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“Abuso del diritto in campo tributario”.

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“Abuso del diritto in campo tributario”.
ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO TRIBUTARIO
1.
ABUSO DEL DIRITTO IN GENERALE
Di abuso del diritto in generale si parla da sempre e con detta formula si tende
ad indicare un limite esterno all’esercizio, potenzialmente pieno ed assoluto,
del diritto soggettivo. Come può evincersi dalla radice etimologica del termine
(ab-uti), si ha abuso nel caso di uso anormale del diritto, che conduca il
comportamento del singolo fuori della sfera del diritto soggettivo esercitato,
per il fatto di porsi in contrasto con gli scopi etici e sociali per cui il diritto
stesso viene riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico positivo.Nel
nostro codice non esiste una norma che sanzioni in via generale l’abuso del
diritto. La cultura giuridica degli anni ’30 riteneva che l’abuso del diritto, più
che essere una nozione giuridica, fosse un concetto di natura etico-morale,
con la conseguenza che colui che ne abusava veniva considerato meritevole
di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Tale contesto culturale, unitamente
alla preoccupazione per la certezza del diritto, attesa la grande latitudine di
potere che una clausola generale, come quella dell’abuso del diritto, avrebbe
attribuito al giudice, impedì che venisse trasfusa nella stesura definitiva del
codice civile italiano del 1942 quella norma del progetto preliminare (art. 7)
che proclamava, in termini generali, che “nessuno può esercitare il proprio
diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli è stato
riconosciuto”. In questo modo il codice italiano si poneva in contrasto con la
legislazione di altri ordinamenti, in particolare tedesco e svizzero, contenenti,
per contro, una norma repressiva dell’abuso del diritto. Il legislatore del ’42 ha,
pertanto, preferito ad una norma di carattere generale norme specifiche che
consentissero di sanzionare l’abuso in relazione a particolari categorie di
diritti.
2.
ABUSO DEL DIRITTO IN CAMPO TRIBUTARIO
In campo tributario il concetto di abuso del diritto si atteggia diversamente,
visto che qui, a differenza del campo civile, non rilevano diritti soggettivi che
vengono esercitati oltre i loro limiti, ma una sorta di abuso del diritto che
potremmo chiamare indiretto (riferito ai diritti che sorgono a seguito
dell'utilizzo di strumenti giuridici) o meglio oggettivo, ossia abuso di norme
giuridiche, anzi, come spesse viene anche definito, abuso di forme giuridiche
(strumenti, negozi, etc.).
L'abuso del diritto in campo tributario si configura pertanto (mi servo del
termine utilizzato dall'On. Prof. Leo nella proposta di riforma) come "l'utilizzo
distorto o artificioso di una o più disposizioni di legge, precipuamente
finalizzato ad ottenere vantaggi fiscali illegittimi o comunque contrari alle
finalità perseguite dalla normativa tributaria".
Esso va distinto, da un lato, dalla legittima scelta da parte del contribuente
delle forme giuridiche negoziali o dei modelli organizzativi che comportino
l'applicazione del regime di imposizione più favorevole, dall'altro dalla vera e
propria evasione fiscale. La differenza tra elusione ed evasione viene
tratteggiata in molti modi; si dice ad esempio che con l'elusione si aggira
obliquamente la legge, di cui si viola non già l'auctoritas, quanto la sententia.
Mi pare però che la definizione maggiormente coerente con la sostanza del
fenomeno ed ai suoi risvolti pratici sia quella di coloro che affermano che
mentre nel caso dell'evasione si occulta il presupposto di un'imposta già sorta
1
e che il contribuente si adopera di celare all'attento sguardo indagatore
dell'amministrazione finanziaria, nell'elusione si lavora a monte del
presupposto impositivo stesso, cercando di impedire che il medesimo possa
addirittura sorgere. L'abuso del diritto rientra quindi nel campo dell'elusione
fiscale: sono due facce della stesso fenomeno (come dice l'On. Prof. Leo) che
si concretizza con un risparmio di imposta contrario alle finalità perseguite
dalla normativa fiscale. Ciò che contraddistingue l'abuso del diritto nell'ambito
dei fenomeni elusivi è rappresentato dalle specifiche modalità con cui viene
aggirata la norma tributaria, che in questo caso si attua per l'appunto
mediante l'uso stesso della norma e degli strumenti giuridici da essa messi a
disposizione, ma distorto, non corrispondente alle finalità tipiche della stessa.
L'On. Prof. Leo afferma, nella relazione tenuta lo scorso 4 giugno presso la
Commissione Parlamentare di Vigilanza dell'Anagrafe Tributaria di cui egli è
Presidente, che per distinguere tra comportamento lecito ed illecito è
necessario esaminare il comportamento del contribuente e la normativa da
esso applicata: se essa si colloca su un piano di pari dignità rispetto ad altre
normative che conducono ad un risultato economico equivalente, allora il
risparmio di imposta è lecito; se invece il risultato ottenuto è disapprovato dal
legislatore, nel senso che esso non era a conoscenza della possibilità di
ottenere questo risparmio e se lo avesse saputo lo avrebbe vietato, in questo
caso è illegittimo.
Insomma, l'abuso del diritto in materia tributaria normalmente si sostanzia
nella realizzazione di una serie di negozi giuridici (non è escluso che sia
anche un singolo negozio, ma è l'intrecciarsi di negozi giuridici ciò che il
legislatore non aveva previsto e controllato) di per sé del tutto leciti se presi
singolarmente, ma il cui concatenamento e la cui sequenza risulta anomala in
relazione al risultato economico apparentemente perseguito, del tutto
inesistente o marginale, ma conduce all'ottenimento di un risparmio di imposta
che si pone in aperto contrasto con le finalità solidaristiche di una norma
impositiva.
3.
INTERVENTI LEGISLATIVI E DOTTRINALI DEGLI ANNI '90
Di abuso di diritto in campo tributario si parla soprattutto dagli anni ‘90, a
seguito di specifici interventi del legislatore che tendono a tappare alcune
evidenti falle nel gettito erariale dovuto ad un utilizzo distorto e strumentale di
pratiche giuridico-commerciali formalmente lecite (art.10 L.408/1990, come
norma antielusiva in relazione alle operazioni straordinarie d'impresa; il cd.
dividend washing: L. 429/1992 di conv. del DL 372/1992, che ha introdotto il
comma 6 bis dell'art.14 dpr 917/86, ove si nega il credito di imposta correlato
alla distribuzione di utili a chi compra azioni da un fondo comune dopo la
delibera di distribuzione degli utili). Anche la dottrina inizia ad interessarsi
dell'argomento (v. libro di Pistone del 1995 sull'abuso del diritto e l'elusione
fiscale). Con il D.L.vo 358/1997 viene introdotto l'art.37 bis dpr 600/73, che
fornisce una definizione di abuso di diritto, ma ne limita l'effetto di
inopponibilità solo nell'ambito di specifiche e determinate operazioni che la
norma tassativamente elenca.
4.
STORIA
DELL'ELABORAZIONE
CONCETTO DI ABUSO DEL DIRITTO
2
GIURISPRUDENZIALE
DEL
I primi anni 2000: tutto tace
La Cassazione ancora agli inizi del 2000 escludeva che potesse rinvenirsi
nell’ordinamento un principio generale antelusivo, potendo essere qualificati
come elusivi (e quindi irrilevanti verso il fisco) solo quei comportamenti che tali
fossero esplicitamente definiti da una legge dello Stato vigente al momento in
cui essi sono venuti in essere, come per l'appunto nel caso del dividend
washing (Cass. 3.4.2000 n.3979, Cass. 3.9.2001 n.11351, Cass. 7.3.2002
n.3345).
Le sentenze del 2005: qualcosa inizia a muoversi (attraverso gli strumenti
tradizionali del diritto civile della nullità del contratto in frode alla legge o della
simulazione)
Nel 2005 tre famose sentenze della Cassazione su dividend washing e
dividend stripping rovesciano l'impostazione fino ad allora esistente (Cass.
21.10.2005 n.20398, Cass. 26.10.2005 n.20816 e Cass. 14.11.2005 n.22932)
ed affermano che, nella disciplina anteriore all'entrata in vigore dell'art.37 bis
nel 1997, pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola
generale antielusiva, non può negarsi l'emergenza di un principio tendenziale,
desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato
dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da
operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio
fiscale. Si trattava solo di una tendenza in quanto la Corte di Giustizia non
aveva ancora delineato con nettezza un principio di inopponibilità dell'atto al
fisco per abuso del diritto, ma che fu sufficiente a far cambiare idea alla Corte
("la Corte di Giustizia ha infatti, ripetutamente affermato, anche se in settori
diversi da quello dell'imposizione fiscale, che i singoli non possono avvalersi
abusivamente delle norme comunitarie. Nondimeno, l'esistenza di una
clausola generale antiabuso, così come definito nella citata sentenza,
nell'intero campo dell'imposizione fiscale non è stato ancora affermata dalla
giurisprudenza comunitaria. E' evidente, d'altra parte, che l'esistenza di un
tale principio svolgerebbe un innegabile effetto d'irraggiamento sull'intero
sistema impositivo, anche per tributi, come quelli diretti che, pur ricadendo
nella competenza degli Stati membri, sono comunque soggetti, secondo una
costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, ai principi fondamentali
dell'ordinamento comunitario. Per quanto riguarda le fonti comunitarie, le
stesse, a volte si limitano a rimettere al legislatore nazionale o alle
convenzioni internazionali la previsione di clausole anti abuso, altre volte ne
contengono una diretta definizione. Pertanto, pur non essendo stata affermata
in modo radicale, e valevole per tutti i settori dell'imposizione fiscale,
l'esistenza di una regola che reprima - attraverso l'inopponibilità dell'atto
all'Amministrazione finanziaria - il "c.d. abuso dei diritto, non pare contestabile
l'emergenza di un principio tendenziale, che - in attesa di ulteriori
specificazioni della giurisprudenza comunitaria - deve spingere l'interprete alla
ricerca di appropriati mezzi all'interno dell'ordinamento nazionale per
contrastare tale diffuso fenomeno"). Conseguentemente, nel particolare caso
in cui l'acquirente di azioni da un fondo comune d'investimento, dopo averne
percepito i dividendi, abbia rivenduto i titoli al fondo stesso al fine di
consentire l'elusione del regime fiscale previsto dalla L.77/1983, art.9, come
sostituito dal D 83/1992 (c.d. dividend washing), l'applicazione del predetto
principio si traduce nella individuazione di un difetto di causa che da luogo alla
3
nullità dei contratti collegati di acquisto e di rivendita delle azioni, rilevabile
anche d'ufficio, non conseguendo dagli stessi alcun vantaggio economico per
le parti, all'infuori del risparmio fiscale. Nella sentenza n.20816 si afferma
quindi che l’Amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare
applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre (prima in sede di
accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o
relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla
legge, ivi compresa la legge tributaria (art. 1344 c.c.), potendo fornire la
relativa prova con qualsiasi mezzo, anche attraverso presunzioni. Qui lo
strumento è quello civilistico del negozio nullo per nullità della causa in quanto
contratto in frode alla legge, ovvero della simulazione.
Le ordinanze del 2006 e la chiamata a raccolta delle SSUU sul "taglio"
civilistico" dell'abuso del diritto.
Questo sviluppo giurisprudenziale ha dato luogo a due ordinanze della
sezione tributaria della Cassazione (Cass. 24.5.2006 n.12301 e n.12302) con
cui si è ritenuto opportuno devolvere alle Sezioni Unite le seguenti questioni:
a) se l’Amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare
applicazione delle imposte, sia legittimata a dedurre (prima in sede di
accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o
relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per "abuso di
diritto" cioè per la abusiva utilizzazione di norme comunitarie a scopi impropri;
b) se il Giudice tributario, di fronte ad un atto di accertamento in cui si deduca
un procedimento negoziale indiretto, possa ritenere comprese nel thema
decidendi e rilevare d’ufficio eventuali cause di nullità dei contratti, la cui
validità ed opponibilità alla Amministrazione abbia costituito oggetto
dell’attività assertoria delle parti.
La chiamata a raccolta delle SSUU sul "taglio" civilistico-contrattuale della
questione doveva però diventare presto superato alla luce della nuova strada
percorsa dalla giurisprudenza dell'applicazione interna delle norme e dei
principi del diritto comunitario.
L'irruzione dei principio di diritto comunitario:
La Corte di Giustizia CE si pronuncia in modo netto sull'esistenza di un
principio antiabusivo in materia di imposte armonizzate (2006)
La mera tendenza comunitaria diventa principio netto con la cd. sentenza
Halifax della Corte di Giustizia 21.2.2006, da considerarsi vero e proprio
leading case in tema di abuso del diritto (o comportamento abusivo) nel
campo fiscale. In tale sentenza la Corte ha elaborato una nozione di abuso in
modo del tutto autonoma dalle ipotesi di frode, richiedendo che le operazioni,
pur realmente volute e immuni da rilievi di validità, devono avere
"essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale". Anche nella
sentenza dello stesso giorno 21.2.2006 Huddersfield si esprime lo stesso
concetto, anche se qui si parla di vantaggio fiscale come scopo esclusivo o di
operazioni compiute al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale.
La diversità di espressione della sentenza Halifax conduce a ritenere che la
presenza di scopi economici (oltre al risparmio fiscale) non esclude
l'applicazione del principio, che la giurisprudenza interna inizia ad intendere
come un vero e proprio canone interpretativo del sistema. Una rigorosa
applicazione del principio dell'abuso del diritto, in tal modo definito, comporta,
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quindi, che l'operazione deve essere valutata secondo la sua essenza, sulla
quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o
teoriche, tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o
assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio
d'imposta.
L'ingresso in Italia dei principi CE
Il filone comunitario inaugurato con le sentenze Halifax e Huddersfield trova
ingresso in Italia con Cass. 29.9.2006 n.21221, la quale richiama
esplicitamente le due sentenze della Corte di Giustizia ed afferma il principio
secondo cui, in forza del diritto comunitario, non sono opponibili alla
Amministrazione finanziaria gli atti che costituiscano "abuso di diritto",
aggiungendo che tale principio trova applicazione in tutti i settori
dell’ordinamento tributario e dunque anche nell’ambito delle imposte dirette,
atteso che pur essendo le IIDD attribuite alla competenza degli Stati membri,
gli stessi devono esercitare tale competenza nel rispetto dei principi e delle
libertà fondamentali contenuti nel Trattato CE.
La nozione di abuso del diritto prescinde, pertanto, da qualsiasi riferimento
alla natura fittizia o fraudolenta di un'operazione, nel senso di una
prefigurazione di comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile
all'ufficio di cogliere la vera natura dell'operazione. Come ha ribadito la
sentenza Halifax al punto 2) del dispositivo, il proprium del comportamento
abusivo consiste proprio nel fatto che, a differenza dalle ipotesi di frode, il
soggetto ha posto in essere operazioni reali, assolutamente conformi ai
modelli legali, senza immutazioni del vero o rappresentazioni incomplete della
realtà.
Il concetto di abuso di diritto, pertanto, derivando direttamente
dall'ordinamento comunitario, prescinde totalmente dal carattere fittizio o
fraudolento di un’operazione, nel senso di una prefigurazione di
comportamenti diretti a trarre in errore o a rendere difficile all’ufficio di cogliere
la vera natura dell’operazione, né comporta l’accertamento della simulazione
degli atti posti in essere in violazione del divieto di abuso, in quanto il suo
presupposto è proprio la validità degli atti compiuti, e non sussistono
impedimenti processuali ad introdurre la problematica dell'abuso del diritto,
nel quadro di un accertamento su comportamenti fraudolenti e/o elusivi, nel
giudizio di cassazione, visto che i giudici nazionali hanno l'obbligo di
applicare, anche d'ufficio, le norme di diritto comunitario, se necessario
attraverso la disapplicazione del diritto nazionale che sia in contrasto con tali
norme, senza che possano ostarvi preclusioni, anche di natura processuale.
I giudici italiani chiedono alla Corte la corretta interpretazione dei principi su
alcuni punti particolari
In questo periodo Cass. assesta il principio di cui sopra, che ormai la stessa
Cass. più volte considera pacifico, ribadendolo, elaborandolo e
perfezionandolo (es. v. ad es. Cass. 13.10.2006 n.22023), tanto che può
tranquillamente affermarsi ora che l'ottica dei rapporti elusione/norma
legislativa si è ribaltata e le singole norme "anti - elusive" vengono invocate
non più come eccezioni ad una regola, ma come mero sintomo dell’esistenza
di una regola stessa di carattere generale. Non si dubita cioè più della
generale applicabilità della "clausola antielusione" ma si apre una stagione in
cui si interroga la Corte Europea per sapere come ed in quali termini applicare
5
tale clausola.
- Ordinanza n. 21371 del 4.10.2006 (Part Service), con cui vengono formulati
alla Corte Europea di Giustizia vari quesiti inerenti all’"abuso di diritto":
1) premesso che nella sentenza Halifax era richiesto, affinché si configuri
un’ipotesi di abuso, che, oltre alla persecuzione di una finalità contrastante
con lo spinto della direttiva (nella specie, la sottrazione di un contratto al
trattamento fiscale che gli è proprio), che la forma giuridica utilizzata abbia
“essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”, l’ordinanza
osservava che non venivano forniti ulteriori elementi per cogliere il preciso
significato di tale espressione, anche alla luce di notevoli varianti nelle
traduzioni ed in relazione all'apparente diversità rispetto alla giurisprudenza
precedente, ove si parlava di vantaggio fiscale come scopo esclusivo, o di
operazioni compiute al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale (anche
nella stessa sentenza Huddersfiel, per esempio) . Tale diversità di
espressione poteva, quindi, condurre a ritenere che la presenza di scopi
economici (oltre al risparmio fiscale) non escludesse l’applicazione del
principio. Si poneva, quindi, il problema se una operazione compiuta
essenzialmente per conseguire un vantaggio fiscale fosse equivalente, più
ampia o più restrittiva di quella compiuta senza valide ragioni economiche
all’infuori di un vantaggio fiscale e, quindi, se il limite dell’abuso del diritto
operi quanto le ragioni economiche siano assolutamente marginali o
irrilevanti, e non una possibile finalità alternativa.
2) se ai fini della tassazione IVA fosse da considerare il complesso negoziale
come un tutto unitario, sotto il profilo dello scopo economico perseguito,
ovvero se ogni contratto conservasse la sua autonomia e, quindi, il regime
fiscale che gli era proprio (nel caso di specie era avvenuta una separata
conclusione di contratti di locazione finanziaria (leasing), di finanziamento, di
assicurazione e d'intermediazione, avente come risultato la soggezione ad
IVA del solo corrispettivo della concessione in uso del bene, laddove la
conclusione di un unico contratto di leasing secondo la prassi e
l'interpretazione della giurisprudenza nazionale avrebbe come oggetto anche
il finanziamento e, quindi, comporterebbe l'imponibilità IVA dell'intero
corrispettivo).
- Ordinanza n.26996 del 21.12.2007, con cui si chiede alla Corte Europea di
pronunciarsi se l’esigenza di impedire gli effetti di "abusi di diritto" debba
addirittura prevalere sugli effetti preclusivi derivanti dal giudicato esterno.
- Ordinanze nn.3030, 3031e 3033 dell'8.2.2008, con le quali si chiede se
l'utilizzazione della forma societaria cooperativa possa essere qualificata
come abuso di diritto ove il ricorso a questa forma avvenga all'unico o
principale scopo di un risparmio di imposta.
Nel contempo vengono affrontate questioni applicative correlate, quale quello
del regime probatorio (Cass. 4.4.2008 n.8772, Cass. 21.4.2008 n.10257: non
hanno efficacia nei confronti della amministrazione finanziaria quegli atti posti
in essere dal contribuente che costituiscano "abuso di diritto", cioè che si
traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un
vantaggio fiscale; ed incombe sul contribuente fornire la prova della esistenza
di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente
marginale o teorico).
La Corte di Giustizia risponde alla richieste della Cassazione
La Corte di Giustizia CE con sentenza 21.2.2008 (Part Service) rispondeva ai
6
vari quesiti:
1) la sesta direttiva deve essere interpretata nel senso che l’esistenza di una
pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un
vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell’operazione o delle
operazioni controverse. Nella motivazione la Corte spiega che l’abuso può
ricorrere anche quando lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale sia
essenziale, e cioè non esclusivo, il che non esclude l’esistenza dell’abuso
quando concorrano altre ragioni economiche. Viene chiarito, in proposito, che
nel caso Halifax, nel quale era stato affermato che il vantaggio fiscale
costituiva l’unico scopo dell’operazione, era stata superata la soglia minima, e
che quindi l’abuso ricorreva a più forte ragione;
2) è compito del giudice di rinvio determinare se, a i fini dell’applicazione
dell’I.V.A., operazioni come quelle in contestazione (scorporo del leasing in
varie operazioni) possano considerarsi rientranti in una pratica abusiva. La
Corte precisava, in proposito, che il giudice di rinvio doveva uniformarsi ai
criteri enunciati in motivazione, che possono così sintetizzarsi: a) quando un
soggetto passivo ha la scelta tra più operazioni, la sesta direttiva non impone
di scegliere quella che implica un maggiore pagamento di I.V.A., avendo lo
stesso soggetto il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli
permette di limitare la sua contribuzione fiscale; tuttavia, se un’operazione
consiste in diverse prestazioni, si pone il problema se essa debba essere
considerata come operazione unica, o come corrispondente a più prestazioni
distinte e indipendenti da valutarsi separatamente; b) pur considerando che
dall’art. 2 della sesta direttiva discende che ciascuna prestazione deve essere
considerata di regola come autonoma, in alcune circostanze più prestazioni
che
devono
essere
considerate
separatamente,
dando
luogo,
individualmente, a imposizione o esenzione, devono essere considerate come
un’unica operazione quando non sono indipendenti. Ciò accade quando una o
più prestazioni costituiscono la prestazione principale mentre l’altra o le altre
prestazioni costituiscono una prestazione accessoria o più prestazioni
accessorie, per cui si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione
principale. In particolare, tale rapporto di accessorietà sussiste quando la
prestazione non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo
per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore;
c) si può altresì ritenere l’unicità della prestazione quando due o più elementi
o atti forniti dal soggetto passivo sono a tal punto strettamente connessi “da
formare oggettivamente una sola prestazione economica indissociabile la cui
scomposizione avrebbe carattere artificiale; d) è compito del giudice nazionale
valutare se sussista un’operazione unica, al di là della struttura contrattuale di
essa. L’analisi deve essere compiuta attraverso una ricerca di indizi rivelatori
di una pratica abusiva. La Corte di Giustizia elenca, quindi, una serie di tali
indizi, utilizzabili dal giudice di rinvio e ricavabili dalle particolarità del caso
controverso (es. società facenti parte dello stesso gruppo, canoni di locazione
finanziaria corrispondenti al valore del veicolo, per cui manca la redditività,
etc.).
La Cassazione assimila le risposte della Corte e consolida il principio
Con Cass. 17.10.2008 n.25374 (è la sentenza del giudizio Part Service che
giunge al termine dopo la sospensione e la sentenza della Corte di Giustizia
CE), la giurisprudenza porta a completa maturazione queste tendenze,
giungendo a parlare di contrasto all'abuso del diritto come "vera e propria
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espressione di civiltà giuridica" e del limite costituito dall’impiego abusivo di
forme giuridiche "addirittura coessenziale alle stesse libertà fondamentali, di
cui il ricorso a forme organizzative o contrattuali che assicurino un minore
carico fiscale costituisce espressione, giacchè non può essere consentito o
garantito un esercizio abusivo di tali diritti o libertà". Al contempo la
Cassazione, preso atto che l'abuso del diritto rappresenta un potente
strumento di accertamento semplificato nelle mani dell'Ufficio, inizia a
preoccuparsi di un eccessivo allargamento dell'abuso del diritto, indicando le
linee guida del suo uso. Essa infatti richiede che di esso sia fatta applicazione
con cautela e pragmatismo, soprattutto in relazione alle trasformazioni
economico-finanziarie che vedono lo sviluppo di operazioni nuove, non legate
alle tradizionali logiche del necessario profitto immediato della singola
impresa che sia inserita in un gruppo di imprese e nei cui confronti
l'applicazione automatica dell'abuso del diritto condurrebbe a risultati distorti
ed ingiusti.
La Cassazione sente anche l'esigenza di precisare in merito all'onere della
prova, precisando che l'affermazione delle precedenti sentenze secondo cui
l’onere di dimostrare che l’uso della forma giuridica corrisponde ad un reale
scopo economico, diverso da quello di un risparmio fiscale, incombe al
contribuente, va interpretato correttamente nel senso che l’individuazione
dell’impiego abusivo di una forma giuridica incombe all’amministrazione
finanziaria, la quale non potrà certamente limitarsi ad una mera e generica
affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che
fanno ritenere l’operazione priva di reale contenuto economico diverso dal
risparmio d’imposta.
Infine, l'applicazione delle norme antiabusive, essendo comunitarie, viene
effettuata d'ufficio dal giudice interno in ogni stato e grado del processo,
anche in Cassazione.
La Cassazione approda al punto d'arrivo rivendicando l'origine costituzionale
interna del principio (e non tradendo la chiamata a raccolta sull'origine
"interna" del principio)
Con sentenze nn.30055-30057 del 23.12.2008, le SSUU della Cassazione si
pronunciano sulle ordinanze di remissione della questione sollevate nel
maggio del 2006 dalla sezione tributaria (v. sopra), ponendosi nel solco della
giurisprudenza sinora maturata (esistenza di un principio generale antielusivo,
rilevabilità d'ufficio dell'abusività dell'operazione contestata, singole norme
antielusive che confermano, come sintomo di essa, l'esistenza della norma
generale antielusiva, etc.), ma operando una grande innovazione
ermeneutica, in quanto per i tributi non armonizzati, quali le imposte dirette,
essa rinviene il fondamento del principio non già nella giurisprudenza
comunitaria (soluzione che era stata oggetto di forti critiche, visto che la
normativa comunitaria poteva eventualmente rilevare solo con riferimento alle
imposte CE quali l'Iva), quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che
informano l'ordinamento tributario italiano. "Ed in effetti, i principi di capacità
contributiva (art.53, primo comma, Cost.) e di progressività dell'imposizione
(art.53, secondo comma, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme
impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente
vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme
evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di quei principi. Con la
conseguenza che non può non ritenersi insito nell'ordinamento, come diretta
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derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente
non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall'utilizzo distorto, pur se non
contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad
ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente
apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di
quel risparmio fiscale"... "Né siffatto principio può in alcun modo ritenersi
contrastante con la riserva di legge in materia tributaria di cui all'art.23 Cost.,
in quanto il riconoscimento di un generale divieto dì abuso del diritto
nell'ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi
patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti
abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di
norme fiscali".
Con la sentenza n.8487 dell'8.4.2009 si aggiungono anche considerazioni
sugli artt.40 e 41 Cost, atteso che il principio non viene ritenuto in contrasto
con il principio della libertà di iniziativa economica sancito nell’art.40 Cost.,
comma 1. "Infatti, nessun limite è posto alla realizzazione di qualsiasi valida
iniziativa economica, salvo l’unico limite, previsto dal citato art.41 Cost.,
comma 2 che l’iniziativa stessa non sia in contrasto con l’utilità sociale. È
evidente che una operazione economica realizzata al solo fine di ottenere un
risparmio fiscale (a prescindere da connotazioni di fraudolenza) è una
operazione che contrasta con l’utilità sociale, sia nel senso che lede il
principio di solidarietà, sia nel senso che determina una indebita riduzione del
gettito fiscale".
Si completa così, anche con le successive sentenze, l'innesto del principio
dell'abuso del diritto nell'ambito della Costituzione; tra esse vanno ricordate in
particolare:
- Cass. 21.1.2009 n.1465 e Cass. 25.5.2009 n.12042, che ribadiscono la
corretta ripartizione dell'onere probatorio, nel senso che la prova sia del
disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli
schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica
di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe
sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di
allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di reale
spessore che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (soprattutto, la
prova del ravvisato intento elusivo deve essere fornita dall’amministrazione
fiscale, e deve essere analizzata dal giudice tributario, con precisione e rigore;
tanto più quando si tratti di trasferimenti di passività (o di ricchezze) fra società
partecipi dello stesso gruppo);
- Cass. 8.4.2009 n.8487 e Cass. 25.5.2009 n.12042, che affrontano la
problematica delle sanzioni, ritenute inapplicabili sia per il fatto che la
fattispecie prescinde dalla fraudolenza, trattandosi di operazioni svolte alla
luce del sole, la cui l'inopponibilità nei confronti del fisco discende da elementi
oggettivi: "la norma di contrasto all’elusione non ha come finalità quella di
penalizzare il contribuente che non ha commesso nessuna violazione, bensì
quella di garantire l’uguaglianza del trattamento fiscale. Il D.P.R. n. 600 del
1973, art.37 bis, tende soltanto a riportare sotto il regime della disciplina
fiscale comune una operazione che a tale regime è stata sottratta senza
ragione" (8487/09), sia in quanto si è in presenza di obiettive condizioni
d’incertezza sulla portata della norma sanzionatoria, nel cui ambito di
applicazione è riconducibile la violazione di un principio di ordine generale
come l’abuso di diritto (12042/09).
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L'incredibile conclusione dell'iter giurisprudenziale
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n.15029 del
26.6.2009, avrebbero avuto la possibilità di chiudere definitivamente il cerchio
della vicenda giurisprudenziale dell'abuso del diritto prima del prevedibile
intervento del legislatore, procedendo all'elaborazione di una articolata
posizione in materia, frutto degli apporti pretori e dottrinali sulle delicate ed
intricate questioni attinenti la corretta distribuzione dell'onere probatorio e
l'applicabilità delle sanzioni. Una siffatta posizione avrebbe costituito
certamente un utile punto di riferimento anche per il legislatore stesso, alle
prese con rilevabilità d'ufficio, irretroattività del principio, applicabilità delle
sanzioni, onere della prova, eccetera.
Ed invece la Corte perviene ad una tralaticia reiterazione del principio
enunciato dalle sentenze del 23.12.2008, come se nulla fosse successo nel
frattempo, peraltro attraverso un iter motivazionale che appare francamente
un po’ contraddittorio. Invero, da un lato la Corte rigetta il ricorso, con il quale
il contribuente aveva censurato la sentenza impugnata per avere i giudici di
secondo grado affermato che un contratto stipulato per eludere disposizioni
fiscali e/o comunitarie potesse ricadere nello schema del contrato in frode alla
legge, ai sensi dell'art.1344 c.c., richiamando le sentenze del 2005 sul
dividend washing e la soluzione "domestica" da esse fornita alla questione
mediante gli strumenti del diritto civile interno della simulazione dei contratti e
della nullità del contratto in frode alla legge. Dall'altro, dopo aver motivato
come precede il rigetto del ricorso, la Corte ribadisce, come si è detto, il
principio delle sentenze del dicembre del 2008, pervenendo alla formulazione
di un principio di diritto che non appare pienamente coerente con le
motivazioni poste a base del rigetto del ricorso.
Conclusione
Siamo tutti in febbrile attesa dell'intervento del legislatore, le cui linee
fondamentali, peraltro soggette a cambiamenti quasi quotidiani, sono ormai
note.
Certo, nulla comunque sarà mai come prima.
In un mondo economico e finanziario che sta elaborando nuove regole per
l'inizio di una stagione di economia solidale e trasparente (il riferimento è al
documento economico in via di approvazione in questi giorni al G8 de
L'Aquila), regole che anche il Papa sta contribuendo efficacemente a
riscrivere con la nuova enciclica Caritas in Veritate, il divieto dell'abuso del
diritto costituirà uno strumento essenziale che il legislatore non potrà ignorare
e non regolamentare, anche perché all'orizzonte sta avanzando all'orizzonte
la "tempesta perfetta": l'impossibilità stessa che la Corte di Cassazione possa
in futuro cambiare idea sul punto, sanzionando con la nuova inammissibilità di
cui all'art.360 bis n.1 c.p.c., introdotta dalla novella del codice di rito (legge
69/2009), ogni percorso che qualche fresca mente giuridico-tributaria
potrebbe tentar di battere per rimescolare le carte in tavola.
Treviso, 7 luglio 2009
avv. Marco Francescon
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