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1 LE ACQUE TERRITORIALI Soltanto venti Stati sono oggi

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1 LE ACQUE TERRITORIALI Soltanto venti Stati sono oggi
LE ACQUE TERRITORIALI
Soltanto venti Stati sono oggi completamente circondati dal territorio dei loro vicini, tutti gli altri
hanno almeno uno sbocco sul mare. Alcuni, come il Giappone, la Nuova Zelanda e la Repubblica
Malgascia, sono completamente circondati dal mare, altri, come l’Iraq e la Giordania, hanno un
confine marittimo di soli pochi km, ma per brevi che siano le loro coste, tutti questi Stati sono
interessati al problema di stabilire un limite verso il mare alla loro sovranità.
La sovranità sugli spazi marini differisce per molti aspetti da quella sulla terraferma. In mare non
esistono insediamenti permanenti. Le sue risorse – a parte i minerali che possono essere nascosti
sotto il fondo marino – derivano dalla pesca. La sovranità sugli spazi marittimi può dunque
consistere soltanto nella facoltà di negare agli altri il diritto di pescare, di estrarre minerali, di
navigare o anche di volare su quella zona di mare su cui uno Stato assume i propri diritti sovrani.
Numerose sono le controversie sorte in epoche diverse a proposito della sovranità sui mari. Nel XVI
sec., la Spagna e il Portogallo affermarono la loro sovranità su gran parte degli oceani e, quando
poterono, ricacciarono da quei 1ari le navi degli altri Stati. Ma già agli inizi del XVII sec. Il famoso
giurista olandese Ugo Grozio prospettava nel suo Mare liberum l’idea che nessuno Stato potesse
controllare e regnare sui mari aperti. Il giurista inglese John Selden rispondeva (1635) che
l’Inghilterra “era padrona” dei mari che circondavano l’Isola Britannica e la separavano
dall’Europa. Ma i principi della prassi moderna in questo campo furono stabiliti da Cornelius van
Bynkershoek, altro giurista olandese, che nel 1702 espose le sue argomentazioni nel De dominio
maris. In questo trattato gli esponeva le grandi linee di “una concezione della sovranità marittima
molto più moderna di qualunque altra fosse mai stata proposta nel secolo precedente” (Mc Fee).
Egli affermava che mentre il mare era comune a tutti i paesi, il dominio dei mari costieri, almeno
fino là dove arrivava il tiro delle artiglierie, era una pretesa ragionevole, e poteva essere accordato a
coloro che erano padroni della costa.
“Riscontriamo un costante progresso verso il principio della assoluta libertà dei mari. Nel XIX sec.
Questa libertà è diventata assiomatica. L’alto mare è libero a tutti. Anche quando uno Stato fosse
abbastanza potente da controllarlo, la pretesa di esercitare su di esso tutti i diritti non sarebbe oggi
riconosciuta giusta, non tanto in ragione delle difficoltà di assicurarsene il pieno dominio, quanto
perché non sarebbe possibile accampare nessun motivo valido per il suo possesso” (Hackworth).
Il principio del van Bynkershoek, secondo il quale uno Stato costiero poteva esercitare la sua
sovranità sulla zona di mare ad esso adiacente raggiungibile dalle artiglierie costiere, fu
universalmente accettato.
La larghezza di tale zona, ovviamente, variava moltissimo, perché dipendeva dal calibro e dalla
potenza dei cannoni e dal fatto che essi potessero essere disposti su un’altura o a livello del mare.
Non fu possibi1e stabilire perciò distanze definitive per tutti. Più tardi, ma sempre nel XVIII sec., si
propose (ma erroneamente, come risultò in seguito) tre miglia rappresentassero la portata massima
dell’artiglieria e si convenne perciò che una distanza di tre miglia marine dalla costa (pari a 5.556
metri) rappresentasse il limite della sovranità di uno Stato costiero. Al di là, si stendeva il mare
aperto.
La regola del “tiro di cannone” continua a far testo ancor oggi: la maggior parte degli Stati
affermano i loro diritti di sovranità fino a tre miglia dalla costa, anche se alcuni li hanno spostati a
4, 6,10 o addirittura 12 miglia. Ma i progressi della balistica fanno oggi apparire superata anche la
pretesa della Louisiana (24 miglia marine) e l’avvento del missile intercontinentale fa diventare
ridicola la pretesa di affermare la propria sovranità fin dove è possibile controllare il mare con le
armi terrestri. E’ evidente che le condizioni specificate nello statuto della Louisiana del 1938, per
cui “deve sussistere un grado sufficiente di sicurezza per i cittadini e i beni dello Stato”, non
possono essere più soddisfatte nemmeno dal più vasto dei suoi mari territoriali.
Le funzioni delle acque territoriali
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La difesa è sempre stata la più importante funzione delle acque territoriali. Un attacco proditorio
potrebbe, naturalmente, venire dalle acque territoriali con altrettanta facilità che dal mare aperto, ma
uno Stato ha per lo meno il diritto di respingere o ispezionare le navi sospette che navigano entro
quei limiti, di costruire nelle acque territoriali opere di difesa o di porvi mine. Queste operazioni, un
tempo almeno, garantivano una certa sicurezza. Ma se la difesa fosse la sola ragione per mantenere
l’istituzione delle acque territoriali, oggi tale istituzione potrebbe senz’altro essere abbandonata. Vi
sono altre buone ragioni per conservarla.
Difesa dal contrabbando
II contrabbando è un’antica e quasi rispettabile attività. Esso esiste da quando esistono le leggi che
regolamentano il commercio. Per parecchio tempo i governi hanno combattuto contro il
contrabbandiere una battaglia perduta. Alcune delle più ampie rivendicazioni di giurisdizione
marittima mai avanzate miravano a controllare l’attività del contrabbandiere. Il Parlamento inglese,
per esempio, stabilì che le navi britanniche potevano intercettare e ispezionare qualunque
imbarcazione “ronzasse” a meno di due leghe (6 miglia marine) dalla costa. Questa distanza fu
gradualmente portata prima a 3, poi a 4 leghe e alla fine addirittura a 100 leghe.
L’effètto di queste ed altre decisioni è stato quello di porre in evidenza che, mentre la sovranità vera
e propria termina là dove termina il territorio, una giurisdizione più ristretta può essere in pratica
rivendicata su una larga fascia di mare. Per dirla col Masterson, “praticamente tutte le nazioni sono
disposte ad ammettere che all’interno di queste acque si può riconoscere una giurisdizione intesa a
garantire gli interessi fiscali dello Stato oltre a determinati altri interessi”. Vediamo ora quali sono
alcuni di questi “altri interessi”.
Protezione della pesca
Il mare contiene due risorse di ovvia importanza per le popolazioni che risiedono sulle sue sponde:
il pesce e i minerali presenti nelle e sotto le acque. Finché il battello da pesca era piccolo e incapace
di percorrere lunghi tragitti, 1’esercizio e la protezione dei diritti di pesca ponevano pochi problemi.
Ma in tempi recenti, la crescente domanda di pescato come fonte di alimentazione per l’uomo e gli
animali, unitamente alla utilizzazione di grossi pescherecci oceanici, ha mutato sostanzialmente
questa situazione. Sebbene in epoca medievale e agli inizi dell’era moderna alcuni paesi
rivendicassero per i loro cittadini il diritto esclusivo di pesca nelle loro acque costiere, è solo nel
secolo scorso che la questione dei diritti di pesca è diventata importante. Il principio che estendeva
la sovranità statale alle 0acque territoriali conferiva ovviamente allo Stato un diritto esclusivo di
pesca entro tale area, e questo diritto non è mai stato negato. I pescatori sorpresi a pescare nelle
acque territoriali altrui sono passibili di arresto e di ammenda. Casi del genere non sono infrequenti
nei tribunali delle città costiere dell’Europa e dell’America Latina. Ciò non impedisce, tuttavia a
uno Stato di permettere talvolta ai pescatori stranieri di operare all’interno delle sue acque
territoriali. Un permesso del genere, però, è di solito preceduto da accordi internazionali. Può
capitare che uno Stato non faccia valere regolarmente i suoi diritti in questo campo. Tanto per fare
un esempio, è consentita una certa libertà di pesca nelle. acque che circondano l’Irlanda. D’altro
canto esistono accordi, quali la Convenzione internazionale per la pesca nel Pacifico settentrionale
del 1953, che limitano il diritto di pesca, anche in alto mare, nell’interesse della fauna ittica.
Negli ultimi anni, alcuni Stati costieri hanno avanzato un certo numero di rivendicazioni per
controllare pescherecci al di là dei limiti delle acque territoriali. Le ragioni di una simile estensione
del controllo nazionale sono di ordine duplice: da un lato proteggere l’attività peschereccia del
paese in questione; dall’altro impedire 1’estinzione di determinate specie ittiche. In tal modo, i
pescatori giapponesi sono stati esclusi, dopo la seconda guerra mondiale, dal mare di Ohotsk che,
sebbene sia a rigore alto mare, è praticamente racchiuso nel territorio sovietico. Analogamente, i
Sud-Coreani hanno rivendicato il diritto esclusivo di pesca in una porzione del Mar del Giappone ed
hanno fatto rispettare i loro diritti ricorrendo alle cannoniere.
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Un numero ridotto di paesi dipende direttamente dalla pesca. L’Islanda è il caso estremo: circa un
settimo del prodotto nazionale lordo deriva dalla pesca (esclusa la lavorazione), e il pesce e i
prodotti ittici costituiscono il 90% del valore delle esportazioni islandesi. Negli ultimi anni il
governo islandese ha affermato che i mari circostanti erano eccessivamente sfruttati e che la
considerevole diminuzione degli sbarchi rappresentava un serio danno per l’Islanda. Nel 1948 al
governo islandese fu dato mandato dal parlamento di estendere il suo controllo esclusiva di pesca
fino al margine esterno della piattaforma continentale, ma tuttavia non si arrivò a tanto. Nel 1952,
però, tale controllo fu portato a 4 miglia marine di distanza da una linea prestabilita e, sei anni più
tardi, ancora più avanti, a una distanza di 12 miglia dalla stessa linea di base. Ai pescatori stranieri
fu negato il diritto di pescare all’interno di questi limiti, e anche i diritti degli stessi pescatori
islandesi furono in una certa misura limitati. Dato che le acque islandesi erano intensamente
frequentate dalle flottiglie pescherecce straniere, specialmente britanniche e tedesche, e circa il 13%
del pescato totale dell’Europa nord-occidentale proveniva dalle acque islandesi, già le decisioni del
1952 avevano suscitato la protesta del1a Gran Bretagna, ma quando la successiva estensione del
controllo sulla pesca giunse alle 12 miglia, con l’effetto di negare ai pescatori stranieri l’accesso a
un bacino marittimo di 17.000 kmq, e per di più di escluderli dalla pesca del passerino e da una
parte della pesca del merluzzo e dell’eglefino, i pescherecci inglesi continuarono a frequentare i
bacini di pesca islandesi per tutta la stagione del 1958 e pescarono all’interno del limite delle 12
miglia sotto la protezione delle cannoniere britanniche. E’ probabile che la decisione islandese
violasse il diritto internazionale, ma l’opinione mondiale tende ad accettare il punto di vista che, al
di fuori delle acque territoriali in senso stretto, uno Stato possa legittimamente pretendere di
esercitare un certo diritto di controllo, anche se non la completa sovranità, e che questo controllo
possa estendersi in certi casi alla pesca. La Gran Bretagna ha in seguito riconosciuto i diritti
dell’Islanda, in considerazione dell’eccezionale importanza della pesca per l’Islanda, e ha rinunciato
a pescare all1’interno delle 12 miglia della linea di base prestabilita.
La faccenda non finisce qui. Nel 1972 l’Islanda sposta ulteriormente i limiti delle sue acque
territoriali a 50 miglia e la Gran Bretagna reagisce nuovamente con l’invio di navi da guerra a
protezione dei suoi pescherecci. Nel 1974 la Corte di Giustizia dell’Aia condanna questo
ampliamento unilaterale, ma l’Islanda non se ne dà per inteso ed anzi sposta ulteriormente il limite
alla distanza – fantastica a livello europeo – di 200 miglia (1975). Nuova reazione britannica,
rottura delle relazioni diplomatiche e successivo compromesso con la mediazione norvegese: non
più di 24 pescherecci britannici verranno ammessi nella fascia tra le 20 e le 200 miglia (1976). Sarà
veramente terminata la “guerra del merluzzo)’?
Vi sono, comunque, altri modi per conservare, proteggere o monopolizzare la pesca. Un paese può,
per esempio, abbracciare una più vasta area marittima manipolando la linea di base da cui viene
misurata la larghezza della fascia di acque territoriali. Questo è stato l’accorgimento adottato dalla
Norvegia nel 1935 e definitivamente ratificato dalla Corte permanente internazionale di giustizia
quando fu composta la vertenza anglo-norvegese sulla pesca del 195 l. Si possono avere degli
accordi, come quello fra Regno Unito e Danimarca, che regolamentava la pesca intorno alle isole
Faer Oer e stabiliva delle aree di rispetto e delle stagioni di riposo. Analogamente, gli Stati Uniti e il
Canada si sono accordati per limitare la pesca del salmone in certe zone di mare aperto al largo
della costa del Pacifico occidentale. A volte sono stati sottoscritti anche degli accordi per
controllare le misure delle reti da pesca e per regolamentare l’uso delle reti a strascico, che dragano
il fondo marino e sono particolarmente dannose per le larve di pesce.
Quarantena e sanità
Le acque territoriali sono meno importanti ai fini della quarantena e della sanità, anche se in
qualche occasione si è affermato che questa fascia di mare è necessaria perché consente di
ispezionare le navi in arrivo, al fine di un’eventuale messa in quarantena prima che esse
raggiungano il porto. Ma è comunque di crescente importanza, oggi, la possibilità di controllare il
comportamento delle navi. Tutti i battelli, ma specialmente le petroliere, producono una certa
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quantità di residui inquinanti, che di solito scaricano in mare. Non v’è dubbio che queste sostanze
inquinanti non siano nocive, o almeno riducano i loro danni, se scaricate negli oceani; ma nello
spazio ristretto dei fiumi navigabili e dei laghi costituiscono un problema molto più serio, che può
diventare grave minaccia alla salute oltre che all’equilibrio ecologico del fiume. I battelli che
utilizzano la via d’acqua S. Lorenzo-Grandi Laghi, debbono, per esempio, essere muniti di serbatoi
settici.
Più pericoloso e di gran lunga più difficile da controllare è l’inquinamento degli oceani e dei mari
ad opera dei residui oleosi scaricati, di solito deliberatamente, dalle petroliere. Ne deriva un velo
oleoso che può coprire parecchi chilometri quadrati di mare e distruggere gli uccelli e la vita
marina, per arrivare infine, molto spesso, alle spiagge vicine che sporca per anni. A volte questa
opera di inquinamento è accidentale, come quando una petroliera si incaglia e si squarcia.
Inquinamenti del genere derivano anche dalle perdite nelle trivellazioni petrolifere sottomarine,
come avviene al largo delle coste della California meridionale, del Texas e della Louisiana, e
ultimamente (1977) nel Mare del Nord.
Atti o incidenti che provocano l’inquinamento entro i limiti delle acque territoriali di uno Stato
rientrano chiaramente sotto la sua giurisdizione. Lo scarico deliberato di residui oleosi e le
estrazioni petrolifere incaute possono e devono essere severamente punite, mentre quando
l’inquinamento è dovuto a motivi accidentali, il pagamento dei danni - una riparazione sempre
inadeguata a tanto male fatto – deve essere addossato alla compagnia o ai suoi assicuratori.
Ma che fare quando l’incidente o l’infrazione avviene in alto mare, dove non esiste altra sovranità o
giurisdizione che quella del comandante della nave? La risposta, almeno al presente, è che
purtroppo si può fare molto poco. Ma è ormai tempo che una qualche forma di giurisdizione,
nazionale o internazionale che sia, venga estesa al mare aperto, e che i comandanti di tutte le navi,
dovunque si trovino, siano sempre responsabili delle loro malefatte. Già il Canada ha proposto una
fascia di 100 miglia entro la quale il suo governo avrà l’autorità di controllare l’inquinamento e di
prendere i necessari provvedimenti contro le navi che siano riconosciute colpevoli di inquinamento
marino.
La piattaforma continentale
I problemi concernenti le acque territoriali si sono oggi aggravati a causa dei moderni sviluppi
tecnologici. Ciò vale soprattutto per quelli riguardanti il fondo del mare. Fino a poco tempo fa il
fondo, già ad una profondità di soli pochi metri, era inesplorato e non aveva quindi alcun valore. La
tecnologia moderna ha messo alla portata dell’uomo alcune del1e sue risorse, rendendone così
vantaggioso per lo Stato il possesso.
Le masse terrestri sono circondate da una piattaforma poco profonda, larga in media 200 km, ma
variabile di fatto fra i 10 e gli oltre 1.000 km. L’angolo di pendenza di questa piattaforma è così
debole da passare quasi inavvertito. Ad una profondità di circa 200 m l’angolo di pendenza
aumenta, e il pavimento marino scende bruscamente fino alla platea oceanica. Quest’area di
maggiore pendenza è la scarpata continentale. La profondità alla quale la piattaforma continentale
lascia il posto alla scarpata continentale varia abbastanza, e alla conferenza di Ginevra sul diritto,
dei mari (1958) fu oggetto di prolungate discussioni, dal momento che influenza chiaramente la
larghezza della piattaforma. La cifra adottata al termine di tante discussioni fu quella di 200 m. Così
definite, le piattaforme continentali di tutto il mondo coprono 27,5 milioni di kmq, pari a circa il
7,6% della superficie degli oceani. La piattaforma è geologicamente una parte dei continenti, è
composta dallo stesso tipo di rocce e probabilmente contiene gli stessi minerali dei continenti stessi.
E’ stato possibile in qualche caso estrarre minerali da sotto il pavimento dei mari grazie a sonde
profonde azionate da terra. Ciò è avvenuto in alcune miniere di stagno della Cornovaglia e nelle
miniere di carbone dell’isola del Capo Bretone. Ma in questo modo si può raggiungere solo una
ridottissima porzione delle risorse sottomarine. Il metodo più efficace per raggiungerle è quello di
gettare le sonde direttamente, attraverso le acque sovrastanti, da navi o da piattaforme marine. Nel
momento attuale, vengono estratte in questo modo solo risorse fluide, come petrolio e gas naturale,
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che possono essere pompate in superficie; ma non c’è alcuna ragione che vieti di estrarre in maniera
analoga lo zolfo o il salgemma.
La pendenza ridottissima della piattaforma continentale ci fa capire che le possibilità tecniche di
estrarre il petrolio non si limitano alle acque territoriali, e potrebbero anche essere estese a tutta la
piattaforma. L’area della piattaforma esterna ai limiti delle acque territoriali viene considerata alto
mare, un’area cioè su cui nessuno Stato può affermare diritti di sovranità, ma non è difficile
immaginare che cosa succederebbe se si tentasse di estrarre il petrolio, per esempio, nel mari
statunitensi, oltre il limite delle 3 miglia. A questo proposito, è bene ricordare che nel 1945 il
presidente degli Stati Uniti Truman dichiarava che “le risorse del sottosuolo e del fondo della
piattaforma continentale posta in alto mare ma contigua alle coste degli Stati Uniti appartengono
agli Stati Uniti, alla cui giurisdizione e controllo sono soggette”.
Questa dichiarazione fu seguita da dichiarazioni analoghe di altri venti paesi, la maggior parte dei
quali avevano motivo di ritenere che al largo delle loro coste fosse possibile estrarre il petrolio. Non
tutti gli Stati che seguirono l’esempio degli Stati Uniti furono altrettanto modesti. Questi ultimi
infatti non avevano avanzato il diritto di sovranità al di là delle acque territoriali, ma solo il diritto
di utilizzare le risorse minerarie. Non si arrogavano infatti alcun diritto sulle altre risorse, come il
pesce, né il diritto di controllare la navigazione nei mari costieri. Il Messico, invece, tanto per fare
un esempio, un mese dopo la dichiarazione degli Stati Uniti affermava i suoi diritti “su tutta la
piattaforma continentale adiacente alle sue coste e su tutte e ciascuna ricchezza naturale in essa
contenute e che in essa siano scoperte”. Analoghe pretese avanzarono in seguito Argentina, Cile e
Perù. L’Ecuador rivendicò addirittura il diritto di sovranità sulla piattaforma continentale fino a 200
miglia dalla costa, sebbene sia noto che la piattaforma non si estende, lungo la maggior parte della
costa occidentale sudamericana, per più di 40 miglia.
Non tutti i paesi latino-americani che avanzarono tali bizzarre pretese avevano motivo di credere
che sotto i loro mari costieri esistesse il petrolio. Alcuni erano solo ansiosi di affermare il loro
controllo esclusivo sulla pesca e di annettersi delle isole, il cui possesso era oggetto di controversie
internazionali. Così, l’Argentina rivendicò il diritto di sovranità su gran parte dell’Atlantico sudoccidentale, comprese le isole FaIkland (Malvine), una colonia britannica che 1’Argentina ambiva
da lungo tempo. Gli Stati del Vicino Oriente, invece, erano largamente spinti dal desiderio di
estendere le loro proprietà petrolifere. Ecco così che l’Arabia Saudita, la Repubblica Araba Unita e
tutti gli Stati confinanti col Golfo Persico rivendicarono il loro diritto di sovranità sulle rispettive
aree adiacenti della piattaforma. In quest’ultimo caso, tuttavia, la piattaforma in senso stretto non
esiste, perché non esiste né scarpata continentale né platea. I confini fra le aree di rispettiva
appartenenza del Golfo Persico furono perciò lasciati alle decisioni di quegli stessi Stati.
I problemi che possono sorgere da controversie sulla piattaforma continentale sono stati previsti
dalla conferenza di Ginevra sul diritto dei mari (1958). In mancanza di un accordo, si stabilì che il
confine doveva seguire la linea mediana.
La scoperta recente di gas naturale (e in seguito di petrolio) sotto il fondo del Mare del Nord ha dato
lo spunto per il primo chiaro esempio di ripartizione internazionale del controllo delle risorse
sottomarine giacenti oltre i limiti delle acque territoriali. Tutta una serie di trattati ha provveduto
all’attuazione delle raccomandazioni della conferenza di Ginevra. Il trattato anglo-norvegese del
1965, infatti, prescrive che il limite fra la porzione della piattaforma di pertinenza del Regno Unito
e quel1a di pertinenza della Norvegia sia costituito da “una linea, ogni punto della quale sia
equidistante dai punti più vicini delle linee di base da cui vengono misurate le acque territoriali di
ciascuno Stato”. Inoltre, nel caso che alcuni giacimenti petroliferi sottomarini fossero sfruttabili da
entrambe le parti, si raccomanda di giungere a un accordo preventivo sulle modalità di tale
sfruttamento. Oggi il Mare del Nord è, di fatto, interamente ripartito fra gli Stati contigui ai fini
della prospezione e dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi sottomarini.
Anche per quanto riguarda il Golfo Persico, altra zona critica, è stata attuata una ripartizione de
facto, più per iniziativa delle compagnie petrolifere interessate che per azione degli Stati sovrani
confinanti col Golfo.
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Molti problemi, tuttavia, restano irrisolti. Pochi geologi sarebbero soddisfatti della definizione di
piattaforma continentale presentata nelle pagine precedenti. Tanto per fare un esempio, non si è mai
parlato dei canali o canyon, profondi spesso parecchie centinaia di metri, che solcano il fondo della
piattaforma stessa.
Verso un ampliamento delle acque territoriali?
“Mai” scriveva il Boggs “le rivendicazioni degli Stati sui mari costieri sono state tanto numerose,
tanto varie e tanto infondate”. Il limite delle 3 miglia, strenuamente sostenuto dagli Stati Uniti, dal
Regno Unito e da un certo numero di altre importanti potenze marittime, non ha mai avuto un
riconoscimento generale, anche se le eccezioni erano poco numerose e poco importanti. Negli
ultimi anni, però, un certo numero di Stati hanno affermato la loro sovranità sui mari adiacenti.
Molte di queste rivendicazioni, come si è visto, hanno mire limitate e si riferiscono al controllo
della pesca e allo sfruttamento dei minerali. Ma non mancano alcune aperte rivendicazioni di
sovranità.
Il diritto internazionale è impreciso a questo proposito. La linea delle 3 miglia è quella di uso più
comune, ma non esiste una proibizione esplicita di superare questo limite: tutto sta nel vedére se gli
altri Stati riconoscono tali pretese. Alcuni Stati non hanno mai formulato ufficialmente i loro diritti
e, richiesti del loro parere in proposito, hanno risposto che si conformano al diritto internazionale.
In altre parole, accettano il limite delle tre miglia.
Insomma, sulla questione delle acque territoriali regna una grande confusione. Le maggiori potenze
marittime avanzano pretese modeste per sé e si oppongono a più ampie rivendicazioni da parte degli
altri Stati. Per esempio, circa 1’80% della flotta mercantile mondiale appartiene a paesi che
riconoscono il limite delle 3 miglia, e un ulteriore 100% appartiene ai paesi scandinavi, che
riconoscono il limite delle 4 miglia. Sono state insomma proprio le grandi nazioni commerciali,
prima quella olandese e in seguito quelle britannica e americana, a sostenere strenuamente la libertà
sulla maggior parte possibile dei mari. L’estensione de limite delle acque territoriali da 3 miglia a,
diciamo, 12 miglia ridurrebbe di molto la superficie dei mari aperti. Le acque territoriali degli Stati
Uniti continentali (esclusa l’Alaska) hanno una superficie di circa 45.000 kmq. L’ampliamento del
limite a 12 miglia porterebbe questa superficie a circa 180.000 kmq.
Comunque, vi sono paesi che non hanno mai fatto valere formalmente il loro diritto di sovranità sui
loro mari costieri, pur esercitando un controllo sulla pesca o sull’utilizzazione delle risorse della
piattaforma. Altri paesi non hanno addirittura mai affermato diritti di alcun genere, ma la tendenza
generale è quella dell’aumento delle rivendicazioni di ogni genere in tema di accaparramenti
marittimi.
Ma, forse, molto più grave di ogni riduzione della superficie totale dei mari aperti sarebbe la
chiusura di un certo numero di stretti di importanza internazionale. In tempo di pace, a tutte le
imbarcazioni è concesso il diritto di solcare le acque territoriali straniere, ma in tempo di guerra tale
diritto subisce delle limitazioni: può accadere che uno Stato decida di escludere le navi di
determinate potenze allo scopo di salvaguardare la propria neutralità; o che ritiri tutti i sussidi alla
navigazione, come boe, fari e altri elementi di segnalazione, o che addirittura disponga campi
minati o apra il fuoco sulle navi che tentino di passare, come fece l’Albania nel canale di Corfù nel
1946. Gli stretti con larghezza superiore alle 6 miglia hanno, in genere, una fascia centrale di mare
aperto, per cui è chiaramente contrario al diritto internazionale che uno Stato tenti di ostacolare o
impedire dalle sponde la loro navigazione. Se si estendessero i limiti alle acque territoriali a 6
miglia, ne conseguirebbe la chiusura degli stretti di Gibilterra, di Malacca e di Bab-el-Mandeb. Un
limite di 12 miglia chiuderebbe lo stretto di Dover, gli ingressi al golfo di Botnia, al golfo di
Finlandia e al Mar Egeo; il transito attraverso le bocche di Bonifacio, fra Conica e Sardegna, e lo
stretto di Hormuz all’ingresso del Golfo Persico. Da tutto ciò consegue 1’ovvio interesse delle
potenze marittime a contenere al minimo i limiti delle acque territoriali.
Ma è tempo di tornare a considerare alcuni dei problemi locali sollevati dalle pretese degli Stati
costieri di controllare parte del mare adiacente. Sono almeno 150 i punti in cui un confine
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internazionale raggiunge la costa. In alcuni casi tali confini seguono il corso di un fiume e,
proseguendo lungo un estuario, arrivano al mare. Di solito, confini come questi seguono il thalweg
o la linea mediana dell’estuario, e la delimitazione del confine è in genere preceduta da speciali
accordi fra gli Stati interessati. Un esempio tipico è quello del confine fra Paesi Bassi e Repubblica
Federale Tedesca. Esso segue il basso corso dell’Ems e il canale navigabile attraverso il Dollart, o
estuario dell’Ems, fino al mare. Si dà il caso che il Dollart abbia due canali navigabili, separati da
banchi di sabbia. Tanto la Germania quanto l’Olanda pretendono che il confine segua il canale più
distante dalle rispettive coste. Nella maggior parte dei casi, i confini arrivano fino alla costa,
laddove non esistono interruzioni del genere, e proseguono, in teoria almeno, nelle acque territoriali
e sulla piattaforma continentale. Si potrebbe pensare che la prosecuzione in mare di un confine non
sia questione di gran momento; nondimeno, nella conferenza di Ginevra del 1958 si è stabilito il
principio in base al quale, in caso di necessità, un tale confine può essere definito. Su una costa
rettilinea, è presumibile che il confine continui in mare perpendicolarmente alla costa stessa. Ma
raramente una costa è rettilinea, se non per tratti molto brevi, per cui si stabilisce come confine la
linea mediana equidistante da entrambi i lati delle coste. E’ facile immaginare, tuttavia, come
l’eventuale presenza di isole costiere complichi straordinariamente il problema della delimitazione
dei confini marittimi.
La delimitazione delle acque territoriali
Si è convenuto che i limiti delle acque territoriali vengano misurati a partire dalla linea di bassa
marea, ma questa è soggetta a variazioni notevoli, dipendenti dalla situazione meteorologica e dalle
condizioni del mare. Nei differenti paesi la linea di base è stata variamente definita, o come la linea
di ritiro medio delle acque, o come la linea di massimo ritiro delle maree primaverili, o come la
linea di massimo ritiro dell’equinozio di primavera. Su moltissime coste tale differenza fra tutti
questi valori è di pochi cm, ma in alcune regioni, com’è il caso di parte della costa britannica, la
differenza è notevole.
Su una costa uniforme, rettilinea e senza isole o secche, la delimitazione delle acque territoriali non
presenta alcun problema, ma la maggior parte delle coste non sono né uniformi né rettilinee, anzi
possono essere irregolarissime, avere isole costiere e scogliere sommerse. Quest’ultime possono
essere sommerse solo con l’alta marea e trovarsi a così scarsa profondità, da frangere le onde in
qualsiasi fase della marea. Vi possono essere dei banchi di sabbia emergenti a bassa marea, in
continuo processo di trasformazione e in continuo spostamento. Quale sarà, allora, la linea di base
su coste di tal genere?
Vige da lungo tempo il principio che un’isola che permetta l’insediamento umano, per piccola che
sia, deve avere le sue acque territoriali. Se 1’isola è a distanza sufficiente dalla costa, si può così
avere una zona di mare aperto fra essa e il continente. Se l’isola giace invece all’interno delle
normali acque territoriali, essa può provocare l’avanzamento delle acque territoriali stesse. Le baie e
gli estuari presentano una situazione più complessa: se le une o gli altri sono larghi meno di 6
miglia, supposto che le acque territoriali abbiano un’estensione di 3 miglia, rientrano interamente
nelle acque territoriali: di fatto si può prendere, insomma, come base per misurazione delle acque
territoriali una linea che unisca la due estremità dell’ingresso dell’estuario o della baia. Ma vi sono
baie o estuari più larghi di 6 miglia. In alcuni casi, queste insenature vengono dichiarate acque
territoriali per diritto storico, dal momento che gli Stati interessati hanno sempre affermato su di
esse la loro sovranità. Il fiordo di Varanger sulla costa norvegese è un esempio di diritto storico, e
come tale fu riconosciuto dall’Unione Sovietica nell’accordo del 1957. Molti dei maggiori estuari e
baie della costa britannica sono stati ugualmente rivendicati per diritto storico: per es. il Wash, il
Moray Firth e la Baia di Sligo (Donegal). Parecchi di questi pretesi diritti storici, peraltro, sono
molto meno fondati, mentre altri possono non avere addirittura alcun fondamento nella storia.
Ma è arrivato il momento di distinguere fra una baia e una semplice insenatura della costa. Per tale
distinzione si ricorre alla regola del semicerchio: si tira una linea retta fra le due estremità
dell’insenatura. “Lo specchio d’acqua così delineato forma una baia se la sua superficie è pari o
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superiore a quella del semicerchio con diametro uguale alla linea stessa” (Pearcy). Se la superficie è
minore, allora si ha una semplice indentatura costiera e i limiti delle acque territoriali sono fatti
correre parallelamente alla costa.
I banchi di bassa marea e gli scogli piccoli e inabitabili, tanto frequenti in prossimità delle coste,
presentano ugualmente delle difficoltà, ma oggi vale la regola per cui i banchi di bassa marea e gli
scogli affioranti sono presi come base per la misurazione delle acque territoriali solo quando
rientrano nei limiti di quella che sarebbe la zona delle acque territoriali se essi non esistessero.
La linea di costa si modifica continuamente, e per 1’azione degli agenti fisici, e per opera
dell’uomo. I banchi di bassa marea, come per esempio quelli affioranti lungo le coste del golfo del
Messico, sono soggetti a continue modificazioni a causa dell’accumularsi di sempre nuovi depositi
di fango e sabbia. Tali variazioni provocano il variare della linea di base, da cui vengono tracciati i
limiti delle acque territoriali. Ma anche se l’avanzare e il progredire della linea di costa è opera
dell’uomo, si ha un conseguente avanzamento o ritiro del limite delle acque territoriali: un’isola
artificiale, un molo o una diga, il prosciugamento di baie costiere sono tutte opere che comportano
l’avanzamento del limite delle acque territoriali.
La conferenza di Ginevra non ha stabilito regole precise per la definizione delle acque territoriali;
ha semplicemente elaborato un corpo di principi che possono servire di guida a tale delimitazione
quando ne sorga la necessità. Nessuno pretende che le controversie in tema di acque territoriali
abbiano una grande importanza nella politica mondiale, e neppure che la sicurezza di un paese sia
minacciata da una decisione avversa in questo campo. Ma l’orgoglio nazionale è una cosa molto
delicata e può essere offeso da una questione di per sé poco importante. La controversia per la pesca
nelle acque islandesi suscitò grande clamore in Islanda ed emozioni poco meno vive, anche se
molto meno fondate, in Gran Bretagna. Sono le piccole questioni come questa che colpiscono la
pubblica opinione e, a sua volta, la pubblica opinione contribuisce a dare un indirizzo alla politica.
Dispute come queste non saranno “fili di rasoio”, ma hanno la loro importanza nel determinare il
comportamento degli Stati.
Suddivisione in fasce delle acque territoriali
La sovranità di uno Stato termina teoricamente o legalmente al limite delle sue acque territoriali, ma
determinate misure di controllo si spingono, come si è visto, più in avanti verso il mare aperto. Al di
qua della linea di base, verso la costa, vi sono acque che non vengono considerate come parte delle
acque territoriali, ma come acque interne dello Stato. Si possono così distinguere cinque fasce
giurisdizionali, non tutte ugualmente presenti su ogni particolare tratto di costa, ma comunque
riconoscibili. Esse sono:
l. le acque interne, cioè estuari; baie e lagune che giacciono internamente alla linea di base da cui
vengono misurate le acque territoriali;
2. le acque territoriali, che si estendono dalla linea di base – non importa se considerata come linea
di massimo ritiro delle maree o arbitrariamente condotta attraverso punti prestabiliti – per una
determinata distanza verso il mare. In questa fascia la sovranità dello Stato è assoluta;
3. la fascia contigua, cioè una fascia, di larghezza variabile da uno Stato all’altro, all’interno della
quale lo Stato pretende di esercitare una qualche forma di controllo;
4. la piattaforma continentale: è difficile distinguere tra fascia contigua e piattaforma continentale.
Certi diritti, che in alcuni Stati vengono avanzati su una fascia contigua di larghezza determinata, in
altri sono rivendicati per la piattaforma continentale, qualunque sia la sua estensione. In molti casi, i
diritti affermati per la piattaforma continentale riguardano solo lo sfruttamento delle risorse
minerarie, ma in alcuni casi si estendono anche alla pesca. Si deve però osservare che è quasi
impossibile far rispettare un diritto esclusivo di pesca per un’estensione di mare tanto vasta. Di
tanto in tanto si sono udite rivendicazioni sul diritto di controllo delle ricchezze del mare, qualunque
sia la sua profondità, ma al momento attuale qualunque tentativo di estrarre risorse minerarie da
profondità superiori a quelle della piattaforma continentale non può essere considerato realizzabile:
si tratta di rivendicazioni puramente accademiche;
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5. il mare aperto: questa è la fascia, costituente la maggior parte degli oceani, in cui nessuno Stato
può affermare diritti di sovranità o di controllo. Qui la libertà di navigazione è assiomatica e
comprende anche il diritto di gettar cavi sul fondo marino e la libertà di sorvolo da parte degli aerei.
Il mare aperto è l’unica parte della superficie terrestre non soggetta alla giurisdizione politica di uno
Stato.
E’ interessante osservare che, in molte rivendicazioni di diritti al di là dei limiti territoriali, tali
diritti erano specificatamente limitati al fondo marino e al sottosuolo e che non si è mai preteso di
limitare la libertà dei mari. Così, il confine della sovranità di uno Stato può essere rappresentato
come un piano condotto verticalmente, là dove terminano le acque territoriali. Questo piano giunge
fino al fondo marino e lo segue fino all’orlo della piattaforma continentale, cioè l’isobata di 200 m o
qualunque altro limite sia stato stabilito per legge. Qui il piano diventa di nuovo verticale e giunge
fino al centro della Terra. Lo sfruttamento delle risorse della piattaforma continentale fa nascere il
problema dell’analogo sfruttamento del fondo degli oceani, le cui risorse fanno senza dubbio gola a
chiunque.
A chi appartengono queste risorse, e chi ha il diritto di sfruttarle? Questa è una delle più importanti
questioni che il diritto internazionale non ha saputo risolvere. La conferenza del 1958 sul diritto dei
mari accettò il punto di vista secondo il quale uno Stato poteva sfruttare le ricchezze sottomarine
oltre il limite della piattaforma continentale “fin dove la profondità delle acque sovrastanti consente
lo sfruttamento delle risorse naturali delle aree suddette”. Ma ciò non dà risposta alla domanda: chi
è autorizzato a sfruttare, e a quali condizioni, le ricchezze giacenti sul fondo degli oceani?
Non meno importante è l’utilizzazione a fini militari del fondo oceanico per l’installazione di
missili o altri ordigni bellici. La necessità di un accordo internazionale, che regoli l’utilizzazione ai
fini militari del fondo oceanico e permetta – naturalmente sotto attento controllo – lo sfruttamento
delle sue ricchezze a beneficio di tutta l’umanità, è sentita urgentemente, e proprio perché possa
essere evitata una nuova forma di imperialismo delle grandi potenze.
La libertà dei cieli
L’esame della libertà dei mari conduce immediatamente alla questione della libertà dei cieli. La
sovranità di uno Stato si estende verticalmente verso il basso a distanza indefinita al di sotto della
superficie terrestre, Si può dire che si estende verticalmente verso 1’alto per una distanza infinita?
Su questo punto si hanno delle opinioni, ma non un corpo di principi universalmente riconosciuto. Il
diritto romano non poneva alla sovranità un limite verso 1’alto. D’altro canto, si è proposto che la
sovranità termini ad un’altezza determinata, per esempio al limite della stratosfera (15 km circa). Si
sono avuti molti tentativi di formulare una legge sugli spazi aerei analoga in tutto e per tutto a
quella degli oceani. E’ stato suggerito un confine fisico, per esempio la tropopausa, che
corrisponderebbe alla scarpata continentale, ma finora nessun governo ha accettato un confine fra
“spazio aereo territoriale” e spazio esterno.
La questione, tuttavia, sta diventando urgente. C’è un mucchio di “ferraglia” in giro per lo spazio:
un po’ di questa ferraglia può cadere in terra e fare un bel po’ di danni; potrebbe addirittura essere
scambiata sugli schermi radar per un ordigno mortale in arrivo da un altro continente.
Esiste un solo motivo per cui rivendicare il diritto di sovranità negli strati superiori dell’atmosfera:
la sicurezza militare dello Stato sottostante. Se, a una qualsiasi altezza alla portata di un qualunque
oggetto volante, esiste libertà di sorvolo, uno Stato può essere intimidito dai bombardieri, e
comunque spiato. I primi tentativi di limitare la sovranità a una qualche fascia particolare degli
strati inferiori dell’atmosfera sono stati tuttavia abbandonati. Una prima dichiarazione (1958) dell’
Unione Sovietica su questo punto, e cioè che “nessuno Stato ha il diritto di sottoporre parte dello
spazio cosmico alla sua legislazione, amministrazione e giurisdizione” è stata in seguito ripudiata,
visto che un altro portavoce sovietico ha dichiarato più tardi (1960) che “non ci si può attendere che
i governi siano indifferenti ad atti di spionaggio diretto contro di loro, solo perché sono condotti non
nell’aria ma nello spazio cosmico”.
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I satelliti artificiali, che corrono nello spazio ad altezze varianti fra 100 e parecchie centinaia di km,
debbono necessariamente violare periodicamente lo spazio aereo di ogni Stato. Eppure non si sono
avute ancora proteste diplomatiche, neppure quando satelliti del genere sono stati in grado di
filmare formazioni di nubi negli strati superiori dell’atmosfera e ritrasmettere le immagini a terra.
Se la situazione giuridica degli strati superiori dell’atmosfera è molto oscura, non può sorgere,
tuttavia, alcun dubbio sulla situazione relativa ai bassi strati dell’ atmosfera, posti alla portata degli
aerei con pilota. In questo senso, la sovranità è rivendicata da ogni Stato, che nega agli aerei
stranieri – anche di Stati alleati – il diritto di sorvolare il proprio territorio, salvo il permesso e il
rispetto di condizioni ben precise. Tali condizioni includeranno quasi certamente la richiesta che
l’aereo voli lungo determinati corridoi e a determinate altezze. E’ possibile che venga negato il
permesso di volare in determinate ore del giorno e della notte. Questo diritto di sovranità giunge
naturalmente fino ai confini territoriali dello Stato. Così, ogni estensione delle acque territoriali
comporta automaticamente un’estensione dell’area su cui il sorvolo degli aerei stranieri è sottoposto
a controllo. Tali restrizioni sono in parte giustificate dalla necessità di controllare il percorso e
l’altezza degli aerei nell’interesse della propria sicurezza. Ma la giustificazione principale sta nel
fatto che i voli di aerei stranieri sono una minaccia alla sicurezza nazionale.
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