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La deontologia come argine agli abusi del processo
LA DEONTOLOGIA DELLE FUNZIONI GIUDIZIARIE. UN ARGINE AGLI AB-USI DEL PROCESSO Brescia, 9 dicembre 2008 avv. prof. ubaldo perfetti vice presidente del Consiglio nazionale forense *** 1) Discutere di deontologia delle funzioni giudiziarie come possibile argine agli abusi processuali, obbliga ad accertare - per prima cosa - se ed in che termini può concettualmente ammettersi un abuso del processo. La questione si lega strettamente a quella dell’abuso del diritto a proposito del quale non tutti sono d’accordo nel configurare l’esistenza di un limite generale all’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento alla persona 1. 1 La valutazione negativa in relazione alla figura dell’abuso del diritto è alla base della mancata codificazione nel codice italiano. Sul punto G. ALPA, I principi generali, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 1993, 410 segg.. V. al riguardo le varie posizioni di chiusura espresse da F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2002, 76; R. SACCO, L’esercizio e l’abuso del diritto, in AA. VV., Il diritto soggettivo, in Tratt. Sacco, Torino, 2001, 373; ID., L’abuso della libertà contrattuale, in in AA. VV., L’abuso del diritto, Padova, 1998, 217 segg.; C. SALVI, voce Abuso del diritto, in Enc. Giur. Treccani, I, Roma, 1988, 5; G. PINO, Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. crit. dir. priv., 2004, 25 segg.. Per M. ROTONDI, L’abuso di diritto. “Aemulatio”, Padova, 1979, 24, “l’abuso di diritto è un fenomeno sociale, non un concetto giuridico (…) è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di 1 E’ stato rilevato che la formula in sé implica una contraddizione in termini perché se il diritto è anche libertà di esercizio dell’azione, non può ammettersi una libertà che nasce limitata; il principio - del resto a differenza di altre legislazioni come quella svizzera per la quale l’art. 2 del codice civile avverte che l’abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge 2, non è stato codificato, cosicchè si è costretti a ricavarlo da norme quale quella sul divieto degli atti emulativi (art. 833 c.c.), per quanto riguarda i diritti reali, e dalla normativa sull’obbligo di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) per la materia dei transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica”. V. tuttavia U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 1958, 36, secondo il quale, nonostante l’assenza di disposizioni generali che si riferiscono esplicitamente a tale concetto, hanno valore gli stessi principi fondamentali ai quali è legata la costruzione della relativa teoria. Fondamentale al riguardo è l’analisi di P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205 segg., ora in ID., L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 11 segg.. La duttilità della figura è rilevata da S. PATTI, voce Abuso del diritto, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., I, Torino, 1987, 8; S. ROMANO, voce Abuso del diritto, in Enc. Dir., I, Milano, 1958, 170; U. BRECCIA, L’abuso del diritto, in AA. VV., L’abuso del diritto, cit., 86, in relazione alla sua strumentalità rispetto alla norma astratta. Su tale aspetto V. altresì V. GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963, 323 segg.. Nel senso della concretizzazione attraverso i principi costituzionali C. CASTRONOVO, Abuso del diritto come illecito atipico?, in Europa e Dir. Priv., 2006, 1051; F.D. BUSNELLI, Illeciti atipici e il dibattito su regole e principi, ivi, 1035 segg., nonché la dottrina menzionata. 2 Per una ricognizione dei dati normativi in tema di abuso presenti nei diversi sistemi V. R. SACCO, L’esercizio e l’abuso, cit., 313 segg.; G. MERUZZI, L’exceptio doli, Padova, 2005, 331 segg.. 2 diritti di credito 3. Sennonchè, mentre il riferimento al divieto degli atti emulativi svela una ristrettezza di fondo del raggio operativo del principio in quanto condizionato alla prova della sussistenza, oltre che di un animus nocendi, anche della mancanza di un significativo interesse in capo all’autore dell’atto, il richiamo alla buona fede ha una portata più generale 4 , idonea a travalicare i confini dell’obbligazione e del relativo regime ed a configurarsi come paradigma cui ricondurre tutte le relazioni intersoggettive rilevanti per il diritto 5. Proprio nella valorizzazione del canone della buona fede oggettiva e del principio costituzionale di solidarietà (art. 2 Cost.) in grado di dettagliarla contenutisticamente col porsi come limite interno di qualsiasi situazione giuridica soggettiva 6, la giurisprudenza e la U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 1958, 30. L’asserita riconduzione al medesimo principio generale ad opera degli artt. 833 e 1175 è criticata da C. RESTIVO, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007, 73. 4 GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, 57. 5 RESCIGNO, L’abuso del diritto (una significativa rimeditazione delle Sezioni Unite), in Corr. giuridico, 2008, 746. 6 Cass., 20 aprile 1994, n. 3775, in Giust. civ., 1994, I, 2159 con nota di MORELLI ed in Corr. giuridico, 1994, 566 con nota di CARBONE. In giurisprudenza è frequente l’accostamento tra abuso del diritto e norme in tema di buona fede. Così Cass., primo aprile 2008, n. 8449, in Arch. Locaz., 2008, 361; Trib. Bari, 22 ottobre 2004, in Foro it., 2004, I, 1603; App. Milano, 27 gennaio 2004, in Foro Pad., 2005, 674; Cass., 16 ottobre 2003, n. 15482, in Foro it., 2004, I, 1845 con nota di COLANGELO; App. L’Aquila, 22 maggio 2003, in Giur. merito, 2004, 152; Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592, in Giust. civ., 2001, I, 2439 con nota di COSTANZA; Cass., 23 luglio 1997, n. 6900, in 3 3 dottrina più innovativa colgono la possibilità di avviare a soluzione l’antico problema i cui termini sono stati nitidamente scolpiti da Rescigno come quelli della contrapposizione, che è anche ideologica, tra diritti egoisti e diritti causali 7 e la cui sostanza sta nella difficoltà di teorizzare un controllo dell’esercizio del diritto in relazione alla funzione ed alle ragioni per le quali l’ordinamento lo attribuisce. 2) Se – come di nuovo avverte Rescigno – si guarda al processo come strumento usato per esercitare la pretesa, laddove è configurabile un abuso del diritto - stante la stretta correlazione dei due profili del rapporto materiale e dell’azione in giudizio - può simmetricamente essere ravvisabile anche un abuso del processo 8. Ma che la questione, pur ridotta in questi termini, non sia di facile soluzione lo dimostra l’atteggiamento della giurisprudenza che – per fare un esempio - nell’arco di un solo lustro ha mutato opinione a proposito del tema della parcellizzazione del credito; dapprima, sentenza a Sezioni Unite, in sede di composizione di precedente contrasto, rispondendo in senso affermativo al quesito della Giust. civ., 1997, I, 2727; Trib. Roma, 20 febbraio 1997, in Giur. Comm., 1999, II, 449 con nota di GUCCIONE; Cass., 8 settembre 1995, n. 9501, in Giust. civ. Mass., 1995, 1627; Trib. Ascoli Piceno, 18 febbraio 1998, in Informaz. previd., 1988, 1500. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. Dir. Civ., 1965, I, 217. Il fenomeno è comune tanto al diritto sostanziale quanto al diritto processuale e anche l’abuso del processo è caratterizzato dalla scorrettezza della modalità di esercizio del diritto processuale. V. al riguardo l’analisi di F. CORDOPATRI, L’abuso del processo, II, Padova, 2000, specie 110 segg.. 7 8 4 frazionabilità della tutela giudiziaria del credito ritenendo in allora ammissibile “(…) la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale con riserva di azione per il residuo” 9; poi, con sentenza del pari a Sezioni Unite 10, rispondendo negativamente alla stessa domanda. In un caso nel quale il creditore aveva chiesto ed ottenuto quattro diversi ma contemporanei decreti ingiuntivi in danno del suo debitore allo scopo di radicare, in tal modo, la competenza del Giudice di Pace, quest’ultima pronuncia ha precisato i termini in cui può intendersi l’abuso del processo. Dicono, infatti, i giudici di legittimità che la soluzione affermativa fornita in precedenza circa l’ammissibilità del frazionamento della pretesa creditoria, non può essere confermata in un quadro normativo “(…) nel frattempo evolutosi nella duplice direzione, sia di una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede (…) sia in relazione al canone del giusto processo di cui al novellato art. 111 Cost.. In relazione al quale si impone una lettura adeguata della normativa di riferimento (in particolare dell’art. 88 cpc) nel senso del suo allineamento al duplice Cass., 10 aprile 2000, n. 108, in Giust. civ., 2000, I, 2265 con nota di MARENGO. 10 Cass., 15 novembre 2007, n. 23726, in Resp. Civ. Prev., 2008, 547 ed in Informaz. previd., 2007, 645 con nota di LAGANÀ. 9 5 obiettivo della ragionevolezza della durata del procedimento e della giustezza del processo inteso come risultato finale (…) che giusto non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale che segna il limite oltreché la ragione dell’attribuzione al suo titolare della potestas agendi”. Secondo questa pronuncia – ritenuta da taluno sostanzialmente eversiva 11 e seguìta immediatamente da una pronuncia conforme della Corte di legittimità 12 - realizzano un abuso del processo tutte le forme di azione che eccedano, o deviino rispetto all’obiettivo della tutela dell’interesse sostanziale, ripercuotendosi sulla durata del processo e sul suo risultato finale. 3) In altre occasioni la stessa Corte di cassazione ha ritenuto realizzare un abuso del processo, ad esempio: (a) il comportamento di chi lo impiega “(…) non già per far valere o difendere un diritto proprio, che ben conosce inesistente, ma per raggiungere uno scopo per il quale il processo non è predisposto secondo i suoi fini istituzionali” come nel caso del soggetto, convenuto in un giudizio di danno, che al fine di neutralizzare il DE CRISTOFARO, Infrazionabilità del credito tra buona fede processuale e limiti oggettivi del giudicato, in Riv. Dir. Civ., 2008, 338. 12 Cass., 11 giugno 2008, n. 15476, in Giust. civ., Mass., 2008, 921. 11 6 parere del consulente tecnico di ufficio, convenga quest’ultimo in giudizio prospettandone la responsabilità concorrente e solidale 13; (b) il comportamento di chi abbia artatamente resistito in giudizio al solo scopo di far maturare a suo favore il diritto all’equa riparazione per la eccessiva durata del processo di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001, o di chi abbia resistito pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle proprie istanze, o della loro inammissibilità 14. Alla luce di ciò, l’abuso del processo si conferma configurabile, fondamentalmente, quale sorta di sfruttamento del diritto di azione per scopi eccedenti, o devianti da quelli per cui è attribuito, il controllo causale dell’esercizio del diritto (art. 24 Cost.) risultando possibile a seguito della costituzionalizzazione del principio del giusto processo; ne deriva – in questa prospettiva - che l’abuso del processo è l’altra faccia del giusto processo. 4) Date queste premesse, la deontologia può, come no, porsi in sintonia con le esigenze di repressione, o, ancor meglio, di prevenzione dell’abuso del processo; ma essa contribuisce, in taluni casi, anche a svelare le eccedenze di certe soluzioni della giurisprudenza che sembrano apparire vere e proprie fughe in avanti, Cass., 17 ottobre 1969, n. 3385, in Rep. Foro it., 1969, voce Spese giudiziali, n. 140. 14 Cass., 29 marzo 2006, n. 7139, in Giust. civ. mass., 2006, 822. 13 7 come è quella della rammentata sentenza delle sezioni unite n. 23726 del 2007. Senza dubbio e con riferimento al Codice deontologico forense elaborato dal Consiglio nazionale forense nel 1997, l’art. 6 intitolato Doveri di lealtà e probità costituisce un idoneo strumento di prevenzione, prima e repressione, poi, di condotte abusive. La norma, dopo aver affermato che “L’avvocato deve svolgere la propria attività professionale con lealtà e correttezza”, precisa che egli “(…) non deve proporre azioni o assumere iniziative in giudizio con mala fede o colpa grave”. Essa si correla con quella dell’art. 36, canone I, secondo cui “(…) L’avvocato non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose, né suggerire comportamenti, atti o negozi illeciti, fraudolenti o colpiti da nullità”. Queste norme sono in grado di presidiare, in negativo, tutti quei comportamenti che si sostanzino - ad esempio - nella proposizione di azioni che appaiono non strettamente necessarie allo scopo di tutela dell’interesse della parte e che hanno contemporaneamente l’effetto di contribuire all’ingolfamento della macchina giudiziaria; infatti, pur se l’inutile gravosità cui fa cenno l’art. 36, canone I, si riferisce – ovviamente - alla sfera giuridico/patrimoniale dell’assistito, è evidente che un’azione inutile e gravosa non solo danneggia quest’ultimo, ma 8 integra anche un abuso del processo in rapporto alla sua funzione dinamica di strumento per la protezione di un interesse necessariamente proporzionato al bene da tutelare; l’azione, quando inutilmente gravosa, è per ciò solo non necessaria e dunque eccedente rispetto alle finalità di tutela. Allo stesso tempo il comportamento lede il precetto di buona fede. Tuttavia qui è abbastanza semplice registrare la sintonia tra comando deontologico e divieto di abuso del processo e concludere che il primo rafforza il secondo; infatti, in tutte e due le dimensioni vengono in rilievo la mala fede e l’esercizio dell’azione in modalità non strettamente coerenti con lo scopo di attribuzione del diritto d’azione. Sennonchè, non va dimenticato che l’avvocato ha anche (e fondamentalmente, aggiungiamo) “(…) l’obbligo di difendere gli interessi della parte assistita nel miglior modo possibile nei limiti del mandato e nell’osservanza della legge e dei principi deontologici” (art. 36 CDF) e questa norma costituisce, all’un tempo, limite dell’agire professionale e contrassegno che qualifica il ministero difensivo; sicchè, il problema che si pone è quello dei modi attraverso cui realizzare il bilanciamento di due beni giuridici da tutelare in ugual misura, quello del giusto processo e l’altro della tutela dell’interesse della parte che agisce nel processo. 9 Per tornare alla fattispecie oggetto della sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 23726 del 2007 e cioè della richiesta contemporanea di quattro decreti ingiuntivi che realizza, secondo quel giudice, un abuso del processo perché si sostanzia nel frazionamento del diritto di credito, il distacco di questa soluzione da quella che la deontologia offre per il medesimo caso appare marcato ed orienta verso una maggiore razionalità della soluzione data dal codice deontologico forense rispetto a quella dei giudici di legittimità, autorizzando a dubitare trattarsi – nel caso in esame – di un’ipotesi di abuso del processo. Per valutare ciò, occorre ampliare il quadro delle norme deontologiche di riferimento sino a ricomprendere la previsione dell’art. 49 che, sotto la rubrica Pluralità di azioni nei confronti della controparte, statuisce che “(…) L’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita”. Come si vede, il filo conduttore che unifica le norme degli artt. 6, 36 canone I e 49 CDF è la considerazione dell’interesse della parte assistita nel senso che l’esistenza, in termini di apprezzabilità, di quest’ultimo scrimina quello che, altrimenti, dovrebbe configurarsi come comportamento deontologicamente illecito; infatti, da un lato 10 l’art. 36, canone I discute di azioni inutilmente gravose, con la conseguenza che l’inutilità va testata in rapporto alla finalizzazione dell’azione alla tutela di un interesse della parte esistente ed apprezzabile, sicchè, se esso esiste o è apprezzabile, l’azione non è più inutile, anche se resta gravosa; dall’altro, l’esistenza di effettive ragioni di tutela della parte assistita permette, ex art. 49 cit., di giustificare la pluralità delle azioni contro la controparte. Il tutto, nell’ovvio presupposto che quando si agisca nell’alveo delle citate norme, non può certo discutersi di lesione del principio di lealtà e correttezza (art. 6, canone I, cit.). Sennonchè, questa soluzione che è offerta dalla deontologia non è in sintonia – come si diceva - con quella prospettata nella citata sentenza delle Sezioni unite n. 23726 del 2007 la cui novità rispetto alla sentenza delle medesime sezioni n. 108 del 2000 sta proprio nel fatto che per quest’ultima, a giustificazione del frazionamento della domanda e quindi della sua ammissibilità, era sufficiente poter individuare l’esistenza anche di minimi vantaggi tecnico-processuali tali da legittimare l’utilizzo degli strumenti processuali ritenuti opportuni 15 . Nella prospettiva di questa sentenza – pertanto – la possibilità di radicare la competenza di un giudice diverso il cui 15 Su tale aspetto DE CRISTOFARO, Infrazionabilità del credito etc., cit., 336. 11 giudizio fosse, per esempio, più celere avrebbe impedito di qualificare il comportamento come abusivo. Al contrario, secondo le sezioni unite del 2007 non rileva che il frazionamento del credito “(…) possa rispondere ad un interesse non necessariamente emulativo del creditore (come quello di adire un giudice inferiore, più celere nella soluzione delle controversie confidando nell’adempimento spontaneo da parte del debitore del residuo debito”), il frazionamento di per sé costituendo abuso del processo dal momento che, trattandosi di situazione sostanziale unitaria, non si vede la ragione (secondo la Corte di cassazione) di una sua parcellizzazione in sede d’azione. Ciò legittima una sorta di meccanicismo per cui, lungi dall’analizzare le ragioni che possono aver giustificato la pluralità di azioni - così legando la configurazione dell’abuso all’idea che esso esiste in tanto in quanto esiste l’animus nocendi, o non sia configurabile un qualsiasi anche minimo interesse dell’agente - l’aspetto abusivo è integrato, puramente e semplicemente, dalla verifica di una devianza dei mezzi rispetto alla tutela dell’interesse “(…) che segna il limite oltre che la ragione dell’attribuzione al suo titolare della potestas agendi” (Cass. 23726/2007). E poiché l’interesse può essere tutelato con un’unica azione, la pluralità di quest’ultime integra abuso del processo perché l’abuso del 12 diritto si comunica immediatamente al processo dato che la tutela dell’interesse avviene nel e con il processo; secondo quei giudici, in aggiunta e per quanto qui interessa, con quel comportamento si tradirebbe anche il principio costituzionale del giusto processo inteso, sia nel senso che va evitata, per quanto possibile, la formazione di giudicati teoricamente contraddittori (e ciò a sostegno del principio di razionalità), sia nel senso che va contrastato l’effetto inflattivo che si produrrebbe se si ammettesse una pluralità di azioni. Come si vede, la valutazione è tutta spostata su un piano oggettivo come è reso palese dalla superfluità dell’accertamento circa l’esistenza di un intento emulativo e dal fatto che l’abuso si realizza semplicemente a causa del fatto che la pluralità delle azioni può produrre giudicati contrastanti – e quindi è mortificato il principio di razionalità del giudizio – e comunque aumenta la durata del processo. Sennonchè, questa soluzione è assolutamente e radicalmente inaccoglibile in ambito deontologico laddove - come si è visto l’aggravamento della posizione della controparte con una pluralità di azioni è senz’altro giustificato quando corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita; prospettiva deontologica, questa, che ripudia qualsiasi meccanicismo ed obbliga a distinguere caso per caso al fine di verificare se al pluralismo delle azioni, di per sé 13 astrattamente scorretto, non corrisponda, per ipotesi, un interesse apprezzabile in grado di scriminarne l’illegittimità. E se lo scopo del frazionamento del credito, anche se contemporaneo, fosse quello di radicare la competenza di un giudice che di per sé garantisce un processo giusto perché rapido e senza eccessivi formalismi, la soluzione che dà la deontologia non è quella stessa che fornisce la giurisprudenza, ma è senz’altro più razionale e condivisibile. 5) Il ragionamento dei giudici di legittimità sopra esposto rischierebbe, poi, di innescare un meccanismo difficilmente governabile nei suoi esiti; un problema analogo – ad esempio potrebbe scorgersi anche a proposito del dovere di verità; adottando il metro di giudizio fatto proprio dalla sentenza delle sezioni unite sopra commentata, pure il rispetto di questo dovere dovrebbe ritenersi consustanziale al giusto processo perché, derivando direttamente dal principio di lealtà e correttezza valido, sia nella dimensione codicistica (art. 88 cpc), che in quella deontologica (art. 6 cit.), la sua violazione rappresenterebbe un vulnus al principio costituzionale contenuto nell’art. 111 Cost. Il relativo valore, declinato anche nella prospettiva della ragionevole durata del processo, risulterebbe esposto a rischio da un giudizio rallentato dal comportamento processuale di una parte non improntato al canone di verità che, se fosse invece rispettato, 14 potrebbe permettere al giudice la pronuncia di una sentenza in tempi più rapidi e soprattutto più giusta. Anche qui la risposta della deontologia è tale – però - da fornire garanzie atte a governare con più razionalità la vicenda. L’art. 14 CDF afferma, sì, l’esistenza del dovere di verità, ma in una dimensione tutta particolare nel senso di prescrivere che “(…) le dichiarazioni in giudizio relative alla esistenza o inesistenza di fatti obiettivi che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato e di cui l’avvocato abbia diretta conoscenza, devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore”. Come si vede, la norma limita in tre direzioni l’ampiezza del dovere il quale si può ritenere esistente: (a) quando si tratta di dichiarazioni in giudizio relative all’esistenza, o inesistenza, di fatti obiettivi, sicchè la norma non opera relativamente alle opinioni, sia proprie che altrui, sia della dottrina che della giurisprudenza. La giurisprudenza disciplinare ha così riconosciuto che il difensore non è tenuto ad evidenziare l’esistenza di dottrina o giurisprudenza contrastante con le proprie tesi 16; (b) quando le dichiarazioni siano presupposto specifico di un provvedimento del magistrato, sicchè il dovere non esiste quando si 16 CNF, 8 luglio 1994, n. 64. 15 tratta di atti difensivi generici quali la citazione, la comparsa e così via; (c) quando si tratta di fatti oggetto delle dichiarazioni che ricadono nella sfera di diretta percezione dell’avvocato, per cui il dovere di verità non è violato quando si dà conto di fatti non veri appresi o riferiti da terzi compreso il cliente. In questo modo il codice deontologico forense opera un bilanciamento razionale tra libertà di difesa e principio di lealtà, di cui il dovere di verità costituisce una delle molteplici possibili declinazioni ed un eventuale giudizio di abuso del processo che si rifacesse a quei canoni, apparirebbe più rispettoso del pluralismo dei valori in gioco. 6) Che l’impiego della deontologia rappresenti una possibile nuova frontiera quale argine all’abuso del processo, è circostanza evidente se solo si è disposti ad abbandonare la visione angusta di una deontologia intesa quale fattore regolativo dei rapporti esclusivi della corporazione - e perciò rilevante solo all’interno del relativo recinto e la si espande all’esterno, configurandola quale insieme di regole di comportamento, non autoreferenziali, che, ponendo doveri anche e soprattutto additivi e più stringenti rispetto a quelli estraibili dalla legge, costituiscono la base su cui si affermano ed appaiono proteggibili le pretese ad un comportamento coerente con tali norme 16 da parte di tutti coloro con cui l’avvocato entra in contatto nell’esercizio della professione. Questa nuova concezione che potrebbe costituire lo spunto – ad esempio – per una riflessione sulla possibilità di configurare una responsabilità extracontrattuale dell’avvocato per violazione della norma deontologica nei confronti della controparte, sembra costituire molto più che un’occasione di speculazione intellettuale se rapportata al tema dell’abuso del processo. Una recentissima sentenza di merito 17 ne offre un esempio. Si trattava del caso di un decreto ingiuntivo di una banca contro un ex cliente col quale la prima aveva ottenuto la condanna del secondo a pagare la somma dovuta a seguito della chiusura del rapporto, comprensiva di interessi. Dopo il passaggio in giudicato del decreto ed a seguito del mutamento del quadro giurisprudenziale a proposito degli interessi anatocistici, l’avvocato aveva convenuto in giudizio la banca chiedendone la condanna alla restituzione di tutte le somme corrisposte in eccesso anche e soprattutto a titolo di interessi. Nel respingere la domanda sul riflesso che la formazione del giudicato esterno impediva di tornare a discutere della misura degli interessi dovuti, il giudice condannava l’avvocato, in solido col suo cliente, al pagamento delle spese di lite a favore della controparte; ciò motivando 17 Trib. Cagliari, 19 giugno 2008, n. 2247, inedita. 17 col sostenere – dal punto di vista della possibilità in astratto di tale condanna – che la norma dell’art. 94 cpc che consente al giudice, quando sussistono gravi motivi, di condannare al pagamento delle spese coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio, si applica anche agli avvocati e – dal punto di vista della sussistenza dei gravi motivi – che il comportamento del legale giustificava la condanna in quanto contrario al dovere di lealtà e correttezza codificato dall’art. 6 CDF. L’interessato avrebbe, infatti, proposto l’azione nonostante la sua palese infondatezza, stante la preclusione derivante dal giudicato, e l’avrebbe continuata nonostante che il giudice avesse, con un’ordinanza, invitato la parte a trattare espressamente la questione del giudicato non ammettendo i mezzi istruttori richiesti. Il caso potrebbe, a pieno titolo, essere arruolato tra quelli che configurano un’ipotesi di abuso del processo dato che – come si è sopra visto – l’abuso viene ravvisato proprio nel resistere pur nella consapevolezza dell’infondatezza della pretesa 18; e la censura che il giudice cagliaritano muove all’avvocato è, non solo e non tanto quella di aver coltivato una domanda infondata, quanto di aver continuato a coltivarla una volta che tale infondatezza poteva considerarsi emersa nel processo a seguito della sua ordinanza. Su quest’ultimo punto, in 18 Cass., 29 marzo 2006, n. 7139, cit.. 18 specie, potrebbe cogliersi il fondamento di un giudizio di abuso del processo posto che la consapevolezza dell’infondatezza dell’azione (non provata nel momento iniziale) doveva ritenersi dimostrata a seguito dell’ordinanza. Non interessa discutere qui circa il sicuro malgoverno dell’art. 94 cpc, né di una qual sorta di autoreferenzialità che affligge la sentenza e la mina alla base quando pretende di collegare al dictum dell’ordinanza l’effetto di configurare automaticamente la responsabilità disciplinare dell’avvocato che non vi si adegua, quasi che quel giudizio non potesse essere riformato o debba escludersi che sia compito dell’avvocato anche quello di battersi per la riforma di qualsiasi giudizio; ci interessa, invece, segnalare la modalità d’uso del canone deontologico a servizio di un giudizio che, nel caso, fondava la giustificazione della condanna al pagamento delle spese di lite, ma che in concreto incorpora un sostanziale, seppur inespresso, giudizio di abuso dei mezzi processuali. 7) Nei casi su esposti trovano allora conferma le due caratteristiche qualificanti della deontologia nel suo rapporto con l’abuso del processo. Da un lato, essa è senza dubbio uno strumento di rafforzamento delle regole poste a presidio del giusto processo, sicchè i doveri deontologici di lealtà e correttezza, di non aggravare la posizione della 19 controparte con onerose iniziative e di non esporre il proprio cliente ad azioni inutilmente costose, costituiscono altrettanti strumenti di garanzia della necessaria coerenza tra diritto ed azione e tra interesse sostanziale e mezzi apprestati per la sua tutela, i quali rappresentano la precondizione del giusto processo. Dall’altro, essa rilascia indicazioni utili per separare ciò che costituisce abuso da ciò che rappresenta il naturale e conseguente prezzo del processo ed aiuta a capire come, dietro apparenti vicende ricondotte all’abuso, può celarsi, in realtà, il rischio che la tensione ad un efficientismo giudiziario concettualmente declinabile negli stessi termini dei cartelli di divieto appesi nei tram sopra il posto del conducente, possa sfruttare, magari inconsapevolmente, la retorica dell’abuso del processo. 20