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Resistenza e «zona grigia

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Resistenza e «zona grigia
Resistenza e «zona grigia»
di Agostino Giovagnoli
È sempre più diffusa la convinzione che quanto accaduto in Italia
tra il 1943 e il 1945 costituisca un’unica grande «zona grigia», un
groviglio ormai inestricabile di violenze, ambiguità, mistificazioni,
di cui è possibile dare solo un giudizio moralmente negativo. Solo
in parte ciò accade ad opera di storici, come mostra il caso del volume di successo di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti 1, che incrocia realtà e fantasia. Le pagine più importanti sono, non a caso, quelle finali in cui la protagonista, un personaggio immaginario, confessa il suo peso segreto: il dubbio angoscioso che il padre
comunista abbia ucciso, senza motivo, alcuni fascisti a guerra finita. Se però si prende alla lettera il volume di Pansa, come se fosse
un libro di storia, si getta un’ombra di generale discredito su tutto quello che realmente è successo prima del 25 aprile, a partire
dall’armistizio dell’8 settembre 1943. Leggendo il racconto si ha,
infatti, la sensazione di trovarsi davanti a una grande violenza indistinta, una vasta «zona grigia», perché l’autore insiste sulla confusione e sulle ambiguità che circondano le motivazioni degli atti
di violenza. La narrazione oscilla tra vendette contro il nemico di
ieri, ritorsioni terribili per qualche violenza subita o del tutto gratuite ed eliminazione preventiva del nemico di classe o di avversari politici, compresi antifascisti o partigiani. Si descrivono forme
estreme di anticlericalismo o esempi di sadismo fine a se stesso e
tutto confluisce in un’immagine confusa di accanimento contro
vinti inermi ad opera di vincitori crudeli.
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Agostino Giovagnoli
1. Vinti, vincitori e vittime
Il libro di Pansa ha riscosso tanto successo anche perché ha incontrato convinzioni sempre più diffuse. In questo senso, le capacità del giornalista e del romanziere si sono unite all’abilità di cogliere il momento giusto e sfruttare, anche commercialmente, un
lungo lavoro condotto negli anni precedenti da storici ed altri studiosi nel senso del cosiddetto «revisionismo». Ma la sovrapposizione tra ricostruzioni letterarie (che non vincolano l’autore alla
verità documentaria) e i giudizi storici (che si presume fondati sulle regole della ricerca scientifica) è un male da evitare. Il sangue
dei vinti, infatti, non è quello delle vittime e ribaltare semplicemente i ruoli, in sede letteraria ma con implicazioni di tipo storico, significa compiere un’operazione non etica, bensì politica.
Compiere fino in fondo la scelta di spostarsi sul terreno del giudizio etico, sempre restando fedeli alla verità storica, implicherebbe
infatti anzitutto l’esigenza di prendere chiaramente posizione sul
problema della violenza all’interno di un conflitto bellico, durante una guerra civile o anche in tempi di pace. Ma questa presa di
posizione manca nel libro di Pansa e in tanti di coloro che si sono
facilmente accodati al suo successo. Prendere posizione in modo
chiaro sotto il profilo etico implica, infatti, assumere il punto di vista delle vittime, e ciò non avviene se si continua a parlare di vincitori e di vinti, sia pure ribaltando i ruoli e simpatizzando per i secondi invece che per i primi.
Nell’immediato dopoguerra, l’interesse si concentrò anzitutto
sui perseguitati dal fascismo che alla fine risultarono vincitori, e
cioè gli antifascisti, mentre in secondo piano scivolarono coloro
che erano stati «solo» vittime inermi, come gli ebrei. Negli ultimi
anni, invece, la situazione si è capovolta: alla Resistenza viene negato valore mentre si esaltano i vinti del 25 aprile, trascurando ancora una volta chi fu «solamente» vittima, fino a trascinare talvolta anche gli ebrei non nella categoria delle vittime ma in quella dei
vinti, cui spetterebbe qualche tardiva «vittoria» a titolo di risarcimento. Ma in entrambi i casi, le vittime vengono trascurate, mentre si evita di pronunciarsi con chiarezza sulle responsabilità compiute da chi ha infierito su di esse (responsabilità che non sono né
cancellate né attenuate se poi chi ha infierito sulle vittime si è successivamente trovato nella spiacevole condizione di vinto), mentre continua a mancare una circostanziata denuncia del male che
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ha generato tutto questo. Indubbiamente, il rapporto tra storia e
morale appare importante per comprendere in profondità le vicende italiane tra il 1943 e il 1945, e affrontare anche su questo
terreno la domanda cruciale che attraversa tutto il dibattito sulla
violenza «inutile» del XX secolo: come è stato possibile? Ma, per
accostare adeguatamente storia e morale, è necessario affrontare
sia i problemi politici sia quelli etici, senza confonderli, esplicitando chiaramente i criteri di giudizio cui ci si ispira.
2. Due accezioni di «zona grigia»
Com’ è noto, il termine «zona grigia» è stato utilizzato anzitutto da
Primo Levi 2 per indicare una «rete di rapporti umani [...] non riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori» all’interno
del Lager. Lo scrittore metteva in guardia contro la tentazione di
voler distinguere sempre e immediatamente tra il bene e il male nel
mondo non solo terribile ma anche «indecifrabile» di Auschwitz.
La «zona grigia» – proseguiva Levi – è quella della protekcja e della
«collaborazione» che si sviluppa intorno al potere, perché «quanto
è più dura l’oppressione, tanto è più diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare con il potere». Espressione emblematica di
tale perversa collaborazione è costituita, com’è noto, dalle lugubri
figure dei kapos (in francese kapò), componente indispensabile senza la quale la macchina del genocidio non poteva funzionare. Levi
si addentra nell’analisi di questa figura – di cui l’espressione limite
è rappresentata dai Sonderkommandos – e, pur riconoscendo che
anche fuori del Lager «esistono persone, grigie, ambigue pronte al
compromesso», sottolinea la specificità del kapò come prodotto
dell’esasperazione generatasi nei campi di concentramento, nel
contesto di un’organizzazione totalitaria del potere.
Nella «zona grigia», invece, Renzo De Felice ha collocato «la
maggioranza degli italiani» che dopo l’8 settembre si posero in un
«atteggiamento di sostanziale estraneità se non di rifiuto, sia nei
confronti della RSI che della Resistenza» 3. La sua «zona grigia»
coincide sostanzialmente con l’«attesismo civile», la cui ragione
ultima non fu politica: «Primum vivere fu l’imperativo interiore
della gente. Sparire, rinchiudersi nel proprio guscio, non compromettersi con nessuna delle parti in lotta, sperare in una rapida fine della guerra [...] per tentare di attraversare il dramma in corso
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col minimo di danni e di sacrifici» 4. De Felice ha sostanzialmente
riportato in sede storiografica la tesi di fondo, se così si può dire,
del film di Alberto Sordi Tutti a casa, stigmatizzando il rifiuto di
combattere, non importa se da una parte o dall’altra. «Il movimento partigiano e il fascismo repubblicano sorsero spontaneamente, sulla spinta di nuclei politicamente motivati, reciprocamente indipendenti», ma la maggioranza fu composta di «gente
che faceva poca differenza tra il rosso e il nero, che all’atto pratico non distingueva granché fra tedeschi e anglo-americani, che soprattutto non riusciva a capire come mai ci fosse ancora qualcuno
ostinatamente disposto a combattere».
Le due definizioni di «zona grigia» fanno evidentemente riferimento a situazioni contraddistinte da gradi molto differenti di libertà e, quindi, anche di responsabilità: non è certo la stessa cosa
essere sottoposti al potere totalitario che domina il Lager o trovarsi nella condizione di poter scegliere tra la fuga e il combattimento. Analogamente, c’è pure una profonda differenza, sul piano del
giudizio etico, tra collaborare attivamente all’annientamento dell’altro e «tornare a casa» rinchiudendosi in un egoismo indifferente. Ci sono, però, anche punti di contatto: entrambe le definizioni convergono sulla constatazione che ad Auschwitz, come in
Italia tra il 1943 e il 1945, ciò che prevalse fu l’istinto di sopravvivenza, con la conseguenza di annientare «la moralità, la solidarietà nazionale, il patriottismo e gli ideali di libertà, di giustizia e
di dignità umana». Benché i valori cui fanno riferimento i due autori si radichino in un substrato comune e siano in parte gli stessi,
la loro prospettiva etica non è identica. Primo Levi è oppresso
dalla tragedia di un’umanità costretta a contraddire le sue istanze
più profonde, senza che ciò cancelli o attenui la colpa di cooperare alla morte altrui o, anche, di riuscire a salvare se stessi. In Renzo De Felice, invece, prevale lo sdegno per quanti sono fuggiti
dalla guerra, sottraendosi alla scelta per uno o l’altro degli schieramenti in lotta, indipendentemente dalle conseguenze delle loro
scelte. Tragedia della contraddittorietà umana, da una parte, ideale eroico della lotta per la lotta, a prescindere dalle motivazioni
che l’ispirano, dall’altra. Si potrebbe dire, quantomeno, che mentre il primo fa riferimento all’etica della responsabilità, il secondo
si ispira invece a quella delle intenzioni.
Finora, per l’Italia tra il 1943 e il 1945, si è parlato di «zona
grigia» nel senso indicato da De Felice, in sintonia con le molte-
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plici, seppure opposte, rivisitazioni di quel periodo in chiave di
dialettica tra vincitori e vinti. Ma varrebbe la pena di chiedersi se
sia possibile applicare a questo passaggio storico un approccio simile a quello suggerito da Primo Levi. L’ottica di De Felice presuppone, infatti, che la seconda guerra mondiale abbia sempre
conservato il carattere di nobile conflitto e che i suoi contendenti
si siano sempre ispirati ad elevate idealità. Ma la disumanizzazione del Lager non è estranea alla logica della guerra: senza la «morte di massa» indotta dalla vicenda bellica non ci sarebbe stata una
diffusione sistematica della violenza «inutile», non motivata, cioè,
da ragioni politiche o militari e per cui la distruzione dell’altro costituisse un fine e non un mezzo. Sotto molti aspetti, il secondo
conflitto mondiale è stato nel suo complesso, e non solo in alcuni
singoli aspetti, un’enorme violenza inutile e i comportamenti individuali e collettivi vanno collocati entro questa grande violenza
inutile. Ciò vale, parzialmente, anche per il «ritorno a casa» di una
parte degli italiani – ci furono infatti molte e significative eccezioni –, le cui ragioni furono complesse e variegate. Indubbiamente,
furono presenti opportunismi e viltà ed è comprensibile che si
considerino poco nobili l’interesse esclusivo per sé e l’indifferenza per i drammi altrui, anche se molti si trovarono davvero in una
«condizione estrema», per dirla con Todorov, il che dovrebbe indurre a sospendere il giudizio. Ma è difficile considerare negativamente la speranza «in una rapida fine della guerra», come scrive De Felice, a proposito di un’immane tragedia come la seconda
guerra mondiale. Perché si dovrebbe considerare moralmente
spregevole il desiderio nutrito allora da molti che finissero al più
presto uccisioni, ferimenti, distruzioni tanto grandi? Spesso, tra
l’altro, a tale speranza si accompagnarono ideali elevati o comportamenti altruistici, da parte di quanti, nei modi più diversi, sacrificarono se stessi per affrettare la pace o per proteggere altri dalla
violenza. Nella sostanza, insomma, si tratta di comportamenti opposti alla complicità nella catena del genocidio di cui parla Levi a
proposito del Lager: in questa luce, il modo di intendere la «zona
grigia» appare non solo diverso ma addirittura opposto in Levi e
in De Felice. Il contrasto di giudizio etico sugli avvenimenti concreti ha radici infatti in una prospettiva di fondo opposta: il primo
riflette sulle conseguenze nefaste di una violenza tanto grande da
travolgere tutto e tutti senza lasciare a nessuno la possibilità dell’innocenza; il secondo invece esalta la violenza, sotto forma di
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conflitto bellico che si presuppone svolgersi all’interno di alcune
regole, e disprezza coloro che la rifiutano o che se ne sottraggono.
Sotto questo profilo, la differenza tra Levi e De Felice non riguarda solo l’alternativa tra etica della responsabilità ed etica delle intenzioni, ma anche il giudizio morale di fondo sulla violenza come
male (magari inevitabile) o come bene (seppure minore rispetto
ad altri).
3. Speranze di pace
In Italia, alla speranza di pace si legò progressivamente la crisi del
consenso, da cui poi scaturì il crollo del regime. Fino a qualche
tempo fa, era diffusa la tesi che gli italiani non avessero mai nutrito un consenso vasto e convinto nei confronti del fascismo. Si trattava di una forzatura e, negli ultimi anni, l’indagine storica ha invece ampiamente documentato l’esistenza di molte e diffuse forme di un consenso nei confronti del regime, che si disgregò progressivamente durante la guerra. Il rifiuto di massa del fascismo,
infatti, non fu determinato in primo luogo dall’antifascismo ma
dal conflitto e dalle sue conseguenze: è dunque nell’esperienza
della guerra che si deve anzitutto indagare per ricostruire la transizione alla democrazia. Sul piano storico, una più precisa consapevolezza del progressivo distacco della società italiana dal regime
negli anni della guerra cominciò ad emergere, verso la fine degli
anni Settanta, anche grazie a ricerche riguardanti i cattolici e
l’istituzione ecclesiastica durante il conflitto. A partire dal 1939,
infatti, la Chiesa si espresse in Italia in modo sempre più esplicito
contro la guerra e a favore della pace, raccogliendo un’esasperazione crescente della popolazione italiana – militari e civili – provocata da un conflitto sempre più manifestamente inutile, rovinoso, doloroso. Nel corso della guerra, si sviluppò così una sintonia
crescente tra Chiesa cattolica e società italiana intorno alla speranza della pace, come ha messo in luce Andrea Riccardi: fonti ecclesiastiche, come i diari dei parroci o le omelie dei vescovi, appaiono in questo senso rivelatrici di sentimenti di pace sempre più
diffusi tra gli italiani. Il caso della Chiesa mostra, ma si potrebbero fare anche altri esempi, quanto sia improprio ridurre la ricerca
della pace ad espressione di vigliaccheria e di opportunismo, negarne motivazioni moralmente elevate e ignorare le forti ragioni
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che la rendevano un’opzione storicamente più valida della lotta
per la lotta.
Andamento della guerra e declino del consenso, com’è noto,
furono all’origine del 25 luglio e dell’8 settembre 1943, che a giudizio di molti ha segnato irreparabilmente la storia d’Italia. La debolezza dell’Italia come nazione in tutto il periodo successivo avrebbe
«la causa prima, ma ancora operante [...] nella condizione morale
evidenziata dall’8 settembre e nel rifiuto della classe dirigente postfascista di riconoscerlo» 5. In realtà, fin dall’inizio del conflitto era
emersa, secondo De Felice, una radicale «debolezza etico-politica
degli [...] italiani e quindi la loro impreparazione morale ad affrontare il cimento della guerra» 6, ma si deve guardare soprattutto all’ 8
settembre 1943 come «pagina fondamentale della storia d’Italia che
bisogna studiare» per «capire il danno alla moralità nazionale consumato in quel biennio e le ragioni della mancata ricostruzione di
quel tessuto morale andato perduto» 7. Furono, infatti, «in pochi ad
affrontare il dramma dell’8 settembre senza calpestare patriottismo
e dignità nazionale, etica militare e società civile [...]. L’8 settembre
ci fu uno sciopero morale» 8. Successivamente nulla ha potuto riscattare la débâcle, morale prima ancora che militare, dell’8 settembre 1943. In particolare, non lo ha fatto la Resistenza: nel corso della «guerra civile», infatti, gran parte degli italiani ha preferito occultarsi in una grande «zona grigia», morale prima ancora che politica o militare.
Si deve dedurne che sarebbe stato meglio se l’Italia non avesse stipulato l’armistizio e avesse continuato la guerra a fianco dei
nazisti? Nessuno è giunto a sostenere una tesi così estrema, anche
perché la guerra fascista, come ha efficacemente messo in luce
Emilio Gentile, non era una guerra patriottica e contraddiceva gli
interessi nazionali: era una «guerra rivoluzionaria», in altre parole
una sorta di guerra condotta per motivi ideologici che non riguardavano gli interessi degli italiani o le esigenze della loro difesa 9.
Nel 1943 a questi vizi di origine si aggiunsero anche le pesanti
sconfitte militari ed appare perciò difficile negare che, a quel punto, fosse opportuno far uscire l’Italia al più presto dal conflitto.
Indubbiamente, pesava sulla classe dirigente una pesante responsabilità di compiere questa delicata operazione nel modo migliore
possibile, il che non avvenne: tale classe dirigente abbandonò improvvisamente i propri compiti, come mise emblematicamente in
luce la fuga del re. In questo contesto va giudicato il «tutti a casa»
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di cui s’è parlato: emergono, infatti, differenze profonde in base
alla responsabilità rivestita in quel momento dai diversi protagonisti di quella fuga, uomini di governo o semplici cittadini, generali o soldati, militari o civili e così via. In questo senso, è giusto insistere sul modo in cui la classe dirigente italiana che si era formata durante il ventennio fascista si comportò in quei giorni, ma non
si capisce perché giudicare negativamente il diffuso senso di liberazione che accompagnò la dissociazione dello Stato italiano dalla
guerra fascista sancita dall’armistizio dell’8 settembre. Più problematica appare invece la possibilità di considerare positivamente
chi volle continuare quella guerra, non per fedeltà alla nazione,
per l’interesse dell’Italia, ma per coerenza con la propria militanza fascista, come il gruppo dirigente della Repubblica Sociale.
Dall’8 settembre ebbero inizio molti diversi percorsi individuali, sulla cui complessità e diversificazione, com’è noto, ha
scritto da tempo Claudio Pavone 10. Tra le espressioni più negative di questa fase, Renzo De Felice ha indicato il fenomeno della
renitenza alla leva da parte della Repubblica Sociale Italiana, anch’essa, a suo avviso, espressione soprattutto di opportunismo,
che raggiunse le sue punte più alte a Roma, anche per via della
presenza ecclesiastica 11. In questo modo, nell’ottica di De Felice,
appare in una luce negativa la particolare «supplenza» esercitata
in quegli anni dalla Chiesa, che invece Federico Chabod ha considerato in tutt’altra chiave 12. Con il crollo del regime, infatti, la
Chiesa, che pure si era legata al fascismo e che avrebbe dovuto risentire del suo crollo, divenne per molti un importante punto di
riferimento, mentre veniva meno ogni altra autorità istituzionale.
Non si trattò, però, di un’alleanza intorno ad atteggiamenti opportunistici o a forme di indifferenza verso ciò che stava accadendo. Dopo il lavoro pionieristico di Andrea Riccardi 13, la ricerca
promossa dall’Istituto Luigi Sturzo nel 1995 su Cattolici, Chiesa,
Resistenza 14 ha fatto emergere un fittissimo tessuto di iniziative e
di interventi, individuali e collettivi, spontanei e organizzati, in cui
protezione delle popolazioni e forme di solidarietà fecero in molti casi assumere alla Chiesa quel ruolo di defensor civitatis riconosciuto a diversi suoi esponenti. Non solo ma anche intorno all’istituzione ecclesiastica si coagularono energie morali e materiali
estranee e contrarie alla guerra fascista e alla sua continuazione.
Ciò spiega perché non solo i cattolici si ritrovarono vicini alle istituzioni cattoliche, ma anche molti altri, di diverso sentire e talvol-
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ta di opposto orientamento, che cercavano di ricevere o di dare
solidarietà. Si tratta di un movimento molecolare, spesso sommerso, attraversato da spinte diverse e anche in contraddizione tra loro, all’interno di una vasta gamma di atteggiamenti ideali e pratici. Ma non tutto, insomma, fu veramente «grigio» nella vasta «zona grigia» di coloro che, solo apparentemente, non si schierarono
o, meglio, che non si schierarono per una delle parti in lotta ma si
schierarono, a volte in modo molto eloquente, dalla parte delle
vittime contro i loro carnefici.
Com’è noto, è difficile restare veramente equidistanti quando lo scontro si fa aspro e la situazione diventa estremamente
polarizzata. In molte situazioni, dove ciò si verificò, anche i cattolici, come tutti gli altri, furono forzati a collocarsi in uno dei
due campi, sia pure attraverso una grande varietà di mediazioni
e sfumature. Intorno al movimento molecolare suscitato dalla
speranza della pace e dalle spinte di solidarietà, si stabilirono
collegamenti tra posizioni di attesismo cattolico e forme di impegno resistenziale. Sono numericamente limitati, anche se non
insignificanti, i casi di preti che hanno scelto per la Resistenza o
sono entrati nelle bande partigiane come cappellani. Tuttavia, a
mano a mano che lo scontro diventava più aspro, la protezione
della popolazione e le forme di solidarietà esercitate da ecclesiastici hanno assunto sempre di più un’esplicita connotazione antitedesca e antifascista, perché sempre di più opporsi alla violenza inutile ha significato opporsi a chi la esercitava, e cioè ai tedeschi e ai fascisti.
Anche tra coloro che si collocarono molto lontano dalla «zona
grigia», come i condannati a morte della Resistenza, è possibile trovare speranze di pace, tensione verso il futuro, solidarietà con altri,
oltre a manifestazioni di idealismo patriottico e di militanza politica, espresse persino davanti alla fine imminente. Colpisce, rileggendo queste lettere, notare pure la presenza di riferimenti religiosi, come la richiesta e l’offerta di perdono, la speranza in un futuro più
forte della morte e l’invito ad adoperarsi per realizzare una società
più giusta e solidale. Negli ultimi anni, chi si opponeva a fascisti e
nazisti poteva pensare sempre più fondatamente di lavorare per il
futuro e di affrettare la pace, trovandosi in sintonia con altri che
sentivano l’importanza di queste prospettive. È probabile che, anche dall’altra parte, qualcuno pensasse qualcosa di analogo, ma le
circostanze rendevano sempre più problematico conciliare speran-
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ze per il futuro e desiderio di pace con l’ostinazione richiesta a chi
continuava a combattere pur conoscendo l’inevitabilità di una fine
sempre più prossima, non solo delle proprie persone ma anche della propria causa. Per questo, sulla Repubblica Sociale Italiana ha
pesato sempre di più una cappa di morte, efficacemente descritta
da Luigi Ganapini 15. Senza negare che anche tra «i ragazzi di Salò»
ci siano state forti idealità, non sembra totalmente casuale che soprattutto nelle loro file si sia pensato di cercar la «bella morte». La
vera «zona grigia», infatti, non coincide con lo spazio intermedio
tra i due schieramenti, ma fu occupata da quanti, anche tra coloro
che continuarono a battersi per motivi ideali, non avvertirono un
senso di saturazione per la morte di massa e di rigetto della violenza inutile: non avvertirono cioè che, nelle situazioni estreme, i mezzi contano più dei fini e che la violenza inquina e squalifica qualunque causa, anche la più nobile.
Le convergenze tra aspirazione alla pace e causa resistenziale
non implicano certo che la Chiesa, la maggioranza dei cattolici o
di coloro che si rivolsero all’istituzione ecclesiastica abbia compiuto una consapevole scelta politica antifascista. Ma appare artificiosa la tesi, sostenuta da qualcuno, che i cattolici abbiano occupato una posizione intermedia e centrista tra gli opposti contendenti. Quando lo scontro diventa totale una posizione di questo
genere si rivela, infatti, quasi impossibile, anche se, naturalmente,
sono possibili infinite varietà nel modo di collegarsi all’uno o all’altro campo. In particolare, mi sembra che le ragioni di chi si opponeva alla guerra finirono per convergere sempre di più con
quelle di chi si opponeva alla dittatura e al totalitarismo. Ne costituisce un’espressione anche il pronunciamento di Pio XII nel radiomessaggio del Natale 1944, in cui, per la prima volta, la Chiesa
cattolica prese posizione in modo esplicito a favore della democrazia politica. Quella che a molti è sembrata una conversione tardiva costituì il punto d’arrivo di un lungo percorso del magistero
ecclesiastico, iniziato già con le delusioni nei confronti del nazionalismo esasperato manifestate da Pio XI nella prima metà degli
anni Trenta e proseguito con i pronunciamenti di questo Papa
contro il totalitarismo, passando poi attraverso le prudenze diplomatiche di Papa Pacelli nei primi anni della guerra. Pio XII, infatti, indicò chiaramente una preferenza della Chiesa per la democrazia sulla base della constatazione che più facilmente i regimi totalitari sono all’origine della guerra 16.
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Gli esiti complessivi dei molteplici itinerari personali iniziati
l’8 settembre 1943 sono emersi chiaramente solo dopo la fine della guerra. Guardando il voto alle elezioni del 2 giugno 1946 per
l’Assemblea Costituente, all’apparenza sembrerebbe fondato ricorrere ancora una volta alla chiave interpretativa della «zona grigia». La DC risultò allora il partito di maggioranza relativa, posizione poi tenuta costantemente da questo partito fino al 1992 e alla sua scomparsa. Nelle prime elezioni del dopoguerra, dunque,
prevalsero coloro che si collocarono al centro dello schieramento
politico, molti dei quali, indubbiamente, non si erano schierati
nettamente né coi fascisti né con gli antifascisti. Si potrebbe dunque concludere che la «zona grigia» dell’opportunismo e dell’indifferenza sarebbe stata anche alle origini della Repubblica, segnandone inevitabilmente tutta la parabola successiva. Coloro
che erano vissuti in tranquillità all’ombra del regime e durante gli
ultimi anni erano rimasti fuori dalla mischia, aspettando di capire
chi avrebbe vinto, si sarebbero poi rapidamente adeguati al nuovo corso, salendo sul carro dei vincitori.
Indubbiamente, le cose andarono in parte in questo modo, come sempre accade nelle transizioni da un regime ad un altro. Ma ci
fu anche qualcosa di diverso. Molti di coloro che nel 1946 votarono per la DC non erano stati antifascisti durante il ventennio 19221943 (diverso è il caso dei fascisti repubblichini, che dopo la guerra certo non si riconobbero in questo partito): una larga quota degli elettori democristiani coincideva con quanti avevano manifestato il loro consenso al regime, per esempio in occasione della firma
dei Patti Lateranensi. Ma la classe dirigente di quel partito era
esplicitamente antifascista e gli elettori della DC sapevano di votare per leaders antifascisti. Il loro voto implicava, dunque, una qualche presa di distanza, più o meno convinta ed espressa solo a posteriori, da quanto avvenuto fino al 1943 e ancora di più da quanto accaduto tra il 1943 e il 1945. In realtà, nel poco tempo intercorso le cose erano già cambiate, e molti di coloro che erano stati
fascisti, soprattutto in modo tiepido, avevano maturato durante la
guerra quel faticoso ma reale distacco dal regime di cui si è parlato. Nel dopoguerra, infatti, la DC ereditò gran parte del consenso
raccolto dalla Chiesa negli anni della guerra e del crollo del regime
difendendo la causa della pace: nell’elettorato democristiano confluirono cioè molti di coloro che, prevalentemente cattolici ma non
solo, avevano maturato sempre più una consapevolezza del nesso
56
Agostino Giovagnoli
profondo che univa fascismo e guerra, pervenendo attraverso questa via a un giudizio critico sul regime 17. Contrariamente a quanto
sostenuto dagli storici revisionisti o dai loro divulgatori, insomma,
proprio attraverso la scelta per la pace i cattolici approdarono in
modo sempre più convinto alla causa della democrazia. Non si
può parlare, perciò, di diretta e totale continuità tra fascismo e
DC, qualcosa impedì tale continuità, se non sul piano politico
quantomeno su quello morale, e il voto democristiano fu, a suo
modo, un voto democratico anche se solo limitatamente antifascista.
Agostino Giovagnoli
NOTE
1 G.
Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano 2003.
il titolo di un capitolo di uno dei suoi libri più importanti, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986.
3 R. De Felice, Rosso e Nero, a cura di P. Chessa, Baldini e Castoldi, Milano 1995,
p. 56.
4 Ibid., p. 59.
5
R. De Felice, Prefazione a E. Aga Rossi, L’inganno reciproco. L’armistizio fra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Ministero per i beni culturali e ambientali,
Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1993, p. XIV. Sulla stessa linea di Renzo De
Felice, Ernesto Galli della Loggia ha insistito sulla tesi che l’8 settembre 1943 avrebbe
segnato la «morte della patria» dopo la quale gli italiani non sarebbero più tornati ad
avere un vero senso della nazione, sia a causa della «guerra civile» tra il 1943 e il 1945
sia perché le sorti del paese furono concretamente decise dagli Alleati. Né l’8 settembre
1943 né dopo, gli italiani avrebbero preso in mano il loro destino, compiendo scelte decisive su cui rifondare la compattezza della comunità nazionale e intorno a cui ridefinire l’identità italiana. Anche Galli della Loggia ha aderito, in questo modo, alla tesi della
continuità tra fascismo e post-fascismo nella versione defeliciana (E. Galli della Loggia,
La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996).
6 R. De Felice, Mussolini l’alleato, vol. II, Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, pp. 770-771.
7
R. De Felice, Rosso e Nero, cit., p. 61. Non tutti ovviamente condividono questo
giudizio. Pietro Scoppola ha parlato dell’8 settembre 1943 come del «punto più basso
della parabola» italiana, ma per lui si è trattato contemporaneamente anche del «punto
di avvio di una ripresa del sentimento nazionale in un rinnovato rapporto con la libertà»
(P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, p. 39). E, malgrado i suoi limiti, la liberazione del 25 aprile 1945 ha rappresentato un riferimento forte nella storia
del popolo italiano. Scoppola, inoltre, pur riconoscendo il problema costituito in Italia
dalla debolezza del tessuto etico, ha sottolineato l’importanza della Costituzione come
riferimento unitario in cui si è radicato il tessuto etico-politico repubblicano (P. Scoppola, Tessuto etico, forze politiche, istituzioni, in A. Giovagnoli, a cura di, Interpretazioni
della Repubblica, Il Mulino, Bologna 1998, p. 17 e ss.).
2È
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8
57
R. De Felice, Rosso e Nero, cit., p. 31 e ss.
E. Gentile, La nazione del fascismo. Alle origini del declino dello Stato nazionale,
in G. Spadolini (a cura di), Nazione e nazionalità in Italia, Laterza, Roma-Bari 1994, pp.
108-119.
10
C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
11 L’alto numero di renitenti alla leva a Roma si spiegherebbe «un po’ per la sua
configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi e di edifici dove i renitenti potevano nascondersi» (R. De Felice, Rosso e Nero, cit., p. 60).
12 F. Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948, Einaudi, Torino 1961, pp. 125127.
13 A. Riccardi, Roma “città sacra”? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Vita e
Pensiero, Milano 1979, p. 221 e ss.
14 L’opera è costituita da sette volumi: i primi sei raccolgono gli Atti dei Convegni
interregionali (Salerno, Perugia, L’Aquila, Torino, Vicenza) e del Convegno nazionale di
Roma. Il settimo raccoglie sessanta interviste di esponenti del mondo cattolico che hanno partecipato alla Resistenza. I volumi sono ricordati nella nota 34 del contributo di
Ernesto Preziosi che figura in queste pagine (p. 37).
15 L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere, Garzanti, Milano 1999, p. 453 e ss.
16 Cfr. Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Vita e Pensiero [poi Tip. poliglotta vaticana], Milano-Città del Vaticano 1939-1952.
17 A. Giovagnoli, Fra totalitarismo e internazionalismo. Cattolici e nazione prima e
dopo la seconda guerra mondiale, in Italia contemporanea (settembre 1999), 216, pp. 429444.
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