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Recenti trasformazioni dei processi di transizione all`età adulta in

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Recenti trasformazioni dei processi di transizione all`età adulta in
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Monica Santoro
1. Introduzione
Negli ultimi decenni la sociologia ha mostrato un vivo interesse per lo studio dei processi di
transizione all’età adulta, le cui repentine trasformazioni hanno imposto una revisione del
significato simbolico attribuito alla giovinezza. Le trasformazioni istituzionali e sociali che si sono
verificate negli ultimi vent’anni hanno modificato profondamente il periodo giovanile
trasformandolo da condizione “a termine” a condizione dalla durata incerta. La crisi del mercato del
lavoro, l’allungamento dei percorsi scolastici, l’indebolimento delle politiche di welfare, la
posticipazione dell’evento nuziale rappresentano una concatenazione di fattori che ha messo in crisi
la certezza del percorso verso la condizione adulta. La giovinezza non è più una fase preparatoria
all’assunzione di compiti adulti e all’acquisizione delle competenze necessarie per occupare un
ruolo sociale definitivo, ma una condizione “di attesa di un esito imprevedibile” (Cavalli, 1980:
524). L’incertezza incide sulla strutturazione temporale del progetto di vita, determinando il rinvio
delle scelte definitive e l’assunzione di ruoli adulti. Come conseguenza, il percorso verso
l’acquisizione di ruoli adulti, scandito tradizionalmente da tappe socialmente prevedibili (fine degli
studi, accesso al mercato del lavoro, abbandono della casa dei genitori, formazione di una propria
famiglia) è stato affiancato da modelli di transizione all’età adulta poco lineari, caratterizzati dal
differimento di alcune fasi (ad esempio, il posponimento del matrimonio e della genitorialità) o
della loro estensione temporale (prolungati cicli formativi, tardivo accesso al mercato del lavoro).
Nella letteratura sociologica il dibattito sulle trasformazioni della transizione all’età adulta si è
contraddistinto dall’emergere di due posizioni. La prima attribuisce principalmente ai fattori
strutturali le maggiori difficoltà incontrate dai giovani a raggiungere la condizione adulta. In
particolare, la dilatazione dei tempi di accesso al mercato del lavoro e la riorganizzazione delle
politiche sociali avviata a partire dagli anni Ottanta in alcuni paesi europei (ad esempio il Regno
Unito) avrebbero il duplice effetto di posticipare l’attraversamento delle altre fasi della transizione e
di allungare il periodo di dipendenza economica dalla famiglia d’origine (Banks et al., 1992;
Roberts, 1995; Schizzerotto, 2002).
La seconda posizione valuta l’effetto delle trasformazioni strutturali non solo in termini di
allungamento della durata della transizione, ma anche in relazione alle modificazioni avvenute nello
stesso modello di transizione (Buzzi et al., 2002; Heath e Miret, 1996; Furlong e Cartmel, 1997). Il
percorso verso l’età adulta sarebbe sempre più individualizzato e, così come sostenuto da Cavalli e
Galland (1996), accanto al tradizionale modello di transizione in cui le diverse fasi si succedono
secondo un ordine prestabilito (fine degli studi, accesso al mondo del lavoro, abbandono della
famiglia d’origine, matrimonio, maternità/paternità) si vanno progressivamente affermando una
serie di situazioni intermedie socialmente ambigue e di frontiera tra ruoli adulti e ruoli
adolescenziali che possono protrarsi anche per molti anni.
Su un piano strettamente empirico, inizialmente le ricerche in quest’ambito hanno tentato di
valutare gli effetti delle trasformazioni strutturali sui modelli di transizione, tralasciando altre
variabili potenzialmente significative per la comprensione del fenomeno della giovinezza
prolungata. Recentemente, alcuni contributi hanno riconosciuto l’importanza di un approccio che
consideri anche la dimensione relazionale tra le generazioni e i legami familiari (Maunaye e
Molgat, 2003; Santoro, 2002; Sgritta, 2002). Il sostegno economico, pratico e affettivo della
famiglia d’origine rappresenta una risorsa essenziale per facilitare il processo di transizione all’età
adulta. In tutti i paesi dell’Ue, ad esempio, il raggiungimento dell’autonomia abitativa è diventato
problematico in seguito al vertiginoso aumento del costo delle abitazioni e degli affitti. L’aiuto
economico della famiglia d’origine risulta in questi casi rilevante per consentire la conquista di tale
forma di indipendenza. A causa poi delle mutate condizioni strutturali i giovani sono più esposti a
dover sperimentare periodi di disoccupazione, di precarietà lavorativa o di prolungata formazione e
per questo maggiormente bisognosi di sostegno emotivo da parte delle persone significative.
Riguardo questo aspetto va precisato che le prime ricerche italiane su questo tema hanno subito
posto l’accento sulle relazioni familiari e sui rapporti tra le generazioni, mettendo in evidenza come
il sostegno della famiglia d’origine costituisca una risorsa irrinunciabile per i giovani italiani
(Scabini e Donati, 1988). Il contesto italiano infatti sarebbe caratterizzato da un’accentuata
disuguaglianza generazionale che penalizza le giovani generazioni a vantaggio di quelle adulte. Ad
esempio, a partire dalla fine degli anni Novanta con la graduale applicazione delle norme a favore
dell’occupazione il mercato del lavoro si è sempre di più orientato verso una maggiore flessibilità. I
due principali strumenti utilizzati per aumentare la flessibilità in entrata sono stati il lavoro
temporaneo e quello a tempo parziale. Grazie all’adozione di tali forme contrattuali, il tasso di
disoccupazione è progressivamente sceso e i livelli di occupazione, specie quelli giovanili, hanno
registrato costanti incrementi nel corso degli ultimi anni. I recenti provvedimenti a favore di una
maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, quindi, non hanno portato al ricorso al licenziamento,
ma alla maggiore offerta ai giovani di lavori atipici o non definitivi1, caratterizzati oltre tutto da
basse remunerazioni. In questo senso, i giovani negli ultimi anni hanno visto indebolire
progressivamente la loro posizione sul mercato del lavoro, a fronte, invece, del mantenimento di
una posizione più stabile e sicura da parte delle generazioni più adulte.
La necessità di un approccio multidirezionale allo studio della transizione all’età adulta nasce
anche da un dato che accomuna tutti i paesi occidentali a partire dagli anni Ottanta: il progressivo
aumento della percentuale di giovani che rinviano l’abbandono della casa dei genitori. L’incidenza
di questo fenomeno varia notevolmente tra i paesi europei, tanto che le ricerche comparate su
questo tema (Cavalli e Galland, 1996; Cherlin et al., 1997, Heath e Miret, 1996; Holdsworth, 2000)
contrappongono il modello nordico a quello mediterraneo. La differenza tra i due modelli
consisterebbe nella maggiore estensione temporale della permanenza in famiglia dei giovani
residenti nei paesi dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) rispetto ai giovani
che vivono nelle nazioni dell’area europea Centro-Settentrionale (paesi Scandinavi, Francia,
Germania e Regno Unito).
Nelle pagine seguenti cercheremo di mettere a fuoco le trasformazioni più significative che
hanno interessato i processi di transizione all’età adulta nei diversi contesti europei, analizzando sia
i percorsi intrapresi da giovani che stanno per terminare (o che hanno concluso di recente) il
percorso scolastico (o universitario) e formativo e che si avviano ad entrare nel mondo del lavoro
sia le forme di sostegno sulle quali i giovani possono fare affidamento durante questa fase della
transizione. Per delineare un quadro completo dei diversi modelli di transizione all’età adulta
considereremo sia gli aspetti strutturali (ad esempio, l’organizzazione dei sistemi scolastici, le
condizioni del mercato del lavoro, le politiche sociali a favore delle famiglie e dei giovani) sia gli
aspetti più strettamente individuali connessi alle scelte attuate dai giovani durante le diverse fasi
della transizione (ad esempio, le strategie abitative adottate e/o le decisioni familiari intraprese).
L’analisi delle diverse esperienze di transizione dei giovani europei si basa sui risultati di una
ricerca qualitativa condotta lo scorso anno in otto paesi europei che ha utilizzato lo strumento
dell’intervista in profondità2. Più precisamente in ogni paese sono stati intervistati circa quaranta
1
La denominazione di lavoro atipico comprende una svariata gamma di forme contrattuali di lavoro dipendente:
contratti a tempo parziale e determinato (ad esempio, i contratti stagionali o di sostituzione di lavoratori
temporaneamente assenti, il lavoro interinale) e i contratti di collaborazione.
2
La ricerca “Families and Transitions in Europe”, finanziata dalla Commissione Europea nell’ambito del Quinto
Programma Quadro, coinvolge otto paesi europei: Regno Unito, Italia, Spagna, Portogallo, Bulgaria, Germania, Paesi
Bassi, Danimarca. Il progetto di ricerca contempla l’utilizzo di metodi quantitativi e qualitativi. Perciò in una prima fase
in ciascun paese è stato somministrato un questionario strutturato a un campione di giovani che frequentavano l’ultimo
anno delle scuole superiori e di università e che si apprestavano quindi ad entrare nel mondo del lavoro. Nella seconda
fase, a distanza di circa un anno, sono stati ricontattati alcuni dei giovani (circa quaranta) che avevano compilato il
questionario l’anno precedente per sottoporli ad un’intervista in profondità. Per valutare meglio le differenze
generazionali e mettere a confronto diversi modelli di transizione all’età adulta, che si sono affermati nel corso degli
anni, sono stati intervistati anche i genitori L’obiettivo in questa seconda fase della ricerca era verificare da una parte i
giovani con l’obiettivo di esplorare i processi attraverso i quali i giovani giungono ad elaborare le
più rilevanti decisioni biografiche in vista dell’assunzione dei ruoli adulti, in particolare durante la
fase di passaggio dalla conclusione del ciclo scolastico all’ingresso nel mercato del lavoro. Inoltre,
si è cercato di indagare sul ruolo svolto dai diversi tipi di risorse (ad esempio, il livello economico e
culturale della famiglia d’origine, la possibilità di disporre di benefici sociali, il titolo di studio
conseguito ecc.) per agevolare il processo verso l’acquisizione dei ruoli adulti.
2 Modelli di Welfare in Europa
Ai fini della nostra analisi tra gli otto paesi che hanno svolto la ricerca ne abbiamo selezionato
tre, ciascuno rappresentativo di un differente modello di welfare. E’ noto infatti che la natura del
sistema di welfare può influenzare le modalità di transizione all’età adulta. Di fatto, il passaggio
allo status adulto si presenta particolarmente difficile nelle nazioni in cui gli interventi pubblici a
favore delle giovani generazioni sono molto limitati o del tutto assenti; mentre, all’opposto,
l’attraversamento di alcune fasi della transizione (ad esempio, la conquista dell’autonomia abitativa)
risulta più agevole in quei paesi in cui i giovani possono contare sul sostegno statale.
I paesi che ci sembrano consentire meglio il raffronto tra diversi sistemi di welfare e modelli di
transizione all’età adulta sono l’Italia, la Germania e la Danimarca. L’analisi comparata delle
politiche familiari a livello europeo individua tre distinti modelli o “famiglie di nazioni” in base al
maggiore o minore rilievo attribuito agli obblighi e alle responsabilità familiari per l’assistenza ai
membri della famiglia e alla maggiore o minore forza del cosiddetto male breadwinner regime,
sistema che si fonda sull’attribuzione del lavoro di cura non retribuito alle donne e sulla loro
dipendenza economica e sociale dal maschio adulto lavoratore (Esping-Andersen, 1995; Sgritta,
1997; Zanatta, 1998). Nel primo gruppo rientrano i paesi scandinavi (Danimarca, Finlandia,
Norvegia e Svezia), nel secondo i paesi dell’Europa continentale (Austria, Paesi Bassi, Belgio,
Francia, Germania, Lussemburgo) insieme ad Irlanda e Regno Unito e nel terzo i paesi dell’area
meridionale (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia).
La caratteristica del welfare dei paesi scandinavi è di basarsi su una logica individualista volta a
garantire i diritti del singolo mediante provvedimenti di tipo universalistico. Di conseguenza le
politiche familiari sono rivolte all’individuo più che alla famiglia nel suo complesso e gli obblighi
tra i componenti sono molto limitati. Per quanto riguarda i rapporti tra i generi questi paesi si
rifanno ad un modello debole di male breadwinner.
percorsi lavorativi e/o formativi intrapresi dai giovani a circa un anno dal conseguimento del diploma o della laurea e
dall’altra indagare sul ruolo giocato dalla famiglia d’origine nel processo di transizione. Nelle pagine seguenti
cercheremo di mettere a fuoco le differenze tra le esperienze di transizione vissute dai giovani di diversi paesi e per
questo ci concentreremo solo sulle interviste ai figli escludendo dall’analisi le interviste ai genitori.
I paesi del secondo gruppo invece, pur avendo diversi sistemi di welfare3, attribuiscono alla
famiglia nucleare gli obblighi di mantenimento nei confronti dei membri dipendenti, i
provvedimenti di ordine economici e fiscali sono destinati alla famiglia e i servizi garantiti vengono
intesi come integrativi delle cure familiari. Il sistema si ispira ad un modello forte di male
breadwinner.
A differenza dei due modelli precedenti i paesi dell’Europa meridionale sono accomunati dal
limitato intervento dello stato nel campo delle politiche sociali. Di conseguenza, gli obblighi
familiari coinvolgono non solo i componenti della famiglia nucleare ma la parentela più ampia. Le
politiche a favore dell’infanzia e della gioventù sono scarse o del tutto assenti. Di fatto, i servizi
all’infanzia sono carenti e i giovani vengono considerati economicamente dipendenti dalla famiglia
oltre la maggiore età. Come il modello precedente anche questo rientra in uno strong male
breadwinner regime. Le specificità di tale modello sono spesso chiamate in causa per motivare
tendenze demografiche e sociali che caratterizzano tali paesi. Ci riferiamo in particolar modo alla
minore partecipazione delle donne – specie di quelle coniugate – al mercato del lavoro e alla ridotta
natalità i cui tassi in Italia e Spagna toccano livelli bassissimi (1,2 figli per donna).
I diversi sistemi di welfare nei tre paesi considerati generano diversi livelli di contribuzione a
favore dei giovani impegnati a portare a termine il processo di transizione all’età adulta. Nelle
pagine seguenti, prima di esporre i risultati della ricerca, esporremo brevemente le misure di politica
sociale che Danimarca e Germania adottano a favore dell’istruzione e dell’occupazione giovanile,
provvedimenti assenti in Italia.
3. I provvedimenti a favore dei giovani in Germania
3.1. La formazione professionale e le misure a favore dei giovani disoccupati
In Germania la formazione professionale svolge un importante ruolo nel processo verso
l’acquisizione dello status adulto. Infatti, poiché solo i giovani che hanno conseguito l’Abitur
possono accedere agli studi universitari, circa due terzi degli studenti che termina la scuola
superiore continua la formazione con il sistema di apprendistato duale. Tale sistema combina per un
periodo di tre anni e mezzo l’attività di apprendistato presso un’azienda con la formazione
scolastica ad indirizzo professionale. Il contratto di apprendistato stipulato tra il giovane e l’azienda
garantisce l’accesso al sistema previdenziale e sanitario. Prevede inoltre una retribuzione mensile
che varia a seconda del tipo di lavoro svolto e dell’anno di frequenza.
3
Per le differenze tra questi paesi riguardo alle politiche familiari si rimanda a Zanatta (1998).
A partire dalla fine degli anni Ottanta il sistema duale è entrato in crisi e l’offerta di formazione
da parte delle imprese ha subito un progressivo calo. Innanzi tutto perché l’organizzazione
formativa duale rispondeva molto bene alle richieste del settore manifatturiero e di quello
artigianale e molto poco a quello dei servizi. Inoltre, la nuova politica economica inaugurata in
seguito alla riunificazione della Germania ha limitato l’espansione di quelle aziende che
richiedevano un numero maggiore di apprendisti. Come conseguenza, il sistema duale di
formazione professionale istituito con l’intento di facilitare il raggiungimento dell’indipendenza da
parte dei giovani, sembrò d’un tratto rendere più difficoltoso e prolungato il processo verso
l’acquisizione dello status adulto. In breve tempo il ricorso a tale sistema è diventato uno strumento
per limitare i periodi di inoccupazione dei giovani con un livello d’istruzione basso piuttosto che
per garantire loro un accesso stabile al mercato del lavoro. A riprova di ciò, si calcola che una
percentuale tra il 5 e il 10% dei giovani che hanno iniziato l’apprendistato al suo termine ne
iniziano un altro (Witzel et al., 1996).
A partire dagli anni Novanta la disoccupazione giovanile ha registrato un notevole incremento
con rilevanti differenze percentuali tra Germania Ovest e Germania Est. Nel 2000 il tasso di
disoccupazione dei giovani di età inferiore ai 25 anni si attestava a livello nazionale al 9,5%, mentre
toccava il 17% nella Germania Est contro l’8% della parte Ovest.
Per fronteggiare l’emergenza disoccupazione i governi tedeschi hanno cercato di improntare dei
programmi a favore dell’occupazione giovanile. Innanzi tutto le misure contemplate da tali
programmi erano volte a incentivare il più possibile la formazione con l’intento di evitare ai giovani
periodi di disoccupazione. A questo scopo i giovani disoccupati che non sono inseriti in nessun
programma di apprendistato o i giovani che non sono riusciti a conseguire alcun diploma4 vengono
indirizzati a frequentare un anno di corso preparatorio alla formazione professionale. Tale misura ha
l’obiettivo di fornire una maggiore professionalità sia per i giovani che hanno una bassa qualifica
sia per quelli che non sono riusciti ad essere assunti come apprendisti. Tali programmi tentano
anche di aumentare i posti di lavoro destinati all’apprendistato cercando un’intesa tra governi,
industrie e sindacati. Nella Germania dell’Est tali accordi prevedono anche ingenti finanziamenti
statali a favore dell’apprendistato. Nel 1999, ad esempio, il 50% dell’attività di apprendistato è stata
sostenuta da sussidi statali, mentre nel 2000 la percentuale è scesa al 41%.
Nel 1998 poi è stato avviato un programma, chiamato “JUMP – 100.000 posti per i giovani”
che fissava ogni anno la cifra di un miliardo di Euro per incentivare l’occupazione giovanile. Gli
elementi innovativi che tale programma ha introdotto riguardano l’erogazione di sussidi ai datori di
lavoro che assumono giovani. Il successo iniziale di questo programma, che tra il 1999 e il 2000 ha
4
Per questi ultimi tale provvedimento è obbligatorio.
visto la partecipazione di 300.000 giovani, si è rivelato nel lungo periodo ingannevole. Infatti i dati
relativi allo stesso periodo evidenziano che a sei mesi dalla sua conclusione solo il 40% dei giovani
che vi hanno preso parte è impiegato o apprendista.
Oltre ai provvedimenti governativi, numerose iniziative a favore dell’occupazione giovanile si
devono all’attività di associazioni di volontariato che operano a livello locale insieme alle chiese e
ai sindacati. Tali provvedimenti sono rivolti soprattutto a giovani particolarmente svantaggiati sul
piano culturale e sociale (ad esempio giovani immigrati che hanno difficoltà con la lingua tedesca e
nessuna qualifica professionale o giovani che hanno abbandonato la scuola) che di solito vengono
indirizzati allo svolgimento di occupazioni manuali. Nonostante tali schemi siano considerati
scarsamente qualificanti e spesso stigmatizzanti per coloro che vogliono migliorare la propria
posizione occupazionale, l’incremento della disoccupazione giovanile ha provocato un aumento dei
giovani che accettano di prendervi parte. Ad esempio, si calcola che nel 2000 430.000 giovani che
non avevano ancora compiuto i venticinque anni sono stati coinvolti in tali programmi.
3.2 I sostegni alle famiglie
In Germania i provvedimenti statali a favore della famiglia e dei giovani sono di cinque tipi e si
distinguono a seconda dei loro destinatari. Il primo tipo di sussidio, il Kidergeld, riguarda l’aiuto
economico erogato alle famiglie con figli, indipendentemente dal livello di reddito. Per ogni figlio
le famiglie ricevono mensilmente 154 , cifra che raggiunge 179
a partire dal quarto figlio. Tale
sussidio viene erogato fino alla maggiore età del figlio; fino ai 21 anni invece se questi è
disoccupato e fino ai 27 se è studente o apprendista. I genitori poi accedono ad altre forme di
sostegno attraverso sgravi fiscali per il mantenimento dei figli fino ai 27 anni.
Il secondo tipo di sussidio (Bundeserziehungsgeld) riguarda le giovani coppie con figli piccoli
che hanno un carico di lavoro extradomestico inferiore alle trenta ore settimanali. Esse hanno diritto
per due anni a percepire mensilmente 307
(in alternativa 460
mensili per un anno).
Un altro genere di provvedimenti consiste in speciali sgravi fiscali per le giovani coppie con o
senza figli. Nello specifico, i redditi percepiti dai coniugi non sono tassati individualmente, ma
congiuntamente, cioè vengono sommati e divisi a metà con il vantaggio per ambedue le parti di
avere una riduzione sull’importo delle tasse da pagare.
Sono previsti anche particolari aiuti per i giovani studenti che vivono in famiglia. Si tratta di un
sussidio sotto forma di borsa di studio (Bafög) erogato fino al compimento dei 30 anni. Il suo
importo dipende dal tipo di scuola o di formazione intrapresa dal giovane e dal reddito familiare.
Ad esempio, gli studenti universitari possono mantenersi agli studi in parte con tale sussidio e in
parte con prestiti bancari senza tassi d’interesse da restituire quando si comincerà a percepire un
reddito proprio. L’impossibilità di pianificare il futuro lavorativo con un certo margine di certezza
fa sì che i giovani ricorrano poco a questo tipo di finanziamento. Inoltre, gli studenti che non vivono
con i genitori ricevono un sussidio più elevato che può raggiungere 565
mensili. Sono previsti
forme di aiuti finanziari anche per i giovani apprendisti che frequentano il corso preparatorio di
formazione professionale e che non vivono in famiglia. Poiché durante il periodo di apprendistato,
come già specificato, i giovani percepiscono regolarmente uno stipendio, tali aiuti hanno carattere
straordinario e sono perciò limitati a condizioni di particolare necessità.
L’ultimo tipo di sussidio riguarda l’assistenza alle famiglie povere o private dell’indennità di
disoccupazione che spetta a tutti i disoccupati per un periodo variabile a seconda del tipo di lavoro
svolto prima del licenziamento. Queste famiglie hanno diritto ad aiuti economici che garantiscano
loro sia un livello minimo di sussistenza materiale sia l’assistenza medica in caso di malattia, di
invalidità o di gravidanza. L’importo di queste forme di sussidio è variabile e dipende dalle autorità
locali. In genere si aggira intorno ai 286
mensili per il capofamiglia e a importi più ridotti per la
moglie e per gli altri componenti familiari che non abbiano superato i 27 anni, età in cui i figli non
vengono più considerati a carico della famiglia. Infine le famiglie a basso reddito hanno diritto a
particolari benefici sull’abitazione, tra cui quello di poter ottenere una casa popolare.
3.3. Il prolungamento della transizione all’età adulta
Secondo alcune ricerche a partire dagli anni Novanta il processo verso l’autonomia abitativa ed
economica dei giovani tedeschi ha subito un sensibile rallentamento. Indicatori di questa tendenza
sono il prolungamento della fase di dipendenza economica dalla famiglia d’origine e la maggiore
propensione al rinvio dell’abbandono della casa dei genitori. All’aumentare dell’età dei giovani il
sostegno economico della famiglia tende a diminuire, ma resta comunque importante fonte di
sostentamento fino ai 21 anni. Ad esempio, l’80% dei giovani diciottenni dipende economicamente
dai genitori, mentre solo il 30% dei giovani di 29 anni fa affidamento sul sostegno della famiglia
(Buba et al., 2002).
La maggiore difficoltà a raggiungere l’autonomia economica e abitativa viene attribuita, oltre
che alle trasformazioni del mercato del lavoro, alla mancanza di adeguate politiche abitative per i
giovani e ai costi troppo elevati delle abitazioni. Infatti, ad eccezione degli studenti universitari che
hanno diritto a stabilirsi nelle residenze universitarie, i giovani che hanno un reddito mensile di
circa 400
(ad esempio, apprendisti, studenti o disoccupati) non possono permettersi l’onere
dell’affitto di un appartamento. A parte le giovani donne sole con figli, poi, non è prevista alcuna
forma di agevolazione per ottenere una casa popolare.
Secondo una stima su dati censuari,nel 1996 il 64% dei giovani tra i 18 ed i 25 anni viveva nella
famiglia d’origine, il 12% da solo, l’8% conviveva con il o la partner e il 13% era sposato (Bäker et
al., 2000: 163). In realtà i dati di censimento trascurano il fenomeno della coabitazione con
coetanei, condizione abitativa diffusissima tra i giovani tedeschi, specie tra le ragazze. Stime recenti
calcolano infatti che circa il 20-23% contro il 10% circa dei ragazzi delle giovani donne divide un
appartamento con amici (Corneließen, 2001: 94).
In realtà, sembra che le trasformazioni strutturali non siano responsabili solo della dilatazione
dei tempi di permanenza nella famiglia d’origine, ma abbiano anche modificato significativamente
le strategie abitative dei giovani tedeschi (Buba et al., 2002). Ad esempio, una ricerca longitudinale
condotta tra il 1991 e il 1996 ha evidenziato ben tredici tipi differenti di condizioni abitative
sperimentate dai giovani con notevoli differenze di genere. In breve quelle più comuni tra i giovani
sono: l’abitare nella famiglia d’origine specie nel periodo dello studio e dell’apprendistato
(condizione diffusa tra i ragazzi); vivere nella propria abitazione con il o la partner (condizione
diffusa tra le ragazze); vivere con i genitori e con il proprio o la propria partner (usuale tra ragazzi);
abitare da soli (più comune tra i ragazzi), con amici o da soli con figli (ambedue condizioni diffuse
tra le giovani donne).
Le diverse strategie abitative presuppongono diverse forme e livelli di dipendenza dalla
famiglia sintetizzabili in tre orientamenti emersi negli anni che la ricerca considera: la precoce
formazione di una vita di coppia, il rafforzamento dei legami familiari e una maggiore permanenza
in famiglia per l’estensione della durata dell’apprendistato e del sistema scolastico e infine
l’emergere di una pluralità di strategie abitative alternative a quelle tradizionali. Un effetto non
trascurabile dei cambiamenti registrati è l’affermarsi di comportamenti abitativi instabili, come
quelli tipici della cosiddetta boomerang generation. Per alcuni giovani l’allontanamento dalla casa
dei genitori non è una scelta definitiva. Quando si presentano condizioni di difficoltà economica
ritornano a vivere in famiglia per abbandonarla successivamente appena ne hanno l’opportunità.
Nel corso degli anni presi in esame dalla ricerca il 30% dei giovani avevano conquistato
l’autonomia abitativa, il 10% avevano abbandonato più volte la famiglia d’origine per poi ritornarci,
mentre il 60% viveva stabilmente con i genitori.
La trasformazione dei comportamenti abitativi non è l’unico effetto delle recenti trasformazioni
strutturali. La condizione economica giovanile sembra peggiorata nel suo complesso. In particolare,
negli ultimi anni è aumentato il rischio di povertà tra i giovani di età inferiore ai 25 anni.
4. I provvedimenti a favore dei giovani in Danimarca
4.1. La formazione professionale e le misure a favore dei giovani disoccupati
Nel 1997 il governo danese ha varato un programma con lo specifico intento di migliorare la
condizione delle giovani generazioni. I principali obiettivi di questo programma erano il
raggiungimento della piena occupazione, il miglioramento del livello d’istruzione e delle condizioni
abitative dei giovani danesi. Secondo le stime ufficiali l’83% dei giovani danesi completava la
scuola dell’obbligo e il 43% conseguiva un titolo di studio superiore (laurea o formazione
superiore). Il traguardo che le iniziative politiche volevano raggiungere era innalzare tali percenutali
rispettivamente al 95% e al 50% (Danish Ministry of Education, 2000).
Tale obiettivo poteva essere raggiunto puntando su uno dei punti di eccellenza che consentono
al sistema scolastico danese di essere considerato il migliore in Europa, cioè l’organizzazione di
percorsi scolastici individualizzati volti a garantire la piena espressione delle capacità individuali.
Per quanto riguarda l’obiettivo della piena occupazione sono stati organizzati per i giovani
disoccupati specifici programmi di formazione professionale della durata di diciotto mesi. L’intento
di questa iniziativa è di contenere il fenomeno della disoccupazione giovanile investendo
maggiormente nell’istruzione delle giovani generazioni. La partecipazione ai corsi di formazione è
obbligatoria per i giovani disoccupati da più di sei mesi che non hanno ancora compiuto i 25 anni.
Fino a quest’età di fatto la disoccupazione in Danimarca è praticamente assente: solo il 3% dei
giovani tra i 16 ed i 24 anni risulta disoccupato, senza significative differenze tra i generi. Il
compenso percepito dai giovani inseriti in questi programmi formativi è incoraggiante. Infatti
consiste in una somma inferiore al sussidio di disoccupazione, ma pari al doppio della cifra erogata
agli studenti.
Per quanto riguarda il sistema scolastico, l’istruzione in Danimarca non è gratuita, ma viene
garantita attraverso sussidi statali sotto forme di borse di studio di uguale ammontare per tutti gli
studenti fino a 18 anni e di entità differente in base al reddito familiare e alla durata dell’indirizzo di
studio prescelto superata la maggiore età. Oltre a questi finanziamenti lo stato può erogare prestiti
rimborsabili nel lungo periodo.
Gli studenti che abitano con i genitori ricevono dei sussidi di importo inferiore (nel 2001
ammontavano a 274
mensili) a quelli erogati ai giovani che non vivono in famiglia (552
mensili
nel 2001). Gli studenti con figli beneficiano di ulteriori finanziamenti.
Oltre alle sovvenzioni statali concesse agli studenti è previsto anche un sussidio di
disoccupazione, erogato attraverso un sistema di assicurazione sindacale. Per poterne beneficiare
quindi bisogna essere iscritti al sindacato. Negli ultimi dieci anni tuttavia la percentuale di giovani
che aderiscono alle associazioni sindacali è diminuita del 30%, con molta probabilità a causa
dell’accesso più tardivo nel mondo del lavoro. L’alternativa al sussidio sindacale è quello sociale il
cui ammontare dipende dall’età e dalla condizione abitativa di chi ne fa richiesta5.
4.2. I sostegni alle famiglie
Le famiglie con figli minorenni (compiuti i 18 anni i figli non sono più a carico dei genitori)
ricevono un assegno familiare annuale la cui entità è stabilita in base al reddito familiare
complessivo e all’età del figlio. Ad esempio fino al compimento dei due anni è pari a 1.614 ,
mentre per i figli tra i 7 ed i 17 anni ammonta a 1.156
. Sono previsti ulteriori forme di
finanziamento per le famiglie monoparentali.
4.3. Il prolungamento della transizione all’età adulta in Danimarca
Nonostante i benefici statali di cui godono i giovani danesi, a partire dalla fine degli anni
Ottanta la durata della fase di dipendenza dalla famiglia d’origine è progressivamente aumentata.
Più precisamente i giovani danesi tendono a lasciare la casa dei genitori, ad iniziare la convivenza
con il/la partner e a diventare padri/madri più tardi rispetto al passato. Si calcola, ad esempio, che il
22% dei giovani tra i 16 ed i 30 anni vive con i genitori. Sono soprattutto i giovani maschi a
ritardare la conquista dell’autonomia abitativa, mentre le giovani donne tendono a lasciare la casa
dei genitori più precocemente per iniziare una vita di coppia.
Il prolungamento della permanenza in famiglia viene attribuito a svariati fattori. In particolare
alla maggiore durata dei cicli scolastici e formativi, alla mancanza di abitazioni per i giovani, al
miglioramento della qualità delle relazioni familiari in seguito alla riduzione dei conflitti
intergenerazionale e infine alle migliori condizioni abitative delle generazioni più adulte. Più
precisamente i giovani starebbero meglio in famiglia rispetto ad una volta anche perché le abitazioni
sono più spaziose e di conseguenza possono godere di maggiori spazi di autonomia al loro interno.
La situazione del mercato immobiliare specie nei centri urbani aggrava il ritardo
dell’abbandono della casa dei genitori. Basti pensare che nel giro di un ventennio i prezzi delle
abitazioni hanno subito un aumento pari al 250%. Per i giovani quindi è diventato sempre più
complicato trovare una casa ad un costo accessibile.
5
Il sussidio sociale ammonta a circa 1377 per coloro che hanno superato i 25 anni e hanno figli a carico, 1036 per
chi invece non ha figli. Per i giovani al di sotto dei 25 anni la variabile discriminante per l’ammontare del sussidio è la
condizione abitativa. Se vivono con i genitori percepiscono mensilmente 322 , se da soli 667 .
Nell’ambito del piano per il miglioramento del livello d’istruzione della popolazione giovanile,
il governo si è posto anche l’obiettivo di dare una sistemazione ai giovani che proseguivano gli
studi. Solo una minima percentuale, pari al 3% dei giovani tra i 15 ed i 29 anni, vive nelle residenze
universitarie o in appartamenti per studenti. Nella maggioranza dei casi, i giovani riescono a
disporre di un’abitazione grazie all’aiuto dei genitori. Per coloro che non possono contare su tale
sostegno la condizione abitativa rimane problematica.
5. La ricerca in Danimarca, Germania e Italia
5.1. I giovani intervistati
Il gruppo di giovani intervistati in Germania comprende trentasette giovani (diciotto ragazzi e
diciannove ragazze) di età compresa tra i 16 ed i 37 anni. Gli intervistati risiedono a Tubingen e
Reutlingen, due città industriali di dimensioni medio-piccole6 situate in un’area dell’ex Germania
dell’Ovest che detiene una percentuale di disoccupazione (5%) minore rispetto a quella rilevata a
livello nazionale (9%). Circa la metà dei giovani intervistati lavora (per la precisione diciannove),
nove continuano la formazione a livello universitario (dottorato) o a livello professionale, quattro
giovani hanno appena terminato gli studi e sono in cerca di lavoro, mentre sei giovani risultano
essere disoccupati al momento dell’intervista.
In Danimarca sono stati intervistati quarantadue giovani (ventitre ragazzi e diciannove ragazze)
di età compresa tra i 18 ed i 30 anni, tutti residenti a Copenhagen o nei suoi dintorni. Anche in
questo caso la maggioranza (diciassette intervistati) lavora, una buona parte studia (quindici
giovani), nove risultano disoccupati, mentre una giovane donna è in congedo di maternità.
Il gruppo di giovani italiani è formato da quaranta intervistati (diciannove ragazzi e ventuno
ragazze) tra i 19 ed i 38 anni, residenti a Milano e nel suo hinterland. Esiguo è il numero di coloro
che lavorano (precisamente dieci giovani), mentre la maggioranza studia all’università o ha
proseguito la formazione dopo il diploma (ventitre intervistati). Solo quattro intervistati sono
disoccupati e tre neolaureati sono in cerca di un’occupazione.
5.2. La condizione abitativa e familiare dei gruppi di giovani intervistati
Il dato che maggiormente differenzia i giovani dei tre paesi considerati è la loro condizione
abitativa e familiare. In Danimarca quasi tutti i giovani intervistati hanno raggiunto l’autonomia
abitativa e solo sette vivono con i genitori. Nello specifico diciannove intervistati convivono o sono
6
Tubingen ha 80.000 abitanti mentre Reutlingen 100.000.
sposati, undici vivono da soli e cinque coabitano con amici. Undici di essi poi hanno figli o ne
aspettano uno. Nel caso dei giovani danesi, la condizione abitativa e familiare non sembra essere
influenzata dal livello socio-economico, ma piuttosto dell’età. A riprova di ciò nel 1999 la maggior
parte di giovani danesi tra i 19 ed i 23 aveva abbandonato la casa dei genitori e dopo i 25 anni
nessun giovane di solito continua a vivere nella famiglia d’origine. I sussidi pubblici a favore degli
studenti e dei disoccupati impediscono che la maggiore durata dei percorsi scolastici e formativi si
traduca in un prolungamento della fase di convivenza con i genitori (Venturelli Christensen, 2003).
Anche in Germania la condizione abitativa e familiare degli intervistati risulta molto variegata,
anche se il numero dei giovani che ha raggiunto l’autonomia familiare è decisamente più contenuto.
Su trentasette intervistati diciotto vivono con i genitori, quattro coabitano con amici, due sono madri
single, quattro sono sposati o convivono e hanno dei figli. Diversamente dalla Danimarca il livello
culturale dei giovani sembra influenzare le scelte abitative. Gli intervistati con un’istruzione
universitaria che hanno quindi un’occupazione di buon livello sono indipendenti abitativamente,
mentre quelli con un’istruzione di medio7 livello faticano maggiormente a compiere questo passo e,
coerentemente con la maggiore spinta all’autonomia della giovani donne, in questo gruppo le
ragazze che hanno lasciato la casa dei genitori sono più numerose dei ragazzi. I giovani con
un’istruzione di livello basso8 vivono prevalentemente con i genitori. Per questi tale soluzione
abitativa è un obbligo più che una scelta, date le loro precarie condizioni economiche. Gli
intervistati che vivono in famiglia hanno un’età compresa tra i 17 ed i 25 anni. Secondo dati recenti
a partire dai 25 anni i giovani tedeschi tendono a lasciare la casa dei genitori. Non a caso la
convivenza more uxorio è la forma di vita più frequente tra i giovani venticinquenni (Lüscher e
Lange, 2003).
L’Italia presenta una situazione estremamente omogenea circa la condizione abitativa e
familiare del gruppo intervistato. Coerentemente con la tendenza al progressivo prolungamento
della permanenza nella famiglia d’origine, i giovani italiani intervistati vivono con i genitori, ad
eccezione di una ragazza che vive da sola. La condizione socio-economica e il livello d’istruzione
non risultano variabili determinanti per il raggiungimento dell’indipendenza abitativa, semmai
potrebbe essere la situazione lavorativa del giovane a consentire una tale scelta. La giovane donna
single infatti lavora stabilmente da circa cinque anni e lo stipendio percepito le consente, anche se
con qualche sacrificio, di pagare l’affitto. Inoltre, quasi nessuno tra gli intervistati ha avuto
esperienze significative di allontanamento da casa. Fanno eccezione due giovani donne che in
7
Sono giovani che dopo il diploma hanno continuato la formazione non necessariamente ad indirizzo universitario. Tra
questi vi sono operai specializzati e impiegati.
8
Sono per lo più giovani apprendisti e svolgono quindi impieghi manuali.
passato hanno convissuto con il partner. Al termine della convivenza una è tornata a vivere con i
genitori, mentre l’altra ha preferito vivere sola. Infine nessuno degli intervistati ha figli.
5.3. La transizione all’età adulta nei tre paesi
Il dato che accomuna le transizioni dei giovani intervistati nei tre paesi considerati riguarda
l’allungamento del periodo di passaggio dal sistema scolastico/formativo al mondo del lavoro9.
Nell’attraversamento di questa fase i giovani passano attraverso varie esperienze lavorative,
formative e personali che possono rendere tale passaggio particolarmente complesso. La durata
temporale di questa fase e le modalità con cui essa viene portata a compimento dipendono da
molteplici fattori quali le opportunità offerte dal mercato del lavoro e dal sistema formativo o le
alternative di cui i giovani dispongono per rimandare volontariamente l’assunzione di ruoli stabili.
E’ a partire da queste variabili che i percorsi di transizione nei tre paesi si differenziano. Un aspetto
da considerare per comprendere meglio le specificità dei tre contesti territoriali è il livello di
autonomia detenuto dai giovani nel decidere tra la pluralità di percorsi alternativi che li conducono
a transitare nel mondo del lavoro. Per meglio spiegare, bisogna domandarsi se il ritardo nel
raggiungimento di ruoli lavorativi definitivi sia il risultato di una scelta volontaria o una soluzione
obbligata in assenza di migliori opportunità.
Il livello socio-culturale dei giovani sembra determinare fortemente il controllo sulle scelte
della propria vita. In tutte e tre i paesi infatti sono i giovani culturalmente avvantaggiati a
sperimentare per propria scelta percorsi di transizione poco lineari. Gli studenti universitari, ad
esempio, si concedono durante gli studi o prima di iscriversi all’università periodi di inattività per
riflettere meglio sulle scelte da intraprendere. Questo avviene con modalità e frequenza diverse nei
tre paesi. In Danimarca numerosi giovani intervistati prima di iscriversi all’università o dopo il
conseguimento della laurea hanno approfittato del sussidio di disoccupazione per realizzare
importanti obiettivi familiari (ad esempio, la nascita di un figlio) o per viaggiare. A questo
proposito va precisato che trascorrere un anno all’estero visitando diversi paesi sembra una scelta
molto diffusa tra i giovani danesi indipendentemente dall’appartenenza socio-culturale, anche se
resta una soluzione preferita soprattutto dai giovani di livello socio-culturale medio-alto. Nel
gruppo dei giovani italiani intervistati solo una ragazza ha trascorso un anno all’estero dopo aver
abbandonato gli studi, in seguito ripresi. Cambiare idea o tornare sulle proprie scelte sembra far
parte di un percorso per “prove ed errori”, propedeutico a trovare la “propria strada” in futuro.
9
Ricordiamo che le interviste sono incentrate su questa particolare fase della transizione all’età adulta.
Un’attitudine strumentale, in altre parole, sembra particolarmente diffusa nei giovani intervistati di
tutte e tre i paesi.
Altri intervistati invece hanno seguito percorsi più complessi all’insegna della reversibilità:
alcuni hanno preferito lavorare prima di intraprendere gli studi universitari, altri hanno abbandonato
l’università per lavorare e a distanza di tempo hanno ripreso il percorso universitario dedicandosi a
tempo pieno allo studio. In questi casi, a volte, gioca un ruolo determinante la scarsa
consapevolezza di ciò che si vorrebbe realizzare in futuro, la mancanza di un’adeguata
informazione sulle opzioni formative - specie se il livello d’istruzione della famiglia di provenienza
non è elevato - o ancora più spesso la scelta insoddisfacente della facoltà universitaria:
Ci ho messo molti anni per scoprire quello che volevo fare veramente. Avevo 27 anni
quando mi sono iscritta all’università. Prima avevo fatto molte cose diverse: avevo scelto
di frequentare un corso, poi per un certo periodo ho anche pensato di fare la ballerina
(Majken, ragazza danese, 33 anni, psicologa, livello socio-culturale familiare basso).
Ho fatto il liceo classico e poi mi sono iscritto a medicina con buoni risultati, ma quando
sono arrivato a preparare anatomia ho smesso. Avevo 22 anni e sono partito per il
militare. Al ritorno ho cominciato a lavorare. Ho fatto tanti lavori; fondamentalmente il
lavoro più stabile è stato quello di cameriere e mi sono reso conto di molte cose, perché
era un lavoro umile, spesso si aveva a che fare anche con la cattiva educazione delle
persone. Allora ho capito che valevo molto di più e ho ricominciato a studiare (Loris,
italiano, studente in Scienze Politiche, livello socio-culturale familiare elevato).
In Germania la transizione ai ruoli lavorativi sembra prolungarsi attraverso modalità differenti.
Anche tra questi intervistati non mancano giovani che hanno rimandato volontariamente l’inizio
degli studi universitari o hanno modificato la scelta dei percorsi formativi, ma diverso è il caso degli
apprendisti. La possibilità di accedere ai programmi di apprendistato a volte può trasformarsi in un
volontario rinvio del definitivo accesso al mercato del lavoro. Alcuni intervistati ammettono di aver
iniziato l’apprendistato, ma di non essere soddisfatti del tipo di qualifica professionale che
conseguiranno; perciò, una volta terminata la formazione, contano di riqualificarsi iniziando un
altro apprendistato. Questa è un tipo di soluzione a volte adottata anche dai giovani apprendisti
danesi, mentre è più difficile riscontrarla nel gruppo di giovani italiani, data l’esiguità del numero di
apprendisti10 e la differente organizzazione di tale forma contrattuale. I giovani culturalmente e
socialmente meno privilegiati sono perciò più esposti al rischio di sperimentare una transizione
prolungata forzata. Questi giovani non hanno molte alternative occupazionali o formative e sono
costretti ad accettare le poche opportunità che si presentano loro. Sono spesso insoddisfatti del
percorso lavorativo intrapreso, ma non hanno adeguate risorse per modificare le traiettorie.
Scontenti sono soprattutto coloro che non sono riusciti a terminare gli studi e sono stati inseriti in
programmi statali a favore dei giovani disoccupati. Aderendo a questi schemi sperano
10
Solo una ragazza e un ragazzo sono assunti come apprendisti.
successivamente di riuscire ad essere assunti come apprendisti e acquisire così adeguate
professionalità, ma l’incertezza sul proprio futuro e la sensazione di non poterne determinarne gli
esiti è fortissima.
Riguardo questo aspetto la condizione dei giovani italiani è molto differente. Tutti i giovani
italiani intervistati sono studenti universitari o hanno da poco conseguito un diploma quinquennale
ad indirizzo tecnico o professionale. Sono quindi giovani con un buon livello d’istruzione. Ciò che
li differenzia dai giovani danesi e tedeschi non è tanto, come abbiamo visto, la sperimentazione di
percorsi di transizione accidentati e prolungati, quanto piuttosto le modalità con cui le traiettorie di
transizione si modellano a partire dalle opportunità che il contesto nazionale offre. Ad esempio, la
caratteristica più evidente del gruppo di giovani intervistati è il diffuso contatto con il sistema di
formazione-lavoro e con quello accademico. La stragrande maggioranza ha proseguito il percorso
formativo iscrivendosi all’università o frequentando un corso promosso dalla Regione Lombardia
e/o dal Fondo Sociale Europeo. Tra questi, i giovani che provengono dagli istituti tecnici hanno
optato per l’iscrizione all’università in misura decisamente maggiore di quelli con un diploma di
indirizzo professionale di durata quinquennale. Raramente, tuttavia, la decisione di intraprendere gli
studi universitari sembra una scelta operata con convinzione. Sono pochi, infatti, i giovani
realmente convinti dell’utilità di questa scelta. Sembra piuttosto che la decisione di investire sulla
formazione universitaria costituisca un tentativo per acquisire credenziali educative che
garantiscano alternative professionali alla formazione precedentemente acquisita a livello
scolastico. La scelta di intraprendere gli studi universitari sembra perciò legata soprattutto alla
scarsa fiducia nelle opportunità offerte dal mercato. Per questa ragione è una decisione soggetta a
molti ripensamenti che inducono spesso a pensare di cambiare facoltà. Questa decisione sembra
iscriversi in una logica di sperimentazione, segno della presenza di una certa difficoltà a strutturare
il proprio percorso formativo. Ad esempio Cinzia, 20 anni, un diploma di perito turistico, frequenta
con poca convinzione Scienza dei Beni Culturali. I primi due esami sono andati bene, ma è ancora
indecisa circa la correttezza della scelta compiuta:
Adesso faccio Scienze dei Beni Culturali alla Statale e sto provando un po’ questo, anche se ho
varie idee di cambiamento, ma non lo so, adesso mi è venuta voglia di fare psicologia, perché io
avevo fatto il test per Scienze della Comunicazione però non l’ho passato, eravamo in mille e poi
volevo fare Discipline del Servizio Sociale, però ho visto che erano pochissimi posti e io non avevo
molte basi e allora ho detto: evitiamo (Cinzia, 20 anni, italiana, studentessa universitaria, livello
socio-culturale familiare medio).
Per i giovani di livello socio-economico basso l’alternativa allo studio universitario sono i corsi
di formazione finanziati dal Fondo Sociale Europeo, ai quali spessissimo si accede per puro caso in
alternativa alla disoccupazione o ad un lavoro poco soddisfacente. Il canale per conoscere l’offerta
formativa disponibile è in genere la scuola, molto raramente per diretto interessamento dei
giovani11. La decisione di allungare di un anno il percorso formativo dopo il conseguimento del
diploma è anche la risposta migliore ad un mercato del lavoro che offre sì opportunità, ma precarie
e con scarse garanzie dal punto di vista contrattuale ed economico. Emblematici sono i casi di
Marco e Vittoria:
Io volevo far proprio l’elettricista, economicamente avevo chiuso un occhio… e per fare
l’elettricista bisogna fare l’apprendistato a seicento euro al mese e per me non erano
pochi, perché comunque non ho molte spese… L’operaio è una vita pesante…è faticoso,
otto ore è faticoso… e poi il capo, una persona non brava, pagava in ritardo, non si faceva
mai vedere, quindi me ne sono andato... Adesso, non so, sto solo facendo questo corso
sperando di entrare a lavorare in un ufficio davanti al computer, se non ce la faccio non lo
so, non saprei proprio cosa pensare, l’unica strada è andare a fare l’elettricista, però, non
lo so, punto tutto su questo corso (Marco, 21 anni, italiano, perito elettrotecnico, livello
socio-economico familiare basso).
Di colloqui ne ho fatti, ero entrata da un commercialista, ma ci sono rimasta solo un
giorno perché non mi aveva spiegato bene le cose, per settimane dovevo stare a lavorare
senza una garanzia… Ho preferito andarmene, speravo di trovare qualcosa di meglio…
Ora sto frequentando un corso della Regione, finanziato dal Fondo Sociale Europeo, è
interessante perché è il mio campo, poi devo fare uno stage, vedremo, non so (Vittoria,
19 anni, italiana, ragioniera, livello socio-economico familiare basso).
Il quadro complessivo denota una forte incertezza dei giovani nel rapporto con il mercato del
lavoro. L’inserimento professionale, specie dei giovani diplomati, si configura come un processo
che vede alternarsi periodi di attività e di inattività, passando attraverso diverse tappe che non
possono essere descritte dalle consuete categorie di attivo (occupato o disoccupato in cerca di
lavoro) o inattivo (tutte le altre condizioni). Fabio, 21 anni, livello socio-culturale elevato, offre un
buon esempio di questa tendenza: dopo il diploma di ragioneria ha iniziato a lavorare per il periodo
estivo in una libreria, poi si è iscritto all’università e frequenta nel contempo un corso organizzato
dalla Regione Lombardia e dal Fondo Sociale Europeo. Ecco come prevede di organizzare la sua
giornata nel caso di una prossima scelta lavorativa:
Se mi si presentasse un’occasione di lavoro cercherei di fare come faccio adesso, perché
il corso della Regione mi impegna dal lunedì al venerdì, dalle nove alle cinque. Quindi
torno a casa alle sei, riposo mezz’ora, poi ceno alle sette e mezza e dopo studio per
l’università… Quindi questo corso, alla fine, è come un lavoro, occupa tempo, ma si può
anche studiare.
Questa tendenza è del tutto assente nella ricostruzione delle esperienze formative da parte dei
giovani danesi e tedeschi intervistati. In Danimarca e Germania infatti il sistema formativo e
11
Solo una ragazza tra i giovani intervistati, interessata ad acquisire una formazione nel campo della moda, si era
informata attivamente sui corsi disponibili e in seguito era riuscita a frequentarne uno.
universitario sono rigidamente strutturati. Perciò, a differenza dell’Italia, i due percorsi formativi si
pongono come alternativi e di conseguenza è praticamente impossibile intraprenderli al contempo.
Il diffuso contatto con il mondo del lavoro è un dato che accomuna invece gli studenti di tutte e
tre i paesi, sebbene la scelta di svolgere lavoretti o lavorare saltuariamente assuma nei diversi paesi
significati differenti. Indipendentemente dalla condizione economica della famiglia d’origine per i
giovani danesi disporre di un proprio reddito è una condizione imprescindibile per affermare la
propria indipendenza individuale. In Danimarca infatti quasi il 60% dei tredicenni svolge un lavoro
dopo l’orario scolastico. I giovani tra i 16 ed i 18 anni dispongono mensilmente di una somma di
considerevole entità che di solito si aggiunge a quella percepita dal sostegno statale.
In Italia invece la condizione economica della famiglia d’origine determina fortemente l’inizio
precoce all’attività lavorativa. Sono i giovani con un diploma professionale e con scarse risorse
economiche familiari a dichiarare di aver iniziato a lavorare nel periodo scolastico. Dopo il
conseguimento del diploma questi giovani non hanno continuato la formazione e hanno preferito
cercare un’occupazione a tempo pieno. Diversa la condizione della maggioranza degli studenti
universitari i quali in maggioranza lavorano saltuariamente per garantirsi una certa autonomia nelle
spese personali (soprattutto per il tempo libero e per l’abbigliamento). Per alcuni intervistati,
tuttavia, essere lavoratore temporaneo e nel contempo studente consente il prolungamento di un
arco temporale in cui la scelta definitiva di impegnarsi completamente nel conseguimento della
laurea o nel reperimento di un lavoro stabile può essere rinviata di qualche anno.
Si differenziano da questi gli studenti universitari che lavorano a tempo pieno che invece di
solito non possono contare sull’aiuto della famiglia per mantenersi agli studi. In questo caso,
conciliare le due attività può diventare veramente faticoso ed è molto difficile riuscire a raggiungere
il traguardo della laurea i in tempi brevi o riuscire a terminare il ciclo di studi. Ad esempio,
Beatrice, 30 anni, laureanda in Scienze Politiche, ricorda così i suoi anni in università:
Ho fatto tanti tipi di lavori. Ho iniziato come operaia a tempo pieno in estate per potermi
pagare le spese universitarie, poi ho fatto per quasi due anni e mezzo l’assistente di
poltrona per uno studio dentistico. Poi ho dovuto lasciare a causa degli orari per me non
adatti, poi ho lavorato in paninoteca, ho lasciato ed ho lavorato per quasi tre anni in una
forneria e poi sono entrata in questo centro commerciale come barista all’interno di un
ristorante e ora come cassiera… è stato molto difficile… ho dovuto rinunciare a tante
cose (Beatrice, 30 anni, italiana, studentessa-lavoratrice, livello socio-culturale basso).
Raramente ci si imbatte nei racconti dei giovani danesi e tedeschi intervistati in difficoltà simili.
I sussidi statali erogati ai giovani studenti riescono a coprire del tutto o in parte le spese
universitarie e il sostegno economico della famiglia d’origine riesce a coprire i costi complessivi di
mantenimento dei giovani, tenendo in considerazione anche che le famiglie con figli a carico
ricevono specifici sussidi. Come conseguenza, per gli studenti tedeschi e danesi lavorare
saltuariamente è una scelta più che una necessità come invece lo è per i giovani italiani che non
dispongono di sufficienti risorse economiche familiari.
5.4. Il sostegno familiare e statale
Gli ambiti in cui il sostegno familiare solitamente si esplicita riguardano gli aiuti di tipo
economico, pratico e affettivo. I giovani intervistati, senza rilevanti differenze tra i tre paesi
menzionano più ricorrentemente il sostegno di tipo economico, sebbene esso sia stato fornito
secondo modalità diverse nei tre contesti territoriali. Mentre in Italia esso risulta necessario e
scontato in assenza di altre fonti di sostentamento, in Danimarca e Germania si affianca al sostegno
statale. E’ interessante sottolineare come il sostegno economico familiare risulti in tutte e tre i
contesti territoriali una risorsa essenziale per il superamento di alcune fasi della transizione.
Vediamo nello specifico le forme che tale sostegno assume nei tre paesi.
In Danimarca l’aiuto economico della famiglia è indispensabile nella fase di formazione
scolastica o professionale del giovane, indipendentemente dall’età ed è di solito limitato a questo
periodo. L’indipendenza economica dalla famiglia d’origine, come già accennato nello scorso
paragrafo, rappresenta sia per i genitori che per i figli un obiettivo fondamentale per affermare la
propria autonomia individuale. Per questo numerosi intervistati ricordano come la fine degli studi
abbia segnato l’immediata interruzione del sostegno economico da parte dei genitori. Durante il
periodo di dipendenza economica dalla famiglia d’origine i giovani danesi contribuiscono in vario
modo al bilancio familiare, di solito pagando le spese alimentari e una parte dell’affitto con le
sovvenzioni che ricevono dal Fondo Statale per l’Istruzione. Questo, ad esempio, è ciò che fanno
gran parte (quattro su sette) dei giovani intervistati che vivono con i genitori.
Gli scambi economici tra genitori e figli a volte sono anche il risultato di accordi a lungo
termine. In questo caso i genitori si incaricano di amministrare i finanziamenti statali erogati ai figli
(ad esempio mettendone una parte in banca per il futuro abitativo dei figli), i quali in cambio
continuano a vivere gratuitamente in famiglia. I genitori possono anche garantire per i figli in caso
questi ultimi richiedessero sussidi per l’acquisto o l’affitto di un’abitazione o un ulteriore
sovvenzione per gli studi oltre a quella garantita dal Fondo Statale per l’Istruzione. In un caso
rilevato nel corso delle interviste, i genitori avevano comprato un appartamento per il figlio che lo
abitava pagando loro un affitto mensile.
Se il sostegno economico per i giovani danesi sembra limitato soprattutto alla fase di
formazione, quello emotivo, affettivo e pratico appare incondizionato. Questo tipo di sostegno è
maggiormente apprezzato rispetto a quello di tipo economico, probabilmente perché, a differenza di
quest’ultimo, è considerato meno scontato. In alcuni casi infatti i giovani intervistati lamentano la
sua totale assenza. Riguardo questo tipo di aiuto il livello sociale della famiglia d’origine si rivela
una variabile significativa nel determinare le modalità e le circostanze in cui il sostegno veniva
fornito. Gli intervistati di classe sociale elevata hanno dichiarato di aver ricevuto molto sostegno dai
propri genitori nelle diverse fasi della transizione specie nella scelta degli studi e della professione.
Rientrano in questo genere di sostegni anche l’essere stati incoraggiati o aiutati praticamente a
migliorare il proprio rendimento scolastico (ad esempio nella preparazione dei compiti o degli
esami). Alcuni intervistati ricordano l’aiuto ricevuto nella ricerca della casa, nella sua sistemazione
o nel trasloco. Oltre a questi, vengono menzionati i sostegni affettivi nei momenti di difficoltà con
il/la partner o durante il percorso scolastico. Le affermazioni di Emilie sintetizzano bene il genere di
aiuti ricevuti dalla famiglia da parte di numerosi intervistati:
Per me [i miei genitori] sono stati un “salvagente” mentale e sociale e questo mi ha
aiutato e mi ha reso le cose più facili. Quando mi sono trasferita [da Jutland a
Copenhagen] mi hanno aiutato anche nelle cose pratiche… Se avevo bisogno di una
lampada o qualsiasi altra cosa loro me la portavano fino a Copenhagen. Mi hanno anche
sostenuto emotivamente; ad esempio, quando attraversavo un brutto momento con gli
studi oppure quando ero giù loro lo notavano e mi chiedevano che cosa c’era che non
andava (Emile, 25 anni, danese, livello socio-culturale familiare medio).
Non sembra che a questo genere di aiuti, all’opposto di quelli di tipo economico, siano legate
aspettative di reciprocità da parte dei genitori, sebbene i giovani intervistati dichiarino che il flusso
di scambi non è unidirezionale. I giovani sostengono di mantenere con i genitori relazioni paritarie,
così come solitamente avviene tra adulti, basate su uno scambio reciproco sia a livello materiale che
affettivo.
In assenza di sostegno familiare quello fornito dallo stato si rivela indispensabile. I giovani
danesi intervistati che dichiarano di non aver ricevuto un aiuto sufficiente dalla famiglia ammettono
di essere riusciti a mantenersi materialmente attraverso le sovvenzioni statali. Ovviamente questo
tipo di aiuto non ha potuto colmare la mancanza di sostegno a livello emotivo e affettivo. E’
plausibile ipotizzare che i genitori danesi si sentano meno responsabili rispetto al sostentamento dei
figli potendo questi ultimi contare in ogni caso sul sostegno pubblico.
Anche in Germania il sostegno economico della famiglia d’origine risulta indispensabile nel
periodo scolastico/formativo dei giovani. L’aiuto finanziario dei genitori ha la funzione di integrare
il sussidio erogato dallo stato agli studenti e agli apprendisti. Di solito, quindi la somma data dalla
famiglia al figlio è fissata in base a quanto quest’ultimo riceve dallo stato. Data l’esiguità dei
sostegni per lo studio e per l’apprendistato, nel periodo della formazione i giovani tedeschi - specie
gli apprendisti - preferiscono restare a vivere con i genitori e fruire così anche dei vantaggi pratici
che la convivenza comporta (gestione del bucato e delle attività domestiche, preparazione dei pasti
ecc.).
Come per i giovani danesi, il livello socio-culturale della famiglia d’origine risulta una variabile
significativa per determinare il tipo e le modalità di scambio tra genitori e figli. Di solito i giovani
maggiormente privilegiati sul piano economico e culturale ricevono sostegni sia di tipo economico
che affettivo e pratico, ma anche consigli in ambito scolastico e professionale. I genitori poi sono
maggiormente disposti ad aiutarli in caso incontrino difficoltà in questi due ambiti. Ad esempio,
Cora descrive così il sostegno fornitole dai genitori in una fase scolastica critica:
Attraversavo una fase di totale demotivazione, così ho lasciato la scuola a 18 anni e mia
madre mi ha lasciato fare, anche se non condivideva questa scelta... Non sapevo cosa fare.
Ne ho discusso con mio padre che insegna in una scuola per infermieri professionisti e mi
ha consigliato di iscrivermi a questa scuola. Dopo ho anche parlato con mia madre della
possibilità di iscrivermi alla facoltà di Pedagogia o di Psicologia e ho deciso [di iscriversi
in Pedagogia]. Mia madre è psicoterapeuta e lavora in una clinica psichiatrica e ha
esperienza in questo tipo di materie (Cora, 31 anni, tedesca, pedagogista, livello socioeconomico familiare elevato).
Alcuni intervistati ricordano di aver ricevuto sostegno economico ed affettivo da entrambi i
genitori, anche se emerge un differente modo di rapportarsi alla madre e al padre. Così come
emerso in numerose ricerche (Di Nicola, 1998; Maunaye e Molgat, 2003; Santoro, 2002). Il
rapporto con la madre ha un’impronta più comunicazionale, espressiva ed empatica, mentre quello
con il padre risulta più razionale e volto a soddisfare le esigenze più concrete e materiali. Non
mancano tuttavia eccezioni, cioè giovani che hanno dichiarano di aver ricevuto aiuti di vario tipo da
entrambi i genitori:
Per fortuna i miei genitori hanno fatto tanto per me… Volevo cambiare facoltà e
iscrivermi in legge. Ho discusso a lungo con loro per il pagamento. Non ricevevo alcun
sostegno statale e questo voleva dire che loro dovevano pagare almeno le tasse dei primi
quattro semestri. Loro hanno capito e mi hanno detto che se pensavo che legge fosse la
facoltà giusta mi avrebbero aiutato… Quando mi sono lasciato con la mia ragazza, ho
parlato a lungo con i miei. Loro mi hanno detto di farmi coraggio, era un momento che
doveva passare. In quell’occasione ho trovato molto costruttivo parlare con loro (Gert, 32
anni, tedesco, dottorando, livello socio-culturale familiare elevato).
Vi sono tuttavia alcuni intervistati insoddisfatti del sostegno ricevuto dalla famiglia. Tra questi
numerosi giovani lamentano di aver ricevuto soprattutto aiuti materiali e poco affetto o sostegno
emotivo. Altri giovani invece avvertono indifferenza da parte dei genitori specie quando si sono
trovati in circostanze di particolare necessità. Questo è ad esempio il caso di una giovane donna
rimasta incinta quando aveva 16 anni o di un giovane di 24 anni praticamente abbandonato dai
genitori a 18 anni che attualmente vive in una comune ed è disoccupato.
I tipi di sostegno ricevuti dai genitori maggiormente menzionati da parte dei giovani intervistati in
Italia sono sia di genere affettivo che materiale. I genitori danno soprattutto affetto e sostegno “nei
momenti difficili”, causati da cattivi risultati scolastici, dalla difficoltà di trovare lavoro, dalle
delusioni sentimentali. E’ molto frequente, inoltre, che i ragazzi e le ragazze più giovani chiedano
consiglio ai genitori riguardo le cosiddette “scelte importanti”, come quelle educative e lavorative.
Le affermazioni di Michela esprimono bene il sostegno garantito dai genitori durante le fasi
critiche della transizione:
[I miei genitori] si sono presi cura di me… in tante cose, quando non sto bene una
carezza, quando mi sveglio al mattino le coccole, quando ho un esame che mi va male mi
dicono di non preoccuparmi… Quando volevo lasciare la scuola e iscrivermi al corso per
infermiera mio padre mi ha subito messo in riga e mi ha detto: “Prima finisci e poi decidi
quello che vuoi fare… (Michela, 22 anni, italiana, studentessa universitaria, livello socioculturale familiare elevato).
All’opposto, i giovani più adulti, che si avvicinano alla trentina, avvertono maggiormente il
distacco generazionale dai genitori e perciò tendono a non considerare più questi ultimi come
principali figure di riferimento quando ci sono dei problemi. Il distacco dalla famiglia d’origine e
dalla sua funzione “protettiva” non è tuttavia tanto sancito dall’età dei giovani intervistati, quanto
dall’aver attraversato o meno alcune fasi della transizione all’età adulta. Vivere con i genitori o aver
lasciato la loro casa segna fortemente la differenza. Solo nel momento in cui la figlia o il figlio
raggiunge l’autonomia abitativa acquista consapevolezza sia delle diverse dimensioni del sostegno
familiare, prima nascoste dalla routine quotidiana della vita familiare sia dei bisogni dei genitori.
Arianna, 31 anni, studentessa-lavoratrice che vive fuori dalla famiglia ormai da parecchi anni,
afferma ad esempio:
Se hai la possibilità di uscire di casa presto diventi anche più sano. Io sono molto
contenta di essere uscita presto anche per questo motivo, perché l’importante è imparare a
camminare con le proprie gambe, imparare a non contarci troppo [sui genitori]… Loro [i
genitori] hanno una loro personalità, dei loro bisogni… e nel momento in cui sei fuori di
casa riesci a comprendere meglio quali sono i bisogni dall’altra parte, ma nel momento in
cui vivi all’interno della famiglia non riesci a comprenderli … Mentre quando ti trovi
fuori, non so, tua madre acquista una sua identità, una sua personalità e allora riesci a
capire che cosa vuole e tu fai di tutto per darglielo, mentre prima tutto è veramente
scontato… (Arianna, 31 anni, italiana, studentessa-lavoratrice, livello socio-culturale
familiare basso).
La relazione con i genitori si rivela comunque significativa per sostenere i giovani durante il
percorso verso la condizione adulta. Secondo quanto affermato dalla maggioranza dei giovani, i
genitori confortano, consigliano e offrono aiuti pratici nelle fasi della transizione. Esempi comuni
sono il reperimento di informazioni per la scelta della facoltà universitaria, la compilazione del
curriculum vitae o la ricerca del lavoro attraverso le inserzioni sui giornali. Ovviamente, maggiori
sono le risorse economiche della famiglia più questo tipo di aiuto si esprime anche sul piano
economico. Ad esempio, alcune famiglie riescono a mantenere agli studi il figlio o la figlia, mentre
altre possono contribuirvi solo in parte. Come si è detto, per i giovani che contemporaneamente
studiano e lavorano il processo di transizione è più complesso e necessariamente più lento.
Il quadro di scambi che emerge dall’analisi delle interviste ai giovani italiani è in sintonia con i
risultati di altre ricerche condotte in Italia su questa tematica (Di Nicola, 1998; Sgritta, 2002). In
breve, queste ricerche mettono in luce la forza e l’estensione della rete di solidarietà familiare
italiana, che fornirebbe sostegno sia ai figli, prima e dopo il raggiungimento dell’autonomia
abitativa (ad esempio attraverso la cura dei nipoti quando essi creano un proprio nucleo familiare),
sia alle generazioni più anziane (attraverso la cura dei genitori). Questo quadro tuttavia risulta
differente rispetto a quello emerso negli altri due paesi presi in esame. Più precisamente il modello
di scambi tra genitori e figli in Italia appare caratterizzato da un maggiore senso di reciprocità. Ciò è
sicuramente dovuto alla totale dipendenza (soprattutto economica) dei giovani dalla famiglia
d’origine, in assenza di qualsiasi sostegno da parte dello stato. I giovani, soprattutto studenti e
studentesse, sono infatti consapevoli di dipendere in buona misura dai genitori. Il guadagno ottenuto
svolgendo “lavoretti” o lavorando occasionalmente non è sufficiente per considerarsi autonomi
economicamente, né tanto meno per contribuire in modo significativo al bilancio familiare.
D’altra parte, il livello di risorse economiche di cui dispone la famiglia influenza fortemente
l’atteggiamento dei giovani nei confronti del sostegno materiale ricevuto dai genitori. Si possono
individuare al riguardo due diversi tipi di atteggiamento da parte dei giovani intervistati. Quelli
provenienti da famiglie di livello socio-economico basso sono coscienti dei sacrifici affrontati dai
genitori per il loro mantenimento e per questo pensano di mettere a disposizione della famiglia parte
del loro stipendio, appena saranno in grado di poterlo fare. Prefigurano perciò di fornire in futuro ai
genitori aiuti soprattutto di natura economica. Questo non esclude la loro disponibilità a rendersi
utili anche in modo diverso (soprattutto assicurando compagnia e presenza), anche se questo tipo di
aiuto è considerato un sostegno secondario, essendo l’aiuto economico quello di cui la propria
famiglia necessita maggiormente. Le strategie pianificate per sgravare il più possibile i genitori
dall’onere economico possono essere anche estreme. Tutto dipende da quanto difficili sono le
condizioni economiche familiari.
Walter, 20 anni, disoccupato, i cui genitori hanno da poco chiuso un’attività commerciale e sono
stati costretti ad accettare lavori occasionali, pensa ad esempio di aiutarli così:
Se tutto va bene e a settembre trovo lavoro…ovviamente lo stipendio lo do a loro e mi
tengo la mia mancetta e basta, almeno per i primi anni (Walter, 20 anni, italiano,
disoccupato, livello socio-culturale familiare medio).
Ecco invece come pensa di comportarsi Valeria, 19 anni, apprendista presso uno studio di
contabilità, padre disoccupato e madre custode di uno stabile:
Pensavo in futuro di andare via di casa, di andare a vivere da sola…penso che questo sia,
non dico un aiuto, ma un costo in meno per la mia famiglia perché sarei totalmente
indipendente, quindi mia madre potrebbe dedicarsi completamente a mia sorella… e
magari quei cinque, dieci euro che mia madre spendeva per me a questo punto può
spenderli per mia sorella e darle qualcosa in più… (Valeria, 19 anni, italiana, apprendista,
livello socio-culturale familiare basso).
Ciò che accomuna i giovani, indipendentemente dal livello socio-economico familiare è la
percezione dell’obbligo morale di ricambiare ciò che hanno ricevuto. Questo senso di obbligazione
emerge dalle parole di Vittoria, 19 anni, iscritta ad un corso del Fondo Sociale Europeo:
Non lo faccio perché loro l’hanno fatto con me ma perché sento di dover fare qualcosa,
qualunque cosa per i miei genitori… I miei genitori sono comunque i miei genitori quindi
automaticamente mi sentirò di dover fare tutto , anche se avrò una famiglia (Vittoria, 19
anni, italiana, frequenta un corso di formazione del FSE, livello socio-culturale familiare
medio).
Si tratta comunque, va sottolineato, di una reciprocità non immediata, subordinata al
raggiungimento dell’indipendenza economica da parte dei figli. Riguardo questo aspetto è
interessante considerare come i giovani intervistati si immaginano il quadro degli scambi familiari
futuri. Esso infatti riflette la differente socializzazione ai ruoli di genere che la famiglia d’origine
contribuisce a forgiare. Proprio guardando alle aspettative che i figli nutrono nei confronti degli
scambi futuri all’interno dell’ambito familiare si possono mettere a fuoco le differenze di genere.
l’attività di sostegno a favore della famiglia d’origine che immaginano gli/le intervistati/e tenda a
perpetuare una divisione dei ruoli tra uomini e donne di carattere asimmetrico. Su questa base, alle
ragazze continuerebbero a spettare principalmente compiti di cura, mentre ai ragazzi quelli relativi
al sostegno economico. Occorre comunque tenere conto anche dei segnali di cambiamento, come la
volontà di alcuni ragazzi a contribuire in futuro, insieme ai fratelli e alle sorelle, al benessere dei
genitori anziani. Sono comunque le ragazze a percepire, in linea generale, un maggiore senso di
obbligazione verso la famiglia, indipendentemente dalla loro età. Non solo esse danno per scontato
che, in caso di malattia, i genitori si rivolgeranno a loro per assolvere i compiti di cura, ma
prefigurano anche una continuità del sostegno, assicurando vicinanza e affetto. Le giovani che
hanno fratelli auspicano ovviamente di non essere sole in questo compito, ma sanno comunque che
il loro ruolo sarà sempre più attivo di quello di un familiare maschio.
Ecco cosa dice in proposito Arianna, 31 anni, studentessa-lavoratrice, due fratelli:
E’ inevitabile che a una certa età saranno loro [i genitori] ad avere bisogno di me, spero
non tantissimo in termini di cura, ma questa cosa comunque la vedo. Nel momento in cui
invecchieranno mi sentirò chiamata in prima persona ad accudirli… è inevitabile che
accada …i miei fratelli ci saranno comunque anche loro, voglio sperare.
Accanto alla variabile di genere va sottolineata l’importanza di avere o meno fratelli o sorelle in
famiglia. Essere figli unici influenza fortemente la rappresentazione del sostegno che si sarà in
grado di dare ai propri genitori. Innanzi tutto, perché ci si sente maggiormente responsabili nei loro
confronti, non potendo condividere i futuri compiti di cura con alcun altro familiare. In secondo
luogo, perché il rapporto con i genitori, dato il suo carattere esclusivo, ha caratteristiche più
vincolanti. Ragazzi e ragazze, figli/e unici/che, prefigurano soprattutto un futuro di vicinanza anzitutto fisica - ai genitori. Non pochi progettano di abitare nelle vicinanze della casa familiare (c’è
addirittura chi come Walter, 20 anni, disoccupato, pensa di “tenerli in casa” per creare una “grande
famiglia”).
6. Conclusioni
Le trasformazioni strutturali del settore scolastico e lavorativo avvenute negli ultimi vent’anni
hanno cooperato ad estendere la durata temporale delle fasi della transizione, rendendo così più
difficile e lento il percorso verso l’assunzione di ruoli adulti in ognuno dei tre paesi oggetto della
nostra analisi. Ciascun paese tuttavia sembra aver elaborato come risultato di questi cambiamenti
modelli di transizione diversi, accentuando alcuni tratti peculiari. Per meglio spiegare,
l’allungamento dei percorsi scolastici, l’incremento dell’instabilità lavorativa e dei tassi di
disoccupazione hanno dato origine in ciascun paese a nuove forme di dipendenza (o indipendenza)
dalla famiglia d’origine. In Danimarca, ad esempio, i programmi a favore dell’occupazione
obbligano i giovani che vi prendono parte a prolungare il periodo di formazione. Data l’esiguità
della remunerazione percepita dai giovani coinvolti in questi schemi formativi, la famiglia d’origine
rimane un’importante risorsa di sostentamento. Questa tendenza non riguarda solo i giovani
svantaggiati professionalmente, ma anche coloro maggiormente privilegiati sul piano economico.
Mai come in questi ultimi anni, ad esempio, il sostegno economico dei genitori si è rivelato una
risorsa necessaria per assicurare ai giovani la definitiva conquista dell’autonomia abitativa. Le
agevolazione statali infatti sembrano non garantire più il rapido raggiungimento di tale forma di
indipendenza in seguito al vertiginoso aumento degli affitti e dei prezzi delle abitazioni registrato
negli ultimi anni.
Gli scambi tra genitori e figli in Danimarca sono fortemente ancorati alla dimensione della
reciprocità, che tuttavia, a differenza di quanto avviene in Germania e in Italia, si esplicita
soprattutto a livello economico. I giovani danesi si distinguono sia per la precocità con cui
raggiungono l’indipendenza economica dalla famiglia d’origine sia per la loro attiva partecipazione
alle spese familiari. D’altra parte, la spinta particolarmente intensa verso l’individualismo che
caratterizza il clima culturale danese fa sì che il raggiungimento dell’autonomia economica venga
percepito dai giovani danesi e dalle loro famiglia come valore e dovere.
Anche in Germania il periodo di dipendenza dalla famiglia d’origine si è progressivamente
esteso. In particolare sono i giovani apprendisti a incontrare maggiori difficoltà nel raggiungimento
dell’autonomia familiare (economica e abitativa), costretti ad evitare periodi di disoccupazione
aderendo più volte ai diversi schemi statali di formazione professionale. La situazione di questi
intervistati d’altra parte non è molto diversa dalla condizione dei giovani danesi disoccupati inseriti
obbligatoriamente nei programmi di formazione. Come questi infatti non dispongono di entrate tali
da rendersi indipendenti economicamente dalla famiglia d’origine e di conseguenza sono anche
costretti a vivere con i genitori. Va precisato, tuttavia, che in Germania alcuni giovani intervistati
hanno ammesso di vivere con i genitori per scelta. La vita in famiglia consente loro di godere di
vantaggi pratici a cui non si sentono ancora di voler rinunciare (preparazione dei pasti, gestione del
bucato e delle attività domestiche). In particolare, sono i giovani uomini a rimandare maggiormente
la conquista dell’autonomia abitativa, mentre le giovani donne tendono ad accelerare maggiormente
il superamento di questa fase iniziando una convivenza con il partner o coabitando con coetanee.
A parte questi casi, l’estensione temporale del periodo di dipendenza dalla famiglia d’origine in
Danimarca e Germania coinvolge soprattutto giovani che incontrano maggiori difficoltà sul mercato
del lavoro e che sono costretti a prolungare il percorso formativo in alternativa alla disoccupazione.
Per gli altri la difficile transizione dal sistema scolastico/formativo al mercato del lavoro non
sembra determinare significativi rallentamenti nell’attraversamento delle altre fasi della transizione.
A partire dai 25 anni in ambedue i paesi la maggioranza dei giovani ha abbandonato la famiglia
d’origine. Infatti la condizione abitativa e familiare dei giovani tedeschi e danesi intervistati è
variegata. Alcuni tra questi giovani, ad esempio, convivono e hanno dei figli, vivono da soli o
coabitano con amici. Tutti cercano di essere autonomi economicamente, integrando le loro entrate
con i sussidi statali e a volte anche con l’aiuto dei genitori. Ne emerge un modello di transizione
individualizzato, in cui l’ordine di successione delle fasi è il risultato di un complesso di scelte
abitative e familiari (e a volte anche professionali) che i giovani hanno compiuto e che li può aver
condotti o meno ad una condizione di stabilità. A volte queste scelte possono condurre a della
“microtransizioni”, cioè possono avere carattere reversibile e per questo non segnare il definitivo
superamento di una delle fasi del passaggio allo status adulto. Ad esempio, gli studenti possono
essere autonomi abitativamente per il periodo degli studi, terminato il quale fare ritorno dai genitori;
una convivenza con il/la partner può rivelarsi fallimentare così come può terminare un periodo di
coabitazione con dei coetanei. Ricordiamo a questo proposito che in Germania le difficoltà
incontrate dai giovani nell’accedere ad alloggi a prezzi contenuti ha portato all’adozione di
molteplici strategie abitative che comprendono, ad esempio, la coabitazione con amici o vivere
nella famiglia d’origine con il/la partner.
La transizione dei giovani italiani si differenzia profondamente da questo modello. Le
trasformazioni strutturali avvenute negli ultimi decenni sembrano aver accentuato alcuni tratti
peculiari del modello di transizione all’età adulta presenti nel contesto italiano. In specifico, si è
accentuata la tendenza dei giovani a prolungare la permanenza nella famiglia d’origine: per la
stragrande maggioranza dei figli e delle figlie la conquista dell’autonomia abitativa avviene con il
matrimonio. La maggiore durata dei cicli formativi e la maggiore difficoltà a conquistare la stabilità
lavorativa ed economica hanno fatto slittare in avanti l’età in cui si contrae matrimonio e perciò
anche quella in cui si lascia la casa dei genitori. Questo fenomeno, tra l’altro, non sembra attenuarsi
nel corso degli anni; anzi la percentuale di giovani che vivono con i genitori è in costante
aumento12. Tale tendenza è considerata una delle maggiori cause del basso tasso di fecondità
italiano (1,2 figli per donna). Se infatti l’età media in cui si contrae il primo matrimonio si sposta
progressivamente in avanti, si diventa padri e madri sempre più tardi e si tende a contenere il
numero delle nascite. L’analisi dei cambiamenti che hanno investito i processi di transizione all’età
adulta non può perciò prescindere dalla considerazione, oltre che dei fattori strutturali riguardanti il
mercato del lavoro e l’organizzazione dei sistemi d’istruzione e, insieme, delle difficili modalità di
relazione con il futuro, anche delle trasformazioni demografiche. Questo vale soprattutto per un
paese come l’Italia che sta sperimentando un accelerato processo di invecchiamento e detiene uno
tra i più bassi tassi di fecondità13.
Un primo dato che le interviste mettono in luce è la forte propensione dei giovani dei due sessi
a investire in formazione. Il più delle volte la scelta di proseguire il percorso formativo dopo il
conseguimento del diploma (attraverso l’iscrizione all’università o la decisione di acquisire una
formazione attraverso la frequenza di corsi professionalizzanti post-diploma) è la conseguenza
dell’assenza di alternative lavorative. Non si può tuttavia non interpretare questo dato alla luce
dell’area geografica di residenza dei giovani intervistati. Risiedere a Milano, capoluogo della
Lombardia, o nel suo hinterland e in particolare nel Nord Italia significa avere molte più opportunità
in campo professionale e formativo di quanto ve ne possano essere nel Sud, area geografica con un
modesto livello di industrializzazione e con tassi di disoccupazione molto più elevati rispetto al
resto del paese14. Le difficoltà incontrate dagli intervistati neodiplomati a trovare un’occupazione,
nonostante le opportunità offerte dal contesto lombardo, fanno dunque pensare che nel resto del
paese la condizione dei giovani che si immettono nel mondo del lavoro sia ancora peggiore. Inoltre,
12
Secondo l’indagine Multiscopo nel 2000 i giovani tra i 18 ed i 34 anni che vivevano con almeno un genitore erano il
60,2% del totale della popolazione giovanile (Istat, 2001).
13
Si calcola che nel 2050 la diminuzione della popolazione italiana sarà pari al 17%, a fronte di un previsto aumento di
popolazione nei paesi dell’Europa del Centro-Nord (Eurostat, 2001).
14
Secondo l’Indagine Istat Forze di Lavoro condotta a livello regionale, a luglio del 2001 il tasso di disoccupazione in
Lombardia raggiungeva il 3,7%, un tasso leggermente inferiore al quello del Nord Italia che è pari al 4%. Da
considerare che il tasso di disoccupazione totale si attesta al 9,5% e nel Mezzogiorno raggiunge il 19,3%.
bisogna considerare che la città di Milano garantisce un’offerta formativa sicuramente più
consistente rispetto a quella reperibile nei centri di piccole dimensioni. I giovani che non trovano
un’occupazione in tempi brevi preferiscono dunque indirizzarsi verso la continuazione della
formazione spinti anche dalla pluralità di corsi organizzati dal Fondo Sociale Europeo. In altre zone
del paese, invece, giovani che non trovano lavoro rischiano di rimanere a tutti gli effetti inoccupati,
avendo probabilità minori possibilità di proseguire la formazione professionale.
La maggiore offerta formativa e universitaria registrata in questi ultimi anni in seguito
all’organizzazione, da una parte, dei corsi di formazione professionale regionali e del Fondo Sociale
Europeo e, dall’altra, dell’istituzione dei nuovi corsi di laurea triennale sembra aver favorito
l’adozione da parte dei giovani di comportamenti volti alla sperimentazione, provocando
paradossalmente un ulteriore ritardo nel compimento della transizione. In questo contesto formativo
variegato valgono infatti “posizioni intermedie” in cui i giovani italiani coniugano più condizioni
occupazionali e formative insieme. E’ possibile, ad esempio, iniziare un corso universitario e nel
contempo seguire un corso di formazione prestando attenzione anche ad eventuali opportunità
lavorative che si potrebbero presentare.
L’altro dato significativo emerso dalle interviste è l’assoluta impreparazione dei giovani italiani
alla vita fuori dal contesto familiare. Solo qualche giovane (per la precisione due giovani donne, di
cui una vive da sola, su quaranta intervistati) ha avuto la possibilità di sperimentare periodi
significativi di allontanamento dalla famiglia d’origine. Gli altri ammettono di allontanarsi dalla
casa dei genitori per un periodo di qualche settimana, in compagnia di amici o del partner, soltanto
in occasione delle vacanze estive.
Il raggiungimento dell’autonomia abitativa dalla famiglia non sembra quindi costituire per i
giovani un obiettivo esistenziale da perseguire nel breve (talvolta anche nel medio) termine. A
riprova di ciò, va sottolineato che la stragrande maggioranza dei giovani – facilitati anche
dall’offerta del mercato lavorativo milanese - svolgono lavoretti o hanno occupazioni temporanee
che consentirebbero loro di rendersi in parte o del tutto indipendenti sul piano economico dai
genitori.
Per comprendere la tendenza a non allontanarsi dalla famiglia di origine è dunque necessario
tenere conto non solo di fattori strutturali innegabili come la difficile relazione con il mercato del
lavoro (per quel che riguarda ad esempio la stabilità del lavoro); il caro affitti; i problemi oggettivi
di far coesistere studio e lavoro senza poter contare sull’organizzazione familiare e così via.
Occorre anche prendere in considerazione aspetti di ordine extra-strutturale quali, ad esempio, la
qualità delle relazioni genitori/figli o, per altri versi, il forte bisogno di sicurezza psicologica dei
secondi. Nonostante le buone intenzioni (che le interviste sottolineano), con molta probabilità per
numerosi giovani tale decisione sarà rinviata ancora a lungo.
Alla luce di quanto è stato richiamato, si può dunque realisticamente affermare che la
maggioranza dei giovani intervistati non considera la conquista dell’autonomia abitativa una tappa
indispensabile per il raggiungimento dello status adulto. Per questo motivo, anche coloro che hanno
già conseguito l’indipendenza economica possono senza problemi posticipare questa decisione.
Bisogna comunque considerare che i giovani italiani, a differenza dei danesi e dei tedeschi,
dipendono interamente dalle risorse economiche della famiglia d’origine, non potendo contare su
nessun tipo di sostegno statale. L’aiuto materiale dei genitori non integra altre entrate se non quelle
ottenute dai giovani con i lavoretti che ammettono di svolgere. Questa forma di dipendenza
consolida i legami familiari e mantiene vivo il senso di obbligo dei figli nei confronti dei genitori.
E’ tuttavia plausibile ipotizzare che in futuro sarà ben più difficile garantire eguale sostegno sia ai
propri figli sia ai propri genitori. La maggiore instabilità lavorativa e il conseguente indebolimento
delle posizioni occupazionali obbligheranno infatti le giovani generazioni ad investire sempre di più
nella formazione continua, acquisendo sempre nuove competenze spendibili nel mercato del lavoro.
Ciò sarà presumibilmente aggravato dalla perdita di molte delle attuali garanzie previdenziali. Le
linee di riforma del sistema previdenziale prevedono, infatti, l’estensione del periodo lavorativo
complessivo, provvedimento che renderà impossibile o faticoso il mantenimento dell’attuale
struttura di solidarietà familiare e metterà in crisi le forme di restituzione attuabili nel lungo
periodo.
Questa difficoltà è ulteriormente aggravata dalle trasformazioni demografiche in atto in Italia.
In particolare, il progressivo aumento dell’aspettativa di vita e il calo della fecondità hanno
modificato profondamente le reti di parentela all’interno delle quali gli individui si trovano inseriti
nei momenti cruciali della vita, e quindi anche le figure su cui possono contare per ricevere aiuto o
alle quali devono dare sostegno15. Inoltre, il progressivo allungamento della vita accentuerà le
responsabilità familiari delle donne di cinquanta e sessant’anni, che si troveranno ad accudire i
nipoti, figli del proprio figlio o figlia, e almeno uno dei due genitori anziani (con l’aggravante che
15
L’Istat (2000) ha provato a indicare la portata di tali cambiamenti mettendo a confronto i percorsi di vita e le reti
di parentela di due generazioni di donne: quelle nate nel 1940, che hanno attualmente poco più di sessant’anni, e quelle
nate nel 1960, oggi poco più che quarantenni. In linea di principio, le donne nate nel 1940 possono dividere il lavoro di
cura verso i componenti anziani e i nipoti con altri nove adulti (marito, sorelle/fratelli, cognate); le donne nate nel 1960
possono fare affidamento sull’aiuto potenziale di cinque adulti soltanto. Il progressivo allungamento della durata della
vita, poi, ha reso maggiormente presenti all’interno delle reti di parentela i membri anziani. Si calcola che le donne nate
nel 1940 avranno almeno per dodici anni uno o più anziani all’interno di questa rete, periodo che si estenderà a diciotto
anni per le donne nate nel 1960. Tali trasformazioni hanno provocato un notevole innalzamento dell’età media della rete
di parentela, accresciuta anche dal calo della fecondità. Considerando i parenti stretti (genitori, marito, figli,
generi/nuore e nipoti), per la prima generazione di donne questa età era di anni 26,1 anni. Per la seconda, le nate negli
anni Sessanta, l’età media è di anni 44,6.
solo il 50% di queste donne avrà un fratello o sorella con cui condividere tale compito). Una
prospettiva simile mette in serio pericolo la persistenza dell’attuale modello di relazioni familiari,
caratterizzato da una forte presenza e continuità di legami e scambi familiari tra genitori e figli, e
addirittura dal loro intensificarsi alla nascita dei nipoti.
Più difficile disegnare gli scenari futuri della transizione all’età adulta. Se ci basiamo su quanto
emerge dalle interviste ai giovani e ai genitori essa appare come un percorso ancora, tutto sommato,
sufficientemente lineare. Nella maggioranza dei casi, infatti, per rappresentare la transizione si
continua a fare riferimento ad un modello, quello dell’ordine sequenziale delle fasi, che la realtà
sociale ha già da tempo reso sempre meno praticabile. Di fatto, agli occhi di chi la vive (e dei loro
genitori) la transizione alla vita adulta in Italia sembra distinguersi per la lentezza con cui le diverse
fasi vengono attraversate piuttosto che per la rottura della linearità della sequenza. Non di meno,
dalle interviste trapela un’incertezza pressante - e a volte paralizzante - che impedisce ai giovani dei
due sessi di impegnarsi in scelte biografiche significative, e a loro e ai loro genitori di prefigurarsi il
futuro.
Di fatto, tuttavia, anche in Italia la linearità dei percorsi di transizione è profondamente in crisi,
soprattutto nella fase di passaggio dal sistema scolastico a quello lavorativo. La stabilità
occupazionale è per i più una chimera, mentre si allarga il tentativo di conseguire sempre nuovi
attestati formativi spendibili sul mercato del lavoro. E’ dunque la rottura di questa linearità a
rendere per i giovani sempre più necessario il sostegno della famiglia, unica risorsa materiale su cui
i giovani italiani possono contare in assenza di specifici interventi da parte dello Stato.
C’è un ultimo punto su cui occorre riflettere. E’ difficile ipotizzare che, in assenza di
provvedimenti di ordine politico-sociale mirati a facilitare il passaggio dei giovani dalla scuola al
lavoro o a offrire misure sociali capaci di allentare la dipendenza dalla famiglia d’origine (ad
esempio, i sussidi di disoccupazione o i sostegni per lo studio presenti in Germania e in Danimarca),
la transizione all’età adulta possa diventare in Italia più agevole. Si può invece sostenere con un
certo margine di sicurezza che per i giovani italiani dei due sessi l’approdo all’età adulta si farà
sempre meno facile, oltre che per i già ricordati motivi di instabilità occupazionale e di difficile
raccordo tra scuola e lavoro, anche per il venir meno di una rete familiare “protettiva”. Alle ragioni
di ordine demografico ricordate in precedenza si aggiungono infatti cause legate alla crescente
instabilità coniugale, che produce famiglie con un unico genitore, generalmente meno capaci di
offrire risorse ai figli. Su questa base è legittimo attendersi, negli anni a venire, una crisi della
“famiglia lunga”, caratterizzata dalla coabitazione di genitori e figli ormai anagraficamente adulti,
che caratterizza l’Italia contemporanea.
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