La cellula 1. Le cellule procariotiche non contengono organelli
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La cellula 1. Le cellule procariotiche non contengono organelli
La cellula 1. Le cellule procariotiche non contengono organelli circondati da membrane. Le cellule procariotiche sono tipicamente più piccole di quelle eucariotiche. In esse, il DNA non è racchiuso all’interno di un nucleo, come invece è nelle cellule eucariotiche, ma è localizzato in una regione limitata della cellula detta nucleoide non delimitata da membrana. In questo senso si spiega anche il termine procariote che appunto significa “prima del nucleo”. Anche altri tipi di organelli delimitati da membrana sono assenti nelle cellule procariotiche. Come le cellule eucariotiche, le cellule procariotiche hanno una membrana plasmatica, che circonda la cellula. Questa membrana delimita il contenuto della cellula, originando un compartimento interno. Molte cellule procariotiche hanno una parete cellulare, struttura che racchiude l’intera cellula, membrana plasmatica compresa. Molto procarioti possiedono flagelli, lunghe fibre che si estendono dalla superficie cellulare, funzionali al movimento dell’organismo. La matrice interna alla cellula procariotica contiene ribosomi, complessi di RNA e proteine, che come abbiamo visto hanno una funzione fondamentale nella sintesi proteica e che nei procarioti sono più piccoli che negli eucarioti. 2. Dalla cellula procariotica a quella eucariotica: ipotesi endo-simbiontica L’Ipotesi endo-simbiontica, formulata dalla scienziata Lynn Margulis, è senza dubbio la più convincente tra le teorie addotte per spiegare la comparsa della cellula eucariotica. Essa prende le mosse da un progenitore procariotico che, una volta persa la sua parete cellulare, acquisì la capacità di inglobare materiale esterno introflettendo la membrana plasmatica. Tra le prede di questo progenitore potrebbe esserci stato un procariote eterotrofo dotato di una elevata capacità di ossidare molecole organiche per ottenere energia. Per qualche motivo, il progenitore eucariotico, anziché digerirlo, conservò il batterio come ospite: ciò gli offriva il vantaggio di gestire una fabbrica energetica con capacità ben superiori a quelle che gli erano consentite dalla sua dotazione originaria. Da questo simbionte derivò il mitocondrio della cellula eucariotica. A conferma di questo, è possibile osservare come nelle cellule eucariotiche attuali, i geni ancora presenti nei mitocondri mostrano una organizzazione simile a quella dei geni batterici. Un secondo evento di endosimbiosi ebbe un grandissimo impatto dal momento che, nella popolazione delle cellule eucariotiche già provviste di mitocondri, alcuni organismi fagocitarono un cianobatterio fotosintetico senza digerirlo. Questo nuovo endo-simbionte fotosintetico, una sorta di capostipite dei plastidi, rendeva la cellula completamente autonoma per la nutrizione. Come nel caso dei mitocondri, anche i plastidi hanno un loro genoma, diverso da quello nucleare, e simile in organizzazione e struttura a quello dei cianobatteri. 3. Cellula vegetale e cellula animale Nei paragrafi precedenti sono state evidenziate le differenze esistenti tra cellula procariotica e cellula eucariotica. Queste differenze sono maggiori di quanto non lo siano quelle esistenti, all’interno degli eucarioti, tra cellule animali e vegetali e tra queste ed i funghi o i protisti. Come vedremo, le cellule vegetali sono diverse da quelle animali perché possiedono: 1. parete cellulare e plasmodesmi; 2. plastidi; 3. vacuoli; 4. almeno nelle piante vascolari, non hanno centrosomi (organuli coinvolti nell’organizzazione del fuso durante la fase mitotica). Per il resto sono del tutto uguali sia nelle componenti, che nella struttura e funzioni. 4. La vita è caratterizzata da diversi livelli di organizzazione L’organizzazione biologica si basa su una gerarchia di livelli strutturali ognuno dei quali poggia su un gradino sottostante. Il livello chimico è quello più semplice e comprende atomi e molecole. Molte delle molecole di valore biologico sono localizzate in minuscole strutture chiamate organuli che sono a loro volta i componenti della cellula. Le cellule sono le sub-unità degli organismi. Alcuni organismi come le amebe corrispondono a singole cellule ma altri sono aggregati multicellulari cioè sono costituiti da più cellule, coordinate e specializzate. Le attività che un’ameba compie come singola cellula, una pianta le svolge dividendo il lavoro tra varie linee di cellule specializzate. Infatti, durante l’evoluzione degli organismi pluricellulari, le cellule si sono associate per formare i tessuti; ad esempio, i vegetali hanno un tessuto epidermico che serve come copertura di protezione ed i tessuti vascolari per il movimento dei materiali attraverso il corpo della pianta. Diversamente dall’ameba nessuna delle cellule di una pianta potrebbe vivere a lungo isolata dalle altre. I tessuti, a loro volta, si associano in strutture funzionali chiamate organi, come le radici, il fusto e le foglie; gli organi sono riuniti a formare quella che è l’unità base del mondo organico, cioè l’organismo. E’ opportuno sottolineare è che ad ogni nuovo passo si manifestano nuove proprietà che non erano presenti ai livelli più semplici. Tali proprietà, definite come proprietà emergenti, non sono riscontrabili a livello dei singoli elementi e non sono direttamente derivabili dalle proprietà di questi ultimi. Tale proprietà dipendono dall’insieme delle interazioni tra i singoli elementi, cioè dall’organizzazione del sistema. Una molecola, per esempio, una proteina presenta caratteristiche che non sono riscontrabili in ogni singolo atomo che la compone (né rappresentano semplicemente la somma delle caratteristiche degli atomi) e non c’è dubbio che una cellula sia molto di più di un semplice aggregato di molecole. 5. Le dimensioni cellulari hanno un limite La relazione geometrica spiega perché la maggior parte delle cellule sono microscopiche. Nella diapositiva le cellule sono rappresentate come cubi. Un valore alto del rapporto S/V (Superficie/Volume) facilita gli scambi di materiali fra la cellula e l’ambiente esterno. La superficie è rappresentata dalla membrana cellulare, una vera e propria interfaccia tra la cellula e l’ambiente esterno; si tratta di una specie di barriera selettiva in grado di regolare il passaggio di ossigeno e nutrienti e l’eliminazione delle scorie. Per fare fronte in maniera adeguata alle esigenze metaboliche della cellula, la membrana deve essere estesa in maniera da massimizzare la capacità di assorbire molecole e smaltire prodotti di rifiuto. Per i corpi tridimensionali vale però una regola: la loro superficie non aumenta in modo proporzionale all’aumento del loro volume, bensì di meno. Ciò significa che quanto più una cellula è grande tanto meno è estesa, in proporzione, la sua superficie e quindi la sua membrana plasmatica. Meglio tante ma piccole: se l’organismo è composto di molte cellule è possibile ripartire i compiti tra tante cellule specializzate. Pur avendo una struttura comune le cellule possono avere differenti specializzazioni. Il fatto di essere numerose favorisce la specializzazione. Anche la forma delle cellule può essere funzionale alla regolazione del S/V: alcune cellule vegetali di grandi dimensioni, ad esempio, sono lunghe e sottili. 6. Metodiche per lo studio delle cellule, dei tessuti e degli organi Prima di fare una piccola panoramica sulle tipologie di microscopi utilizzati per lo studio della cellula e dei tessuti, vediamo il significato di alcuni termini: Morfologia = studio di forme e strutture esterne di piante ed animali. Citologia o biologia cellulare = scienza che studia la cellula dal punto di vista morfologico (studio strutturale, ad esempio, del nucleo, dei ribosomi o dei vari organuli), e funzionale (studio dei processi fondamentali come il ciclo cellulare o la meiosi). Anatomia = studia la forma e la struttura degli organismi. Deve il suo nome al metodo principale d'indagine, la dissezione, rimasta di fondamentale importanza anche in epoca moderna, per quanto integrata da altri moderni e perfezionati metodi di indagine. Fisiologia = scienza integrata che utilizza principi chimico-fisici per spiegare il funzionamento degli esseri viventi, siano essi vegetali o animali, mono o pluricellulari. Uno dei più importanti strumenti utilizzabili per lo studio della cellula è senza dubbio il microscopio. Un microscopio da lui inventato consentì allo scienziato inglese Robert Hooke di descrivere la prima cellula nel 1665. Hooke esaminò un pezzo di sughero e disegnò e descrisse ciò che aveva visto scegliendo il termine “cellula” perché la struttura gli ricordava le piccole stanze in cui vivevano i monaci. In realtà ciò che Hooke vide non erano cellule vive bensì le pareti di cellule morte. Il primo microscopio ottico moderno fu opera, pochi anni dopo, del naturalista olandese Antoine van Leeuwenboek che, utilizzando lenti capaci di ingrandire le immagini più di 200 volte, riuscì a vedere batteri, protisti, cellule del sangue e spermatiche. Ma è solo alla fine del XIX° secolo che i primi microscopi vennero divulgati e permisero di studiare le cellule in maniera sistematica. Esistono diverse tipologie di microscopi con differente capacita di ingrandire gli oggetti osservati (l’ingrandimento corrisponde al rapporto tra le dimensione dell’immagine vista al microscopio e le dimensioni reali dell’oggetto) e di risoluzione (cioè la capacità di distinguere anche i più piccoli dettagli di un’immagine) utilizzabili per scopi differenti. Lo stereomicroscopio consente ingrandimenti fino a 100x (cento volte le sue dimensioni reali) e viene usato spesso per studiare le superfici di un campione (cioè la sua morfologia) o per eseguire attività come classazione, dissezione, determinazione di campioni vegetali. I microscopi ottici possono ingrandire il campione fino ad un massimo di 1000 volte (1000x); ad ingrandimenti superiori l’immagine risulta progressivamente sfuocata. Per questo motivo, un microscopio ottico non è in grado di risolvere particolari inferiori a 0,2 micrometri (μm = un millesimo di millimetro), misura che corrisponde a quella di un piccolo batterio. Poiché l’interno delle cellule è trasparente, è difficile distinguere specifiche strutture cellulari al microscopio ottico se non attraverso l’uso di sostanze coloranti che aumentano il contrasto di immagine e spesso possono essere utilizzate per evidenziare particolari strutture e composti specifici (ad esempio, la presenza di lignina o suberina sulla parete cellulare, la presenza di amido nella matrice citoplasmatica, ecc.). Tuttavia, ad eccezione degli organuli più grandi (come il nucleo ed il mitocondrio), la maggior parte delle strutture subcellulari sono troppo piccole per essere osservate al microscopio ottico. La biologia cellulare ha fatto un rapido passo avanti negli anni ’50 del secolo scorso con la messa a punto del microscopio elettronico a trasmissione (TEM) dove il campione viene attraversato o colpito in superficie da un fascio di elettroni anziché da luce visibile come avviene invece nel microscopio ottico. Il potere risolutivo di un microscopio è inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda delle radiazioni utilizzate ed i fasci di elettroni hanno lunghezza d’onda assai inferiori a quelli della luce visibile. I moderni microscopi elettronici possiedono una risoluzione di circa 0,1 nanometri (nm = 1 milionesimo di millimetro), ma in realtà il limite pratico per l’osservazione delle strutture biologiche è di soli 2 nm, che tuttavia è circa mille volte quello del microscopio ottico. Si usa il termine ultrastruttura per indicare l’anatomia cellulare come appare al microscopio elettronico. Il microscopio elettronico a scansione (SEM) viene utilizzato per studi dettagliati della superficie di un campione in quanto permette di ottenere un’immagine tridimensionale che mostra la topografia della superficie dell’oggetto studiato. I microscopi elettronici rivelano la presenza di numerosi organuli non visibili al microscopio ottico. Il microscopio ottico offre molti vantaggi soprattutto per l’osservazione delle cellule in vivo. L’anatomia si studia su sezioni orientate perpendicolarmente o parallelamente rispetto all’asse maggiore del fusto, della radice o della foglia (sezioni perpendicolari = trasversali e sezioni parallele = longitudinali). Le sezioni longitudinali a loro volta possono essere: radiali: superfici longitudinali che decorrono lungo un raggio dell’asse. tangenziali: superfici longitudinali poste ad angolo retto rispetto all’asse del raggio. 7. La cellula vegetale Una cellula vegetale è costituita dal protoplasto e dalla parete cellulare. Il protoplasto è tutto il contenuto del lume cellulare (cioè l’insieme di citoplasma, nucleo e vacuoli) e vi si comprende anche la membrana citoplasmatica. Il citoplasma è quella porzione del protoplasto contenuta all’interno della membrana plasmatica che include organelli circondati da membrana (ad esempio cloroplasti e mitocondri), sistemi di membrane (quali il reticolo endoplasmatico ed l’apparato di Golgi) e corpi sprovvisti di membrana (ad esempio ribosomi, filamenti di actina e microtubuli). Il resto del citoplasma, cioè la matrice in cui sono sospesi il nucleo, i vari organelli ed i sistemi di membrana, si chiama citosol. Si tratta di una soluzione colloidale costituita da acqua, ioni, lipidi, proteine enzimatiche e strutturali, zuccheri, nucleotidi, ormoni. 7.1 Parete cellulare Quando Robert Hooke, osservando al microscopio una sezione di sughero, descrisse una struttura regolare e propose per essa il nome di cellula, in realtà stava osservando quello che in un tessuto morto rimane della cellula, ovvero la sua parete. La parete è il compartimento esterno alla membrana plasmatica presente in tutte le cellule vegetali (ma anche nei funghi ed in molti batteri); la presenza di questa parete, come ho detto precedentemente, costituisce uno degli elementi distintivi tra cellula vegetale e cellula animale. Si tratta di una struttura molto complessa, con accrescimento centripeto (cioè gli strati che pongono la parete vengono deposti dall’esterno verso il plasmalemma), che presenta molti “ canali” che mettono in comunicazione le cellule fra di loro e la cellula con l’ambiente esterno. La composizione e l’ organizzazione delle componenti di parete rispondono alle necessità di un compromesso tra rigidità e plasticità. La rigidità permette di controllare l’espansione del protoplasto ed impedire la rottura della membrana plasmatica quando il protoplasto aumenta di volume, in seguito all’assorbimento di acqua da parte del vacuolo. Inoltre, è importante nell’imporre le dimensioni e la forma alle cellule, nel modulare la consistenza del tessuto ed, in ultimo, nel conferire la forma definitiva agli organi della pianta. Al contempo, una certa plasticità è necessaria per consentire la distensione della cellula e, quindi, il suo accrescimento. La parete ha però anche altre funzioni: protegge dai fattori di stress sia di natura abiotica che biotica provenienti dall’ esterno (aridità, gelo, patogeni, ecc.), contribuisce al trasporto dell’acqua (come vedremo il “continuum” di pareti cellulari va a costituire la cosiddetta via apoplastica), produce molecole segnale specialmente in relazione ad attacchi di agenti patogeni, accumula sostanze di riserva come le emicellulose (polisaccaridi scarsamente solubili associati alla cellulosa). Nella maggior parte dei tessuti, essa svolge la sua funzione in cellule vive; in alcune cellule, però, la parete cellulare è il solo compartimento che rimane dopo la morte del citoplasma. Il sughero, ad esempio, è un tessuto tegumentale secondario, privo di spazi intercellulari, formato da cellule morte, la cui parete è ispessita e suberificata (e proprio queste modificazioni di parete determinano la morte delle cellule) e il lume cellulare è ripieno d'aria. Grazie a questa struttura il sughero ha proprietà di isolamento proteggendo i tessuti sottostanti dagli scambi termici e dagli scambi di sostanze chimiche liquide o gassose. Lo xilema è costituito da cellule con parete ispessita che subiscono un processo di lignificazione delle pareti secondarie, così da risultare morte a maturità. L'assenza di citoplasma e organelli al loro interno è funzionale in quanto riduce al minimo la resistenza offerta dal tessuto alla risalita contro gravità della linfa grezza. La parete riveste un ruolo assai importante nelle attività economiche umane. Da essa si ricavano carta, fibre tessili (cotone, canapa, lino ed altre), polimeri industriali (pellicole, colle, addensanti alimentari, plastiche biodegradabili), legno da industria e legna da ardere, ed indirettamente petrolio e carbone. Inoltre, essendo la più grande riserva di carbonio organico presente in natura, ha un ruolo ecologico determinante nel ciclo di questo elemento. Biogenesi della parete. Una prima fase della sua formazione è connessa alla divisione cellulare: la divisione della cellula in due cellule figlie si realizza mediante la formazione di un setto di separazione di cui la porzione centrale costituisce la lamella mediana. Si tratta di un processo relativamente semplice che consente di raddoppiare il numero di cellule ad ogni ciclo di divisone cellulare; è un po’ come se si volesse dividere una stanza in due stanze costruendo una parete divisoria. Come si forma la lamella mediana? Ne riparleremo successivamente a proposito della mitosi, ma già da ora conviene sottolineare come il primo atto della citodieresi (cioè della divisione del citoplasma) è rappresentato dalla comparsa del fragmoplasto che è l’apparato con cui prende avvio la formazione del setto di separazione e quindi della parete cellulare. Dopo che i cromosomi si sono allontanati gli uni dagli altri, nel piano equatoriale del fuso mitotico che si estende tra i due nuclei figli, si forma il fragmoplasto (al microscopio ottico appare come una zona citoplasmatica più densa solcata da tante fibrille) dove si vanno addensando, trasportati dalle vescicole del Golgi, materiali quali glicoproteine, pectine, emicellulose che vanno a costruire il setto di separazione. La formazione di questo setto di separazione non avviene contemporaneamente su tutto il piano di divisione della cellula, ma è limitata inizialmente al centro e poi gradualmente si estende verso la periferia fino a raggiungere le preesistenti pareti laterali della cellula. Mano a mano che il setto si forma, il fragmoplasto scompare. In una seconda fase successiva alla costruzione di questo setto di separazione, ogni cellula “figlia” costruisce per proprio conto, a ridosso della lamella mediana, una sottile parete pectocellulosica alla quale viene dato il nome di parete primaria. Successivamente, quando la cellula differenziandosi (cioè specializzandosi) si accresce, la parete effettua una intensa crescita (accrescimento per distensione) durante la quale aumenta la propria superficie mantenendo generalmente costante il suo spessore. Raggiunte le dimensioni finali, alcune cellule, in relazione alla loro posizione ed alla funzione che svolgono, provvedono ad effettuare un adeguato rinforzamento della parete incrementandone lo spessore: si forma così un robusto strato di ispessimento che si appone all’interno della parete primaria e che costituisce la parete secondaria. Nelle cellule giovanili la parete è costituita sempre dalla lamella mediana e da un’esile parete primaria; in quelle adulte, come detto, spesso è presente una parete secondaria pluristratificata. Lamella mediana. La lamella mediana è la porzione più esterna della parete, e quindi della cellula. E’ un sottile strato dello spessore non maggiore di un decimo di μm interposto tra le due pareti primarie di due cellule attigue. La principale componente della lamella mediana sono le pectine: macromolecole che derivano dalla polimerizzazione dell’acido galatturonico cui possono essere attaccati anche altri zuccheri come l’arabinosio. Si tratta di composti fortemente idrofili in grado di formare colloidi gelatinosi con azione cementante che consente loro di saldare insieme le due cellule figlie; ciò conferisce, fra l’altro, croccantezza a frutta o verdura. Con la maturazione della cellula, le pectine vengono idrolizzati da enzimi quali la pectasi e la pectinasi producendo gli spazi intercellulari. La maturazione e, successiva marcescenza di un frutto, è accompagnata proprio da questi processi di idrolisi. La pectina trova impiego nell'industria alimentare come gelificante, soprattutto nella realizzazione di marmellate e confetture, assumendo la denominazione di E440. A livello di lamella mediana sono presenti anche proteine sia enzimatiche che strutturali. Parete primaria. La parete primaria è lo strato che si trova a ridosso della lamella mediana: di solito è più grosso della lamella mediana ed ha uno spessore che va da un decimo di μm ad 1 μm. La parete primaria è formata da una matrice di acqua (60%), sostanze pectiche (10-35%) ed emicellulose (25-50%) prodotte dal Golgi, in cui è dispersa una componente fibrillare di cellulosa (9-25%) sintetizzata da complessi enzimatici localizzati sulla superficie esterna della membrana plasmatica. Ma vediamo ora nel dettaglio quali sono le componenti che concorrono a formare la parete primaria partendo dalla più importante e cioè dalla cellulosa. La cellulosa è un polisaccaride a catena lineare costituito da unità di ß-glucosio legate tra loro da legami 1-4. Per realizzare questo legame ß-1,4 ciascuna unità di ß-glucosio è ruotata di 180° rispetto all’unità precedente. Ne consegue che l’unità strutturale ripetentesi nella catena cellulosica è il disaccaride cellobiosio. La presenza del legame ß-1,4 e l'assenza, nei mammiferi, di enzimi specifici per la sua degradazione, rendono non assimilabile il glucosio proveniente dalla cellulosa. Solamente i ruminanti ed altri tipi di mammiferi, sono in grado di utilizzare il glucosio della cellulosa, grazie alla presenza, nel loro sistema digerente, di batteri che rompono tale legame. Anche molti microrganismi del suolo possiedono enzimi cellulosolitici che consentono di degradare la cellulosa e riutilizzare il carbonio in essa contenuto. Le catene di cellulosa, che come ho già evidenziato sono prodotte da enzimi localizzati sulla membrana plasmatica, sono riunite in microfibre del diametro di circa 10-25 nanometri. Le microfibre a loro volta si aggregano a formare le fibre, filamenti di 0,5 μm di diametro ad arrangiamento cilindrico o piatto il che conferisce una resistenza alla trazione pari o maggiore a quella di una fune di acciaio di uguale spessore. Le fibrille sono disperse (cioè sono orientate secondo direzioni diverse) nella matrice tanto è vero che, nel caso della parete primaria, si parla di tessitura dispersa. Emicellulose: si tratta di un gruppo di polisaccaridi ramificati fortemente legati alla componente fibrillare della parete grazie alla loro capacità di formare legami idrogeno. Grazie a questi legami, le emicellulose stabiliscono la connessione fra componente fibrillare e matrice e limitano l’estensibilità della parete, regolando le dimensioni delle cellule. Proteine. Le pareti possono contenere anche glicoproteine (sono proteine strutturali che conferiscono rigidità e svolgono un ruolo importante nella comunicazione cellula-cellula) ed enzimi. Tra proteine di parete più conosciute vi sono le estensine, cosiddette perché si riteneva fossero coinvolte nella distensione della parete cellulare. Secondo alcuni studiosi, tuttavia, il deposito di estensina conferirebbe addirittura maggiore rigidità alla parete, rendendola meno estensibile. Le espansine sono invece coinvolte nel “rilassamento” della componente fibrillare della parte, un requisito, questo, fondamentale per il suo accrescimento. Parete secondaria. Per la maggior parte delle cellule la parete primaria è la parete definitiva. Le cellule che devono svolgere funzioni di supporto e meccaniche, nonché quelle di trasporto dei vasi xilematici, dovranno dotarsi di parete secondaria. La parete secondaria si appone a ridosso ed internamente alla parete primaria una volta che quest’ultima ha terminato la crescita in spessore. La parete secondaria ha uno spessore di 3-5 μm ed è formata da una matrice (prevalentemente emicellulose mentre le pectine possono mancare) in quantità più scarsa rispetto alla parete primaria e da un sistema fibrillare, costituito dalla cellulosa, che può raggiungere valori tra l’80 ed il 95%. Per questo motivo, la parete secondaria è rigida e non facilmente estensibile. Le proteine strutturali e gli enzimi, che sono relativamente abbondanti nella parete primaria, sembrano mancare in quella secondaria. In una parete secondaria, solitamente, si possono distinguere tre strati (soprattutto nei tessuti meccanici ed in quelli vascolari) che differiscono gli uni dagli altri per l’orientamento delle microfibrille di cellulosa. Mentre la parete primaria è caratterizzata da una tessitura dispersa, nella parete secondaria le fibrille sono disposte parallelamente e le fibrille di uno strato sono generalmente disposte perpendicolarmente allo strato precedente. Punteggiature. La composizione e la struttura della parete cellulare potrebbero renderne difficile l’attraversamento da parte dei vari composti necessari all’attività metabolica del protoplasto. Ho detto difficile ma non impossibile. La cellulosa, infatti, è una molecola che, come è possibile osservare versando un po’ di acqua colorata su un foglio di carta, può essere attraversata da acqua ed altre sostanze. Tuttavia, per aumentare l’efficienza degli scambi che avvengono tra cellula e cellula la parete cellulare si è dotata di perforazioni, chiamate punteggiature, nelle quali si insinuano i plasmodesmi, che assicurano la continuità citoplasmatica tra cellule adiacenti. I plasmodesmi sono strutture delimitate dal plasmalemma e formati da un tubulo di reticolo endoplasmatico, detto desmotubulo, rimasto intrappolato durante la formazione del setto di separazione della cellula madre. L’insieme del volume totale citoplasmatico di tutte le cellule collegate tra loro dai plasmodesmi è detto simplasto. In parete primaria, le punteggiature sono riunite in zone dette campi di punteggiature primarie mentre in parete secondaria, che non viene deposta in corrispondenza dei gruppi di plasmodesmi, sono riunite in zone dette semplicemente punteggiature o porocanali. Normalmente una punteggiatura di una cellula corrisponde ad un’altra della cellula adiacente (punteggiatura appaiata). Il trasporto avviene sia nel simpasto che nell’apoplasto. Come evidenziato sopra, il movimento dell’acqua e dei soluti in essa disciolti da una cellula all’altra può avvenire nello spazio interno attraverso i plasmodesmi. In quanto strettamente connesso dai plasmodesmi, l’insieme di tutti i protoplasti del corpo della pianta e dei loro plasmodesmi costituisce un continuum detto simplasto. Il movimento delle sostanze da cellula a cellula tramite i plasmodesmi è detto simplastico e necessita l’attraversamento della membrana plasmatica o plasmalemma. Questa, al pari di tutte le membrane lipoproteiche, come vedremo più avanti, è altamente impermeabile agli ioni; inoltre, sovente il trasporto all’interno della cellula avviene contro il gradiente concentrazione, e quindi è evidente che l’attraversamento della membrana plasmatica non può avvenire secondo le modalità della semplice diffusione. Il movimento di ioni o grandi molecole attraverso la membrana dipende innanzitutto dal metabolismo cellulare e dalla presenza nelle membrane di specifici trasportatori che assicurano la necessaria selettività. Il movimento invece nel continuum delle pareti e del sistema di conduzione xilematico, dove avviene il trasporto apoplastico, prende il nome di apoplasto o spazio libero (gli spazi intercellulari, essendo pieni d’aria, non fanno parte dello spazio libero). Per le proprietà idrofile dei suoi componenti (cellulosa, emicellulose, pectine) la parete cellulare è permeabile all'acqua: l'acqua può agevolmente fluire attraverso le pareti cellulari secondo un gradiente di diffusione senza che debba necessariamente attraversare membrane ed entrare quindi nel protoplasto. Si tratta di un sistema efficiente di trasporto che non prevede investimento energetico da parte della cellula. Non tutte le pareti, però, sono idrofile e quindi non tutte sono in grado di assicurare un trasporto di tipo apoplastico: come vedremo paragrafo successivo alcune modificazioni di parete (o meglio delle incrostazioni che vengono depositate sulle pareti della cellula) rendono la parete cellulare altamente impermeabile in modo tale da interrompere la diffusione dell’acqua e dei soluti. Modificazioni della parete cellulare. Lo scambio di materiali ed informazioni tra cellula e cellula è di fondamentale importanza nel funzionamento metabolico cellulare tanto che, come abbiamo visto, le cellule si sono dotate di vie di comunicazione interne quali i plasmodesmi. Tuttavia, in alcuni casi, la cellula può “ritenere” conveniente dotarsi di strutture isolanti in grado di limitare ed, in alcuni casi, addirittura interrompere le relazioni con l’ambiente esterno. E’ un sistema di protezione analogo a quanto messo in atto nella pratica edile quando si vuole isolare le pareti della casa da freddo (cappotto termico) o dall’umidità (mediante l’inserimento di una guaina che blocca la penetrazione dell’acqua). In questo senso, le pareti di alcune tipologie di cellule possono essere modificate per svolgere particolari funzioni. Queste modifiche possono consistere sia nella deposizione di particolari molecole strutturali, generalmente non presenti nella maggior parte delle cellule, che nell’alterata proporzione con cui i normali costituenti vengono deposti. Alcune di queste modifiche determinano anche la morte della cellula: ne sono un esempio la suberificazione del periderma e la lignificazione dei vasi xilematici. D’altra parte, la morte della cellula è in questi casi un “male” necessario al raggiungimento della specifica funzionalità e cioè l’isolamento dall’ambiente esterno (il sughero) e l’efficienza di trasporto (i vasi xilematici). La suberificazione è una modificazione della parete cellulare che consiste nella deposizione di lamelle di suberina, un polimero piuttosto complesso altamente idrofobico. In seguito al processo di suberificazione, le pareti cellulari diventano barriere impermeabili con conseguente morte della cellula che, a quel punto, si riempie d’aria. Un esempio della efficienza del sughero nel proteggere i tessuti sottostanti dalla perdita d’acqua per evaporazione è fornito dai giovani tuberi di patata sui quali è presente come tessuto di rivestimento una pellicola di sughero che consente ai tuberi di mantenersi turgidi per lungo tempo. Basta asportare questa pellicola perché il tubero in poco tempo si dissecchi. Il sughero è anche tessuto in grado di limitare le escursioni termiche e per questo motivo viene anche utilizzato nelle pratiche di bioedilizia come isolante termico. La lignificazione è un processo, invece, che consiste nell’ incrostazione della lignina (polimero molto complesso costituito principalmente da composti fenolici) tra le maglie del reticolo cellulosico della parete. La lignificazione ha il significato funzionale di conferire idrofobicità e compattezza alla parete, rendendola impermeabile e resistente alla compressione. L’unione di lignina e cellulosa è simile all’accoppiata cemento-ferro del cemento armato, dove il primo conferisce resistenza alla compressione e il secondo alla tensione. In seguito alla lignificazione, inoltre, la parete cellulare viene anche preservata dalla demolizione dei polisaccaridi da parte di enzimi idrolizzanti; è appunto alla lignificazione che si deve la grande resistenza del legno all’attacco dei microrganismi; solo alcuni funghi presenti nel tratto gastrointestinale degli erbivori (ruminanti e non) e di molti uccelli possono idrolizzare la lignina. La lignificazione è tipica delle cellule dei tessuti meccanici e dei vasi, elementi ai quali, per lo svolgimento delle loro funzioni, è richiesta, come già evidenziato, una elevata rigidità della parete cellulare. Dopo la cellulosa, la lignina è il polimero più abbondante di una pianta (fino al 20-30% in peso) e quindi del nostro pianeta. Essendo legata covalentemente alla cellulosa e ad altri polimeri della pianta è molto difficile estrarla. Per questo motivo le cartiere sono molto inquinanti: l’estrazione di pasta di cellulosa dal legno richiede, infatti, trattamenti chimici molto forti. Le cellule dei tessuti tegumentali hanno, invece, pareti modificate per essere impermeabili all’acqua. L’epidermide delle foglie ed dei germogli è ricoperta da uno strato di spessore variabile denominato cuticola. Si tratta di una struttura non cellulare, stratificata, costituita da cutina, cere ed altri polimeri. La cutina è una sostanza lipofila la cui molecola presenta una struttura tridimensionale assimilabile nella forma ad un graticcio. Di per sé non sarebbe del tutto impermeabile perché le maglie del graticcio sono lasse se non fosse che in queste maglie alloggiano le cere, sostanze queste ultime altamente idrofobiche. Tali strutture sono importanti da un punto di vista ecologico in quanto, soprattutto in ambienti aridi o potenzialmente tali, limitano la perdita di acqua che può avvenire attraverso i tessuti. Nelle aree caratterizzate, viceversa, da un regime pluviale, la presenza della cuticola facilità il deflusso dell’acqua lungo la foglia evitando ristagni che in condizioni di temperature elevate potrebbero facilitare la proliferazione di parassiti e di colonie algali. I polisaccaridi della parete cellulare formano la fibra alimentare. La fibra insolubile è costituita prevalentemente da cellulosa ed emicellulosa alle quali si associa la lignina. La fibra insolubile interferisce in modo trascurabile sulla viscosità del contenuto intestinale, aumenta la massa fecale e ne stimola il transito, è scarsamente fermentata dalla microflora del colon. La fibra solubile, rappresentata in prevalenza dalle pectine, presenta una elevata capacità di legare l’acqua, interagisce con il contenuto del lume intestinale formando una massa gelificata ed è fermentescibile ad opera della microflora batterica. 7.2 Le membrane Se la parete cellulare è una peculiarità dei procarioti e tra gli eucarioti delle piante, delle alghe e dei funghi, le membrane biologiche si trovano in tutte le cellule. Si parla di membrane in quanto si fa riferimento ad un sistema composto da membrane interne (quelle che circondano gli organuli ed in alcuni casi, come nei plastidi e nei mitocondri, si estendono anche al loro interno) e da membrana esterna (plasmalemma). Funzioni delle membrane biologiche. Oltre a delimitare la cellula ed i compartimenti della cellula dall’ambiente esterno le membrane regolano selettivamente il passaggio in entrata ed in uscita delle sostanze. Sono una sorta di “posto di dogana” dove si effettuano controlli sia in entrata che in uscita e si lasciano entrare o si bloccano le merci o se ne regola il passaggio mediante l’utilizzo di specifici trasportatori. In questo modo la membrana contribuisce a mantenere un ambiente interno compatibile con la vita. Ma è anche una superficie di comunicazione a livello della quale si assiste ad uno scambio continuo di informazioni tra l’ambiente intra- ed extra-cellulare. Vista l’abbondante presenza di proteine enzimatiche è anche una superficie dove si svolge un’intensa attività catalitica. Inoltre, le membrane sono una parte essenziale dei sistemi di trasferimento e di immagazzinamento dell’energia in quanto svolgono una funzione fondamentale nel processo di chemiosmosi sia della catena respiratoria che della fase luminosa della fotosintesi. Composizione e struttura delle membrane biologiche. Le membrane biologiche sono strutture complesse e dinamiche altamente conservate; infatti tutte le membrane di qualsiasi cellula di vivente hanno struttura e composizione comparabili. Al microscopio elettronico è possibile evidenziarne la caratteristica struttura “a sandwich” proteine-lipidi-proteine: i due strati esterni elettrondensi (si definisce elettrondensa una zona della sezione che al microscopio elettronico si manifesta opaca o scura in quanto si comporta da isolante e non si fa attraversare dal fascio di elettroni) sono composti da proteine; un terzo strato, che appare invece come luminoso ed è collocato tra i due strati proteici, è costituito da fosfolipidi. I fosfolipidi sono i principali responsabili delle proprietà fisiche delle membrane biologiche. Ciò è dovuto al fatto che alcuni fosfolipidi hanno caratteristiche uniche, come quella di formare strutture a doppio strato. Le molecole di questa classe di composti organici presentano una testa polare idrosolubile e una coda apolare non idrosolubile. La testa polare è costituita da glicerolo (un alcol a tre atomi di carbonio), un gruppo fosfato e la colina (un’ammina). Al glicerolo sono attaccati due catene di acidi grassi che formano la porzione apolare e idrofobica del fosfolipide. Le molecole di questo tipo che hanno regioni idrofiliche ed idrofobiche distinte vengono chiamate anfipatiche. La disposizione a doppio strato permette alle teste idrofiliche dei fosfolipidi di associarsi liberamente con l’ambiente acquoso, mentre le catene idrofobiche degli acidi grassi sono relegate all’interno della struttura, lontane dalle molecole d’acqua. Un acido grasso è insaturo (presenta uno o più doppi legami) mentre l’altro è saturo (non presenta alcun doppio legame). La presenza del doppio legame influisce sulle caratteristiche chimico-fisiche dei grassi: in linea generale, gli acidi grassi insaturi, come la maggior parte dei grassi vegetali, non si solidificano se non a temperature molto basse; gli acidi grassi saturi, come quelli animali ma anche l’olio di palma e di cocco ed il burro di cacao, si solidificano a temperature relativamente basse. Nella componente lipidica sono immerse proteine integrali o transmembrana che possiedono regioni idrofobiche (a contatto con il doppio strato fosfolipidico) e regioni idrofiliche esposte sui due lati della membrana. Anche queste proteine, quindi, possono essere considerate come molecole anfipatiche. Secondo il modello a mosaico fluido, il doppio strato di molecole fosfolipidiche ha una consistenza fluida ed in esso sono immerse, come tante tessere di un mosaico, le proteine. Questo modello a mosaico non è statico, poiché le proteine cambiano continuamente posizione e si muovono come degli iceberg che galleggiano in un mare rappresentato dal doppio strato fosfolipidico. Oltre alle proteine di membrana vi sono anche proteine periferiche che non sono completamente immerse nello strato fosfolipidico, sono invece delle appendici legate debolmente alla superficie della membrana, spesso ancorate a porzioni esposte delle proteine integrali. La membrana è costituita anche da carboidrati, localizzati esclusivamente sulla superficie esterna, che sembrano avere un ruolo importante nel riconoscimento tra cellula e cellula tramite il quale una cellula è in grado di distinguere i diversi tipi di cellule adiacenti. Nel concetto di membrana a mosaico fluido è insito, come detto sopra, il concetto di fluidità. Quando la membrana solidifica (ad esempio a temperature basse) cambia la sua permeabilità e le proteine enzimatiche presenti sulla membrana possono inattivarsi. Per questo motivo, le cellule sono in grado di modificare la composizione lipidica delle proprie membrane in risposta a variazioni di temperatura. In molte varietà di piante resistenti a temperature basse (ad esempio, i cereali vernini) la percentuale di fosfolipidi insaturi aumenta in autunno, un adeguamento, questo, che impedisce la solidificazione delle membrane cellulari durante l’inverno. Ognuno di voi avrà sicuramente notato che lasciando il burro fuso a temperatura ambiente, esso si solidifica. Gli oli vegetali, invece, a temperatura ambiente rimangono liquidi. Infatti, come detto precedentemente, il burro è un grasso saturo che non ha doppi legami a livello degli acidi grassi che lo compongono. Al contrario, un olio vegetale è polinsaturo ed ha due o più doppi legami nelle sue catene di acidi grassi. I doppi legami fanno sì che nelle molecole si vengano a formare ripiegamenti che impediscono alle catene idrocarburiche di avvicinarsi fra loro ed interagire: non riuscendo a disporsi in modo ordinato, i legami tra le molecole sono inferiori e quindi la temperatura di fusione è più bassa (cioè, ci vuole meno energia per rompere i legami). In questo modo, i grassi insaturi abbassano la temperatura alla quale solidificano sia l’olio sia i lipidi di membrana. La peculiare struttura influenza la permeabilità della membrana cellulare. La struttura a mosaico fluido consente alle membrane di funzionare come barriere selettivamente permeabili, cioè di permettere il passaggio di alcune sostanze ma non di tutte. Più una molecola è piccola e solubile nei lipidi (idrofobica) e più facilmente attraversa la membrana. I gas come l’ossigeno e l’anidride carbonica sono piccole molecole apolari che attraversano rapidamente il doppio strato lipidico. Sebbene siano polari, le molecole d’acqua attraversano, anche se lentamente, la membrana, essendo sufficientemente piccole da poter passare attraverso interruzioni che si vengono a creare temporaneamente tra le catene di acidi grassi. Molecole grosse e polari non diffondono attraverso la membrana senza l’azione di specifiche proteine di membrana. Come vedremo queste proteine ricadono in 3 categorie: canali che permettono il movimento passivo di ioni; pompe primarie, che usano l’energia dell’ATP per trasportare attivamente ioni; trasportatori secondari che accoppiano il movimento di uno ione con quello di un altro. 7.3 L’acqua e le cellule vegetali Il potenziale idrico ed i fattori che lo influenzano. Per descrive e quantificare l’entrata e l’uscita dell’acqua dalle piante, i fisiologici vegetali hanno adottato il concetto di potenziale idrico che viene rappresentato dal simbolo Ψw. Il potenziale idrico è un concetto del tutto analogo a quello di potenziale chimico (il lavoro compiuto dalla mole di una certa sostanza che si sposta tra due punti) ed è una grandezza derivata dalla misura termodinamica dell’ energia libera dell’acqua in un sistema. Ricordate che l’energia libera rappresenta la forza guida di ogni processo chimico ed esprime la capacità di un sistema o di un componente di esso a compiere un lavoro. Il potenziale idrico ha dimensioni fisiche di pressione, l’unità di misura del SI è il pascal (Pa). Più comunemente usato in fisiologia è un multiplo dell’unità: il MegaPascal (MPa). Il potenziale idrico è costituito dalle componenti: Ψw = Ψs + Ψm + ΨP+ Ψg dove: Ψs = potenziale osmotico; Ψm = potenziale di matrice; ΨP = potenziale di pressione; Ψg = potenziale di gravità L’effetto che la pressione esercita sul potenziale idrico viene chiamato potenziale di pressione (ΨP), cioè se l’acqua è sotto pressione, il potenziale di pressione aumenta e con esso il potenziale idrico, viceversa se diminuisce allo stesso modo diminuisce il potenziale di pressione e quello idrico. Pertanto il potenziale di pressione è positivo quando si esercita una compressione, ed è negativo quando si attua una dilatazione. L’acqua può resistere a tensioni notevoli per la forza di coesione delle sue molecole, assumendo valori negativi di potenziale di pressione quando viene sottoposta a forze di tensione. Il potenziale osmotico (Ψs) indica l’effetto che i soluti hanno sull’acqua: nell’acqua pura (cioè l’acqua distillata sottoposta) non sono presenti soluti, l’aggiunta di soluti diminuisce l’energia libera dell’acqua, per cui il potenziale osmotico di una soluzione è sempre negativo ed è legato alla quantità di particelle presenti in soluzione. Il potenziale di matrice (Ψm) è il valore riferito all’adsorbimento dell’acqua alle componenti solide ed alle sostanze non solubili (membrane, pareti e particelle del suolo). L’adsorbimento dell’acqua diminuisce l’energia libera, quindi anch’esso è un valore sempre negativo; tuttavia, a livello cellulare, viene considerato parte del potenziale osmotico. Nei semi e nel terreno può assumere valori molto elevati. Ψg è il potenziale di gravità e viene preso in considerazione solo nel caso del trasporto di acqua ad altezze superiori a 30 metri. Ricordatevi che come qualsiasi altra sostanza chimica, l’acqua diffonde da una regione ad alto potenziale (meno negativo) ad una a basso (più negativo); la forza motrice che guida questo movimento è un gradiente di potenziale idrico. Pertanto l’acqua si muove solo se è presente tra due zone una differenza di potenziale idrico, mentre se il potenziale è uguale, tali zone sono in equilibrio e non si verifica nessun movimento dell’acqua. ATTENZIONE: in fisiologia vegetale si tratta sempre di potenziali idrici negativi ed è facile far confusione nell’ identificare la direzione del flusso. Un potenziale di 3 MPa > 2 Mpa ma -3 Mpa < -2 Mpa. Quindi la direzione del flusso è da -2 Mpa a -3 Mpa. Diffusione (Ψs). Una immediata conseguenza del movimento continuo delle molecole nei gas e nelle soluzioni è che le molecole si diffondono secondo un gradiente di concentrazione: da una zona di maggior concentrazione ad una zona a minor concentrazione finché la concentrazione delle molecole non diviene uniforme nelle due zone. A questo movimento di molecole si dà il nome di diffusione. La diffusione è un processo spontaneo: l’energia è immagazzinata sotto forma di energia potenziale e viene rilasciata quando gli ioni o le molecole si spostano da una regione ad alta concentrazione verso una regione a bassa concentrazione. Molecole che vanno nella direzione opposta (da bassa verso alta concentrazione), si muovono contro gradiente di concentrazione, ma questo non può avvenire spontaneamente ma solo in seguito ad un input di energia. La legge di Fick ci dice anche che la diffusione è rapida per distanze brevi (ad esempio, nel caso di trasporto che avviene nell’ordine delle dimensioni cellulari), ma molto lenta per le lunghe distanze (ad esempio, nel caso di risalita delle soluzioni nelle piante). Se per diffondere su una distanza di 50 μm (le dimensioni di una cellula) una molecola di glucosio in soluzione acquosa impiega 2,5 secondi, per essere trasportata ad un metro di distanza impiega 32 anni. Questo è dovuto al fatto che man mano che la sostanza diffonde lontano dal punto di partenza la forza guida, cioè il gradiente di concentrazione, diventa meno forte e quindi il movimento netto diventa più lento. Come vedremo, il trasporto dell’acqua e dei soluti su lunghe distanze può essere spiegato con il flusso di massa (Ψp); il flusso di massa è un movimento globale delle molecole di un liquido, che si spostano tutte insieme in una direzione e serve in genere per spostare l’acqua ed i soluti da una parte all’altra di un sistema pluricellulare (es xilema e floema). Se nella diffusione la forza guida è il gradiente di concentrazione, nel flusso di massa è invece un gradiente di pressione idraulica fra regioni diverse della soluzione. L’osmosi (Ψs + Ψp) è la diffusione di acqua attraverso una membrana selettivamente permeabile. I fenomeni osmotici sono essenziali per tutte le cellule in quanto è attraverso di essi che si realizza in gran parte l’assorbimento dell’acqua da parte di una cellula. Nella cellula vegetale questi fenomeni svolgono ancor più un ruolo fondamentale poiché sono alla base di quel processo tipico della cellula vegetale che è la crescita per distensione. L’osmosi è un tipo particolare di diffusione che comporta il movimento netto di acqua attraverso una membrana selettivamente permeabile, da una regione a concentrazione maggiore ad una a concentrazione minore. Le molecole d’acqua passano liberamente in entrambe le direzioni ma come in tutti i tipi di diffusione il movimento netto avviene dalla regione in cui le molecole d’acqua sono più concentrate a quella dove lo sono meno. La maggior parte delle molecole di soluto (ad esempio, zucchero e sale) non può diffondere liberamente attraverso le membrane cellulari selettivamente permeabili. L’osmosi è facilmente osservabile utilizzando uno strumento chiamato osmometro costituito da un tubo ad U nel quale i due bracci sono separati da una membrana semipermeabile. Da un lato viene posta una soluzione acqua/soluto, mentre dall’altro lato viene messa acqua distillata. Si verrà quindi a creare una differenza di potenziale dell’acqua, dato che i soluti abbassano tale potenziale (molte delle molecole d’acqua si legano al soluto e pertanto non sono più libere di diffondere attraverso la membrana), che genera un movimento netto di molecole d’acqua dalla parte in cui è contenuta acqua distillata verso quella contenente acqua/soluto. Ne risulta che il livello del fluido cala dalla parte dell’acqua pura e aumenta dalla parte dell’acqua/soluto. Inizialmente, l’acqua entra velocemente, perché è elevata la differenza di potenziale dell’acqua tra un braccio e l’altro dell’osmometro. Mano a mano che le molecole d’acqua si diffondono secondo il gradiente di potenziale il livello di fluido continua ad aumentare dal lato contenente il soluto e, proporzionalmente all’altezza raggiunta dalla colonna di acqua, si ha un aumento di pressione all’interno del tubo. L’aumento della pressione innalza il potenziale chimico dell’acqua e così il potenziale idrico nel tubo comincia a crescere verso lo zero. La pressione aumenta fino a che il potenziale dell’acqua della soluzione all’interno del tubo diventa uguale a zero, cioè eguaglia il potenziale dell’acqua distillata che si trova nell’altro tubo. Questo si verifica in coincidenza del raggiungimento del livello massimo del liquido nel tubo. A questo punto il sistema ha raggiunto uno stato di equilibrio per cui la differenza di potenziale fra i due lati della membrana è zero (la variazione di energia libera è zero) e cessa la diffusione. Nel raggiungimento dell’equilibrio, bisogna tener conto anche dell’effetto della diluizione. Come l’acqua si diffonde attraverso la membrana, non soltanto questa provoca un aumento di pressione ma tende anche a diluire la soluzione all’interno del tubo. Ciò aumenta il potenziale osmotico dell’acqua della soluzione (lo rende meno negativo), così che la pressione richiesta per raggiungere l’equilibrio è minore di quella che sarebbe stata necessaria. Si definisce pressione osmotica la pressione che deve essere esercitata sulla soluzione più concentrata per impedire la diffusione dell’acqua dalla parte meno concentrata a quella meno concentrata. Una soluzione con un’alta concentrazione di soluto ha una bassa concentrazione di acqua ed un’alta pressione osmotica (si parla di soluzione ipertonica); al contrario, una soluzione con un basso quantitativo di soluto ha un’alta concentrazione di acqua ed una pressione osmotica bassa (si parla di soluzione ipotonica). Due soluzioni di una sostanza che hanno la stessa pressione osmotica sono dette isotoniche. Le cellule sono osmometri artificiali. Nella cellula esistono tutte le condizioni per la realizzazione di processi osmotici. Esistono membrane semipermeabili e soluzioni di vari soluti racchiusi in compartimenti delimitati da membrane semipermeabili. Molti sono i compartimenti della cellula che sono sede di fenomeni osmotici: i mitocondri, i plastidi, le cisterne del Golgi, il reticolo endoplasmatico, ecc. tuttavia, nelle cellule vegetali, è il vacuolo, come vedremo, a rivestire un ruolo di primaria importanza. La tabella sottostante riassume il movimento dell’acqua verso l’interno o l’esterno di una soluzione (o di una cellula) in rapporto alle concentrazioni relative di soluto Concentrazione Concentrazione Tonicità Direzione del movimento del soluto nella del soluto nella netto d’acqua soluzione A soluzione B Maggiore Minore A ipertonica rispetto a B; B Da B verso A ipotonica rispetto ad A Minore Maggiore B ipertonica rispetto ad A; Da A verso B A ipotonica rispetto a B Uguale Uguale A e B sono isotoniche Nessun movimento netto Se la soluzione è isotonica, ovvero ha la stessa concentrazione del citoplasma non avviene alcun flusso di acqua attraverso la membrana. Se la soluzione circostante è più concentrata (ipertonica) rispetto alla soluzione cellulare (ipotonica), una cellula posta in tali condizioni perde acqua e tende a raggrinzirsi, cioè si ha un restringimento del circostante citoplasma ed un progressivo distacco dalla parete cellulare. A tale fenomeno si dà il nome di plasmolisi. Se la soluzione cellulare è più concentrata (ipertonica) di quella esterna (ipotonica), l’acqua attraverserà la membrana dall’esterno verso l’interno della cellula riempiendo il vacuolo centrale e facendo distendere la cellula. Mano a mano che l’acqua entra nella cellula, il volume della cellula aumenta e la parete cellulare, che è elastica, viene progressivamente più tesa proprio come si tende la parete di un palloncino che viene gonfiato. Il ruolo della parete cellulare è assimilabile a quello esercitato dalla colonna d’acqua nel tubo di un osmometro; la progressiva tensione della parete cellulare, generata dall’ingresso dell’acqua, si traduce in una pressione diretta verso l’interno che tende a cacciare fuori l’acqua dalla cellula. Quanto più acqua penetra nella cellula tanto più forte diventa questa contropressione fino al raggiungimento di un equilibrio stabile in cui la tendenza dell’acqua ad entrare è esattamente bilanciata dalla contropressione della parete. A questo punto, la cellula non introduce più acqua ed è detta turgida. In tali condizioni la pressione esercitata dalla parete cellulare, detta pressione di turgore, ha raggiunto un valore uguale a quello della pressione osmotica. Il turgore cellulare è un fattore di grande importanza per la vita dell’intera pianta. Le cellule si accrescono solo quando sono turgide ed anche una piccola diminuzione del contenuto di acqua al di sotto della piena saturazione determina un calo nella velocità di crescita. Gli apparati stomatici basano il loro meccanismo di apertura/chiusura sulla variazione del turgore cellulare. Le cellule se perdono troppa acqua si afflosciano e di conseguenza le foglie, i fiori, i frutti, piantine intere perdono la loro consistenza. Inoltre, la pressione di turgore fornisce pressoché l’unico sostegno alle piante non legnose. La diffusione facilitata. Abbiamo visto come le molecole apolari ma anche alcune molecole polari di piccole dimensioni (ad esempio l’acqua) possono attraversare la membrana per semplice diffusione, cioè secondo un gradiente di concentrazione. Vi è tuttavia un diverso tipo di diffusione, detto diffusione facilitata in cui una specifica proteina di trasporto rende la membrana permeabile anche ad uno ione o ad una molecola polare. Attenzione: la diffusione facilitata consente l’attraversamento della membrana a sostanze che, per lo più, non potrebbero diffondersi liberamente ma il loro movimento netto avviene sempre da una regione a concentrazione maggiore verso una regione a concentrazione minore e, quindi, secondo gradiente. Ciò significa che la diffusione facilitata, al pari della diffusione semplice, non prevede il dispendio di energia metabolica e per questo motivo si parla di trasporto passivo. Tra le proteine trasportatrici possiamo distinguere: proteine canale e proteine carrier. Le proteine canale formano dei “tunnel” che si lasciano attraversare da ioni e molecole d’acqua secondo i loro gradienti. Per quanto riguarda gli ioni, come vedremo dopo, trattandosi di particelle cariche, questi gradienti sono di tipo elettrochimico. Si tratta di canali che vengono aperti o chiusi attraverso l’azione di “cancelletti chimici” e che possono essere attraversati anche da 100 milioni di ioni al secondo. Le acquaporine sono proteine trans-membrana che favoriscono elevati flussi d’acqua attraverso la membrana, consentendo, in questo modo, rapide contrazioni in risposta a stimoli ambientali. Ad esempio, la chiusura a scatto tipo trappola della pianta carnivora Dionaea muscipula o venere acchiappa mosche, il chiudersi e ritrarsi al contatto di Mimosa pudica. Il trasporto dei soluti attraverso le proteine carrier è più lento di quello che avviene attraverso le proteine canale. La proteina carrier lega una o più molecole di soluto su un lato della membrana, dopodichè subisce un cambiamento della sua forma che determina lo spostamento del soluto sull’altro lato della membrana. Una volta scaricata la molecola di soluto, la proteina riprende la sua conformazione originaria. Trasporto attivo. Sebbene alcune sostanze possano essere trasportate attraverso la membrana cellulare per diffusione, una cellula spesso ha bisogno spesso di trasportare i soluti anche contro gradiente di concentrazione. La ragione è che molte sostanze sono richieste dalla cellula a concentrazioni più alte rispetto a quelle esterne. Se l’energia per la diffusione è fornita dal gradiente di concentrazione della sostanza che deve essere trasportata, nel caso del trasporto attivo, cioè contro gradiente, è necessario un dispendio di energia metabolica (ATP) che alimenti il processo. Tuttavia, il trasporto attivo può essere accoppiato all’ATP in maniera indiretta: l’ATP viene usato per “pompare”, ad esempio, protoni contro il gradiente; in una seconda fase, il gradiente di concentrazione fornisce esso stesso l’energia per il cotrasporto di un’altra sostanza. Occorre qui evidenziare che il movimento dei soluti entro e fuori della cellula, o di un compartimento cellulare, è guidato, nel caso di molecole cariche, da una combinazione di gradiente di concentrazione e gradiente elettrico (per cui si parla di gradiente elettrochimico). In tutte le cellule c’è un voltaggio tra i due lati della membrana (ad esempio, il citoplasma è carico negativamente rispetto al fluido extracellulare in quanto vi è una distribuzione diseguale di anioni e cationi sui lati opposti della membrana). Questo potenziale, che varia tra i -50 e -200 millivolt (il segno meno indica che l’interno è negativo rispetto all’esterno), agisce come una batteria, una fonte energetica che influenza il movimento di tutte le sostanze cariche attraverso la membrana. A causa della differenza di carica tra interno ed esterno, il trasporto di membrana favorisce il trasporto passivo di cationi verso l’interno ed anioni verso l’esterno. Quindi, a livello di membrana, sono due le forze implicate: una chimica (il gradiente di concentrazione dello ione) ed una elettrica (l’effetto del potenziale di membrana sul movimento dello ione). Le piante hanno particolari pompe idrogeno che espellono ioni idrogeno. Alcune pompe, dette pompe primarie od elettrogeniche, in grado di trasportare attivamente ioni, possono creare uno squilibrio di cariche e quindi aumentare la componente elettrica del gradiente elettrochimico. La pompa primaria delle membrane delle cellule vegetali è una pompa protonica (H+) localizzata sulla membrana plasmatica e sul tonoplato (la membrana che delimita il vacuolo). L’energia liberata dall’idrolisi dell’ATP viene utilizzata per trasportare gli ioni H+ dall’interno verso l’esterno della cellula. In questo modo, si alza il pH del citoplasma (che si mantiene costante a circa 7,4) e, cosa più importante, si genera un potenziale elettrico di membrana. Questo accade perché l’interno della membrana si trova ad avere più cariche negative dell’esterno, dopo che gli ioni carichi positivamente sono stati trasportati all’esterno. I gradienti di H+ possono essere immaginati come serbatoi di energia potenziale usabile per scopi diversi. Mano a mano che la sua energia potenziale viene usata, il gradiente protonico viene ricostituito dalle pompe. Si tratta quindi di una delle tante forme di accoppiamento fra un processo esoergonico ed uno endoergonico che si trovano negli esseri viventi. Se vogliamo ricorrere nuovamente all’analogia sistema metabolico – sistema idraulico, il riflusso dei protoni è equivalente all’acqua che, scendendo da un bacino di montagna, compie lavoro; il livello del bacino non si abbassa indefinitamente perché l’acqua viene nuovamente pompata su man mano, con spesa di energia. Nei mitocondri e nei cloroplasti il gradiente protonico genera ATP. Oltre a generare il trasporto attivo di varie molecole sia all’interno del citoplasma che all’interno del vacuolo, la cellula usa il gradiente protonico per sintetizzare ATP nei mitocondri e nei cloroplasti. La sua origine, tuttavia, è completamente diversa da quella che abbiamo visto prima: non è una pompa protonica a formarlo, ma un flusso di elettroni. Brevemente si può dire che questo accade in quanto nella catena respiratoria del mitocondrio (ma un discorso analogo vedremo potrà essere fatto per catena che collega i due fotosistemi nella fase luminosa della fotosintesi che avviene all’interno del cloroplasto) vi sono alcuni componenti come i citocromi che trasportano solo gli elettroni (il NAD invece trasporta sia protoni che elettroni). Quando gli elettroni vengono scaricati sui citocromi i protoni, ora superflui, vengono assorbiti dal compartimento interno del mitocondrio e scaricati nello spazio intermembrana o lume, generando in questo modo un gradiente di protoni. L’energia spesa nella creazione di questo gradiente, e che deriva dall’ossidazione della sostanza organica nella catena respiratoria e dall’assorbimento di fotoni nella fotosintesi, viene poi recuperata attraverso la sintesi di ATP. A questo scopo è necessario un complesso macchinario molecolare che trasforma l’energia potenziale del gradiente elettrochimico in energia di legame chimico. Il principale componente di questo macchinario è un’ATP-sintasi, un grosso complesso di proteine inserite nello spessore della membrana che comprende un canale attraverso cui rifluiscono i protoni. Esso catalizza la sintesi di ATP da ADP e fosfato inorganico utilizzando ‘energia liberata nel processo esoergonico del riflusso. Sia nel caso dei mitocondri che dei cloroplasti è importante sottolineare che si può avere produzione di ATP associata a trasporto di elettroni solo se si ha un compartimento completamente chiuso da una membrana senza comunicazione con l’esterno. La membrana che delimita il compartimento è impermeabile ai protoni: questi possono ridiffondere spontaneamente verso la zona di minore concentrazione solo attraverso il canale dell’ATP-sintasi inserito nello spessore della membrana. L’ATP-sintasi è quindi un passaggio obbligato per i protoni: ricorrendo nuovamente ad un paragone idraulico si potrebbe considerare una condotta attraverso la quale l’acqua pompata in un serbatoio alto ritorna precipitosamente a valle facendo muovere una turbina che produce lavoro utile. Il cotrasporto. Nel paragrafo precedente, si è visto che la dissipazione del gradiente protonico, generato dall’attività della pompa, avviene grazie al riflusso passivo, cioè mediante il ritorno, secondo il gradiente di concentrazione, degli H+ nel compartimento da cui erano stati espulsi. Poiché il doppio strato fosfolipidico è impermeabile ai protoni, questo riflusso può avvenire unicamente attraverso dei “varchi” controllati, ovvero attraverso dei canali. Se così non fosse i protoni appena espulsi attraverso la membrana ritornerebbero indietro e quindi non si potrebbe avere un gradiente. Un sistema di cotrasporto si configura, in un certo senso, come un trasporto di tipo passivo che muove soluti (zuccheri, amminoacidi, anioni) attraverso una membrana contro gradiente elettrochimico sfruttando l’energia fornita dal flusso di ritorno dei protoni. Ad esempio gli ioni potassio, il fosfato ed il nitrato si muovono tutti verso l’interno della cellula con il flusso protonico di ritorno, un movimento catalizzato da trasportatori specifici chiamati simporti. Gli ioni sodio invece si muovono verso l’esterno della cellula e cioè in senso opposto alla direzione del flusso protonico su un trasportatore specifico definito antiporto. Anche una macromolecola come il saccarosio “accompagna” il rientro dei protoni seguendo il gradiente di concentrazione degli ioni idrogeno mantenuto dalla pompa; evento questo di fondamentale importanza, come vedremo, nel trasporto dei fotosintati. Esocitosi ed endocitosi. Le molecole più grandi sono trasportate per endocitosi ed esocitosi. Si tratta di processi di ingestione (endocitosi) o secrezione (esocitosi ) di sostanze mediante la formazione di vescicole. L’ endocitosi può avvenire secondo due modalità: fagocitosi (“la cellula mangia" ad esempio amebe e muffe) e pinocitosi (“la cellula beve" nel caso di sostanze liquide). Procediamo il nostro viaggio nella cellula vegetale analizzando le altre componenti a partire dal citoscheletro. 7.4 Citoscheletro. Il citoscheletro è una complessa rete di filamenti proteici che si estende nel citosol della cellula eucariotica. Questi filamenti, oltre a fornire un supporto meccanico alla cellula, aiutano gli organelli a mantenere una posizione, aiutano nel trasporto di materiali all’interno della cellula, controllano i movimenti dei cromosomi durante la divisione del nucleo. E’ facile immaginare il citoscheletro come qualcosa di statico, un specie di lattice di filamenti che tengono le cellule in forme specifiche e i componenti cellulari in posti specifici. Tuttavia, le cellule si dividono spesso, cambiano di dimensione e forma e gli organelli ed altri componenti interne di tutte le cellule viventi sono per lo più in movimento costante; la qual cosa significa che il citoscheletro non può essere rigido. Ci sono almeno tre tipi di filamenti: 1. microtubuli (i più grandi): tubi cavi di 18-25 nm di diametro composti da due subunità proteiche, α e β tubulina. Sono abbastanza rigidi, pur potendo allungarsi aggiungendo molecole di tubulina ad una estremità o accorciarsi perdendo unità di tubulina ad una estremità della stessa parte. Oltre a svolgere un ruolo strutturale nella formazione del citoscheletro, i microtubuli sono coinvolti nel movimento dei cromosomi durante la divisione cellulare. Inoltre, fungono da “binari” per alcuni movimenti intracellulari. Infatti, alcune proteine motrici (chinesine e dineine) sfruttano l’energia fornita dall’ATP per muoversi lungo i filamenti citoscheletrici, trasportando come carico organuli e vescicole. 2. Filamenti di actina. I filamenti più piccoli del citoscheletro sono quelli di actina (4-7 nm) costituiti da subunità di una proteina, l’actina, che si avvolgono a spirale. La proteina motrice che si muove lungo il filamento è la miosina e l’energia deriva sempre dall’idrolisi dell’ATP. 3. Filamenti intermedi. I filamenti intermedi sono chiamati così perché hanno una dimensione media tra quella dei microtubuli ed i filamenti di actina. Sono fatti di proteine avvolte in fasci a forma di corda ed hanno diametro tra 8 e 12 nm. Al contrario della altre due categorie di filamenti del citoscheletro, non sono strutture dinamiche ma piuttosto stabili e durature. La loro funzione è quella di fornire alla cellula resistenza meccanica contro lo stiramento. 7.5 Organuli coinvolti nella sintesi proteica e nel trasporto. Sono numerosi gli organuli che svolgono un ruolo nella sintesi delle proteine e in loro trasporto da un compartimento all’altro della cellula. Il nucleo contiene ed esprime le informazioni genetiche. I ribosomi ed i componenti a loro associati sintetizzano le proteine. Il reticolo endoplasmatico svolge un ruolo importante nella sintesi e nell’assemblaggio delle proteine. L’ apparato di Golgi guida il movimento delle proteine verso specifici compartimenti. Nucleo. Il nucleo è l’organulo di maggiori dimensioni (fino 10 µm di diametro); è sede dell’informazione genetica (genoma), provvede alla duplicazione e alla trascrizione del DNA. Si chiama cromatina la forma “allentata”, meno strutturata, in cui gli acidi nucleici si trovano nella cellula durante l’interfase del ciclo cellulare. La cromatina è costituita da DNA, RNA e proteine sia acide che basiche (dette istoni). Durante il processo di divisione cellulare la cromatina diventa progressivamente più condensata fino a diventare visibile al microscopio sotto forma di cromosomi distinti. Ogni cromosoma, dopo il processo di duplicazione, presenta una forma ad X poiché costituito da una coppia di unità identiche, chiamate cromatidi fratelli, associate tra loro grazie in corrispondenza del loro centromero. I cromosomi sono solitamente presenti in coppie nelle cellule somatiche degli organismi. I membri di ogni coppia, chiamati cromosomi omologhi, sono simili per forma, dimensione, e posizione dei loro centromeri. Uno dei cromosomi della coppia è di origine materna e l’altro di origine paterna: entrambi portano nella stessa posizione i medesimi geni, cioè l’informazione per il controllo degli stessi caratteri genetici, sebbene non necessariamente la medesima informazione. Ad esempio, un gene che codifica per il colore di un fiore può presentarsi sui cromosomi omologhi sotto forma di due diverse varianti alleliche: una variante che codifica per il colore giallo sul cromosoma di origine materna e per il colore rosso quello sul cromosoma paterno o vice versa. Nel caso siano presenti entrambe le varianti alleliche si parla di eterozigosi e l’individuo si dice eterozigote per quel carattere; se invece i due cromosomi omologhi portano la medesima variante allelica si parla di omozigosi e l’individuo si dice omozigote per quel carattere. Il numero di cromosomi varia notevolmente tra le specie differenti e non è comunque correlato alla complessità degli organismi: ad esempio, alcune felci hanno anche 1220 cromosomi mentre l’Arabidopsis thaliana, una piccola erbacea infestante ampiamente usata per ricerche genetiche, ne ha solo 10. Le cellule riproduttive (cioè le cellule che partecipano alla riproduzione sessuale come le cellule spermatiche e la cellula uovo), hanno solo la metà del numero di cromosomi caratteristico delle cellule somatiche di ciascun organismo (cioè portano solo un membro della coppia di omologhi); tale numero è indicato come corredo aploide (n), in contrapposizione a quello diploide (2n) delle cellule somatiche (cioè quelle che formano il corpo della pianta) dove sono portati entrambi i membri di ciascuna coppia di omologhi. Ad esempio, nel Mais il numero dei cromosomi nelle cellule somatiche è 2n = 20 (10 coppie di cromosomi omologhi: 10 cromosomi di origine materna e 10 di origine paterna); le cellule della linea germinale hanno un corredo cromosomico n= 10 (per ciascuna coppia di omologhi è presente solo un cromosoma di origine materna o paterna). Le cellule che hanno più di un corredo di cromosomi sono dette poliploidi (3n, 4n, 5n, o più). La poliploidia è piuttosto frequente negli organismi vegetali (quasi l’80% delle angiosperme è poliploide) ed è stato un fattore importante nell’evoluzione delle piante. Nel nucleo si trovano sempre uno o più nucleoli, piccoli corpi subsferici sede della sintesi dei ribosomi e dell’RNA ribosomiale (rRNA). Il nucleo è racchiuso da una doppia membrana nucleare interrotta da pori attraverso i quali passano, oltre alle macromolecole, le due sub-unità dei ribosomi che si assemblano solo nel citoplasma. La membrana nucleare è connessa con il reticolo endoplasmico da cui si origina. Ribosomi. Sono particelle presenti sia nelle cellule procariotiche che eucariotiche, con una dimensione di 17-30 nm, costituite da molecole di RNA ribosomiale e proteine che si associano a formare due subunità di dimensioni differenti. Ne esistono due classi: quelli presenti nel citosol e quelli associati al reticolo endoplasmatico ruvido. Si presentano come particelle individuali o riunite in aggregati detti polisomi, tenuti insieme da un filamento di mRNA. Sono sede della sintesi proteica: quelli liberi sintetizzano le proteine per il metabolismo cellulare; quelli associati al RER codificano le proteine destinate ad essere escrete dalla cellula. Si ricorda che i ribosomi non sono presenti nel nucleo ma si trovano nel citoplasma; sono presenti anche nello stroma dei mitocondri e plastidi. Reticolo endoplasmatico (RE). E’ costituito da una rete di membrane che formano sacche appiattite (cisterne) o strutture tubulari (tubuli). Lo spazio interno che si viene a formare è chiamato lume e nella maggior parte delle cellule dà origine ad un unico compartimento interno che è in comunicazione con lo spazio presente fra la membrana nucleare interna e la membrana nucleare esterna. Il reticolo endoplasmatico funziona come un sistema di comunicazione all’interno della cellula per il trasporto di materiali, quali proteine e lipidi. E’ connesso con i plasmodesmi permettendo, in questo modo, di favorire l comunicazione tra cellula e cellula. E’ tuttavia anche il luogo dove avvengono la sintesi e l’assemblaggio di alcune proteine e la sintesi di alcuni lipidi ed alcuni carboidrati. Il reticolo endoplasmatico viene classificato in due tipologie: 1. RE rugoso costituito da cisterne con numerosi polisomi aderenti alla loro superficie esterna che ha un ruolo fondamentale nella sintesi e nell’assemblaggio delle proteine. Molte delle proteine che sono esportate fuori della cellula e quelle destinate ad altri organuli sono sintetizzate sui ribosomi attaccati alla membrana del reticolo endoplasmatico. In alcuni casi queste proteine vengono modificate mediante l’aggiunta di carboidrati (glicoproteine) o lipidi (fosfolipidi); RE liscio costituito prevalentemente da tubuli, privi di ribosomi, che svolge un ruolo importante nella sintesi di numerosi lipidi (l’altro organulo coinvolto nella sintesi dei lipidi è il plastidio) e carboidrati. I corpi oleosi sono gocciole lipidiche che si originano nel reticolo endoplasmatico e da qui vengono rilasciati nel citosol; sono particolarmente abbondanti nei frutti e nei semi. Circa il 45% del peso di semi di girasole, arachide, lino e sesamo è costituito di olio utilizzato dalla pianta per sostenere il suo sviluppo. Apparato del Golgi. Il termine apparato del Golgi viene usato quando si vuole indicare il complesso dei corpi di Golgi di una data cellula. I corpi di Golgi (o dittiosomi) sono formati da numerosi gruppi di dischi appiattiti o cisterne impilati e che spesso si presentano ramificati ai margini in una complessa rete di tubuli. Ciascuna di queste cisterne ha uno spazio interno, detto lume. L’apparato del Golgi possiede due facce distinte: una di formazione, o cis, che è strutturalmente associata con la porzione liscia del reticolo endoplasmatico; e una di maturazione, o trans, che è rivolta verso il plasmalemma e dalla quale gemmano le vescicole. I corpi di Golgi sono coinvolti nei processi di secrezione che, nelle piante, consistono principalmente nella sintesi e nella secrezione dei polisaccaridi non cellulosici della parete cellulare (emicellulose e pectine). Il complesso di Golgi, inoltre, processa, smista e modifica le glicoproteine e le proteine destinate al vacuolo. Il percorso generale è dai ribosomi al lume del RE rugoso, da qui al complesso del Golgi e quindi alla destinazione finale. Specificatamente, i polipeptidi, sintetizzati a livello dei ribosomi, vengono trasportati al RE rugoso dove avviene la produzione della glicoproteina mediante assemblaggio della proteina ed successiva aggiunta del carboidrato alla proteina. La glicoproteina viene trasportata mediante vescicole di trasporto, che si formano dalla membrana del RE e si muovono su microtubuli, alla superficie cis del complesso del Golgi dove può subire alcune modificazioni (ad esempio, i carboidrati della glicoproteina possono essere modificati). La glicoproteina, nella regione trans, viene impacchettata in vescicole secretorie che si staccano dalla membrana del Golgi trasportando il loro contenuto a specifiche destinazioni. Le glicoproteine svolgono un ruolo di grande importanza nel riconoscimento cellulare. Per esempio, le glicoproteine presenti nelle cellule che formano i peli radicali del trifoglio bianco (Trifolium repens) sono in grado di riconoscere, quindi legarsi alla parete cellulare del batterio Rhizobium trifoli. Una volta legatisi ai peli radicali, questi batteri infettano le radici e causano la formazione dei noduli all’interno dei quali avviene la fissazione dell’azoto atmosferico. Nel sangue umano, la diversa natura della glicoproteina presente sulla superficie dei globuli rossi, invece, consente di classificarli in uno dei quattro gruppi sanguigni A, B, Ab e 0. Qualora, un individuo riceva sangue non compatibile con il proprio, vengono riconosciuti come «estranei» i globuli rossi con una diversa glicoproteina di superficie e si attiva di conseguenza un meccanismo che li distrugge. 7.6 Organuli coinvolti nel metabolismo energetico. Gli organuli coinvolti nel metabolismo energetico sono i plastidi ed i mitocondri. I plastidi si trovano solo nelle alghe e nelle piante (i cianobatteri, procarioti fotosintetici, non contengono plastidi ma solo un sistema di endomembrane, dette tilacoidi, su cui sono presenti i pigmenti fotosintetici). I mitocondri sono invece presenti in tutte le cellule eucariotiche. Plastidi. Dal momento che non sono presenti in tutte le cellule degli organismi viventi, i plastidi sono da ritenersi organuli non indispensabili al funzionamento della cellula (al contrario del nucleo, dei ribosomi e dei mitocondri). Tuttavia, la loro presenza, ed in particolare quella dei cloroplasti, rende possibile la vita autotrofa. Esistono diversi tipi di plastidi che si differenziano in base alla loro struttura ed alla funzione che essi svolgono nella pianta: i cloroplasti contengono pigmenti fotosintetici e sono responsabili della trasformazione dell’energia luminosa in energia chimica; i cromoplasti contengono pigmenti non fotosintetici e conferiscono una colorazione giallo-arancio-rosso ad alcuni organi della pianta; i leucoplasti sono plastidi che accumulano sostanze di riserva ed in particolare l’amido (gli amiloplasti) ed i lipidi (gli elaioplasti). Infine, gli ezioplasti sono cloroplasti o proplastidi che non sono stati esposti alla luce (ad esempio, nel caso di piante cresciute al buio) e, quindi, oltre a possedere una struttura ed una organizzazione poco definite, non sono in grado di fare fotosintesi. Nonostante le differenze sopra accennate, tutti plastidi hanno alcune caratteristiche comuni quali: la forma relativamente lenticolare; la presenza di una doppia membrana lipoproteica (una membrana esterna ed una membrana interna) che delimita una matrice interna chiamata stroma; un complesso sistema di endomembrane (endomembrane = membrane che si sviluppano internamente all’organulo) dette tilacoidi; presenza di DNA, RNA e ribosomi; totipotenza, cioè capacità di differenziarsi, sdifferenziarsi e ridifferenziarsi. Proplastidi. I proplastidi rappresentano lo stadio giovanile, ancora non differenziato dei plastidi e si trovano, nell’embrione e nelle cellule meristematiche (cellule giovanili) degli apici radicali e caulinari. Sono generalmente piccoli (1-3 µm), sferici o elissoidali, incolori (sono sprovvisti di clorofilla), con un sistema di endomembrane poco sviluppato (si parla, infatti, di protilacoidi anziché di tilacoidi). Nello stroma si possono evidenziare plastoglobuli (goccioline di lipidi con la funzione di mantenere la conformazione delle membrane) e riserve d’amido. Dai proplastidi, col differenziamento cellulare, derivano i diversi plastidi della cellula adulta ed, in questo senso, si tratta di organuli totipotenti. La possibilità di trasformarsi in uno specifico plastidio piuttosto che in un altro dipende sia da fattori ambientali, quali luce e temperatura, che dalla particolare funzionalità dell’organo: se una plantula viene fatta crescere al buio, i proplastidi non diventano amiloplasti, come accade nella radice, ma ezioplasti. Differentemente, i proplastidi della radice, esposta ad illuminazione continua, si trasformano in cloroplasti. Ezioplasti. La trasformazione dei proplastidi in cloroplasti è strettamente determinata dalla luce. Se sperimentalmente semi di angiosperme vengono fatti germinare al buio, le piantine che si sviluppano in queste condizioni (si parla di piantine eziolate) appaiono di coloro bianco o verde pallido. Al buio non si sintetizza clorofilla; la sequenza di reazioni che portano alla formazione della clorofilla si arresta allo stadio di protoclorofilla, un precursore della clorofilla. Quando posti al buio, i proplastidi pur cominciando a differenziarsi, non completano il loro sviluppo e, al microscopio elettronico, sono visibili plastidi (detti ezioplasti) dotati di una struttura anormale. La struttura di un ezioplasto è molto più semplice di quella di un cloroplasto ma più complessa di un proplastidio. Oltre a non contenere clorofilla, gli ezioplasti sono privi di sistema lamellare (si parla di corpo prolammelare); anche la sintesi delle proteine di membrana è molto ridotta, mentre i lipidi sono sintetizzati normalmente. Se le piante cresciute al buio vengono illuminate, gli ezioplasti si differenziano in cloroplasti: la luce catalizza la sintesi della clorofilla e delle proteine, il corpo prolamellare si disgrega e si trasforma gradualmente nel sistema di membrane tilacoidali tipiche del cloroplasto. Cloroplasti. Come già detto, i cloroplasti sono gli organuli in cui ha luogo la fotosintesi e sono presenti in tutti gli organismi eucariotici autotrofi (alghe e piante). In un millimetro quadrato di foglia possono essere presenti alcune centinaia di migliaia di cloroplasti e le cellule di un parenchima clorofilliano possono contenere da 40 a 50 cloroplasti. I cloroplasti hanno una dimensione intorno ai 5-10 µm e sono di forma ellissoidale con una faccia piana ed una convessa. La composizione e struttura della membrana è simile alle altre membrane biologiche fatta eccezione per una maggiore presenza di galattolipidi ed un minore contenuto di fosfolipidi. La membrana esterna, dotata di particolari proteine, le porine, che formano dei canali, è permeabile a molecole di piccole dimensioni sia di natura idrofila che lipofila; la membrana interna, invece, è altamente selettiva. Internamente, i cloroplasti presentano una matrice detta stroma contenente gli enzimi utilizzati nella fase oscura della fotosintesi (organicazione e riduzione della CO2), oltre ad un complesso sviluppo di endomembrane, dette membrane tilacoidali o tilacoidi, che si ripiegano su se stesse a formare delle regioni più dense e scure, chiamate grana, connesse da porzioni lineari, i tilacoidi intergranali. Tutti i tilacoidi sono in continuità tra loro costituendo un sistema chiuso di membrane che racchiude una singola camera interconnessa definita lume. Il microscopio elettronico fornisce solo immagini bidimensionali del complesso sistema di membrane interne, partendo da queste immagini si è tentato di ricostruirne la struttura tridimensionale. Secondo uno schema tra i più accreditati, l’insieme delle connessioni segue un andamento ad elica, simile a quello dei gradini di una scala a chiocciola. Poiché nello spessore della membrana dei tilacoidi è localizzato l’apparato fotochimico della fotosintesi (pigmenti fotosintetici, sistemi enzimatici per il trasferimento di elettroni e fattori di accoppiamento per la sintesi di ATP), questo tipo di organizzazione permette di concentrare e disporre ordinatamente in ciascun cloroplasto un gran numero di queste molecole. Inoltre, il lume offre un continuum di spazi interni interconnessi fra loro che favorisce la creazione del gradiente protonico necessario al funzionamento dell’ATP-asi. Il sistema dei tilacoidi è immerso nello stroma del cloroplasto in cui, oltre agli enzimi necessari alla fase oscura della fotosintesi, si trovano anche molecole di DNA e RNA, ribosomi, plastoglobuli (corpuscoli contenenti una grande varietà di lipidi e composti lipofili) e amido come surplus dei materiali glucidi. Infatti, durante l’attività fotosintetica, nelle ore diurne, la quantità di zuccheri prodotti può essere superiore rispetto ai fabbisogni metabolici della cellula; questi zuccheri non possono essere accumulati all’interno al cloroplasto in quanto, abbassando il potenziale osmotico, richiamerebbero acqua dal citoplasma e farebbero scoppiare l’organulo. Per questo motivo, l’eccesso viene polimerizzato ad amido (sostanza osmoticamente inattiva) ed accumulato temporaneamente nello stroma del cloroplasto. Durate le ore notturne, questo amido, detto amido primario, è idrolizzato in zuccheri solubili per essere in parte consumato per le attività metaboliche della cellula ed in parte trasportato negli amiloplasti dove viene riformato un amido che, per semplicemente distinguerlo dal precedente, viene detto secondario. Leucoplasti: con il termine leucoplasto si indica qualsiasi plastidio privo di colore. I leucoplasti sono classificati in base alle sostanze prodotte e/o accumulate in: amiloplasti (accumulano amido), elaioplasti (accumulano lipidi) e proteinoplasti (accumulano proteine). Gli amiloplasti sono plastidi non pigmentati (incolori), per lo più privi di tilacoidi o con un sistema di endomembrane disorganizzato, contenenti granuli di amido secondario. Si trovano in tutte le cellule adulte del corpo della pianta che non sono esposte alla luce e quindi tipicamente in tutte le cellule della radice e comunque nei tessuti di riserva di semi, frutti, fusti e radici. L’amido rappresenta la riserva glucidica più importante per i vegetali e dal punto di vista chimico è composto da due diversi polisaccaridi di α-glucosio: l’amilopectina (componente principale) solitamente a catena ramificata e l’amilosio a catena lineare. Attenzione: l’unica differenza chimica tra amido e cellulosa è che nel primo i legami sono principalmente α (1→4) glucosidici mentre nel secondo sono β (1→4) glucosidici. Questa piccola differenza, tuttavia, comporta l’impossibilità da parte dell’organismo umano di digerire la cellulosa poiché manca degli enzimi specifici necessari per la sua degradazione. L’amido può essere accumulato negli amiloplasti per ore, giorni, mesi, anni fino al momento del suo utilizzo: ad esempio, durante il periodo di fioritura e fruttificazione, momento in cui la pianta necessita di notevoli risorse energetiche, oppure all’inizio del periodo vegetativo quando il “risveglio” metabolico della pianta non è supportato da un’adeguata attività fotosintetica. Nei semi, l’amido costituisce la fonte di zuccheri che consente l’avvio dei processi metabolici che sono alla base della germinazione del seme e dello sviluppo della plantula. Sovente l’accumulo di amido è così imponente che alla fine l’amiloplasto è costituito da una grossa massa interna di amido delimitata perifericamente dalla membrana esterna dell’amiloplasto. Gli amiloplasti presenti nelle cellule della cuffia della radice (i granuli d’amido in questo caso prendono il nome di statoliti) hanno, invece, la funzione di percepire la direzione della forza di gravità e innescare la risposta gravitropica positiva della radice, cioè la sua crescita verso il basso. La forma dei granuli di amido è diversa da specie a specie ed è tipicamente costante nella stessa specie. Quasi tutti i granuli di amido presentano un centro di formazione (detto ilo) anche questo di forma, posizione e grandezza specie-specifica. Possono essere semplici (la deposizione inizia in un solo punto) o composti (l’accumulo avviene contemporaneamente in diversi punti dello stesso amiloplasto e quindi si osservano più ili). Una specifica analisi microscopica può quindi consentire di individuare eventuali frodi perpetrate mediante l’aggiunta alla farina di frumento di farine di altri cereali, di leguminose o di patate. Gli elaioplasti sono coinvolti nella sintesi e nell’accumulo dei monoterpeni (lipidi volatili che conferiscono odori, sapori, rappresentano importanti agenti farmacologici). Si trovano nella polpa dei frutti e nelle cellule delle ghiandole di secrezione associate ai tricomi e delle cavità di secrezione (ad esempio, della buccia dell’arancia). Cromoplasti. I cromoplasti sono plastidi colorati (ma non fotosintetici), mancanti di un sistema tilacoidale organizzato, che contengono caroteni e xantofille (sostanze appartenenti alla famiglia dei carotenoidi), pigmenti responsabili del colore giallo, arancio, rosso di molti fiori (ranuncolo, calendula), di alcuni frutti (pomodoro, peperone) e di radici (carota, barbabietola). Alcuni di questi carotenoidi sono presenti anche nei cloroplasti (ad esempio, il ß-carotene), altri invece sono esclusivi dei cromoplasti (ad esempio, il licopene ed il d-carotene). Come vedremo, il colore dei fiori e dei frutti, di cui sono responsabili i carotenoidi dei cromoplasti e gli antociani disciolti nel succo vacuolare, riveste un ruolo importante nell’attrazione dei pronubi (animali impollinatori) e dei disseminatori (animali coinvolti nella dispersione dei semi). I cromoplasti generalmente si differenziano a partire dai cloroplasti, come avviene nel pomodoro e nel peperone, ma possono derivare anche da plastidi non fotosintetici quali i proplastidi ed i leucoplasti (barbabietola e carota). La conversione dei cloroplasti in cromoplasti è facilmente osservabile: molti frutti (peperone, pomodoro, arancia) che da principio sono verdi per la presenza di cloroplasti, in seguito, con la maturazione, diventano di colore giallo, rosso, arancione per la conversione dei cloroplasti in cromoplasti. Durante la maturazione la clorofilla, e più in generale l’intero apparato fotosintetico dei cloroplasti, viene distrutta e nei plastidi compaiono i carotenoidi che possono essere accumulati in goccioline lipidiche giallo-arancio (plastoglobuli) o sotto forma di cristalli. Questo processo, legato a fattori endogeni alla pianta (ormoni e nutrienti) ed ambientali (fotoperiodo e temperatura), è generalmente irreversibile. Tuttavia, in opportune condizioni può essere reversibile: per esempio, per effetto del freddo o di intensa illuminazione i cloroplasti possono arrossarsi per poi tornare verdi quando si ristabiliscono le condizioni iniziali. Per molto tempo si è i ritenuto che i cromoplasti non fossero altro che cloroplasti invecchiati e metabolicamente inattivi. Tuttavia, studi recenti condotti sul pomodoro hanno evidenziato che i cromoplasti sono dotati di tutti gli enzimi necessari a portare avanti le reazioni tipiche della catena respiratoria; sono cioè in grado di produrre autonomamente ATP tanto è vero che è stato coniato il termine respirazione cromoplastica. Nelle colture agrarie, la variazione di colore del frutto è spesso una delle manifestazioni più evidenti della sindrome di domesticazione operata dall’uomo. Ad esempio, la variazione della bacca da verde a pigmentata nel pomodoro è avvenuta quando un ancestrale a bacca verde ha verosimilmente accumulato le mutazioni che accompagnano la maturazione del frutto con la perdita di clorofilla e la sintesi di pigmenti carotenoidi (β-carotene e/o licopene) ed antociani. La carota selvatica ha una radice incolore di sapore amaro ed internamente di consistenza legnosa; nonostante questi caratteri non particolarmente appetibili, veniva coltivata probabilmente per le foglie ed i semi aromatici. Le giovani radici delle carote coltivate hanno un colore pallido; dopo il primo mese di crescita cominciano a produrre pigmenti fino ad accumularne ad alti livelli prima che la crescita secondaria sia conclusa. In base alla pigmentazione della radici, le carote coltivate possono essere distinte in due gruppi: la carote del tipo orientale (selezionate in Afghanistan e di colore giallo o porpora) la cui colorazione è dovuta all’accumulo di antociani nel vacuolo delle cellule e le carote del tipo occidentale (probabilmente selezionate in Anatolia e di colore giallo, arancione o rosso) la cui colorazione è invece dovuta ai carotenoidi. La varietà oggi più diffusa accumula una grande quantità di carotenoidi ed è stata probabilmente selezionata, nel sedicesimo secolo, in Olanda. Gerontoplasti. Nelle foglie senescenti è possibile osservare plastidi, che in seguito a processi degradativi (degradazione delle clorofille, distruzione del sistema tilacoidale, accumulo di carotenoidi), assumono un aspetto simile a quello dei cromoplasti. In questo caso, però, si parla di gerontoplasti, cioè di plastidi che rappresentano uno stadio degenerativo dei cloroplasti e non vanno confusi con i veri cromoplasti (i gerontoplasti non hanno la capacità né di dividersi né di sintetizzare ex novo i carotenoidi). La trasformazione da cloroplasto a gerontoplasto, tuttavia, non sembra essere un processo irreversibile: alcuni studi hanno infatti dimostrato che il gerontoplasto non è un plastidio morto bensì può essere riconvertito in cloroplasto. La funzione di questi plastidi, probabilmente in associazione con altri organelli, è quella di attuare una sorta di controllo sulla demolizione dell’apparato fotosintetico che avviene durante il processo di senescenza. Questo controllo è necessario per due motivi: 1. i cloroplasti contengono circa il 75% delle proteine della foglia; ne consegue che il catabolismo e la mobilizzazione di questo contenuto proteico fornisce una importante sorgente di aminoacidi e di azoto per altri organi della pianta; 2. I prodotti che derivano dalla degradazione delle clorofille possono essere, in determinate condizioni, molto tossici per la cellula e devono essere rimossi. Ciclo di sviluppo dei plastidi. Un plastidio deriva sempre da un altro plastidio per scissione binaria, la forma di riproduzione tipica dei procarioti, e successivo differenziamento. Dunque, questi organuli non sono in grado di formarsi ex novo in una cellula vegetale. In effetti, tutti i plastidi derivano dai proplastidi dello zigote che a sua volta li ha ereditati da quelli delle cellule gamiche. Nella maggior parte delle piante il gamete maschile concorre con il solo nucleo alla formazione dello zigote, gli altri organuli vengono trasmessi dal citoplasma del gamete femminile, cioè per via materna; le conifere, che hanno una trasmissione per via paterna, fanno eccezione. Il differenziamento dei proplastidi nelle varie forme di plastidi dipende sia da fattori ambientali, come luce e temperatura, che da meccanismi di regolazione interni relativi all’organo. Come si è visto, se una plantula viene fatta crescere al buio, i proplastidi della foglia diventano ezioplasti, quelli della radice amiloplasti; ma, differentemente, i proplastidi della radice esposti alla luce si trasformeranno in cloroplasti. Non solo i proplastidi ma anche i plastidi adulti sono in grado di dividersi e trasformarsi l’uno nell’altro. L’esposizione alla luce è accompagnata dalla conversione degli amiloplasti in cloroplasti. I cromoplasti si differenziano dai cloroplasti, e in particolari condizioni, come nel caso della carota esposta alla luce, è possibile anche il processo inverso. Mitocondri. Sono gli organuli in cui avviene la respirazione aerobica, un processo che richiede ossigeno e che consiste in una serie di reazioni che trasformano l’energia chimica, sotto forma di carboidrati, in ATP. La cellula vegetale può contenere centinaia o migliaia di mitocondri in funzione del tipo di cellula e dello stadio di sviluppo fino ad occupare il 20% del volume del citoplasma nelle cellule con metabolismo molto attivo. Sono circondati da una doppia membrana che delimita una matrice interna : la membrana esterna è liscia e permette il passaggio di molte molecole di piccole dimensioni; al contrario, la membrana mitocondriale interna è selettivamente permeabile, può essere cioè attraversata solo da alcuni tipi di molecole. Tale membrana è ripiegata per formare estroflessioni, chiamate creste mitocondriali, che si estendono all’interno della matrice. Le creste aumentano enormemente la superficie della membrana mitocondriale interna, fornendo un’area in cui avvengono gran parte delle reazioni che trasformano l’energia chimica in ATP. Nella matrice, che comprende anche molecole di DNA, RNA e ribosomi, sono presenti enzimi coinvolti nel ciclo di Krebs. I mitocondri derivano tutti dai mitocondri dello zigote e quindi, come nel caso dei plastidi, dal gamete materno. Come già evidenziato per i plastidi, si dividono per scissione analogamente ad un batterio. 7.7 Vacuolo. I vacuoli sono delle cisterne all’interno della cellula, di forma tondeggiante, ripiene di un succo (succo vacuolare) ed esternamente delimitate da una singola membrana lipoproteica chiamata tonoplasto. Nelle cellule vegetali meristematiche e quindi giovanili si trovano numerosi e piccoli vacuoli, che durante il differenziamento confluiranno in un unico vacuolo centrale (può occupare anche più del 90% del volume delle cellule adulte), il che relega il citoplasma ad un sottile strato addossato al plasmalemma. La membrana del vacuolo (tonoplasto) è asimmetrica nel senso che la superficie esterna è più ricca di proteine integrali (pompe protoniche, carriers, proteine canale, enzimi) rispetto a quella interna. All’interno del vacuolo è presente una soluzione acquosa chiamata succo vacuolare contenente numerose sostanze, di natura diversa, che possono essere o disciolte, o presenti allo stato cristallino o variamente condensate. I vacuoli possono accumulare cationi (K+, Ca++, Mg++) ed anioni (Cl-, SO42-, NO3-), metaboliti secondari (fenoli, alcaloidi, glucosidi), sostanze di riserva (come glucosio, fruttosio, saccarosio, fruttani), acidi organici come acido succinico (nei germogli di erba medica), acido malico e acido citrico (nei frutti immaturi), acido ossalico. I vacuoli possono contenere pigmenti idrosolubili come i flavonoidi (antociani e flavoni). Il pH del succo vacuolare ha un valore medio compreso tra 5,0 e 5,5 ma l’intervallo di tale valore può estendersi da circa 2,5 (i vacuoli del frutto di limone) a valori maggiori di 7 (nei vacuoli di riserva delle proteine). Funzioni del vacuolo. I vacuoli delle piante sono compartimenti che svolgono diverse funzioni riguardanti, a seconda dei casi, la distensione cellulare, il turgore cellulare, i processi di detossificazione, le funzioni di riserva. Distensione cellulare ed osmoregolazione. A differenza delle cellule animali in cui per la crescita è necessaria la sintesi dell’intero protoplasma, nelle cellule vegetali la crescita avviene soprattutto grazie all’aumento del contenuto d’acqua del vacuolo; anche le cellule vegetali devono produrre nuove proteine, membrane ed organelli, ma a parità di volume, in minore quantità rispetto alle cellule animali. La presenza del vacuolo centrale fa sì che il citoplasma venga confinato ad un sottile strato periferico aumentando, così, la superficie di scambio tra la cellula e l’ambiente esterno. Come si è già avuto modo di evidenziare a proposito dei processi osmotici che avvengono nella cellula, il vacuolo svolge anche un ruolo fondamentale nella regolazione della pressione di turgore grazie al trasporto attivo di ioni (ioni K+ per la maggior parte delle piante e Na+ per le alofite, specie vegetali adattate a crescere su suoli salini) mediato dalle pompe protoniche presenti sul tonoplasto e loro accumulo all’interno del vacuolo. Il movimento dell’acqua viene invece mediato da aquaporine specifiche del tonoplasto (aquaporine -TIP) che rappresentano probabilmente le proteine del tonoplasto presenti in maggior abbondanza. Attività litica. In analogia a quanto avviene nei lisosomi delle cellule animali, i vacuoli possono svolgere anche un’attività litica grazie alla presenza di idrolasi acide (proteasi, nucleasi, lipasi, glicosidasi) che contribuiscono alla rottura ed al riciclo di quasi tutti i componenti cellulari. Questo riciclo si rende necessario non solo per il ricambio delle strutture cellulari, ma anche per il recupero di nutrienti durante la morte cellulare programmata (apoptosi) connessa con lo sviluppo e la senescenza. Funzione di riserva. I vacuoli possono accumulare ed immagazzinare saccarosio, fruttosio, sorbitolo e fruttani, oltre a grandi quantità di proteine. Quest’ultima funzione caratterizza i vacuoli di riserva proteica PSV (Proteine Storage Vacuole) tipici dei semi (dove si trovano nei cotiledoni e nell’endosperma) ma talvolta abbondanti anche nei tuberi e nelle foglie. Un esempio è fornito dai granuli di aleurone dell'endosperma (cioè il tessuto nutritivo) dei semi di ricino. Questi sono piccoli vacuoli nei quali le proteine precipitano in seguito alla disidratazione del seme. Durante la germinazione e le prime fasi di crescita della plantula, il contenuto dei corpi proteici viene idrolizzato per fornire substrati e energia per la crescita della plantula. Nei semi delle Graminacee la parte esterna dell’endosperma è formata da uno o più strati di cellule (strato aleuronico) ricche di granuli di aleurone o glutine. Il glutine è una sostanza lipoproteica che si origina dall'unione, in presenza di acqua, di due tipi di proteine: la gliadina e la glutenina presenti principalmente nell'endosperma delle cariosside dei cereali quali frumento, farro, segale, kamut e orzo. Funzione di accumulo di composti tossici e metaboliti secondari. I vacuoli svolgono un ruolo molto importante nei processi di detossificazione della pianta accumulando composti potenzialmente tossici. La presenza di elevate concentrazioni di metalli pesanti induce, ad esempio, l’accumulo nel vacuolo di fitochelatine, molecole in grado di chelare (cioè di legare) i metalli pesanti, che vengono rimossi dal citoplasma e trasportati nel vacuolo dove formano il complesso metallo-fitochelatine. All’interno del vacuolo possono essere depositati anche precipitati di ossalati di calcio in forma di rafidi (cristalli prismatici aghiformi disposti a fascetti), druse (cristalli prismatici a bipiramidi tetragonali), stiloidi (cristalli prismatici massicci). La formazione di questi cristalli potrebbe essere connessa a processi di detossificazione, ad esempio dall’eccesso di calcio assorbito dalle radici (ne sono ricche ad esempio le specie che vivono in zone aride e su suoli ricchi di calcio), ma anche ad una funzione di difesa nei confronti degli insetti fitofagi. Gli ossalati sono particolarmente abbondanti negli spinaci, nelle barbabietole, nelle carote, nei piselli, nei fagioli, pomodori, nel cacao, nei kiwi, nelle foglie di thè e se consumati in eccesso possono favorire l’insorgenza, nell’uomo, di gravi calcolosi renali. Nel vacuolo si accumulano glucosidi ed alcaloidi. Uno dei principali glucosidi cianogenetici è l’amigdalina dei semi e delle foglie delle Rosaceae (mandorle amare, albicocche, pesche, ciliegie, prugne) che per idrolisi libera acido cianidrico. Gli alcaloidi, composti contenenti azoto, possono essere molto tossici per l’uomo ma rivestono al tempo stesso un ruolo di grande importanza sia da un punto di vista economico che medicinale. Infatti le proprietà che caratterizzano alcune piante di importanza fondamentale per l'economia di diversi popoli (per esempio il caffè, il tè, il tabacco, ecc.) sono dovute alla presenza di determinati alcaloidi; d'altro canto sono alcaloidi i principi attivi di varie droghe, quali la marijuana, la cocaina, l'oppio, l'hashish. In medicina, gli alcaloidi rivestono un'importanza del tutto particolare in quanto la loro azione farmacologica si esplica prevalentemente sul sistema nervoso influenzando quindi non solo le facoltà volitive e intellettive, ma anche tutte quelle funzioni, quali il metabolismo, la pressione sanguigna, la temperatura corporea, la respirazione, la diuresi, che sono regolate da impulsi nervosi. I metaboliti secondari sono sostanze che, sebbene non coinvolte direttamente nei processi vitali della cellula, svolgono una funzione estremamente importante nei meccanismi di interazione pianta-ambiente. Questi metaboliti (fenoli, tannini, alcaloidi, resine, oli essenziali) possono essere secreti all’esterno della cellula o venire accumulati all’interno di essa. Nel primo caso essi possono localizzarsi a livello delle pareti mentre nel secondo caso il vacuolo rappresenta la sede intracellulare in cui questi composti vengono segregati in modo da evitarne l’interazione con i diversi componenti cellulari visto che molte di queste sostanze sono citotossiche. Come detto possono svolgere importanti funzioni ecologiche, in quanto proteggono la pianta da organismi animali predatori, e sono coinvolti nei meccanismi di resistenza ai patogeni. Alcuni composti fitotossici possono essere vantaggiosi nella competizione fra specie diverse che condividono lo stesso habitat, un fenomeno chiamato allelopatia. Molte di queste sostanze vengono utilizzate anche dall’uomo in campo farmacologico. Tra i composti fenolici, i flavonoidi comprendono gli antociani, pigmenti di colore variabile dal rosso al viola (dipende dal pH del mezzo) che danno il colore ai petali dei fiori (ad esempio geranio e calendula), a diversi frutti (ad esempio, uva e ciliegia) e a radici come il ravanello e la barbabietola, e le antoxantine che danno colore giallo alle uve bianche, ai cedri ed ai limoni. Gli antociani svolgono un ruolo importante anche in piante giovani o con getti nuovi, proteggendole dai raggi ultravioletti quando la produzione di clorofilla e di cere non è ancora iniziata. L'intera pianta può assumere una colorazione rosso-brunastra (come per esempio i nuovi getti di rose in primavera), che si riduce man mano che la produzione di clorofilla inizia. Il crescente interesse dell’uomo per queste sostanze deriva dalle loro proprietà antiossidanti che le rendono efficaci protettori dell’integrità vascolare, antinfiammatori, ed agenti antitumorali. 7.8 Altri organuli. Gliossisomi: organuli di piccole dimensioni delimitati da una singola membrana, molto ricchi di proteine enzimatiche. Sono coinvolti nel metabolismo lipidico ed in particolare nella trasformazione dei grassi in carboidrati Perossisomi: sono organuli coinvolti nel processo di fotorespirazione nei quali l’acido glicolico (prodotto nei cloroplasti) è ossidato ad acido gliossilico con formazione di acqua ossigenata, che è demolita in acqua e ossigeno molecolare.