsero all’istituzione ecclesiastica abbia compiuto una consapevole scelta politica antifascista. Ma appare artificiosa la tesi, sostenuta da qualcuno, che i cattolici abbiano occupato una posizione intermedia e centrista tra gli opposti contendenti. Quando lo scontro diventa totale una posizione di questo genere si rivela, infatti, quasi impossibile, anche se, naturalmente, sono possibili infinite varietà nel modo di collegarsi all’uno o all’altro campo. In particolare, mi sembra che le ragioni di chi si opponeva alla guerra finirono per convergere sempre di più con quelle di chi si opponeva alla dittatura e al totalitarismo. Ne costituisce un’espressione anche il pronunciamento di Pio XII nel radiomessaggio del Natale 1944, in cui, per la prima volta, la Chiesa cattolica prese posizione in modo esplicito a favore della democrazia politica. Quella che a molti è sembrata una conversione tardiva costituì il punto d’arrivo di un lungo percorso del magistero ecclesiastico, iniziato già con le delusioni nei confronti del nazionalismo esasperato manifestate da Pio XI nella prima metà degli anni Trenta e proseguito con i pronunciamenti di questo Papa contro il totalitarismo, passando poi attraverso le prudenze diplomatiche di Papa Pacelli nei primi anni della guerra. Pio XII, infatti, indicò chiaramente una preferenza della Chiesa per la democrazia sulla base della constatazione che più facilmente i regimi totalitari sono all’origine della guerra 16. Resistenza e «zona grigia» 55 Gli esiti complessivi dei molteplici itinerari personali iniziati l’8 settembre 1943 sono emersi chiaramente solo dopo la fine della guerra. Guardando il voto alle elezioni del 2 giugno 1946 per l’Assemblea Costituente, all’apparenza sembrerebbe fondato ricorrere ancora una volta alla chiave interpretativa della «zona grigia». La DC risultò allora il partito di maggioranza relativa, posizione poi tenuta costantemente da questo partito fino al 1992 e alla sua scomparsa. Nelle prime elezioni del dopoguerra, dunque, prevalsero coloro che si collocarono al centro dello schieramento politico, molti dei quali, indubbiamente, non si erano schierati nettamente né coi fascisti né con gli antifascisti. Si potrebbe dunque concludere che la «zona grigia» dell’opportunismo e dell’indifferenza sarebbe stata anche alle origini della Repubblica, segnandone inevitabilmente tutta la parabola successiva. Coloro che erano vissuti in tranquillità all’ombra del regime e durante gli ultimi anni erano rimasti fuori dalla mischia, aspettando di capire chi avrebbe vinto, si sarebbero poi rapidamente adeguati al nuovo corso, salendo sul carro dei vincitori. Indubbiamente, le cose andarono in parte in questo modo, come sempre accade nelle transizioni da un regime ad un altro. Ma ci fu anche qualcosa di diverso. Molti di coloro che nel 1946 votarono per la DC non erano stati antifascisti durante il ventennio 19221943 (diverso è il caso dei fascisti repubblichini, che dopo la guerra certo non si riconobbero in questo partito): una larga quota degli elettori democristiani coincideva con quanti avevano manifestato il loro consenso al regime, per esempio in occasione della firma dei Patti Lateranensi. Ma la classe dirigente di quel partito era esplicitamente antifascista e gli elettori della DC sapevano di votare per leaders antifascisti. Il loro voto implicava, dunque, una qualche presa di distanza, più o meno convinta ed espressa solo a posteriori, da quanto avvenuto fino al 1943 e ancora di più da quanto accaduto tra il 1943 e il 1945. In realtà, nel poco tempo intercorso le cose erano già cambiate, e molti di coloro che erano stati fascisti, soprattutto in modo tiepido, avevano maturato durante la guerra quel faticoso ma reale distacco dal regime di cui si è parlato. Nel dopoguerra, infatti, la DC ereditò gran parte del consenso raccolto dalla Chiesa negli anni della guerra e del crollo del regime difendendo la causa della pace: nell’elettorato democristiano confluirono cioè molti di coloro che, prevalentemente cattolici ma non solo, avevano maturato sempre più una consapevolezza del nesso 56 Agostino Giovagnoli profondo che univa fascismo e guerra, pervenendo attraverso questa via a un giudizio critico sul regime 17. Contrariamente a quanto sostenuto dagli storici revisionisti o dai loro divulgatori, insomma, proprio attraverso la scelta per la pace i cattolici approdarono in modo sempre più convinto alla causa della democrazia. Non si può parlare, perciò, di diretta e totale continuità tra fascismo e DC, qualcosa impedì tale continuità, se non sul piano politico quantomeno su quello morale, e il voto democristiano fu, a suo modo, un voto democratico anche se solo limitatamente antifascista. Agostino Giovagnoli NOTE 1 G. Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano 2003. il titolo di un capitolo di uno dei suoi libri più importanti, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986. 3 R. De Felice, Rosso e Nero, a cura di P. Chessa, Baldini e Castoldi, Milano 1995, p. 56. 4 Ibid., p. 59. 5 R. De Felice, Prefazione a E. Aga Rossi, L’inganno reciproco. L’armistizio fra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1993, p. XIV. Sulla stessa linea di Renzo De Felice, Ernesto Galli della Loggia ha insistito sulla tesi che l’8 settembre 1943 avrebbe segnato la «morte della patria» dopo la quale gli italiani non sarebbero più tornati ad avere un vero senso della nazione, sia a causa della «guerra civile» tra il 1943 e il 1945 sia perché le sorti del paese furono concretamente decise dagli Alleati. Né l’8 settembre 1943 né dopo, gli italiani avrebbero preso in mano il loro destino, compiendo scelte decisive su cui rifondare la compattezza della comunità nazionale e intorno a cui ridefinire l’identità italiana. Anche Galli della Loggia ha aderito, in questo modo, alla tesi della continuità tra fascismo e post-fascismo nella versione defeliciana (E. Galli della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996). 6 R. De Felice, Mussolini l’alleato, vol. II, Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, pp. 770-771. 7 R. De Felice, Rosso e Nero, cit., p. 61. Non tutti ovviamente condividono questo giudizio. Pietro Scoppola ha parlato dell’8 settembre 1943 come del «punto più basso della parabola» italiana, ma per lui si è trattato contemporaneamente anche del «punto di avvio di una ripresa del sentimento nazionale in un rinnovato rapporto con la libertà» (P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, p. 39). E, malgrado i suoi limiti, la liberazione del 25 aprile 1945 ha rappresentato un riferimento forte nella storia del popolo italiano. Scoppola, inoltre, pur riconoscendo il problema costituito in Italia dalla debolezza del tessuto etico, ha sottolineato l’importanza della Costituzione come riferimento unitario in cui si è radicato il tessuto etico-politico repubblicano (P. Scoppola, Tessuto etico, forze politiche, istituzioni, in A. Giovagnoli, a cura di, Interpretazioni della Repubblica, Il Mulino, Bologna 1998, p. 17 e ss.). 2È Resistenza e «zona grigia» 8 57 R. De Felice, Rosso e Nero, cit., p. 31 e ss. E. Gentile, La nazione del fascismo. Alle origini del declino dello Stato nazionale, in G. Spadolini (a cura di), Nazione e nazionalità in Italia, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 108-119. 10 C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 11 L’alto numero di renitenti alla leva a Roma si spiegherebbe «un po’ per la sua configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi e di edifici dove i renitenti potevano nascondersi» (R. De Felice, Rosso e Nero, cit., p. 60). 12 F. Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948, Einaudi, Torino 1961, pp. 125127. 13 A. Riccardi, Roma “città sacra”? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Vita e Pensiero, Milano 1979, p. 221 e ss. 14 L’opera è costituita da sette volumi: i primi sei raccolgono gli Atti dei Convegni interregionali (Salerno, Perugia, L’Aquila, Torino, Vicenza) e del Convegno nazionale di Roma. Il settimo raccoglie sessanta interviste di esponenti del mondo cattolico che hanno partecipato alla Resistenza. I volumi sono ricordati nella nota 34 del contributo di Ernesto Preziosi che figura in queste pagine (p. 37). 15 L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzanti, Milano 1999, p. 453 e ss. 16 Cfr. Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Vita e Pensiero [poi Tip. poliglotta vaticana], Milano-Città del Vaticano 1939-1952. 17 A. Giovagnoli, Fra totalitarismo e internazionalismo. Cattolici e nazione prima e dopo la seconda guerra mondiale, in Italia contemporanea (settembre 1999), 216, pp. 429444. 9