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Suor Juana Inés De la Cruz di Maria G. Di Rienzo
Suor JuanaInés de la Cruz (1651ca - 1695) in un ritratto postumo(1750) di Miguel Cabrera Suor Juana Inés De la Cruz di Maria G. Di Rienzo Edito originariamente in Babilonia, n. 172, XII- 1998, pp. 38-41, con il titolo "Suor Juana Inés de la Cruz (1648/51-1695): il sogno infranto" La data di nascita di Juana de Asbaje y Ramirez non è certa e può essere collocata fra il 2 dicembre 1648 ed il 12 novembre 1651 (le due ipotesi più accreditate); sul luogo, invece, non vi sono dubbi: San Miguel de Nepantla, un villaggio a circa 60 chilometri a sud di Città del Messico, allora capitale del vicereame della Nuova Spagna. La madre, la creola Isabel Ramìrez, ha già altre due figlie (Marìa e Josefa) dall’uomo con cui vive e con il quale non è sposata; analfabeta, Isabel Ramirez dirige però una masseria, è praticamente a capo della comunità in cui vive e già dal 1655 si è scelta un nuovo compagno, con il quale avrà i successivi tre figli. A tre anni Juana impara a leggere, tenendone all’oscuro la madre, grazie alla complicità di una sorella maggiore che la conduce con sé da una maestra: "(...) seppi leggere in così breve tempo, che già lo sapevo quando lo seppe mia madre, cui la maestra l’aveva tenuto nascosto per darle alla fine la buona notizia e, insieme, ricevere la ricompensa; e io l’avevo taciuto, credendo che mi avrebbero frustata poiché l’avevo fatto senza ordine". A 7 anni, poiché le promettono in premio un libro, compone un inno sulla Comunione e, appreso dell’esistenza a Città del Messico di scuole ove si studiano le scienze, supplica la madre di acconsentire a travestirla da ragazzo e di mandarla all’Università... L’anno dopo la madre manda effettivamente Juana a vivere a Città del Messico, con una zia sposata a un benestante, nella casa del nonno materno da poco scomparso (il quale aveva fama di letterato e poeta ed era in possesso di una vasta biblioteca): era probabilmente l’unica cosa che Isabel potesse fare per venire incontro al desiderio di conoscenza della figlia. La fanciulla cresce graziosa ed estremamente intelligente, nonostante la mancanza di un’educazione formale: nulla nelle ricerche indica che Juana sia stata guidata nell’apprendimento da altro che la propria curiosità e il proprio intelletto. La sua rapidità nell’apprendere è eccezionale (imparerà il latino in sole venti lezioni), i suoi interessi multiformi: scrive versi, studia astronomia, compone musica, dipinge. Dirà più tardi, a questo proposito, che trovava limitante, per un cattolico, non sapere che ogni cosa, "in questa vita di divini misteri" può essere conosciuta tramite i sensi e i mezzi naturali. Nel 1664 viene presentata dalla zia alla corte dei nuovi Viceré Antonio Sebastiàn de Toledo e Leonor Carreto, marchesi di Mancera: entra immediatamente fra i ranghi delle dame della Viceregina, con il titolo di "amatissima". Il primo biografo di Juana, padre Diego Calleja, annota nella Vida de Sor Juana (1700) che la signora Viceregina non poteva restare un solo giorno senza "la sua Juana Inés". I versi che la fanciulla le dedica (pur essendo meno "torridi" di quelli che invierà in seguito alla sostituta di Leonor, in cui esploderà un erotismo che di barocco ha solo forma e cornice) sfuggono già, in parte, al semplice "encomio" di maniera, dovuto da una suddita ad una regnante: Leonor vi è cantata come la "divina Laura", a cui Juana ha offerto la vita ed un corpo su cui nemmeno la morte può trionfare fintanto che "Laura" lo possiede con il suo amore. L’eccellenza nelle arti e nelle scienze di una fanciulla così giovane, unita secondo il citato biografo ad un sembiante che la bilanciava per bellezza, non finivano di stupire il marito di Leonor, che la sottopose in un sol giorno ad un esame di una quarantina di dotti e sapienti, dalle cui domande ed argomentazioni Juana si liberò "come un galeone reale" da poche "scialuppe". Le ragioni per cui, nel 1667, Juana abbandona la Corte ed entra in convento sono molto discusse. A seconda della visione che si vuol avere di lei, alcuni sostengono che la decisione fu presa dopo una delusione d’amore, che l’avrebbe spinta ad abbandonare le cose mondane; altri ritengono che fu l’insistenza di padre Antonio Nuñez de Miranda, confessore del Viceré che Juana conobbe a corte, a convincerla alla monacazione; altri ancora parlano di semplice "chiamata" da Dio. È difficile dar credito a una di queste ipotesi: sulla prima, almeno in senso eterosessuale, non abbiamo alcun indizio a suffragio, e Juana mostrava scarsi segni di religiosità prima del suo ingresso in convento. Si trattò, più probabilmente, di una decisione pratica, basata sulla valutazione delle opportunità che le si offrivano, come donna, a quell’epoca in Messico. La sua condizione di servizio alla Viceregina, per esempio, non era stabile, nel senso che Juana aveva la necessità di assicurarsi un futuro prima del ritorno di Leonor in Spagna: il "mandato" di vicereggenza durava tre anni, veniva riconfermato molto raramente, ed il cambio avrebbe potuto esserle non favorevole. La sua condizione di illegittima non era peraltro un serio impedimento al matrimonio, essendo allora piuttosto comune: entrambe le sorelle di Juana si sposarono con uomini facoltosi. Ma Juana dichiarò nero su bianco la propria avversione alle nozze: "Presi i voti perché, pur sapendo che lo stato monacale presentava aspetti (di quelli marginali, parlo, non di quelli sostanziali) che non mi andavano a genio, era comunque, per il netto rifiuto che provavo del matrimonio, la cosa meno fuori luogo e più congrua che potessi scegliere per la mia salvazione; al quale progetto (come al fine più importante) cedettero e piegarono il capo tutti i miei capriccetti, ossia il desiderio di vivere sola, di non avere alcuna occupazione che intralciasse la libertà dei miei studi, ne’ rumore di comunità che disturbasse il quieto silenzio dei miei libri". Il primo convento che accoglie Juana è quello delle Carmelitane scalze (S. Joseph), ma la durezza della "regola" la induce a lasciarlo dopo tre mesi. Pronuncerà invece i voti il 21 febbraio 1669, durante una cerimonia che vede la presenza dei Viceré, nel convento di San Girolamo. In quell’occasione la madre le regala una schiava come servente, Juana de San José. La comunità in cui entra con il nome di Suor Juana Inés de la Cruz è una piccola città femminile; vivevano in essa cinquanta suore, ma con la presenza delle loro serve e delle sorelle laiche a loro affidate, il numero delle abitanti del convento era di circa duecento. Le cosiddette celle delle monache erano veri e propri appartamenti, spesso su due piani, che comprendevano cucina, due o più camere da letto, salotto e bagno (quest’ultimo con impianto idraulico per l’acqua calda!). Le sorelle di San Girolamo, nonostante i voti di povertà, possedevano beni personali, gioielli e, come nel caso di Juana, libri; potevano vendere e acquistare proprietà o effettuare investimenti tramite intermediari. La regola del convento proibiva l’uscita delle monache e l’ingresso di visitatori esterni se non protetto dalla grata del parlatorio, ma quest’ultimo aspetto veniva generalmente ignorato. Le fanciulle laiche e le monache giustificavano i loro interessi "mondani" con il fatto che San Girolamo era stato noto per le sue produzioni artistiche (musica, danza, teatro). Il salotto monacale di Juana si trasformò ben presto, in tale contesto favorevole, in un salotto intellettuale. Ella iniziò in questo periodo una fitta corrispondenza con altri letterati in Spagna ed in America Latina di cui abbiamo menzione in diversi testi, anche se nessuna delle sue lettere è stata finora rinvenuta. Il Marchese di Mancera e sua moglie vengono sostituiti nel 1672, a resteranno a Città del Messico, a titolo personale, per quasi altri due anni. Il Viceré che li sostituiva morì quattro giorni dopo il suo insediamento e il suo posto fu preso da un sacerdote proveniente dall’aristocrazia spagnola, Fray Payo Enríquez de Rivera. Durante i sette anni di vicereggenza di quest’ultimo abbiamo scarse tracce che ci indichino cosa facesse Suor Juana: sappiamo che era la contabile e la tesoriera del convento e indubbiamente dobbiamo supporre che continuasse i propri studi. Nel frattempo, a Juana era mancata anche la "divina Laura", morta sulla via del ritorno in Spagna, nei pressi di Veracruz, nel 1674: "Bello composto in Laura or separato, anima eterna, spirito glorioso, perché lasciasti corpo sì vezzoso e un’anima siffatta hai congedato? (...) Vola, anima beata, con anelo e, dal tuo ameno carcere slegata, fra le porpore sue mutate in gelo, sali a venir di stelle incoronata: che è proprio necessario tutto il cielo perché pari dimora ti sia data". Il 30 novembre 1680 fa il suo ingresso a Città del Messico il nuovo Viceré, cugino di Fray Payo, Tomás Antonio de la Cerda, marchese de la Laguna, assieme alla moglie María Luisa Manrique de Lara, contessa di Paredes. Ad accogliere la nobile coppia c’è un arco di trionfo, come tradizione vuole; un arco di trionfo il cui disegno è stato commissionato a Suor Juana: sua la scelta architettonica, sua la composizione dei versi su esso iscritti, sua la scelta delle immagini dipinte. Il testo ideato da Juana si intitola Neptuno alegórico e raffigura il Viceré e sua moglie come Nettuno ed Anfitrite. María Luisa era una donna colta, oltre che, se dobbiamo dar credito alle descrizioni che di lei fa Suor Juana, supremamente affascinante: ella la definirà "transito ai giardini di Afrodite", "angelica forma", "cumulo di bellezze", "bùcchero di fragranze"... L’incontro fra Marìa Luisa e Juana fu subito simpatia ed ammirazione reciproca; la loro relazione divenne un’amicizia ardente ed infine non le si poté dare che il nome di amore. "L’affetto di Suor Juana per la contessa di Paredes, a giudicare dal tono delle composizioni che le indirizzava, si trasformò rapidamente in un sentimento che può solo essere chiamato amore. Da quei testi si comprende anche che l’amicizia amorosa fu corrisposta con pari eccessi, effusioni ed impeti. (...) È fuori di dubbio che la relazione con la contessa di Paredes, dal 1680, divenne l’asse fondamentale della vita di Suor Juana". A questo proposito, l’anonimo curatore del primo volume pubblicato delle opere di Juana, la raccolta di poesie Inundación Castálida, si preoccupò di ribadire più volte come l’amore che legava le due donne non contenesse a suo avviso alcuna traccia di "indecenza" o "carnalità": i versi in tale opera contenuti, dedicati a María Luisa (celebrata con i nomi di Lysi e Filis), erano dunque già in sospetto di sconvenienza per un contemporaneo. "(...) Ma a che serve proseguire? Come te, Filis, io ti amo; ché i tuoi meriti vedendo, questo è l’unico tuo elogio. Esser donna e starti assente non impediscon di amarti; le anime, tu ben lo sai, distanza ignorano e sesso". Con l’ingresso della Viceregina nella sua vita Juana Inés guadagna, oltre ad un periodo di intensa felicità, una protettrice potentissima: alle (pur blande, fino a quel momento) rimostranze che le vengono mosse dai superiori ecclesiastici per la sua totale dedizione agli studi, ora Juana può rispondere con baldanza, o addirittura ignorarle. Ella è la beniamina della corte di María Luisa, che si preoccupa di far circolare le produzioni artistiche di Juana; è solo grazie alla cura che la contessa di Paredes ebbe dei versi della sua amata se noi, oggi, possiamo apprezzarli. Inundación Castálida, il testo teatrale El Divino Narciso, il poemetto Primero sueño, furono tutti stampati, fra il 1689 e il 1690, a spese della contessa di Paredes: omaggio al genio di Juana da cui, dal 1688, María Luisa ha dovuto separarsi, essendo scaduto il mandato di vice reggenza. Nel momento in cui la fama di Juana si espande, valica il Messico e riscuote lusinghieri apprezzamenti in Spagna, ella si trova però da sola a fronteggiare un temibile nemico, l’arcivescovo di Città del Messico, Francisco Aguiar y Seijas. Costui disprezzava il sesso femminile in modo quasi patologico: che una donna fosse riconosciuta come intellettuale era per l’arcivescovo già un affronto, ma egli trovava assolutamente intollerabile che una monaca scrivesse canzoni per balli, versi d’amore e testi di teatro che non avevano nulla di "sacro". Particolarmente odiosa, per lui, fu la coincidenza che vide contemporaneamente il suo ingresso in città e la rappresentazione pubblica di una commedia di Juana, Los empeños de una casa: il secondo evento fu più rinomato del primo... C’è da dire che l’unica differenza fra Juana ed altri religiosi che scrivevano di argomenti "secolari" era esclusivamente il suo sesso: nessuno rimproverò Lope de Vega per le sue poesie profane... Per anni, l’arcivescovo aveva covato il suo rancore verso Juana inviandole, tramite intermediari, vaghe reprimende e ammonimenti ad abbandonare gli studi, impedito però nell’azione dal legame della monaca con le due viceregine. Nel 1690 un passo falso, o un vero e proprio tradimento da parte di un amico, offrirono a Francisco Aguar y Seijas il modo di "vendicarsi": viene pubblicato quell’anno, infatti, un opuscolo dal titolo Carta atenagórica de la madre Juana Inés de la Cruz, sua prima ed ultima opera teologica, ovvero una serrata critica ad un famoso sermone gesuita dell’epoca e cioè alla corrente di pensiero a cui l’arcivescovo si rifaceva. Il testo, in forma di lettera, era indirizzato a tale "Suor Filotea del convento della Santissima Trinità di Puebla", ma dietro allo pseudonimo si celava il vescovo Manuel Fernández de Santa Cruz, amico di Juana e da anni impegnato in una feroce lotta per il potere contro l’Arcivescovo. Manuel Fernández pubblica infatti il testo, a guisa di vero e proprio attacco provocatorio al suo nemico di sempre, ma premurandosi di anteporvi un monito a Suor Juana, nel quale le si consiglia di volgersi alle cose sacre e si smussano o contrastano alcune affermazioni contenute nel testo stesso. Lo scandalo che seguì a questa pubblicazione, anche se a noi oggi può apparire assurdo, fu enorme: apparvero immediatamente elogi a stampa del sermone criticato da Suor Juana e ancora nel 1731 il caso veniva dibattuto a Madrid con la pubblicazione di opere contrarie o favorevoli alla monaca. Ancora più assurdo appare pensare che Juana avesse deciso di rendere pubblica la Carta atenagórica nel momento in cui si trovava priva di difese; a tanto clamore, comunque, Juana fa seguire la sua Respuesta a Sor Filotea il 1° marzo 1691: avrebbe dovuto trattarsi, viste le nuvole che le si addensavano sul capo ed il palese rifiuto del Vescovo Fernàndez di intervenire a sua tutela, di un atto di pentimento e di sottomissione, ma non lo fu. Fu invece un’appassionata e splendida difesa della propria carriera intellettuale e del diritto delle donne alla conoscenza e agli studi. L’atmosfera di sdegno nei suoi confronti crebbe a dismisura e Juana lottò per non soccombervi come poteva e sapeva: continuò a scrivere nel mentre le sue opere, fino al 1693, continuarono a venir pubblicate in Messico, a Barcellona e Siviglia, con dediche e premesse che celebravano l’eccellenza delle donne negli studi e la particolare eccellenza di Suor Juana, avallate da autorevoli conferme di rinomati "dottori della Chiesa" dell’epoca. María Luisa Manrique fu l’organizzatrice occulta della maggioranza di queste operazioni; impotente a difendere Juana in altro modo, poiché ormai vedova (dal 1692) e distante e non più in grado di esercitare, tramite il titolo del marito, un’influenza diretta sulla politica messicana, la contessa di Paredes non riuscì ad evitare la riduzione al silenzio della sua amata. Sottoposta ad ogni genere di pressioni, mentre attorno a lei infuriano disordini civili, rivolte e lotte per il pane, infine Juana cede: dopo una lunga confessione in cui ammette di aver "vissuto nella religione senza religione", ella consegna all’Arcivescovo la sua amata biblioteca, i suoi strumenti scientifici e musicali, i doni preziosi che le erano stati fatti dai suoi ammiratori e si dà, secondo i biografi, a "crocifiggere le sue passioni" sottoponendosi ad ogni sorta di privazioni. L’Arcivescovo vendette tutto a scopo di beneficenza e, non contento, confiscò i fondi del convento che Juana amministrava, sebbene solo una piccola parte di quel denaro le appartenesse. Nell’anno successivo, Juana arriva a firmare con il proprio sangue una completa rinuncia agli studi. Forse si trattò dell’ultima strategia difensiva che le restava per non affrontare l’accusa di disobbedienza ai suoi superiori e quella, ben più temibile, di eresia; tuttavia, ridotta al silenzio, Juana si avvia quasi consapevolmente verso la fine. Ella muore infatti di peste nel 1695, il 17 aprile, dopo essersi prodigata nelle cure alle altre monache colpite dal morbo. Non si hanno notizie precise, invece, sulla data di morte di María Luisa, che era più o meno coetanea di Juana; c’è chi sostiene sia scomparsa nel 1696, e chi ritiene sia morta in esilio, in seguito ad una guerra di successione in Spagna, nel 1721. L’ultimo scritto della poetessa che l’amò è una richiesta di perdono alle consorelle, vergata pochi mesi prima della morte sul libro delle professioni di fede del convento, che Juana firma così: "Yo, la Peor de Todas", ovvero "Io, la peggiore di tutte". E doveva davvero esserlo, una donna che nel Seicento scrive: "Stolti uomini che accusate la donna senza ragione, ignari di esser cagione delle colpe che le date; (...) Io molti argomenti fondo contro le vostre arroganze, ché unite in promessa e istanze l’inferno, la carne e il mondo". Su Juana Inés de la Cruz si può leggere in italiano: Dario Puccini, Sor Juana Inés de la Cruz. Studio d’una personalità del Barocco Messicano, Ed. dell’Ateneo, Roma 1967; Octavio Paz, Suor Juana Inès de la Cruz o le insidie della fede, Garzanti, Milano 1992 (testo vincitore del Premio Pulitzer). In Rete (nota a cura di G. Dall'Orto). Bibliografia delle opere tradotte in italiano: Risposta a suor Filotea, (con il testo teatrale di Dacia Maraini, Suor Juana - La casa del linguaggio), La Rosa, Torino 1980; Poesie. Con la risposta a suor Filotea de la Cruz, Rizzoli, Milano 1983; Il sogno, Piovan, Abano Terme 1985; Risposta a suor Filotea, Sellerio, Palermo 1995; Versi d’amore e di circostanza, Einaudi, Torino 1995. Fonte www.lastampa.it Vita e battaglie di suor Juana de la Cruz suora e poetessa in una società clericale MARIO VARGAS LLOSA Fino a poco tempo fa ero convinto che il miglior libro di critica letteraria mai pubblicato in America Latina fosse Morte e trasfigurazione di Martin Fierro (1948) di Ezequiel Martinez Estrada. Ora credo sia quello che ho appena finito di leggere e che Octavio Paz ha dedicato a Suor Juana Inés de la Cruz, ovvero le trappole della fede. Il libro di Paz su suor Juana, nato da un corso che egli tenne su lei negli Anni Settanta all’Università di Harvard, riunisce tutto il materiale biografico e bibliografico che la poetessa e scrittrice messicana ha prodotto, sino alle più recenti scoperte (la prima edizione è del 1982). L’opera poetica, teatrale e i saggi dell’autrice sono analizzati con un’incisiva acutezza intellettuale e sensibilità di poeta: non credo di esagerare se dico che, proprio grazie a questa analisi lucida e stimolamte, poemi complessi come Primo sogno splendono d’una nuova luce e ci fanno scoprire, dietro la loro ricchezza verbale e le loro audacie retoriche, una solida architettura concettuale costituita di idee filosofiche, teologiche e di mitologia greca e romana. Paz dedica molte pagine all’affascinante ricerca sulla presenza, in Primo sogno e in altri poemi di suor Juana, di un’antichissima tradizione ermetica, di radici egizie, resuscitata nel Medioevo, che spiega il senso delle sue oscure metafore e delle sue misteriose allegorie, e chiarisce con argomenti persuasivi, che questo sistema poetico, fatto di nascondimenti e di travestimenti, era un modo per cautelarsi di fronte al rischio - che faceva vivere tutti i poeti dell’epoca in un cronico terrore - di incorrere, per negligenza o di proposito, nel reato di eterodossia o sacrilegio e, quindi, di finire nella rete dell’Inquisizione. La suor Juana che esce con la sua figura delicata dalle pagine de Le trappole della fede è commovente. Il suo coraggio, la sua forza, le sue astuzie, la sua tempra, sono state grandi quanto la sua intelligenza e il suo talento. I capitoli che descrivono la società coloniale in cui è nata e cresciuta, questa variegata piramide di caste, razze e classi rigidamente stratificate la cui cuspide aristocratica era il riflesso fedele di quella che reggeva la metropoli imperiale e la cui umile base, quella degli Indios, conservava vivi, benché segretamente camuffati, miti, credenze e costumi delle civiltà preistoriche, hanno la vivacità e l’energia dei grandi murales e dei migliori film di carattere epico. E consentono di capire meglio e di provare una compassione ancor più profonda per chi, in questo contesto sociale, in quanto donna, possedeva uno spirito libero ed era curiosa, avida di conoscere e tesa ad appropriarsi delle cultura del proprio tempo. Essere così, com’era l’umile Juana Inés Ramirez de Asbaje, nata attorno al 1651, bimba senza padre e senza risorse economiche, voleva dire affrontare un’onnipotente macchina di dissuasione e di repressione al servizio d’una idea che faceva della donna un essere inferiore, un animale da casa e da riproduzione e su cui, al di là di ogni altra considerazione, pesava la maledizione biblica per aver soggiaciuto per prima alle tentazioni del demonio e d’essere stata, per la sua natura di peccatrice, la più grande nemica della salvezza dell’uomo. Che, nonostante ciò, Juana Inés riuscisse a scrivere, leggere e ad apprendere molto più che la maggior parte dei suoi conteemporanei e, persino, a redigere - nella sua Risposta a suor Filotea - un sottile manifesto a difesa del diritto delle donne (non ancora riconosciuto da nessuno) alla conoscenza, all’attività letteraria, scientifica e artistica, dimostra che era dotata non solo d’una formazione al di fuori del comune e d’una capacità di volare alto con la sua creatività, ma anche d’una ciclopica forza di volontà e che sapeva destreggiarsi nelle schermaglie politiche e nei giochi d’equilibrio per la sopravvivenza. I suoi contemporanei assicurano che era bella, disinvolta e che, nella sua breve giovinezza laica, mieteva successi nei saloni delle feste del Vicerè. Doveva essere anche misteriosa e un po’ fredda, riflessiva e capace di grandi sacrifici, come quello di rinchiudersi in un convento di clausura senza avere la minima vocazione, , ma solo perché questa era l’unica strada possibile affinché una come lei potesse ricevere un’educazione e avere una vita intellettuale. E doveva essere, anche, una donna molto femminile che sapeva sedurre e lodare il prossimo visto che, grazie a queste capacità, riusciva a ottenere gli appoggi e i sostegni senza i quali sarebbe naufragata molto prima nelle acque tempestose in cui ha navigato per tutta la vita. Quello di Paz non è un libro gretto e non trascura di far emergere gli aspetti positivi che il colonialismo - questi tre secoli nei quali fece parte dell’impero spagnolo - ha lasciato al Messico, la sua inglobazione con l’Occidente e con la modernità, la ricchezza dei suoi templi, dei conventi, delle biblioteche, l’eredità culturale e religiosa e la sua ibridazione con i culti autoctoni, sino alla costituzioine dell’aspetto più importante: quella che, in mancanza d’una definizione migliore, definiamo identità messicana. Nello stesso tempo non ho mai letto una descrizione più severa e lapidaria di che cos’è una società clericale, sottoposta alla vigilanza fanatica d’una chiesa ancora impregnata di fervore controriformista, dogmatica e inquisitrice, implacabile nei confronti di qualsiasi manifestazione di pensiero libero o non uniformato, una chiesa da crociata per la quale, nel comportamento dei suoi più ferrei fondamentalisti, come quello incarnato dall’arcivescovo del Messico, Aguiar y Seijas, uno dei torturatori spirituali di suor Juana, tutto ciò che non fosse totale donazione di sé a Dio e alle pratiche religiose - tra il resto, il teatro, le corride, la letteratura, lo studio, l’igiene - rappresentava un pericolo di empietà e di eresia. La figura di questo spaventoso e potentissimo personaggio, dalle carni lacerate per le pratiche con cui castigava il proprio corpo peccatore, divorato dai pidocchi e dalle cimici che lasciava annidare nel letto e negli abiti per amore di Dio, dà i brividi e ci ricorda l’epoca in cui la Chiesa cattolica, come l’islamismo fondamentalista dei giorni nostri, era la cittadella dell’oscurantismo intellettuale e dell’autoritarismo politico. Il modo in cui l’arcivescovo Aguiar y Seijas e il confessore di suor Juana, il padre gesuita Antonio Nunez de Miranda, riescono, finalmente, al termine d’una sorda e silenziosa lotta di anni, a vincere la resistenza della scrittrice e a farle rinnegare le proprie opere e a rinunciare alla poesia, allo studio e persino a pensare, ad accusarsi in un’abietta autocritica d’essere una peccatrice e una ribelle e a vivere gli ultimi anni di vita trasformata in una sorta di automa religioso, ispirano le pagine più drammatiche del saggio di Paz. Si leggono affascinati e pieni d’orrore. Con un’idea molto giusta e con solidi argomenti, Paz paragona questi testi di vergognosa autocritica scritti da suor Juana ai processi stalinisti avvenuti negli anni Trenta in Unione Sovietica nei quali, persuasi o torturati dai loro carnefici, i compagni di Lenin si dichiaravano nazifascisti, traditori e venduti per servire in modo migliore la causa di chi li annientava. Poichè la possiede nel suo pensiero, indica tutta l'inutilità della vista degli occhi Pur se mi accecò il guardarti, che importa vedere o no, se dell'anima i diletti anche un cieco può vederli? Quando l'amore tentò di fare tue le mie spoglie, Lysi, e la luce mi levò, diede all'anima quegli occhi che dal corpo mio sottrasse. Diede a me, perchè potessi con più attenzione adorarti, occhi con cui contemplarti; e così ebbi miglior vista, pur se mi accecò il guardarti. E prima questi occhi in me erano intralci penosi: non avendoti per sè è chiaro che erano oziosi non potendo veder te. Accecarsi, a mio vedere, fu una grande provvidenza poichè non potevo averti: a chi più luce non ha, che importa vedere o no? Ma è una gloria così rara quella che ho nell'adorarti, che, se pure mi uccidesse, porrebbe fine la gioia a quel che il dolor non seppe. Ma che importa se la palma mi sottraggono, violenti, in questa amorosa calma, non del mio corpo i tormenti, ma dell'anima i diletti? Così avrò nella violenta condanna di non vederti, a sollievo del tormento, sempre il mio pensiero in te, sempre te nel mio pensiero. Qui nell'anima vedrò il centro dei miei affetti con gli occhi della mia fede: chè piaceri immaginati, anche un cieco può vederli. Dono in cui l'affetto fa omaggio di semplicità Lysi, alle tue belle mani dono castagne spinose, perchè dove abbondan rose non posson mancare spine. Se tendi alla loro asprezza e con questo il gusto inganni, perdona la rustichezza di chi te le regalò; perdona, ché questo riccio solo può donar castagne. Pur se mi accecò il guardarti, che importa vedere o no, se dell'anima i diletti anche un cieco può vederli? A Filis Come te, Filis*, io ti amo; ché i tuoi meriti vedendo, questo è l'unico tuo elogio. Esser donna e starti assente non impediscon di amarti; le anime, tu ben lo sai, distanza ignorano e sesso. E l'ordine naturale iene osservato in sue leggi solo da beltà comuni, secondo il comune ossequio. Non quella tua, ché godendo imperiali privilegi, nascesti prodigio bello con esenzioni regali: la cui mano poderosa, il cui sforzo necessario, per le anime dominare impugnò lo scettro bello. Accogli un'anima arresa la cui vigilia studiosa vorrebbe moltiplicarla sol per crescere il tuo impero. Ben so che non è favore darti quel che è di diritto tuo; ma se mia io la chiamo è per dartela di nuovo. E' destrezza del mio amore negarti, talvolta, il feudo, perché, in lotta, tu raddoppi i trionfi, se non i regni. Oh, chi può mai consegnarti, non le ricchezze di Creso**, ché materiali tesori sono indegni di tal sire; bensì ogni anima affrancata, ogni petto più arrogante, che, di conoscerti forti, dal tuo giogo sono esenti! Volle provvido l'amore, il danno evitar discreto, che di cenere i tuoi occhi riempian tutto l'universo. Ma è libertà sventurata quella di chi ignora, stolto, delle tue malie divine il veleno salutare! I tuoi miracoli han reso, l'ordine contravvenendo, il dolor grato e soave e glorioso ogni tormento. E se un filosofo, solo vedendo il sire di Delo***, del travaglio della vita si dava per soddisfatto, io con assai più ragione pagherei tua dolce vista non con l'ansia di una vita, ma col prezzo di una morte! Se credito non mi dai, dallo ai tuoi meriti almeno, ché, se esamini la causa, tu devi trovar l'effetto. Potrò mai cessar di amarti, se sì divina ti vedo? C'è causa che non produce? C'è potenza senza oggetto? Poiché tu sei il più leggiadro, grande, sovrumano eccesso che abbia visto in cerchi tanti il verde girar del tempo, perché il mio amor ti vide? Perché la mia fede ti offro, quando ogni dote tua è firma di mia prigionia? Volgi su te stessa gli occhi e troverai, in te e in loro, che è possibile l'amore e necessaria l'arresa, mentre intanto ogni pensiero, a contemplarti occupato, che io vivo assicura, solo sapendo che per te muoio. NOTE: * Filis è uno dei nomi con cui Juana Inés de la Cruz celebra Maria Luisa Manrique de Lara y Gonzaga, contessa di Paredes. Maria Luisa Manrique fu a Città del Messico dal 1680 al 1688. Viceregina, strinse un fortissimo legame con la monaca, la cui attività poetica protesse e contribuì a diffondere. A lei sono dedicati i versi più intensi di Juana Inés de la Cruz. ** Creso fu l'ultimo re della Lidia ***Apollo (Poesia tratta da: Juana Inés de la Cruz - Versi d'amore e di circostanza, a cura di Angelo Morino, Einaudi Editore