L`abuso e il maltrattamento, il rapporto vittima persecutore nelle
by user
Comments
Transcript
L`abuso e il maltrattamento, il rapporto vittima persecutore nelle
L’abuso e il maltrattamento, il rapporto vittima persecutore nelle fiabe e nei miti IV° anno Istituto Gestalt Firenze Tesi di Rebecca Rubbini “Quando ero piccolo i miei genitori mi volevano talmente bene che mi misero nella culla un orsacchiotto. Vivo!”. Woody Allen 2 A mia nonna Ines, raggio d’amore nella mia infanzia e nel mio cuore di adulta. 3 Indice Introduzione e Ringraziamenti………...…………………………p. 5-6 Definizione di abuso- Classificazione delle forme di abuso e maltrattamento: bambini e adulti…………………………………...p. 8 L’abuso e il maltrattamento nella prospettiva della Gestalt: L’abuso come Gestalt In conclusa………………………………………….p. 15 Il Corpo…………………………………………………………...p. 18 Letteratura sul trauma nell’approccio gestaltico………………….p. 22 Il mito……………………………………………………………..p. 31 Il mito nell’approccio fenomenologico e sue applicazioni in psicoterapia della Gestalt…………………………………............p. 33 Le fiabe……………………………………………………………p. 33 Lo studio della fiaba: Jung e fenomenologia……………………p. 41 Vittima e Persecutore……………………………………………..p. 43 Vittima e persecutore nelle fiabe e nei miti: gli adulti e i bambini……………………………….…………………………...p. 50 Due fiabe, un esempio di lavoro con gli adulti ed uno con i bambini: Barbablù e cappuccetto Rosso…………………………………….p.54 Francesca-Persefone/Kore...………………………………………p. 64 Spunti di lavoro sulle fiabe nei casi di abuso e maltrattamento: Hansel e Gretel, Cenerentola, Mantello Grigio o La Bella e la Bestia, Il Brutto Anatroccolo, La piccola Fiammiferaia.………………..……….....p. 68 Il Mito nella letteratura: Puella vs. Amazzone: Casa di Bambola, Lo Zoo di Vetro, la Campana di Vetro e Turandot. Rassegna Mitologica…………………………………………………………p.70 In-conclusione-Conclusioni: Gli anni in tasca…………………….p.73 Bibliografia……………………………………………………….p. 78 4 Introduzione Lavorando in terapia con giovani donne emerge spesso nella loro storia infantile un episodio d’abuso sessuale, di molestie, o di violenza assistita in famiglia; spesso ho trovato nelle loro storie correlazioni a miti o a fiabe. Svolgendo attività di volontariato e di collaborazione presso il Centro Specialistico Il Faro, contro il maltrattamento e gli abusi all’infanzia dell’Azienda Usl di Bologna, l’impatto è sia con i bambini vittime di abuso o di sospetto abuso, sia con i loro genitori. Molti centri italiani anti-abuso prendono il nome da fiabe che ci parlano di bambini vittime di abuso e maltrattamento. Come Consulente Tecnico e Perito nei casi di abuso incontro molti bambini ed i loro genitori; mi riesce spesso difficile disgiungere la loro storia da quella di motivi e tematiche mitologici o fiabeschi. I miti e le fiabe mi hanno sempre interessata sin da bambina… li leggevo e rileggevo nella mia stanza e si sono poi rivelati utili per il mio lavoro personale e di terapeuta. Grazie al loro potere di rivelare le dinamiche in gioco e di sviluppare le potenzialità dei protagonisti e i loro inciampi di ruolo ed emotivi, offrono spunto per toccare i temi legati non solo all’infanzia ma all’intera esperienza universale legata agli esseri umani nelle varie fasi della loro esistenza. Come sostiene Propp1, si può includere il mito tra le possibili fonti del racconto delle fiabe, sebbene mito e fiaba si differenzino non già per la loro forma ma anche per la loro funzione sociale, laddove la funzione del mito dipende dal grado di cultura del popolo ma non può essere differenziata da quella della fiaba poiché possono coincidere così perfettamente che nell’etnografia e nel folclore i miti si chiamano spesso fiabe. La differenza sta nel fatto che ciò che nel racconto europeo del nostro tempo ha subìto una trasposizione di senso, nei miti si è conservato spesso il loro aspetto primordiale e pertanto essi ci danno spesso la chiave per comprendere il racconto di fiabe. Le tematiche vanno dal distacco, al divieto, alla segregazione, alla reclusione, alla sventura, al superamento. La cacciata o l’allontanamento dei bambini, il loro ratto, la capannuccia, la promessa di vendita, la maga, il dono dell’oggetto fatato, sono motivi ricorrenti. Tutto è connesso al ciclo 1 Le radici storiche dei racconti di fiabe, 1972 5 dell’iniziazione, che è la base più antica dei racconti, così come un altro ciclo che si rivela è la rappresentazione della morte. Il rito oggi non si celebra più in questa forma, perché quello che un tempo si faceva oggi si racconta, e quello che non si faceva lo si immaginava. Quello che ho scoperto nel lavoro con le fiabe ed i miti in terapia è che nonostante e l’evoluzione proceda per stratificazioni, sostituzioni e trasposizioni di senso, ciò che è possibile grazie all’approccio della Psicoterapia della Gestalt è il ritorno al fare, allo sperimentare, un ritorno all’immaginare che coadiuva ciò che di primitivo è nell’essere umano, e quindi nel paziente. Rispetto alle specifiche dinamiche vittima-persecutore ho voluto integrare un tema che nelle storie di abuso dei bambini che ho incontrato e degli adulti che bambini sono stati, queste polarità erano sempre presenti, ed il loro riconoscimento all’interno del lavoro con le fiabe, i miti ed i racconti (persino romanzi) nella loro evoluzione storica, è rivelatore ed elemento di trasformazione. Non ho voluto ripetere il copioso lavoro che già è stato fatto sulle fiabe (Von Franz, Miller, Kopp, Betthleim ecc.), e sui miti (Propp, Campbell, Calasso ecc. ), di elencare le storie ed i loro significati; non mi sarebbe riuscito altrettanto bene e fra l’altro l’interpretazione non è il fine del mio orientamento terapeutico. Ho preferito fornire alcuni esempi di lavoro in terapia scegliendo alcune storie. Ringraziamenti Comunque vada questa tesi, l’ho scritta con amore, e con amore vorrei ringraziare mia madre e mio padre, che tanto mi hanno insegnato sulle dinamiche vittima-persecutore, che poco hanno conosciuto delle fiabe nella loro infanzia, o sono stati vittime inconsapevoli di mitologie abusanti o maltrattanti, ed hanno fatto del loro meglio con me, che da adulta ho troppo spesso ricalcato i loro ruoli svolgendo ora la vittima ora il carnefice a discapito dei miei affetti, della mia capacità di proteggermi. Il tema è che da adulta non ho scusanti e la mia responsabilità personale riguarda ciò che vorrò fare ed essere nella mia vita. Grazie a mia madre anche per aver letto tutte le Mille e una Notte mentre era incinta di me, e a mio padre, perché la sua biblioteca di fiabe è stata una fonte di nutrimento. 6 A Francesca, Roberta, Giulia, Gian Marco, Nicolas, Chiara, Maurizio e tutti i bambini, bambine e donne che ho incontrato, a cui auguro tutto il bene del mondo; li ringrazio per avermi regalato le loro storie; ciascuna mi ha insegnato qualcosa ed ora è una perla che conservo preziosa dentro di me. A Federica che ha tradotto con affetto e partecipazione lunghi articoli in inglese. A Chiara Bartoletti, per avermi parlato con amore sotto un albero a Lecce e per tanti altri momenti. Ad Anna Maria Capponcelli che mi rimanda la mia capacità e sensibilità a fronte delle mie continue incertezze e mi ha mostrato una strada di mattoni gialli come nel Mago di Oz per lavorare con i bambini; è la strada della dolcezza, dell’ascolto, dell’empatia, della cura, della tutela senza la pretesa dell’onnipotenza. A Francesca che un giorno buio della mia adolescenza mi ha scritto che riconosceva in me una bambina cresciuta forse troppo in fretta ma al tempo stesso mi ha ricordato che nel presente dilatato della nostra memoria, “se sbatti i tacchi tre volte tutto è possibile” come per Dorothy del Mago di Oz. Alle amiche che mi hanno aiutata, sostenuta ad arrivare fin qui, quando ogni speranza per me era perduta hanno creduto al posto mio: Ilaria, Barbara, Morena, Anna, Claudia, Elisa, Maria Carla, Maria Pia, Elena, Paola, Dominique. A Teresa e Antonio, i miei gatti, che come diceva S.Agostino mi amano e fanno ciò che gli pare, che mi sembra un buon modo di stare al mondo. Ad Isa, Nino, Luciana, Maria Pia, Maria Elena, Mariagnese: professionisti, colleghi, ed amici che mi hanno presa per mano in un bosco fitto portandomi fuori in una radura luminosa. 7 Definizione di abuso- Classificazione delle forme di abuso e maltrattamento Una definizione di abuso sui bambini Tutte le forme di maltrattamento sui minori di età, vale a dire l’insieme degli atti omissivi (incuria ed abbandono) e commissivi (percosse, lesioni, atti sessuali, ipercura, sfruttamento). Si concretizza negli atti e carenze che turbano gravemente bimbi e bimbe, attentando alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale. Il danno è maggiore quanto più l’abuso: resta sommerso e non riconosciuto; è reiterato nel tempo; la risposta di protezione è tarda; l’esperienza traumatica resta non verbalizzata e non elaborata emozionalmente; la dipendenza fisica/affettiva tra abusato e abusante è forte e viene mantenuta; il legame tra vittime e abusante è di tipo parentale. Abuso fisico: chi si prende cura del bambino esegue o lo mette in condizioni di subire lesioni fisiche. Presenza di un danno fisico dovuto ad aggressioni fisiche, maltrattamenti o gravi attentati all’integrità fisica e alla vita. Abuso psicologico: Relazione caratterizzata da protratte svalutazioni, umiliazioni e denigrazioni, durature nel tempo e attraverso frasi e comportamenti, rifiuti e indifferenza che vanno a demolire la stima di sé del bambino fino ad inibire il suo sviluppo cognitivo ed emotivo. PAS (Sindrome di Alienazione Genitoriale). Patologia relazionale caratteristica delle situazioni di separazione e divorzio conflittuali la cui principale manifestazione è una persistente denigrazione da parte di un figlio nei confronti di un genitore. Essa prende corpo a partire dall’indottrinamento da parte di uno dei genitori (genitore alienante) che programma più o meno consapevolmente l’azione e dal conseguente contributo personale del figlio alla denigrazione del genitore (alienato). I figli non assistono passivamente al volgere degli eventi ma s’inseriscono attivamente nel conflitto schierandosi, subendo in tal modo un danneggiamento psicologico. 8 Abuso sessuale: coinvolgimento di soggetti immaturi in attività sessuali, con assenza di completa consapevolezza e possibilità di scelta, in violazione dei tabù familiari o delle differenze generazionali, agito da familiari, conoscenti o estranei. “Ogni azione di tipo sessuale, con o senza contatto fisico, rivolta ad un minore che non può essere liberamente consenziente in virtù dell’età, del ruolo preminente dell’abusante e che non può comprendere il significato”. Include sfruttamento sessuale, prostituzione infantile e pedopornografia. Si distingue in: o Intrafamiliare-domestico: agito da parenti sotto lo stesso tetto o Intrafamiliare-extradomestico: perpertrato da parenti non sotto lo stesso tetto o Extrafamiliare: perpetrato da persone estranee o Mascherato: pratiche genitali inconsuete o Pseudoabuso: abusi dichiarati ma non consumati Abuso assistito-violenza assistita: “Esperire da parte del bambino/a qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica sulle figure affettivamente significative adulte o minori. Il bambino può farne esperienza diretta, indiretta e/o percepirne gli effetti (maltrattamenti su animali domestici). Ciò che accomuna queste esperienze è quasi sempre lo stile di funzionamento familiare: genitori carenti nelle capacità di fronteggiare attivamente i problemi e di risolverli (coping) nonché di gestire le proprie emozioni. Vi è una cronica incapacità di gestire i normali conflitti e di negoziarli, passaggio all’atto, scarso controllo degli impulsi. Si distinguono anche nelle cure: Incuria: Una grave e/o persistente omissione di cure nei confronti del bambino, in generale o in alcune importanti funzioni (alimentazione, cure mediche, igiene, sicurezza…) con la conseguenza di un danno per la salute psicofisica e/o di un ritardo nello sviluppo. Ipercura: cura eccessiva per lo stato fisico del bambino connotata da un’adeguata e dannosa medicalizzazione. Ha tre forme: 9 1. Sindrome di Munchausen per Procura: il genitore nutre errate e distorte convinzioni sullo stato di salute del figlio che è sottoposto ad accertamenti inutili e a cure inopportune. 2. Chemical Abuse: anomala ed aberrante somministrazione di farmaci o sostanze al bambino al fine di determinare la sintomatologia e ottenere il ricovero ospedaliero. 3. Medical Shopping: il genitore nutre un’ansiosa preoccupazione per lo stato di salute del figlio, teme per la sua incolumità e lo sottopone a continui accertamenti. Discuria: cure distorte ed inadeguate rispetto all’età del bambino attraverso richieste di prestazioni superiori per età, possibilità, forme di accudimento adatte a bambini più piccoli, iperprotettività. I danneggiamenti investono ampie aree dello sviluppo, come esiti dei necessari meccanismi difensivi che il bambino è costretto ad attivare per adattarsi ed eludere la sofferenza dettata violenza. Il danno specifico deriva dalla impossibilità di rimuovere e negare la violenza, che si trasforma in distanziamento affettivo, alleanza e/o identificazione con un genitore contro l’altro, sterilizzazione delle emozioni, nonché nella trasmissione intergenerazionale della violenza (Montecchi 2005). Ipereccitazione: Stato di allarme permanente, iperreattività agli stimoli, instabilità del tono dell’umore, difficoltà di controllo dell’impulsività, difficoltà nella regolazione delle emozioni, iperattività motoria, disturbo d’ansia, disturbi del sonno, disturbo dell’attenzione. Iperadattamento: Inibizione delle reazioni di fuga dagli stress traumatici, desensibilizzazione psicologica al trauma, passività e percezione ineluttabile del “destino” traumatico, disinvestimento e inconsapevolezza delle proprie risorse, appiattimento affettivo, ricerca di relazioni di dipendenza. Dissociazione: una “difesa adattiva in risposta a un elevato livello di stress o a un trauma, caratterizzata da perdita di memoria e sensazione di distacco da sé stessi o dal proprio ambiente”. Disturbi della percezione di sé, del proprio corpo e dell’ambiente, senso di irrealtà, amnesia, attenuazione della reattività emotiva, 10 iperattivazione sensoriale, alterazione della percezione temporale, risveglio di ricordi sepolti come se li si stesse rivivendo nel presente, movimenti automatici o robotica (Marlene Steinberg, 2001). Gli aspetti biologici dell’esposizione al trauma cronico investono l’asse ipotalamo (adrenalina e noradrenalina), ipofisi (dopamina) cortico-surrenale (cortisolo); queste sostanze agiscono rispettivamente a livello della corteccia prefrontale e del sistema libico, del nervo vago e del sistema parasimpatico, dell’ippocampo e della corteccia prefrontale portando ad alterazioni del funzionamento cognitivo, dell’attenzione e del pensiero, ad una disregolazione emotiva, al “congelamento” sia emotivo (inibizione e/o blocco della reazione di fuga) sia mentale (dissociazione dell’esperienza), iperadattamento deficit cognitivi e di memoria. Il trauma agisce sulla memoria implicita (che non è accompagnata dalla esperienza soggettiva interna di “stare ricordando qualcosa”) ed esplicita (associata alla esperienza soggettiva interna di “stare ricordando qualcosa”; i processi di codifica richiedono una partecipazione della coscienza e una attenzione focalizzata; l’immagazzinamento è un processo selettivo e volontario che può rendere permanenti i ricordi), che codifica i dati percettivi, semantici e sensoriali dell’esperienza, trascritti in rappresentazioni mentali ed immagazzina i dati codificati che vengono “conservati” all’interno di specifiche reti neurali che possono essere riattivate in rapporto ad esperienze soggettive ed oggettive. La riattivazione traumatica porta ad una riattivazione dei sistemi neurobiologici alterati. Le reazioni vanno nella direzione di una cronicizzazione dei sintomi e ad una vulnerabilità traumatica che porta ad una riesposizione al trauma e/o ad una ripetizione dei modelli operativi interiorizzati. L’abuso sessuale è sempre una violenza, a causa della ridotta capacità del bambino di dare il suo consenso, indipendentemente dalla percezione della vittima, e costituiscono un attentato alla sicurezza e integrità personale, fisica e psicologica (Glover 2003). Rispetto all’abusante vi è un’alterazione nella percezione: stress e preoccupazioni nella relazione con l’abusante; attribuzione irrealistica 11 di potere assoluto all’abusante; idealizzazione e gratitudine paradossale; convinzione di intrattenere con l’abusante una relazione speciale o supernaturale; accettazione del sistema di credenze o delle razionalizzazioni dell’abusante. Le tre dinamiche particolarmente distruttive che generano il trauma, cioè stigmatizzazione, tradimento e impotenza, hanno la capacità di alterare, oltre al tono affettivo, anche la percezione del mondo e di sé. A queste si aggiunge la sessualizzazione traumatica (nella quale la sessualità del bambino ha una forma non appropriata al gradi di sviluppo e disfunzionale nei rapporti interpersonali). La percezione negativa riconosce probabilmente due fonti: le specifiche reazioni psicologiche della vittima ed il tentativo di dare un significato a ciò che le è accaduto2. I sintomi dissociativi più comuni sono l’estraneazione, il distacco/paralisi, auto-osservazione, l’amnesia. Una definizione di abuso sugli adulti, inclusa la violenza domestica Tutti i lavori di chi ha fatto ricerca nel campo (Bowlby, 1988, Ainsworth, 1985, Sadowsky et.al.2003, Briere, 1992, Chop, 2003) hanno mostrato tutte le conseguenze a breve e a lungo termine delle esperienze sfavorevoli nell’infanzia. “Il trauma è il risultato mentale di un evento o una serie di eventi improvvisi ed esterni, in grado di rendere l’individuo temporaneamente inerme e di disgregare le sue strategie di difesa e di adattamento” (Lenore Terr, 1991). Questa definizione accomuna l’abuso sugli adulti e nei riguardi dei bambini. Nel maltrattamento familiare sulle donne si intende una serie di azioni violente, fisiche o psicologiche, ripetute nel tempo. La violenza fisica si manifesta con percosse, pugni e calci, spintoni; le donne riportano lesioni, fratture o contusioni con danni a volte permanenti. La violenza psicologica è fatta di denigrazioni, insulti, umiliazioni; la si costringe all’isolamento, ad interrompere il lavoro, le si fa violenza economica anche tramite punizioni per azioni commesse o le si impedisce di procurarsi un reddito. 2 Finkelor e Browne, 1986 12 Krystal (2001), scrive che una volta che un individuo si è “arreso al suo fato” passa dalla paura a una reazione catatonica e questo è il segno dell’inizio dello stato traumatico:l’individuo abbandona le sue iniziative e obbedisce agli ordini. Questo è particolarmente vero per le donne che subiscono violenza. Le donne che hanno subito violenza nell’infanzia mostrano una vasta gamma di sintomi ed il loro generale livello di sofferenza è più elevato che negli altri pazienti: ansia, somatizzazione, emotività nei rapporti interpersonali, paranoia e psicotizzazione (Herman, 1992). In una ricerca condotta dall’associazione Artemisia di Firenze (2003) e coordinata da Teresa Bruno, risultano essersi rivolte ai centri anti abuso fra il 1999 e il 2001 15.120 donne, con una durata media del maltrattamento di sette anni e mezzo. Nel 80% dei casi il maltrattante era il partner. Tenuto conto dei figli, ben 22.226 bambini sarebbero stati vittime di violenza assistita. Possiamo quindi ipotizzare quali effetti avrà quella violenza assistita su quei figli, ed individuare il motivo del perpetuarsi-trasmettersi della violenza, nelle sue diverse forme a livello transgenerazionale. La violenza domestica è stata paragonata alla tortura e le tecniche di coercizione usate non sono dissimili da quelle descritte dai sopravissuti prigionieri dei campi di concentramento, dai prigionieri politici e dagli ostaggi3: tecniche di deprivazione di potere e di isolamento, la minaccia, inclusa quella di morte, anche di uccidere i bambini. L’obiettivo del persecutore è quello di instillare in lei non solo la paura della morte ma anche un sentimento di gratitudine perché le si permette di continuare a vivere… Dopo ripetute sospensioni della pena la vittima può giungere a considerare il persecutore, paradossalmente, come il suo salvatore. Fra la violenza domestica di distingue anche il fatto di essere costrette a rapporti sessuali contro la loro volontà o a pratiche sessuali. Una ricercatrice americana (Leonore Walker), ha teorizzato la teoria del ciclo della violenza. - Il tempo della tensione svalutazione e svalorizzazione (tu non vali niente, non sei capace di fare niente, sei brutta), con umiliazioni, intimidazioni e controllo (dove vai? guai a te se rientri…) 3 Herman, 1992 13 - Lo scoppio della violenza l’aggressività viene agita e la donna si sente quasi sempre colpevole (non sono stata capace di tenerlo tranquillo) - Il tempo della riappacificazione l’uomo si pente, chiede perdono, la convince che è l’ultima volta ed usa tutta la parte seduttiva razionale; la donna si illude nelle promesse di cambiamento. Tutte le donne maltrattate hanno mostrato sintomi depressivi, un basso livello di autostima e fiducia nel futuro. Spesso queste donne vengono rimproverate: la passività viene interpretata come acquiescenza. I genitori preferiscono accettare che la propria figlia sia maltrattata piuttosto che separata e se la relazione era inizialmente osteggiata, l’atteggiamento punitivo dei familiari si acuisce (“te l’avevamo detto”). Spesso le donne maltrattate sono state esposte a tensione tra i vari membri della propria famiglia, a segreti, accuse reciproche, umiliazioni e svalutazioni, percezione di non sentirsi amate, poco rispetto per l’intimità dei membri, atteggiamenti discriminanti di uno o entrambi i genitori nei confronti di un figlio. L’abuso e il maltrattamento nella prospettiva della Gestalt: abuso come Gestalt Inconclusa Di norma, nel momento in cui un’azione (fisica o comportamentale) è compiuta, siamo disponibili per una nuova azione: è la successione ininterrotta di Gestalt4, che si formano e si disperdono, che costituiscono il continuum di consapevolezza di ogni persona che agisce nel fluire dell’esperienza. Se il ciclo non si è completamente sviluppato, la situazione può rimanere inconclusa e costituire un elemento pre-cosciente di pressione interna, sia di mobilizzazione, sia origine di nevrosi. Le situazioni incompiute non sono altro che un frequente (ed inevitabile) allontanamento dalla pienezza del vissuto. Ci troviamo quotidianamente in contatto con direzioni non completate, lasciando a metà un’azione o un desiderio, e solo quando questi diventano sufficientemente potenti ci assalgono con preoccupazioni, atti compulsivi o autodistruttivi, diffidenza; tutti stati non legati alla 4 Gestalt: in tedesco significa forma dotata di senso: vuol dire esattamente l’insieme, il quale è più della somma delle parti (P.Quattrini, 2007). 14 situazione attuale, ma elementi stratificati ed oppressivi del passato (la figura/sfondo diventa stagnante). La Psicoterapia della Gestalt focalizza l’attenzione sulla parte mancante, omessa, negata o bloccata, che è quella che permette, una volta reintegrata nella coscienza, alla Gestalt di chiudersi. Attraverso l’esplorazione della esperienza omessa, utilizzando l’immaginazione, il lavoro sulle polarità e l’interiorizzazione del conflitto, il role playing, il doppiaggio e tanti altri metodi, la persona diviene in grado di capire ciò che manca in se stessa o nella situazione che vive. Questa modalità di intervento è alla base del processo che permette di risalire dal desiderio di superficie (apparente in quanto risulta insaziabile) al “vero bisogno” negato. In modo simile si può contattare l’emozione “sottostante”, nascosta da un vissuto emotivo dilagante, “fissato” o arbitrario. Ci sono due modi per porre fine a una situazione e raggiungere un completamento: Il primo è quello della semplice consapevolezza; l’altro è la saturazione, il continuare fino a quando ci si sente sazi, completati, finiti. Quando un certo numero di situazioni giungono a un completamento naturale, quello che in termini organismici si dice “una buona Gestalt”, il completamento ha avuto luogo. L’abuso ed il maltrattamento in questo non differiscono, ad esempio, da un impegno preso ed interrotto. Si tratta di qualcosa che è rimasto lì e non aspetta altro che la prossima occasione per concludersi. Il lavoro sulle Gestalt Inconcluse è un esempio tipico di attenzione rivolta alle tracce del passato che fungono da “parassiti” nella vita presente: non si tratta di sbarazzarsi di questo carico ingombrante con uno psicodramma ma di integrare questi elementi pesanti della propria vita in un insieme significante che possa costituire una delle polarità dell’esistenza del cliente5. Per fortuna la maggiorparte degli individui riesce a contenere molte situazioni incompiute, perché nella vita sono inevitabili. Ciònondimeno queste situazioni non completate, quando diventano così forti e potenti assalgono l’individuo con preoccupazioni, comportamenti compulsivi, energia oppressiva ed attività autodistruttive. 5 Iniziazione alla Gestalt, S.Ginger, ed. Mediterranee, 2005. 15 Di fronte alla situazione umiliante dell’abuso l’individuo non riesce a dire o ad attuare quel comportamento che vorrebbe, e l’individuo non potrà mai essere soddisfatto, a prescindere dal successo che ha seguendo le direzioni deflesse. La chiusura deve avvenire attraverso un ritorno alla situazione passata o rapportandosi a circostanze parallele nel presente. Quando una situazione incompiuta sta al centro dell’esistenza di una persona, l’effervescenza della mente viene ostacolata. Il qualificare l’esperienza conclusa o meno attiene al senso individuale: d’altra parte il senso fittizio del completamento non può portare ad altro che ad un prendersi in giro su un compito che è essenzialmente di adattamento, nonostante il concetto di completamento nell’arte oggi sia del tutto cambiato6. E' probabile che si verifichino una serie traumatica di momenti più o meno simili frustranti e pericolosi. Se il sentimento viene liberato esso può o meno rievocare una vecchia scena, ma in ogni caso cercherà una soddisfazione presente. Nell’uso terapeutico della scena rievocata7 non si produce liberazione, tuttavia, quando accompagna il nuovo fluire del sentimento è molto importante nell'autoconsapevolezza. Il paziente deve imparare a distinguere tra il bisogno presente espresso nel sentimento e questo oggetto che è semplicemente un ricordo perduto e immutabile. Il contenuto della scena recuperata è privo di importanza ma il sentimento e l'atteggiamento infantile che vissero la scena sono importantissimi. Secondo Freud certi bisogni e il modo di pensare detto “processo primario” sono infantili. In Gestalt nessun desiderio persistente può essere considerato infantile o illusorio. La retroflessione come meccanismo di interruzione del contatto è tipica risoluzione degli eventi traumatici subiti: le energie di orientamento e manipolazione sono impegnate nell'ambiente (per esempio, ira, dolore ecc.), ma l'individuo non riesce a far fronte a questi sentimenti; egli ha paura di distruggere o di essere ferito; crede 6 Terapia della Gestalt integrata, profili di teoria e pratica di E.Polster e M.Polster, Ed. Giuffrè 1986 7 Teoria e Pratica della terapia della Gestalt, vitalità e accrescimento nella personalità umana, F.Perls - R.F. Hefferline – P. Goodman, Astrolabio, 1997 16 che sarà necessariamente frustrato, di conseguenza le energie vengono rivolte contro la propria personalità ed il proprio corpo in quanto sono gli unici oggetti privi di pericolo disponibili nel campo. Nella retroflessione nevrotica c’è un evitamento della frustrazione annullando il passato, cioè cercando di non essere mai stati impegnati. Ad esempio se è la paura di distruggere che ha fatto insorgere l’angoscia, adesso si tortura il proprio corpo e si producono malattie psicosomatiche. Questo processo è controllato in modo raffinato, nel senso che dà risultati secondari che raggiungono l'originaria intenzione inibita. Ad esempio: “non voglio ferire mia madre”, la retroflessione causa una mia malattia che finisce per coinvolgere mia madre. L'individuo non trae da ciò soddisfazione ma soltanto ulteriori rimorsi. La soddisfazione di colui che retroflette è nel senso di esercitare un controllo attivo. Il corpo Il corpo può essere descritto come un entità vibrante, pulsante e in continuo movimento, caratterizzata dall’alternarsi di fasi di contrazione con fasi di espansione, di fasi di ritiro con fasi di contatto. Quando un bisogno viene frustrato o viviamo una situazione di pericolo, l’intero organismo reagisce a livello somatico, emotivo e cognitivo, ed il comportamento ne è condizionato. In una semplice reazione da stato di allarme, il “sistema dei recettori e dei propriocettori reagisce in maniera da provocare un irrigidimento muscolare” (Perls et al, 1970). Tali reazioni istintive dell’organismo sono processi naturali e flessibili, che variano al mutare delle condizioni ambientali. Tuttavia può accadere che una reazione psicocorporea di adattamento ad una situazione difficile, venga usata abitualmente o perché l’ambiente richiede costantemente la stessa risposta, o perché l’individuo costruisce un senso del sé poco flessibile. In questo modo finisce per assumere la forma di una struttura costante e fissa denominata “struttura corporea di adattamento” (J. I. Kepner, 1997). La P.d.G. concepisce lo sviluppo umano, la crescita, la formazione del sé all’interno della relazione con l’ambiente. Per questo motivo viene data notevole rilevanza alla “qualità del contatto”, attraverso il quale l’individuo può trovare e assimilare ciò che è necessario per la sua 17 sopravvivenza e lo sviluppo, e rifiutare quelle esperienze che non possono essere assimilate e utilizzate (Perls, 1947/1969). Se durante la crescita aspetti o qualità del sé diventano problematici, in relazione a un particolare ambiente fisico o sociale, allora il bambino per affrontare il conflitto tra il bisogno di essere accettato (in tenera età un rifiuto può assumere il valore di una minaccia legata alla sopravvivenza) e la difesa delle qualità del sé, alienerà quegli aspetti del sé inaccettabili per l’ambiente. Le qualità del sé rinnegate, così come le sensazioni, i bisogni, le espressioni, i movimenti e le immagini ad esse associate, vengono tenuti lontani dalla consapevolezza in uno spazio conflittuale, dove continuano ad esistere e ad essere in azione. La repressione emotiva dei sentimenti potrà essere tradotta in un irrigidimento dei muscoli del collo, della mascella, al quale si accompagnerà una lettura cognitiva dell’evento sotto forma di pensieri su se stesso, sugli altri e sulla vita, del tipo: “non mi vogliono abbastanza bene da permettermi di...”, o “io non sono come gli altri bambini”,ecc.(A.Ferrara,1988). Se tali esperienze frustranti, come ad esempio un atteggiamento critico e scoraggiante agito costantemente e regolarmente da altri, si ripetono, l’intero processo può cronicizzarsi portando alla formazione di quello che E. Berne chiama il “copione” di vita (E. Berne,1979). Immaginiamo una persona la cui postura è caratterizzata da: testa incassata nelle clavicole, collo accorciato, spalle che si ergono intorno alle orecchie. Tale postura può ricordare “una tartaruga che si ritrae nel guscio” e sembra avere, in qualche modo, una funzione di protezione della testa. Qualunque sia stato l’episodio originario che abbia scatenato una tale reazione, è innegabile che essa sia diventata e rappresenti una “struttura cristallizzata”, e che quello che era un processo di adattamento temporaneo ad una situazione difficile, a lungo andare si sia trasformato in un atteggiamento automatico caratterizzato da un cronico ritirarsi in se stesso. In questo modo la capacità di “venire fuori nel mondo” (il proprio atteggiamento verso l’ambiente) può venire circoscritta dalla struttura fisica, che consente alla persona solo alcuni comportamenti, mentre limita e rende meno fluida la produzione di altri. Inoltre gli schemi di tensione muscolare fissi, inducono e perpetuano 18 schemi emotivi ripetitivi, soprattutto in presenza di eventi traumatici che li hanno prodotti, ed è in questo modo che si può instaurare un circuito auto-inducente tra schemi muscolari ed emozionali la cui rigidità nel presente interrompe il normale flusso di contrazione/espansione. I metodi che rendono possibile il rinnegamento di parti del sé sono: la desensibilizzazione delle sensazioni corporee (il rinnegamento del sésensorio), l’inibizione di alcuni movimenti (il rinnegamento del sémotorio), la sottrazione dell’io all’esperienza corporea (la proiezione del corpo). La contrazione prolungata è una modalità per attutire e smorzare fisicamente le sensazioni corporee, quando sono avvertite, ed in questo modo si può giungere a escludere dalla percezione anche le emozioni e i sentimenti. Nelle situazioni in cui è presente la percezione del proprio sentimento, ciò che viene soppresso è l’espressione di questo, attraverso un meccanismo di blocco dell’emozione e del movimento. In questo modo viene disconosciuta la funzione del sé motorio, che ci consente di esprimere i sentimenti, di manipolare e trasformare l’ambiente, di relazionarci e reagire agli altri, di creare e modulare i confini e difendere la nostra integrità organismica. Se l’atto di cercare un contatto corporeo allungando le braccia è criticato o rifiutato, può diventare un rischio mostrare il proprio bisogno d’amore, allora la muscolatura delle braccia e del torace si tende per opporsi alla spinta di protendersi. Se piccole espressioni di rabbia o l’espressione del pianto sono state ripetutamente attaccate e criticate nel passato, allora i movimenti implicati nella loro espressione devono essere evitati. Essi possono essere resi non più accessibili, al punto tale da venire percepiti come estranei e minacciosi per il proprio senso del sé. Infine, attraverso la “proiezione del corpo” l’individuo può giungere a ripudiare la propria esperienza. Vale a dire che, sebbene sia in grado di entrare in contatto con le proprie sensazioni, esse sono tenute separate dal senso del sé, in modo che l’impatto sul comportamento della persona venga ridotto al minimo. È come se avvenisse una sorta di allontanamento tra l’esperienza del corpo e il sé, tra l’oggetto e il soggetto dell’esperienza. Il corpo viene considerato un oggetto di 19 esperienza, non una parte del soggetto, e viene dunque proiettato e trattato come se fosse altro da sé. Il modello di riferimento consiste nel favorire delle condizioni in cui il processo di crescita, eccitazione, ad-gressività (come passaggio da una posizione orale e passiva ad una posizione genitale ed attiva) venga ripristinato. Anziché interpretare detti contenuti scissi - che possono esprimersi attraverso il sogno, sintomi di conversione somatica, incongruenze mimico-gestuali, comportamenti di cui il soggetto «si sente agito», o fenomeni dispercettivi di vario tipo- la Gestalt propone un percorso esperienziale di graduale appropriazione (re-owning) ed eventuale integrazione delle parti scisse. L'importanza delle emozioni viene sottolineata da Perls: le emozioni sono il linguaggio stesso dell'organismo; modificano l'eccitazione basilare a seconda della situazione da affrontare. L'eccitazione viene trasformata in emozioni specifiche, e le emozioni vengono trasformate in azioni sensoriali e motorie. Le emozioni producono le cariche energetiche e mobilitano i modi e mezzi per soddisfare i bisogni" (Perls, 1973, p.33). Se un certo tipo di eccitazione non può trasformarsi nell'attività corrispondente ma subisce una stagnazione, allora abbiamo lo stato chiamato angoscia, che è dato da una eccessiva quantità di eccitazione che resta trattenuta, imbottigliata. (Perls, 1969, p. 73). La conseguenza più preoccupante è che ci allontaniamo da noi stessi, perdendo fiducia nei nostri sentimenti e quindi nei nostri bisogni, sostituiamo all'autoregolazione l'autocontrollo e, come sappiamo, è tutto l'organismo ad essere danneggiato. Anche se oggi ci comportiamo in un certo modo a causa di eventi passati, le difficoltà attuali sono connesse all’agire oggi. Le questioni insolute del passato gli ostruiscono la strada del presente e, mediante la terapia, ci viene data la possibilità di far riemergere tali confitti e di esplorare modalità diverse per affrontarli. In tale processo si tratta di mettere in opera una serie di operazioni che favoriscano il ripristino di un flusso vitale evolutivo nel paziente (Zerbetto, 1986). Se la terapia è sblocco, sviluppo, crescita, rottura del meccanismo paralizzante, ricerca di uno spiraglio per la vita che ci liberi dal vicolo cieco, dallo scacco matto, allora ogni possibilità va cercata ed affinata. Sotto questo profilo l’interpretazione acquista minor valore (quando non si presenta come atto di intrusione, di 20 deresponsablizzante esercizio di potere conoscitivo sull’altro) rispetto ad un diverso approccio del terapeuta che privilegia lo stare con (mit-sein) il vissuto del paziente, un operare sulla gestalt emergente in modo maieutico che privilegia il porre domande anziché il dare risposte, un agire sul sintomo perché si renda più leggibile nelle sue origini, nella sua strutturazione, nei suoi meccanismi di rinforzo. Nonostante l’enfasi posta nel settore sugli aspetti psicologici del trauma, l’abuso all’infanzia è in gran parte di natura fisica: percosse, molestie sessuali, carezze deduttive, l’avere assistito a violenza e così via. Inoltre gran parte di ciò che viene “ricordato” dell’abuso, in particolare di quanto è avvenuto in uno stadio pre-verbale, viene ritrovato attraverso la “memoria del corpo”, spesso sotto forma di sintomi somatici, sensazioni corporee e sentimenti, tensioni muscolari, e movimenti divenuti abituali. Psicoterapeuti e quanti altri sono impegnati con persone abusate hanno applicato il processo corporeo per far luce su tali problemi e per assistere coloro che hanno subito l’abuso nel percorso di guarigione dai loro traumi corporei. L’approccio della P.d.G è particolarmente adatto in questi casi poiché postula che la resistenza sia una parte creativa della persona piuttosto che una corazza da abbattere, ed enfatizza lo sviluppo graduale della consapevolezza e del riappropriarsi dell’esistenza corporea. Questi principi concorrono ad assicurare che il lavoro risulti il meno possibile intrusivo, che il terapeuta sia meno incline a patologizzare i sintomi fisici e la struttura caratteriale del paziente, ed infine che il lavoro possa procedere in modo da adattarsi al ritmo di assimilazione del paziente. Letteratura sul trauma nell’approccio gestaltico C’è poca letteratura sul ‘come’ trattare il trauma in Gestalt. Il contributo nell’area del trauma è scarso. Tuttavia c’è un’ampia letteratura sulle Gestalt Inconcluse (Unfinished Business). Sfortunatamente una letteratura di terapia Gestaltica sulle Gestalt Inconcluse relative al trauma si è persa tra la letteratura del più ampio campo delle gestalt incompiute: questo è il motivo per cui il termine è divenuto generalizzato nella disciplina di psicoterapia. 21 Le iniziative prese per aumentare il profilo del contributo della Gestalt nel campo del trauma coincidono con il cambiamento dato dai terapeuti gestaltici che hanno scritto del loro lavoro utilizzando il termine “PTSD” (Post Traumatic Stress Syndrome) e “Trauma” allo stesso modo di “Unfinished business”, ed hanno pubblicato una speciale edizione di Gestalt!8 a proposito di alcune esperienze della tragedia dell’11 sett. 2001 e di come la terapia gestaltica sua stata coinvolta in questo campo. Gli argomenti che sono cresciuti nell’area del trauma per la Gestalt sono iniziati con la ricerca sul Critical Incident Stress Debriefing, che consiste nella possibilità di utilizzare delle tecniche per rivivere l’esperienza dell’evento traumatico. Questo riguarda i terapeuti così come le tecniche usate nella terapia; tuttavia la questione è andata sulla ricerca, non sulle tecniche stesse, ma sul ‘quando’ utilizzare le tecniche. Le professioni di aiuto, tutti i terapeuti, erano concentrati su cosa fare immediatamente dopo il trauma e le ricerche e le osservazioni hanno mostrato che coloro che avevano avuto esperienze di trauma avevano bisogno di supporto sociale da coloro che gli stavano vicino (es. un terapeuta straniero non gli tornava utile perché avevano bisogno di qualcuno che avesse in qualche modo avuto un’esperienza vicina alla propria). Questo accade anche nei centri antiviolenza: molte donne abusate o maltrattate chiedono una terapeuta abusata o maltrattata perché sono convinte che solo lei, raramente lui, possa capirle. Il trauma lascia una ferita nell’essere molto profonda caratterizzata da solitudine infinita e spesso il senso personale di “è successo solo a me”. Le teorie e le tecniche: Jacoba Joubert ha seguito un programma di aiuto per bambini traumatizzati con enuresi da un lavoro in prospettiva sociale. Lavorava col bambino per aumentare l’autostima in se stesso e nel suo ambiente con lo scopo di far sì che la Gestalt Inconclusa del passato si risolvesse dando la possibilità al bambino di vivere il presente. Sei bambini di media età sono stati osservati nell’approccio gestaltico della play therapy in dieci sessioni individuali. La ricerca era sia qualitativa sia quantitativa. I 8 rivista informatica nata nel 2002 22 ricercatori osservavano l’autostima, l’esperienza emozionale, la percezione e l’enuresi per inserirli in un programma di aiuto che fornisse le linee guida per migliorare chi lavorava nel sociale. Robert Witchel, nel suo lavoro intitolato: “Gestalt Therapy, sviluppo teoria e tecniche”, ha fatto una ricerca tesa a dimostrare gli effetti della terapia in gruppo con tecniche di gioco e di dialogo di Gestalt Inconcluse, di proiezioni di gioco e movimento ed espressione del corpo, di contatto attraverso il ritmo e lavoro sul sogno. Woldt e Stein avevano lo scopo di applicare la teoria gestaltica, di applicarla nel campo della psicoterapia per la popolazione anziana in rapido aumento. Gli autori sostenevano che la popolazione anziana ha esperienza di autoassorbimento, perdita di controllo, vita nel passato, Gestalt Inconcluse e chiusura. La loro ricerca era parte di un programma per iniziare ad applicare una terapia gestaltica ai problemi degli anziani. Gestalt! (giornale elettronico sulla terapia gestaltica). Con la prima pubblicazione nel 2002 era centrato sul modo in cui la terapia gestaltica aveva avuto un impatto e poteva dare un potenziale contributo nella zona intorno a Ground Zero. Sempre su questa rivista c’è un articolo che titola: “Risolvere le Gestalt Incompiute: efficacia della terapia sperimentale usando il dialogo delle sedie vuote”. Paivio e Greenburg hanno studiato 34 clienti che avevano avuto esperienze traumatiche. I clienti erano stati assegnati in modo random ad un terapeuta gestaltico o a dei gruppi tradizionali, e le loro percezioni sui sintomi e sull’autopercezione sono state valutate sia dopo quattro mesi sia dopo un anno. I risultati hanno mostrato che la terapia esperienziale ha raggiunto migliori risultati che non nel caso della terapia di gruppo a stampo psicodinamico. Kim e Kramer utilizzano la Mindfulness Meditation come metodo che può calmare una ‘mente agitata’. Gli autori dicono: “osserviamo i nostri pensieri come arrivano e se ne vanno, non entriamo in essi . Li facciamo solo arrivare e andar via, crescere 23 e diminuire, e chiudere. Trattiamo i nostri pensieri come un processo non come contenuto9. Una ricerca di Maree Mariese (2007) si è occupata degli effetti della terapia della gestalt, soprattutto focalizzata sul gioco, su bambini traumatizzati. Il lavoro era incentrato non tanto sulla gravità dell’evento ma sulla percezione da parte del bambino dell’evento traumatico stesso. Una delle cose che differenziano il bambino dall’adulto rispetto al trauma subito è la mancanza di meccanismi difensivi e autoconsolatori, di autosostegno degli adulti, e spesso mancano anche nel supporto a livello familiare, soprattutto se il trauma è subito e vissuto all’interno del contesto familiare, come spesso accade nell’abuso. Le prime persone che un bambino traumatizzato incontra sono diverse figure professionali (assistenti sociali, pediatri, poliziotti, insegnanti, ecc.) e queste figure non sono spesso preparate ad affrontare con un approccio olistico il trauma del bambino. La capacità della Gestalt è quella di entrare nella sfera emotiva più di ogni altra tecnica e l’autrice si è documentata approfonditamente anche per fornire ai professionisti che impattano con il fenomeno i più appropriati strumenti di lavoro. Lo scopo della terapia del gioco è quello di permettere al bambino di sviluppare, massimizzare il suo potenziale di partecipazione alle relazioni mantenendo i suoi meccanismi di regolazione interna, e questo gli permette di agire in maniera efficace in tutti i suoi ambiti di vita, poiché è la reazione all’evento traumatico (singolo o protratto nel tempo) ad incidere negativamente sul bambino. Nel caso del singolo episodio la caratteristica è di preservare una memoria completa e dettagliata dell’evento; nel caso del trauma da abuso protratto o prolungato si attivano difese per neutralizzare il dolore (negazione, dissociazione, iperadattamento ecc.) e si modifica la capacità di reazione allo stress traumatico. Il bambino abusato fisicamente, sessualmente, emotivamente, ha uno sconforto emotivo molto intenso, ed è sottoposto ad uno stress che raggiunge una forma che ne minaccia l’integrità psichica e fisica, 9 Cohen, A. (2002). Gestalt Therapy and Post-traumatic Stress Disorder: The potential and its (lack of) Fulfilment. Gestalt! 24 insomma, il suo intero organismo. Le reazioni del bambino all’evento sono di intensa paura, senso di frustrazione, fino al terrore. Il bambino non ha raggiunto un livello di sviluppo mentale che possa permettergli di dare un significato all’accaduto e non possiede l’abilità emotiva o cognitiva per integrare nella sua vita quell’esperienza. L’unico significato che riesce a dare è che la colpa è la sua perché non può permettersi di accusare quegli adulti, spesso anche a lui cari, che dovrebbero occuparsi di lui. Il bambino inoltre è lasciato alle sue emozioni non espresse e queste possono causargli problemi di tipo secondario perché spesso male interpretate dagli adulti, che a loro volta non ne comprendono il significato. Gli effetti: Greenwald (2005) sostiene che la consapevolezza dei segni (comportamenti del bambino) e dei sintomi (quello di cui il bambino si lamenta) fornisce al terapeuta un’opportunità di aiutarli a destreggiarsi tra i sintomi e di iniziare il processo di recupero. Nelle reazioni sono comprese la paura, la rabbia, o l’evitamento, il quale porterà alla manifestazione dei sintomi. Le fasi della terapia del trauma: Alers e Ancer (2005) spiegano l’evoluzione del trauma secondo tre fasi: - dell’impatto, che prevede la caduta dei meccanismi di protezioni emotivi, intellettivi e di consapevolezza fisica; - di arresto, nella quale si realizza l’accaduto. In questa fase insorgono la tristezza, la rabbia, il senso di colpa, e i segni del PTSD si palesano. Il bambino può iniziare a ricordare più fatti che nella fase precedente. - di recupero, nella quale il bambino inizia ad accettare l’accaduto e ad integrarlo nella sua vita. Immagini ripetute, anche nei sogni, distorsione nella coerenza narrativa, ansia, fobie, tensioni, incapacità di esprimere le emozioni, evitamento delle attività piacevoli, tristezza, bassa autostima, insonnia, attacchi di panico, sintomi dissociativi sono le manifestazioni emotive e comportamentali più ricorrenti dei traumi subiti. Spesso è scarso il rendimento scolastico e possono esserci ritardi nello sviluppo. Il corpo reca dei sintomi, disturbi dell’alimentazione fino ad un inadeguato sviluppo psicomotorio. 25 Nel caso specifico di abuso sessuale vi è una diminuzione dell’autostima, depressione, disturbi dissociativi, abuso di sostanze, comportamenti sessualizzati. I sentimenti depressivi sono combinati con il senso di umiliazione, di rigetto e di danno permanente. Soprattutto negli abusi protratti nel tempo vi sono comportamenti regressivi, scarsa concentrazione, autolesionismo, iperattività, comportamenti aggressivi, paranoici, che portano all’aumento del rischio di suicidio, aggressività, crudeltà, acting-out, antisocialità, ipervigilanza, ritiro sociale, vittima di bullismo vs. bullismo. I sintomi sensoriali e motori consistono nella riduzione dei riflessi, nella scarsa coordinazione motoria, limitato orientamento visivo e uditivo, senso di affaticamento. Proprio perché uno dei limiti maggiori degli approcci dei professionisti che impattano per primi il fenomeno è quello di recuperare il bambino da un punto di vista funzionale e non emotivo, la Gestalt, nella sua visione olistica e con l’ausilio delle sue modalità terapeutiche, può dare quel valore aggiunto di integrazione fra corpo e mente che spesso vengono distinti. Negli ultimi anni due diversi influssi hanno fatto aumentare l’attenzione ai fenomeni del corpo nella psicoterapia: da un lato l’interesse per le arti e per le terapie corporee nella psicologia umanistica, e dall’altro la comprensione del comportamento non verbale come forma di comunicazione. All’interno di questa recente ondata di interesse per i fenomeni corporei, sono riscontrabili differenze significative nei modi attraverso cui il processo corporeo viene inteso nel contesto terapeutico. Le psicoterapie corporee, come la scuola della Gestalt e quella reichiana, mirano ad un intervento in profondità, considerano il corpo intrinseco al sé e concepiscono la persona dal punto di vista olistico. Secondo la visione dualistica, mente e corpo sono completamente separati tra loro, e per questo necessiterebbero di un trattamento a sé. Alcuni autori sebbene considerino queste due sfere separate, contemplano la possibilità che l’una possa influenzare l’altra, sebbene il processo fisico viene visto come un epifenomeno, in relazione agli eventi mentali sottostanti, e separato da essi (il metodo unidirezionale). Dall’altro lato, le terapie corporee, pur riconoscendo il contributo dei 26 processi psicologici nella formazione della tensione corporea e degli squilibri posturali, mancano di una metodologia strutturata che consenta di lavorare con i processi psicologici al fine di connetterli al lavoro somatico. Norton e Norton (2006) sostengono che “essere è giocare”, e descrivono come il gioco sia l’introduzione al mondo del bambino e che nient’altro esprima meglio la sua essenza. Il gioco è il linguaggio che il bambino usa per esprimere se stesso. Per i terapeuti della Gestalt i giocattoli sono i mezzi che il bambino possiede per esprimere le sue esperienze. Secondo Ferriera e Read (2006) il bambino ha le stesse emozioni degli adulti ma non ha ancora il linguaggio per verbalizzarle nella loro complessità (fra l’altro nemmeno molti adulti conoscono il nome delle loro emozioni). Il corpo quindi e tutto ciò che è non verbale, è un veicolo comunicativo importante e spesso l’unica via per un bambino. Per gioco si intende disegno, pittura, arti terapie, creta, drammatizzazione, l’uso della fiabe, anche in gruppo. Geldard e Geldard (2002) spiegano che le tecniche espressive (arti terapie) e le fiabe, vengono utilizzati ad aiutare il bambino a raccontare la sua storia. Il presupposto è che ogni bambino è unico ed ha la sua storia. Ogni tecnica ha differenti proprietà che il terapeuta integra e mescola nella terapia. La scelta è attuata a seconda dell’età del bambino e può essere individuale o di gruppo: il rilassamento, il contatto sensoriale, la drammatizzazione, le fantasie guidate e il gioco creativo. Sottolineiamo che le tecniche possono essere integrate. Il rilassamento e il contatto sensoriale sono usati per costruire la relazione terapeutica per facilitare l’atmosfera. Le attività ludiche aiutano il bambino a rilassarsi mediante il processo di contatto fisico e di esplorazione sensoriale. Il rilassamento aiuta il bambino a sentirsi più “comodo” e a ridurre la sua ansia. Il bambino può essere aiutato a rilassare fisicamente il suo corpo e a diventare più consapevole dei suoi bisogni tramite specifiche attività: gioco libero (respirazione con il movimento del corpo), musico terapia, relax accompagnato da fantasie guidate. Va ricordato che i bambini traumatizzati sono spesso in uno stato di ipervigilanza e che la ricerca del rilassamento può provocare ansia. Ad esempio chiedergli di chiudere gli occhi potrebbe 27 portarlo a non sentirsi al sicuro. Va tenuto conto, soprattutto nel lavoro di gruppo delle differenze individuali. L’Assessment Play consiste in una osservazione del gioco libero per reperire informazioni sui comportamenti e la motivazione a livello percettivo, cognitivo, culturale ed emozionale del bambino. La terapia dovrebbe cominciare dal punto in cui si trova il bambino abusato e dalla sua prospettiva. Le fiabe, le storie e i libri possono essere usati per aiutare il bambino ad acquisire consapevolezza sugli eventi che gli sono accaduti. Questo permette al bambino di svilupparsi imparando dalle situazioni e dai caratteri presenti nelle storie. Il racconto delle storie coinvolge la distanza, l’identificazione e la proiezione e porta il bambino a considerare delle soluzioni alternative alle situazioni problematiche e lo porta a sviluppare le sue strategie di coping e nel prendere decisioni trasferendo questo nella sua vita. Le storie danno l’opportunità, in un modo amichevole, di dare un messaggio che gli darà le risposte alle loro domande e può rassicurarlo nei riguardi del trauma subito. La drammatizzazione, i diari, le storie fotografiche sono tutti strumenti utili. La drammatizzazione in particolare ha la capacità di dare al bambino l’opportunità di giocare in una situazione minacciosa ma sentendosi in un ambiente sicuro, in modo da mettere i bambino di rivivere le esperienze traumatiche e di prendere il controllo su di esse10. Il bambino guadagna potere e controllo sulla situazione. Questo porta alla difesa contro il potere schiacciante che il mondo ha avuto fino a quel momento su di loro sviluppando le loro proprie risorse. Il gruppo può essere di grande aiuto in questo. Laddove ad esempio una piccola Cappuccetto Rosso non sappia cosa fare di fronte al Lupo i compagni, tramite il doppiaggio, le loro soluzioni, il semplice sostengo, possono farla uscire dall’empasse. L’attività di drammatizzazione porta realtà nel qui ed ora e i sentimenti sono proiettati, nuovi ruoli sono apprese, nuove decisioni vengono prese, vecchie gestalt vengono chiuse. 10 Ferriera e Read, (2006) Norton e Norton (2006). 28 Per il bambino abusato è meno faticoso proiettare sentimenti attraverso la drammatizzazione ed è più facile aumentare l’informazione narrativa dando un nuovo senso alla propria storia. Il gioco creativo include l’arte terapia, il disegno e la pittura, la creta, i mostri, il lavoro con la sedia calda e il lavoro con la sabbia. Queste attività servono a proiettare in modo non minaccioso e possono essere metafore per il bambino per elicitare un’emozione. Ma il terapeuta non deve mai usare la proiezione per interpretarla. Questa deve essere esplorata con il bambino. La proiezione permette al bambino di esplorare il suo mondo interno (soprattutto a partire da ciò che lo interessa), e a completare delle Gestalt Inconcluse. Attraverso il gioco delle polarità è inevitabile causare un conflitto nel bambino traumatizzato (es. vittima- persecutore) ma il conflitto che si apre può essere interiorizzato e risolto-trovare una sintesi nel lavoro terapeutico durante la seduta. Geldard e Geldard (2002) sostengono che il lavoro con le arti terapie su un evento ne porta in figura i sentimenti che potevano non essere adeguatamente espressi in modo verbale. Parlare di ciò che il bambino ha creato permette ai sentimenti del bambino di accedere alla sua coscienza e di risollevarsi da ciò che continuamente li opprime. Riguardo all’espressione delle emozioni represse Landreth (2002) sostiene che i materiali utilizzati nelle arti terapie dovrebbero includere l’essere in grado di distruggere qualcosa per far uscire l’aggressività. La creta ad esempio fornisce un mezzo sicuro per esprimere l’aggressività11 perché richiede di esser manipolata, schiacciata, per raggiungere la forma desiderata. I sentimenti del bambino lo rendono più forte quando è in gradi di influenzare il suo ambiente attraverso un’espressione fisica che porta il bambino ad una maggiore autostima, assertività, indipendenza ed autorealizzazione. Tramite uno studio longitudinale si è osservato che la memoria traumatica viene incanalata in memoria sensoriale, portando il bambino verso le attività sensoriali appropriate. 11 V.Oaklander 29 Il Mito “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre” Salustio, Degli Dei e del Mondo Mito deriva da mЎtos12, che in Omero significa “parola, discorso”, ma anche “progetto, macchinazione”, secondo W.F.Otto avrebbe originariamente indicato la “parola che non distingue tra parola ed essere”. In età classica il significato si precisò in “racconto attorno agli Dei” (Platone, La Repubblica); e nel pensiero filosofico in quanto discorso che non richiede né prevede dimostrazione, fu contrapposto a logos nel senso di argomentazione razionale. Nella parola moderna “mito” ha un campo di applicazione assai ampio e numerose, diverse accezioni, sicchè risulta improponibile una definizione univoca del concetto. All’inizio del “Fedro”, Socrate ricorda l’interpretazione razionalistica, già corrente tra i sofisti, secondo la quale il mito è il rivestimento fantastico di un fatto reale. Ma è con Vico che la moderna scienza del mito ha il suo atto di nascita, dopo i tentativi della cultura umanistico rinascimentale di applicare al mito un’interpretazione esoterica-cabalistico magica, tentativo che si protrae fino all’illuminismo (Pico della Mirandola, Giordano Bruno ed altri). Vico affermava nella “Scienza Nuova” l’autonomia del mito: “esso non ha sapienze riposte da rivelare, ma esprime la genuina concezione del mondo che è proprio dell’umanità primitiva (…) va pertanto valutato in base all’evoluzione della mente e delle società umane”. Sono seguite, fra illuminismo e romanticismo, due contrapposte visioni del mito: la prima (Dupuis, 1794) ad indirizzo razionalistico mira a spiegarlo; la seconda, ermeneutica (Creuzer, 1810-12) mira a comprenderlo. Creuzer ravvisa nei miti la veste esteriore dei simboli originari che racchiudono l’eterna verità dell’uomo e del mondo: a essi può accedere solo l’intuizione immediata, non la scienza e il pensiero razionale. 12 Enciclopedia Garzanti di Filosofia e epistemologia, logica formale, psicologia, psicoanalisi, pedagogia, antropologia culturale, teologia, religioni, sociologia, Garzanti ed. 1988 30 Per Bachofen, il mito incarna la lingua primordiale dell’uomo, delimita una dimensione metastorica che troverà accentuazione nelle opere di M.Eliade (1949), R.Guenon (1828) e Miller (1825) che afferma l’autonomia del mito, che rappresenterebbe una fusione tra forma espressiva e concezione del mondo, propria dell’umanità mitica. Nell’approccio freudiano psicanalitico, (ed ancor prima con Wundt affrontando il tema della proiezione) l’analisi dei sogni diventa lo strumento più importante per la comprensione dei miti (raccordo tra antropologia e psicanalisi) trovando un’analogia fra linguaggio dei sogni e dei miti, che possono essere interpretati e decifrati nel loro simbolismo. Il mito viene assunto come una manifestazione collettiva altamente elaborata dello spirito umano di cui rivela, e al tempo stesso dissimula certe tendenze inconsce. Per Jung, la realtà psichica si oggettivizza sempre più chiaramente quando a definirla concorra la presenza di un medesimo atteggiamento in più individui: nel mito emergono dall’inconscio e si attualizzano, archetipi (forme costanti) delle possibilità di rappresentazioni che si trovano simili sempre e dovunque. Di qui gli antropologi si sono posti il problema della somiglianza e analogie dei miti nelle diverse culture e popolazioni. «Per quanto le tradizioni miti che differiscano, esse sono concordi nel richiamarci a una consapevolezza più profonda dell’atto stesso di vivere. Il peccato imperdonabile è quello dell’inconsapevolezza, del non essere completamente desti».13 Nella scuola storico-culturale vi è l’inserimento dell’elemento religioso nel mito, come se il mito fosse una storia narrata per stabilire una credenza, per servire da precedente a cerimonie e rituali o per agire da modello di condotta religiosa o morale. 13 Il Potere del mito, Joseph Campbell, Guanda Editore 2004. 31 Il mito nell’approccio fenomenologico e sue applicazioni in psicoterapia Nella scuola fenomenologica (R.Otto), il mito viene considerato come una categoria del sacro nella sua apparizione storica. I vulcani, il sole e la luna sono considerati dall’uomo primitivo come viventi, non per un’ingenua credenza nel animismo ma perché i primitivi conoscono chiaramente la vita al di fuori dell’uomo; la vita che dall’altra parte viene riconosciuta dovunque si intraveda un principio di attività. Gli oggetti diventano Dei (manifestazioni mitiche) quando si applica loro la categoria del “numinoso”; vale a dire che un racconto diventa mitico quando si inserisce nell’ambito del numinoso. «Egli immaginò che questo grande, rumoroso coro, fosse iniziato quando i nostri lontani progenitori si raccontavano storie sugli animali che avevano ucciso per nutrirsi e sul mondo soprannaturale nel quale sembravano entrare con la morte. Lontano, da qualche parte, oltre il piano visibile dell’esistenza, c’era il signore degli animali, che aveva il potere di vita e di morte sugli esseri umani: se avesse trascurato di riportare indietro le bestie perché fossero ancora sacrificate, i cacciatori e la loro progenie sarebbero morti di stenti. Così le società primitive appresero che l’essenza della vita è che si vive uccidendo e mangiando: ecco il grande mistero di cui trattano i miti»14. Un’evoluzione di questa visione tiene maggior conto del rapporto tra mito e rito, ed individua nella “parola potente” la forza luminosa del mito. Il mito contiene un elemento in più della parola sacra: la configurazione, “la forma”. Il mito crea dunque la realtà in un suo proprio tempo che è fuori del tempo e senza tempo (Van der Leeuw, Fenomenologia della religione, 1933). Jensen vi aggiunge il concetto di culto come caratteristica essenziale, come rappresentazione drammatica degli avvenimenti descritti o come il semplice atto di raccontare il mito può divenire un atto di culto. Le tesi fenomenologiche assumono massima consistenza nelle opere di M. Eliade e K. Kerényi (che collaborò con C.G.Jung). Il mito 14 Il Potere del mito, Joseph Campbell, Guanda Editore 2004. 32 appare come uno dei fatti sacri accanto ai riti, alle forme divine, alle cosmologie ecc. Il mito ha un valore storico e archetipale. La sua funzione principale è di fissare i modelli esemplari di tutti i riti e di tutte le azioni umane significative in modo da formare un loro modello extratemporale e astorico. «Perché avete bisogno della mitologia? (…) tutti questi Dei e roba del genere e i resti di tutta questa roba coprono le pareti del nostro sistema interiore come i cocci del vasellame rotto in un sito archeologico. Ma dato che siamo creature viventi in “tutta questa roba” c’è molta energia, e i rituali la evocano»15. Il mito è una realtà contemporaneamente umana e cosmica: i due termini (uomo e mondo, pensiero e realtà) si determinano reciprocamente in una realtà originaria ed archetipica alla quale ci si può avvicinare solo tramite “l’ascolto” e la “partecipazione intuitiva” (Einfǘhlung) di tipo fenomenologico. Da qui si può rivelare la forza e la capacità del mito di ampliare la coscienza rispetto ad esperienze umane originarie che da sempre accompagnano l’uomo. In sintonia con la tesi fenomenologica Paolo Quattrini16, sostiene che alcune storie (come i miti) accompagnano l’umanità dalla notte dei tempi, e sono stati ripresi da varie culture con variazioni sul tema. Nelle storie il significato dev’esserci per essere fruibile. Viene fatta una distinzione fra mito e costruzione del romanzo fra senso è significato, laddove nel romanzo vi sono maggiori difficoltà sul piano del senso che non del significato. Poiché senso è percezione e si realizza attraverso la strutturazione di Gestalten, insiemi che la mente dell’osservatore costruisce in congruenza con i bisogni dell’organismo, la persona percepirà preferenzialmente insiemi formati da elementi contingentemente presenti davanti ai suoi sensi o il paesaggio secondo le linee di forza che la guidano. E’ possibile ipotizzare l’esserci di gestalten poiché si manifestano fenomenicamente, senza conoscerne la struttura. Lo stesso vale per il mito, del quale è possibile osservarne la forza senza teorizzarne l’essenza. Non rifiutando l’ipotesi metapsicologica secondo la quale i 15 16 Il Potere del mito, Joseph Campbell, Guanda Editore 2004. Fenomenologia dell’esperienza, Zephiro Edizioni, 2007. 33 miti siano il frutto di configurazioni strutturanti (archetipi), Quattrini ne sottolinea la struttura fissa, anche se nulla impedisca loro di abitare nella dimensione dell’infinito, nonostante gli archetipi le obblighino in cammini obbligati. Nella psicoterapia è importante osservare come si svolgono nella vita delle persone: la vita può vanificarsi nell’incongruenza fra realtà e mito, e nell’elaborazione dell’incongruenza ricomporsi. Le strutture archetipiche implicano cadute e risalite fino alla risoluzione finale lieta o tragica (accettazione della morte). A tal proposito, una riflessione di Joseph Campbell17 su un racconto di Joyce, era che ciò che Joyce aveva definito una caratteristica “grave e costante” delle sofferenze umane era un tema principale della mitologia classica. «La causa segreta di tutta la sofferenza è la mortalità stessa, che è anche la condizione prima della vita», essa non può essere negata se la vita deve essere affermata. Ciò che il mito richiede è l’accettazione del destino, cioè di tutto quello che non può essere evitato. E’ l’opposizione a questo il nodo da sciogliere nella vita delle persone. «Ma non è questa la missione dell’eroe. Non si tratta di negare la ragione. Al contrario, con il superamento delle passioni oscure l’eroe simboleggia la nostra capacità di controllo sulla selvaggia irrazionalità che è in noi (…). Il vero viaggio dell’eroe non è un singolo atto di coraggio ma come un’intera vita vissuta nel autodisvelamento», e riferendosi a un eroe moderno, il protagonista del film Guerre Stellari, «non fu mai tanto razionale come quando scoprì in se stesso le risorse necessarie ed affrontare il proprio destino». Il mito quindi insegna non soltanto a sperimentare che la vita debba essere vissuta nonostante la morte, ma anche a risolvere vecchie Gestalten Inconcluse in cui la persona è ancora invischiata; inoltre ad elicitarne di nuove che vadano in direzioni incongrue, in senso olistico alla persona. Miti (ed anche fiabe e racconti), sono di grande aiuto per capire meglio la significatività delle interazioni. Le direzioni della vita sono tante quanti sono i miti e la persona ha tante possibilità di scelta quante sono le sue conoscenze del mondo, incluse quelle letterarie. 17 Il Potere del mito, Joseph Campbell, Guanda Editore 2004. 34 Se il problema della chiusura di Gestalten Inconcluse è relativamente semplice, altrettanto non lo è l’apertura di nuove. La funzione orientativa della mitopoiesi18 non è quella del raggiungimento di mete mitologiche, poiché le mete sono paragonabili a un punto di tendenza (metafora della stella polare), ad un punto fisso senza il quale è impossibile orientarsi. Senza spiegare svela a chi ascolta l’importanza di prendere le proprie decisioni. Come le metafore i miti costituiscono una rete di viabilità dove la persona può scegliere la direzione e la strada che vuole percorrere, come una carta geografica dell’anima che amplifica le possibilità di movimento nell’arco della vita. Una metafora suggerisce un’idea di potenzialità, qualcosa che è nascosto dietro a ciò che è visibile. La psicoterapia accompagna il viaggiatore, gli mostra i suoi inciampi richiamandolo alla responsabilità nei confronti dei suoi bisogni e dei suoi desideri. Spesso le persone rinunciano ai propri sogni perché costano troppo: l’aiuto è nell’aiutare a dare forme al comportamento che non siano al di fuori della portata delle loro possibilità ed anche ad operare sacrifici narcisistici accettabili e vantaggiosi. Ci sono varie possibilità e ognuna ci offre degli spunti per lavorare, per riconoscere ciò che è ed utilizzare l’esperienza mito come un mezzo di trasporto che ci consenta di esplorare altre possibilità, anziché esserne inghiottiti. Anche Hillman19 propone l’idea che nella nostra epoca il motivo per andare in analisi non è per essere amati, curati o per il “conosci te stesso”, ma per ricevere una storia clinica, trovare se stessi nel mito: nei miti dove gli Dei e gli uomini s’incontrano… In Aristotele le trame sono miti, ed è nei miti che vanno trovate le risposte basilari del perché di una storia. Ma un mythos è più di una teoria e più di una trama: è la fiaba dell’interagire dell’umano e del divino. Il fondamento poetico della mente ci dice che la logica selettiva che opera nelle trame delle nostre vite è la logica del mythos, è mitologia. Tutte le storie cliniche, da chiunque siano state scritte, hanno un unico e identico leitmotiv: il personaggio principale inizia la terapia. La terapia può apparire come l’epilogo oppure può essere l’inizio della storia. Quindi il romanzo terapeutico è la storia di una persona che 18 19 Attitudine dell'uomo ad elaborare e creare miti. Le storie che curano, J.Hilmann, Raffaello Cortina Editore, 1984. 35 giunge in terapia, ed è più spesso la storia della terapia che non quella della persona. I miti, le fiabe e i racconti sono anche in stretto rapporto con le fasi della vita, con le cerimonie di iniziazione attraverso le quali si passa dallo status di adolescente a quello di adulto responsabile, dal celibato al matrimonio. Tutti questi rituali hanno a che vedere col mito; alludono al riconoscimento e/o alla scelta di un nuovo ruolo in cui ci si può trovare, al processo in cui si elimina ciò che è vecchio perché è disfunzionale nel presente, per lasciare spazio al nuovo, accettando anche la responsabilità che deriva dall’esercizio di una nuova professione. 20 “Intendo che il linguaggio che non è fatto di parole ma di azioni che rimandano alla dimensione del trascendente racchiuso nelle azioni compiute qui ed ora, in modo tale che tu ti senta sempre in accordo con l’essere universale… I miti mi parlano perché riescono ad esprimere ciò che dentro di me sento essere vero” Ci sono due tipi di eroe, quello che sceglie di intraprendere un viaggio e quello che non lo sceglie. Nel primo tipo di avventura, l’eroe si assume la responsabilità e sceglie intenzionalmente di compiere l’impresa. Per Claudio Naranjo i miti possono essere compresi come antichi racconti didattici sopravvissuti agli insegnamenti originali e alla saggezza di vita nella qual erano concepiti. Le fiabe Le fiabe hanno il magico potere di porci dinanzi a noi stessi, alla “nostra storia” personale, portando alla luce emozioni, bisogni, condizionamenti che influenzano - a volte del tutto inconsapevolmente - la nostra vita. Differenza tra fiaba e favola: la fiaba è in prosa, ha come protagonista solitamente l’uomo, nelle cui vicende intervengono spiriti benefici o malefici, demoni, streghe, fate, ecc.; ha un maggiore sviluppo narrativo ed un carattere più dichiaratamente fantastico; non 20 Il Potere del mito, Joseph Campbell, Guanda Editore 2004. 36 ha necessariamente fine morale e pedagogico, ha origine popolare, e si tramanda e sviluppa per tradizione oralmente, nonostante col Romanticismo i letterati si siano rivolti al mondo delle fiabe per raccoglierle, o per inventarle ex novo. Le fiabe presentano tipici motivi mitologici: il protagonista si trova in una situazione davvero difficile e sente una voce o avverte una presenza che gli viene in aiuto. La lettura delle fiabe in chiave etnologica di Propp collega la fiaba agli antichi riti d’iniziazione. I racconti avrebbero sostituito gli antichi riti d’iniziazione e i riti di passaggio delle civiltà preistoriche. In base a questa interpretazione Cappuccetto Rosso rappresenta l’iniziazione alla vita adulta; la foresta è il luogo di passaggio; il lupo l’inghiottimento simbolico e la reale permanenza all’interno dell’animale totem; la rinascita e il ritorno nel mondo rappresentano il suo ingresso nella vita adulta. Le fiabe come i miti sono legate a rituali di passaggio o a fasi della vita. Una ragazza che deve diventare donna ed è recalcitrante rispetto a questo momento di trasformazione. La lettura in chiave storico-ideologica di Dartnton sottolinea che la fiaba rispecchia i momenti storici e i confini politici tra le classi sociali; è quello che Dartnton sostiene storicizzando le fiabe e inserendole nel loro contesto storico-politico. Utilizzando questa chiave di lettura Cappuccetto rosso e la nonna si trovano a essere divorate senza aver fatto nulla di male; e ciò non sconvolge quegli uditori abituati a subire ogni genere di sopruso dai potenti locali, che non ricevono nessuna spiegazione né tantomeno hanno il diritto di chiederla. Questa interpretazione si adatta a tutte le fiabe medioevali, e può aver ispirato un autore come Dallari nella stesura di Cenerentola, Biancaneve, Il gatto con gli stivali. La messa in discussione di una Cenerentola passiva di fronte al suo destino proviene dalla critica femminista, secondo cui le sorellastre e la matrigna, desiderose di emancipazione e scelte mondane, sono contrapposte ad una Cenerentola noiosa ed assillata dalle pulizie, nevrotica ma devota al suo dovere, che non mette in discussione per nessun motivo. Queste controfiabe non hanno avuto molto successo perché dissacrano pilastri culturali intoccabili da secoli. Il tentativo di ribaltare in modo provocatorio qualche elemento della fiaba classica, e di rielaborarla in maniera ironica dinamicizzando un’impostazione statica e 37 immobilistica, non hanno trovato riscontro. L’atteggiamento di rifiuto, da parte di insegnanti e genitori, non riguardava l’ideologia, ma lo strumento utilizzato. Nella lettura mitologica la fiaba viene collegata ai fenomeni naturali, all’alternarsi del giorno e della notte e delle stagioni, ai rituali degli antichi miti relativi ai conflitti fra gli uomini ed alla spiegazione dell’origine del mondo. Secondo questa lettura in Cappuccetto Rosso la luce del giorno (il sole rosso) è inghiottita dalla notte (il ventre del lupo) per rinascere a nuova vita quando il cacciatore la libera. Secondo gli psicanalisti la fiaba è espressione di una precisa struttura psichica profonda, per lo più inconscia, di valore universale. La fiaba, i lapsus, i sogni sono valvole attraverso le quali l’inconscio comunica e porta alla luce i problemi rimossi. Nella chiave psicanalitica della scuola freudiana, Cappuccetto Rosso rappresenta l’incontro della preadolescente con la sessualità adulta. Il rosso del cappuccio rappresenta la prima mestruazione; le raccomandazioni e i divieti della mamma i pericoli della sessualità; la trasgressione di Cappuccetto Rosso il tentativo di eliminare la madre come rivale sessuale; il lupo la parte maschile seduttiva e distruttiva contro il cacciatore, figura paterna responsabile, forte e salvatrice. L’inghiottimento della fanciulla rappresenta l’incontro sessuale, e la sua espulsione, tramite l’apertura della pancia, il parto, la nuova nascita di un livello di raggiunta maturità. Campbell sostiene che la fiaba è il mito del bambino e che ogni fase della vita ha i suoi miti. Quando si cresce si ha bisogno di una mitologia più solida. Io non sono d’accordo con questa idea evolutiva e lineare del mito e della fiaba nella nostra personale esperienza. Il punto è se il paziente ne è consapevole o meno. Perché in tal caso può scegliere. Scoprire il copione che racchiude le credenze e le azioni fondamentali della nostra esistenza fino a questo momento. La vecchia storia ci ha sostenuti, anche in modo disfunzionale e incongruente fino ad ora, ha dato forma alle nostre emozioni, a volte ci ha consacrati alla sofferenza. Ora la vecchia storia non funziona e non ne abbiamo ancora imparata un’altra. Questo mi sembra essere il compito del terapeuta: aiutare i pazienti nel riconoscimento del mito che li ha 38 sostenuti (posseduti direi) fino ad ora e nella scelta di un nuovo orientamento, che non dev’essere definitivo ma funzionale ad uno spostamento, ad un movimento esistenziale che posa far sperimentare il nuovo, altra possibilità. Paolo Quattrini sostiene che il mito non è qualcosa da raggiungere, va inseguito non perseguito. Per come l’ho inteso è iniziare a giocare ad un gioco diverso, faticoso perché richiede coraggio e come dicevo un sacrificio narcisistico molto forte, che si tratti di Cenerentola o di Persefone, di una fiaba o di mitologia. Sassanelli21 spiega come il mito e la fiaba (ed anche la metafora) hanno un ruolo importante nel ristrutturare il sé coesivo. Esse creano uno spazio transpersonale dove poter mettere ad esempio le proprie ansie che poste in questo spazio cessano di essere così individuali e incomprensibili. Molte problematiche prima di essere elaborate, hanno bisogno di strutturarsi in uno spazio (che struttura anziché contenere) o luogo né interno né esterno, che condiviso dall’altro si pone come elemento costitutivo del sé coesivo. Per la ristrutturazione del sé coesivo non sono sufficienti solo gli elementi simbolici metaforici sopra descritti ma c’è bisogno di prendere in considerazione la parte corporea o Sé corporeo. (ecco perché i pazienti a volte hanno richieste più fisiche, chiedono di accarezzare o toccare l’analista o essere toccati) In Kohut infatti ogni volta che il se coesivo viene specificato compaiono riferimenti corporei, per lui “i nuclei del sé corporeo e del sé psichico si fondono e formano un’unità sovraordinata”, l’esperienza corporea è fondamentale nella costruzione del se coesivo. “Un paziente definì l’analisi come un bagno caldo, paragone che indica come la regolazione termica data da un bagno caldo, ha l’effetto di ripristinare l’equilibrio narcisistico e di aumentare il senso di coesione del sé corporeo”. Per corpo si intendono tutte le esperienze tattili, visive e uditive. La fiaba ed il mito assolvono la funzione di purificare l’animo dalle emozioni, far salire alla ribalta la memoria, determinando nell’individuo una presa di coscienza delle proprie inquietudini e spesso consentendo di risolverle. Nel mondo greco - classico questa funzione era assolta dalla tragedia cosiddetta catartica (da katarsi= 21 Le basi narcisistiche di personalità, Giorgio Sassanelli. 39 purificazione), in quanto generatrice nello spettatore di impressioni vive, e capace di far affiorare gli stati interiori dell’uomo. Lo studio della fiaba: Jung e fenomenologia Già nelle opere di Platone le vecchie raccontavano ai bambini storie chiamate “mythoi”, connesse fin d’allora all’educazione dei bambini. Secondo Wilheim Schmidt, alcuni temi fiabeschi sono inalterati e risalgono al 25000 a.c.. Le teorie sull’originalità, sull’origine delle fiabe e del perché siano così ricorrenti sono le più svariate. Una delle più interessanti che non punta a valorizzare un paese a discapito di una altro è di Adolf Sebastian. Ipotizza che tutti i temi mitologici fondamentali sarebbero i “pensieri elementari dell’umanità” e suppone che l’umanità avesse una riserva di questi Elementargedanken, che non si diffondono, ma al contrario, sono innati in ogni individuo. L’idea è vicina a quella archetipica di Jung, ma io la rassomiglio maggiormente alla concezione fenomenologica poiché secondo Bastian un pensiero elementare non lo si può vedere o evincere, ma la sua esistenza è testimoniata dal suo esistere e manifestarsi nei pensieri nazionali e nei loro miti. Marie Louise Von Franz22 riporta che si è affermato che il mito è la storia degli dei e le fiabe quelle degli esseri umani, e che i personaggi e gli eroi di una fiaba sono gente comune, mentre i miti sono Dei o Semidei. Pur essendo vera, questa affermazione ha ben poca utilità secondo la psicoanalista Junghiana. In alcune versioni di Rosaspina i suoi due bambini sono chiamati Sole e Luna (la madre di Sole e Luna non è un essere comune), quindi potrebbe trattarsi non di una fiaba ma di una mitica allegoria. I miti e le fiabe si differenziano per via delle caratteristiche spesso più umane e “comuni” dei protagonisti nel caso della fiaba (i personaggi non hanno un nome: Cenerentola per la cenere, Rosaspina perché punta da una spina, Cappuccetto Rosso per il vestito) e per il finale, quasi sempre tragico nel mito (laddove nelle fiabe, anche se molte sono state rivisitate nel ‘800, il finale è quasi sempre lieto). Nel mito e nella fiaba i personaggi sono poco definiti e schematici; Lévi Bruhl li chiamava rappresentazioni collettive. Poiché i temi delle fiabe emigrano, non si possono collegare con una determinata coscienza 22 Il femminile nella fiaba, M.L. Von Franz, Bollati Boringhieri, 1983. 40 collettiva nazionale se non quando si tratta di una precisa versione locale. L’esempio che lei porta è quello di una persona che abbia esperienza di una figura che rappresenti tutte le caratteristiche di una dea Madre ma faccia stravaganze sessuali simili a quelle di Baubo23 nel mito di Demetra. Una persona cresciuta nel cattolicesimo non potrà mai assimilare questa figura alla Vergine Maria, si limiterà forse a chiamarla “madre”. In sostanza per la Von Franz le fiabe esprimono contenuti “inconsci per i quali la mentalità collettiva non possiede un linguaggio”. E’ concorde col dire che una fiaba (ad esempio Rosaspina) è stupefacente che possa sopravvivere molti secoli invariata. Ciò si spiega col fatto che riflette una struttura psicologica umana basilare e quindi universale. Nella loro varietà le fiabe offrono un’immagine generale delle differenti fasi dell’esperienza, talvolta soffermandosi su un solo aspetto, a volte fra dicotomie di aspetti (anima-animus), (padremadre), che agiscono sullo sfondo. Non esiste differenza di valore negli archetipi perché ognuno è nella sua essenza un solo aspetto e rappresenta al tempo stesso al totalità di esso. Un elemento in comune con l’approccio gestaltico della scrittrice e terapeuta junghiana è la visione miti e delle fiabe sopra descritta ed anche il fatto che l’approccio junghiano consente maggior libertà di movimento perché non ha categorie già preordinate e fisse (la libido e lo sviluppo sessuale), e lascia che la fiaba parli autonomamente.. Un elemento di differenza è la parola interpretazione che viene più volte ripetuta che non attiene nella alla nostra teoria né alla prassi. “Il significato della fiaba è diverso per ciascuna persona, e diverso per la stessa persona in momenti differenti della sua vita. Il bambino trae un significato diverso della stessa fiaba a seconda dei suoi interessi e bisogni del momento. Quando gliene viene data l’occasione, egli ritorna alla stessa storia quando è pronto a elaborare vecchi significati, o a sostituirli con significati nuovi”( B. Betelheim, 2004). 23 “ventre” 41 Vittima e Persecutore “Non ci sarebbero vittime se non ci fossero aggressori, e non ci sono aggressori senza vittime. E’ sempre stato così. Anche negli antichi miti incontriamo questo modello”24. Fritz Perls25 parla di falsificazione dell’esistenza: uno dei fenomeni più importanti e interessanti di tutta la psicopatologia: l’autoregolazione organismica contro l’automanipolazione. L’interferenza avviene in due modi tipici: bastone e ipnosi. In riferimento al bastone si tratta del gioco dell’ autotortura, il gioco vittima-persecutore, top dog-underdog. Il persecutore manipola facendo il saccente e autoritario e va avanti a colpi di dovresti, fa richieste impossibili, perfezionistiche…l’ideale non viene mai rivelato ma è qualcosa di impossibile, di irraggiungibile, una scusa per controllare e far schioccare la frusta…Se non fai ciò che dice partono minacce di catastrofi. La vittima manipola giustificandosi, scusando, adulando, frignando e…rimandando… “domani, hai ragione, faccio del mio meglio, ci ho provato in tutti i modi, mi sono dimenticato” ecc. non ha potere ma è furba, e in genere ha la meglio sul persecutore, che è meno primitivo della vittima, e il conflitto non si conclude mai perché entrambi combattono per la salvarsi la vita. Nel libro “Comunicazione affettiva e contatto umano”26, si parla di comunicazione disonesta ed onesta. Rispetto alla prima è chiaro che ognuno di noi è un po’ nevrotico,copre dolori, paure ed emozioni represse che di fatto sono delle falsificazioni di cui per altro spesso non siamo nemmeno consapevoli e finiamo per mentire o fingere (comunicazione onesta e disonesta). Ma quando e perché abbiamo sviluppato questa inveterata abilità a mentire in modo consapevole o inconsapevole? Per accaparrarci un vantaggio di vario tipo abbiamo imparato a manipolare l’altro, ad accaparrarci qualcosa senza volerne pagare il prezzo! Come lo facciamo? Con la comunicazione indiretta e con i ruoli di comportamento nevrotici. 24 Abbandonare il Ruolo di vittima, Vivere la propria vita, Verena Kast, 2002. Fritz Perls, La terapia Gestaltica Parola per Parola. 26 Baiocchi, P., Toneguzzi, D., a cura di. 25 42 Nel caso dei ruoli di comportamento nevrotici gli autori fanno riferimento al triangolo drammatico di Karpman, definito come lo spazio in cui si manifesta quella che noi abbiamo chiamato disonestà nella comunicazione, in questo triangolo abbiamo 3 ruoli fondamentali che si alimentano reciprocamente: persecutore, vittima, salvatore. Sono ruoli universali tramite cui giochiamo i nostri ruoli nevrotici per manipolare gli altri. La Vittima: non ama le responsabilità, tende a cercare qualcuno a cui dare la colpa, l’altro, il passato, l’inconscio, il carattere ecc ecc. La vittima lavora su due fronti: la sua forza è nascosta accuratamente e prende potere sugli altri mostrandosi debole e sofferente e instillando il senso di colpa nel persecutore. Ed attiva un salvatore che la aiuti facendolo sentire utile e di vitale importanza. Il Persecutore: prende potere sugli altri con la forza, la minaccia e l’aggressività. Questi tipi hanno sempre una giusta causa, un diritto acquisito a diventare aggressivi, quando non violenti usano l’intimidazione più che per portare giustizia nel mondo, per crearsi una corte di persone da dominare e usare; sarcasmo, critica, giudizi forti sono le sue armi…se il gioco gli riesce l’altro entra in uno stato di confusione e si spaventa finendo per fare quello che il persecutore gli ordina. In realtà criticando, essendo aggressivo e offendendo, agisce quei comportamenti che rimprovera agli altri e dai quali dice di difendersi. Quindi finché aggredisce continuerà a creare intorno a sé quelle situazioni che dice di combattere. Il Salvatore: aiuta tutti, non ha mai tempo per sé, soddisfa i bisogni di tutti…insomma si preoccupa di tutti, aiuta anche quando gli altri potrebbero fare da soli. Quindi il salvatore aiuta la vittima, ma così facendo le permette di continuare a restare vittima, assumendosi responsabilità che non sono affatto sue. Domanda: dove sta la disonestà comunicazionale in questi ruoli? Vittima: comunica con gli altri esclusivamente attraverso la propria debolezza e il proprio dolore, nega la propria forza, professa di non avere capacità e di poter trasformare la realtà. Conseguenze di questo gioco manipolativo: anche se arrivassero 10.000 John Wayne continua ad essere debole e insoddisfatta, non sviluppa la propria forza interiore, perché se un altro continua a fare 43 esercizi ginnici per nostro conto i nostri muscoli non possono svilupparsi. E non divenendo forte perde la sua dignità: finge di non essere mai forte Persecutore: le persone arroganti, che criticano e aggrediscono sono spesso le persone che hanno più paura di essere ferite interiormente, e che probabilmente sono state più ferite e umiliate. Probabilmente hanno reagito alle ferite e all’umiliazione con “se divento forte questo non mi succederà più” e quindi costringono gli altri a fare ciò che vogliono, li dominano, nascondendosi sotto le spoglie di padrepadrone o gendarme. Di fatto anche il persecutore non risolve le sue paure, perché non entra mai in contatto con la sua vulnerabilità, quindi, al contrario della vittima, finge di non essere mai debole. Salvatore: aiuta tutti nei loro bisogni e finisce per essere il primo a non riconoscere i propri. Ha una grossa paura di essere abbandonato e non riconosciuto nei propri bisogni.. ma anche in questo caso non risolve: aiuta gli altri, ma continua a rimanere solo e i suoi bisogni restano insoddisfatti. Manipola creando legami di dipendenza, e finge di non avere mai bisogno. Proietta all’esterno i propri bisogni. Aiutare significa aiutare l’altro ad aiutarsi e non sostituirsi altrimenti l’altro continuerà ad avere bisogno di noi. Quando siamo dentro a questi ruoli stiamo comunicando in modo disonesto perché manipoliamo gli altri senza per altro risolvere i nostri problemi senza sviluppare intere parti del nostro essere, non sviluppiamo la nostra vitalità. Non c’è una regola per funzionare adeguatamente, è necessario esaminare il contesto: non possiamo prendere in esame un pesce, senza guardare anche l’acqua. La maggior parte di noi per paura si ferma in uno stato di equilibrio e compensazione dove non tutto quello che poteva essere giocato è stato giocato, o espresso, pianto, riso fino in fondo. La vittima Esprime: dolore e debolezza e nasconde: forza. Il Persecutore Esprime: forza e aggressività e nasconde: debolezza e paura. Il Salvatore Esprime: bontà e interesse e nasconde: bisogni personali e solitudine. 44 L’accento è posto sulla responsabilità individuale e sulla mancata o presente consapevolezza di svolgere questo ruoli. L’approccio è gestaltico. La relazione infatti è vista come io-esso: In psicologia si distinguono 2 tipi di rapporti: - relazione io-tu - relazione oggetto non tanto in termini di cose o persone, ma in relazione al modo in cui ci mettiamo in rapporto con l’interlocutore. Più le relazioni sono io-tu meno spazio c’è per la disonestà, infatti tutti i giochi nevrotici ci portano a considerare gli altri come oggetti. quindi il vantaggio non è solo una qualità di relazione altrimenti irraggiungibile, ma diventa possibile amare, più siamo in contatto con l’altro più la relazione è viva e vivificante. Vittima, Salvatore e Persecutore non hanno relazione soddisfacenti. Poco si sa dei persecutori, ma appare chiaro dalla descrizione del fenomeno abuso della prima parte, come spesso l’identificazione in questo tipo di ruolo tragga le sue origini dall’infanzia e dall’esposizione a maltrattamento e abuso. Nel libro di Alice Miller “La Persecuzione del bambino” l’autrice descrive l’infanzia Adolf Hitler, cresciuto in un regime totalitario con un unico e incontrastato signore, rude, il padre. La moglie e i figli sono completamente sottomessi al suo volere, ai suoi stati d’animo e devono mandar giù senza discutere e con animo grato, umiliazioni e soverchie. La madre fa la padrona dei bambini quando il padre è assente, potendosi così ripagare delle umiliazioni sofferte a scapito di quelli che sono ancor più deboli di lei, un’aguzzina, schiava anch’essa che si atteggia a dominatore. Alla notizia delle probabili origini ebraiche del padre, giunta quando Hitler si accingeva a conquistare il potere in Germania la reazione fu di far radere al suolo la casa natia del padre e la tomba della nonna dai carri armati della Wermacht. Un simile odio nei confronti del padre non può nascere in modo puramente cerebrale in un adulto, o da un atteggiamento antisemitico, per così dire “intellettuale”; un odio simile è profondamente radicato nell’oscurità delle proprie vicende infantili. “La mia pedagogia è dura. La debolezza deve essere bandita. Nelle mie cittadelle Ordine crescerà una gioventù di cui il mondo dovrà avere paura. Io voglio giovani 45 violenti, dominatori, temerari e crudeli. I giovani devono sopportare il dolore. In loro non ci dev’essere debolezza o gentilezza alcuna. Nei loro occhi deve tornare nuovamente a lampeggiare lo sguardo della belva libera e superba. Forte e bella voglio la mia gioventù (…) in questo modo potrò creare qualcosa di nuovo”. Adolf Hitler. Aver raso al suolo quella casa paterna e la tomba delle sue origini non ha cancellato l’interiorizzazione della figura paterna, né lo spostamento della debolezza sulla nonna materna ebrea come oggetto da annientare. La stessa autrice ci offre un esempio di identificazione nella vittima con la vita di Cristiane F., costellata dai maltrattamenti, dalle punizioni fisiche: “io non avevo mai odiato mio padre ma avevo solo avuto paura di lui. Ero stata anche orgogliosa di lui, perché amava le bestie e perché aveva una macchina così forte”. Cristiane apprende presto che l’amore e il riconoscimento si possono ottenere solo con la negazione dei propri bisogni, delle proprie emozioni e dei sentimenti (come odio, disgusto, repulsione), dunque al prezzo di una resa di sé. Tutti i suoi sforzi sono diretti sull’obiettivo di arrivare alla resa completa di sé, vale a dire ad essere “paracula”, termine che ritorna molto nel suo libro (nella traduzione italiana “cool”, letteralmente freddo è reso alternativamente con paraculo e stupendo). Ma se nell’hascisch c’è ancora la speranza di sentirsi libera, nell’eroina occorre fare i conti con una dipendenza totale (non voglio sentire), fino alla morte. In entrambi i casi è presente un’estrema distruttività che in Cristiane è rivolta verso il sé, in Adolf Hitler contro i nemici reali e immaginari. Distruttività come modo di scaricare odio infantile accumulato nei primi anni di vita spostandolo su altri oggetti e sul sé. Entrambi hanno subito gravi umiliazioni e maltrattamenti e sono cresciuti in un clima di efferata crudeltà. La normale aggressività dovette essere repressa nel modo più rigoroso. Nessuno dei due ebbe a disposizione nell’adolescenza una persona adulta di sostegno con cui confidarsi. Vedendo sbarrata la via della comunicazione verbale basata su un sentimento di fiducia riuscirono a comunicare soltanto tramite una messa in scena e mediante quest’ultima focalizzare su di sé la 46 massima attenzione dell’ambiente che li circonda ma alla fine a trovare la rovina. Un approccio che si avvicina a quello gestaltico rispetto al rapporto vittima persecutore è quello dell’analisi transazionale: ognuno di noi sembra seguire una sorta di copione (chiamato gioco da E.Berne) al quale sembra difficile sfuggire, nel quale si innesca una coazione a ripetere che può avere degli aspetti patologici. La convinzione sottostante è che quando emergono sentimenti e convinzioni copionali emerge una rappresentazione del sé che viene interpretata come il vero sè. “Noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo e se non la realizziamo la nostra vita è sprecata”, il copione ci impedisce di avvicinarci all’essenza. Poiché le tre modalità più comuni dei giochi sono vittima, carnefice e salvatore, dobbiamo puntare la nostra consapevolezza sul fatto che uno non può esistere senza l’altro e ci è quindi una collusione. Il gioco è ripetitivo e ogni partecipante ricopre un ruolo fisso che può essere inteso come ruolo di Vittima, Salvatore o Persecutore; queste le loro motivazioni: La vittima non si sente ok. Il salvatore si mette in moto per l’altro, ma lo svaluta. Il persecutore denigra l’altro. I giochi portano al cosiddetto pagamento, inteso come tornaconto negativo finale. Negativo perché il gioco è fondamentalmente sleale e la conclusione prevede un elemento drammatico; superficialmente il gioco è plausibile, ma quello che conta è la motivazione nascosta, la qualità ulteriore che svela come le azioni di gioco siano in realtà delle vere e proprie manovre. Da ciascun gioco deriva un incrocio transazionale ulteriore da cui scaturisce il vantaggio psicologico che è sia interno, nel senso della soddisfazione che si trae dallo svolgersi del gioco sia esterno dovuto all’evitamento di una situazione temuta che il gioco consente di allontanare. Le esperienze infantili, adulte, il carattere e la reazione individuale incidono su questo. Le esperienze adulte possono confermare quelle infantili rafforzando questi ruoli. Il copione è un tentativo di ripetere un dramma, speso suddiviso in atti, rappresentativo dei primi anni dell’infanzia. Il copione è una strategia di difesa, di sopravvivenza che il bambino adotta per mettere insieme 47 sé e l’ambiente, ma il problema è che diventa ripetitivo, limita la creatività, l’apprendimento e le esperienze. Usando una metafora è come un vestito confezionato a 10 anni che ora ci va stretto. Riconoscere e leggere il copione comporta consapevolezza e domandarsi cosa provoca il copione a livello emotivo, quali reazioni comportamentali automatiche porta con sé, se c’è interessa ad interromperlo. La consapevolezza brucia ma è il prezzo del cambiamento. C’è la possibilità di riprogettare il proprio copione e provare ad impersonarlo; questo concetto coinvolge anche il lavoro sui miti e sulle fiabe. Per Kirkegaard, la soluzione e la trasformazione arrivano, in fondo, quando la disperazione a tutti gli stadi è superata attraverso un salto di fede. In questo salto si accetta allo stesso tempo la propria debolezza e la propria forza, la mescolanza del finito e dell’infinito nell’essere umano e il comprendere che gli esseri umani devono muoversi tra gli opposti, piuttosto che identificarsi con un assoluto. 48 Vittima e persecutore nelle fiabe e nei miti: gli adulti e i bambini. « Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, L’immaginazione fila e tesse nuovi disegni ». Da “Fanny e Alexander” di Ingmar Bergman La fiaba come il mito negli adulti può essere altrettanto utile ed importante perché attraverso la fiaba, una persona adulta può provare a recuperare significati che non erano stati interamente compresi. Le fiabe creano e risolvono situazioni di paura, di inadeguatezza, di solitudine, di mancanza di autostima, sconfiggono angosce e fanno svanire conflitti e fantasmi; le fiabe trovano soluzioni miracolose per ogni sofferenza. La maggior parte di noi cela, tra i suoi segreti, la propria fiaba preferita, fiaba che è spesso paragonabile alla trama della nostra vita. La possibilità che offre la terapia è di riscrivere la propria vita secondo un altro copione, come direbbero i terapeuti dell’analisi transazionale sopraccitata. La differenza fra la vittima è il persecutore in un adulto rispetto alla vita di un bambino è che l’adulto può prendersi la responsabilità delle proprie scelte e riconoscere, pur restituendogli la sua dignità di vittima nell’infanzia e nel bambino che è stato, che ora come vittima ha fatto una scelta di ruolo, è inghiottito dal proprio mito, storia o fiaba che sia, la quale gli è in qualche modo gli è funzionale, perché come ogni sintomo, malessere o disfunzione ha dei vantaggi. Questi vantaggi risiedono nel non affrontare lo sforzo, la paura, e la responsabilità stessa. Negli abusi, di qualsiasi categoria si tratti, i bambini sono vittime e basta, non solo per il fatto che come soggetti giuridici sono sottoposti alla tutela, alle scelte, all’educazione degli adulti (a volte ne sono alla mercè) ma soprattutto perché non hanno possibilità di scegliere, non sono responsabili della propria vita e difficilmente riescono a mettere in discussione l’adulto, soprattutto quando è oggetto di immenso amore come nel caso di un genitore. 49 Bettelheim sostiene che tutti noi tendiamo a stabilire i futuri vantaggi di un’attività sulla base di quanto offre al presente. Ma questo è particolarmente vero per il bambino, che, molto più dell’adulto, vive nel presente e, benché abbia delle ansie circa il proprio futuro ha soltanto più vaghe nozioni di quelle che potrebbero essere le sue esigenze o di come potrà essere il suo domani. Le fiabe stimolano la sua immaginazione, lo aiutano a chiarire le sue emozioni, armonizzarsi con le sue ansie e aspirazioni, riconoscere appieno le sue difficoltà, e nel contempo suggeriscono soluzioni ai problemi che lo turbano. Il bambino ha bisogno di un’etica che non sia morale astratta, mediante quanto gli appare tangibilmente giusto e quindi riconoscibile nel significato e nel senso. Le fiabe si occupano di problemi umani universali, soprattutto quelli che occupano la mente del bambino e parlano al suo sé e ne incoraggiano lo sviluppo, placandone al contempo le angosce. Offrono nuove dimensioni di immaginazione che egli non potrebbe scoprire se fosse lasciato a se stesso. Sono soprattutto la forma e la struttura delle fiabe che suggeriscono al bambino immagini con le quali egli può strutturare i propri sogni e paure e con essi dare una migliore direzione alla propria vita27. Nella storia dell’umanità il bambino è sempre stato oggetto di minaccia da parte degli adulti, minacce che sono connesse al tentativo del genitore di non essere spodestato dal figlio, bloccando attraverso l’uccisione del bambino, la spinta e lo sforzo dell’adulto a maturare e negando in modo onnipotente la morte. L’abbandono, il sacrificio, il maltrattamento sono rintracciabili in ogni contesto culturale. Nei miti Crono mangia i figli, Edipo viene abbandonato dal padre con i piedi legati, Zeus rapisce il giovane fanciullo Ganimede per farne il suo amante, Medea uccide i figli. Nelle fiabe Pollicino, Hansel e Gretel, Biancaneve, Cappuccetto Rosso, enfatizzando anche l’aspetto minaccioso del materno, mostrando come la madre, oltre ad essere datrice di vita, possieda sempre un lato oscuro e distruttivo che può consegnare il figlio alla morte. Le altre fiabe enfatizzano i pericoli i cui incorrono i bambini a causa della trascuratezza o della valenza mortifera dei genitori. 27 B.Bettelheim, Il mondo incantato 50 Le storie che precedono i racconti della metà del ‘800 (è da allora che si trova nella letteratura scientifica la descrizione dei bambini abusati, uccisi o abbandonati), nei miti, nelle fiabe e nella memoria collettiva dell’umanità di sempre, le storie di abuso i bambini sono percepiti come minacciosi dagli adulti e vengono quindi minacciati28. Nella Psicoterapia della Gestalt, con la semplice lettura del mito o della fiaba, o nella sua drammatizzazione si mette in scena il mondo interiore, che implacabilmente rende evidente a noi stessi e agli altri le nostre emozioni ed il nostro modo di bloccare il naturale processo di autoregolazione organismica. Il bambino trae un significato diverso dalla stessa fiaba a seconda dei suoi interessi e del bisogno del momento; può ritornare alla stessa storia quando è pronto ad elaborare vecchi significati o sostituirli. Quale storia sia più importante per un particolare bambino a una data età dipende dai problemi che sono più pressanti per lui in quel momento. Le fiabe suggeriscono che una vita gratificante è alla portata di ciascuno nonostante le avversità ma soltanto se non si cerca di evitare le rischiose lotte senza le quali nessuno può mai raggiungere una vera identità. Va chiarito che non vengono offerte soluzioni prestabilite ma il paziente può trovare le proprie soluzioni. Secondo Fellini (1980), non bisognerebbe mai parlare dei film. Prima di tutto perché nella sua vera natura un film è indescrivibile a parole: sarebbe come pretendere di raccontare un quadro o riferire verbalmente di uno spartito musicale. Poi perché, parlandone, si scivola in una serie d'ipotesi imprigionanti vischiose che lo fissano in immagini, strutture. Almodovar, attraverso il suo film "Parla con lei", fa capire bene la differenza che scorre tra parlare di e parlare con qualcuno (o qualcosa). Stiamo riferendoci al tipo di disturbo della comunicazione che Fritz Perls, il padre fondatore della psicoterapia della Gestalt definiva “aboutism”. Riprendendo le teorizzazioni di Winnicott (1971), non si tratta di riferire verbalmente di una fiaba, ma di viverla in modo creativo, di poterne fare esperienza, come di un oggetto transizionale. Questo tipo di esperienza appartiene all'ambito della "relazionalità dell'Io" con l'ambiente e all'area del gioco, dove 28 Montecchi F. Dal Bambino Minaccioso al Bambino Minacciato. 51 nascono il simbolo e la metafora. L'intensità emotiva che impregna la percezione dipende da come e quanto l'esibizione del mondo, dal più realistico al più fantastico, si incontra con le rappresentazioni mentali del soggetto, e quanto la riproposta di un frammento di vita, dal più archetipico al più stereotipato, risponde ai suoi bisogni profondi. E’ possibile identificare una struttura ricorrente nei miti e nelle fiabe, ed anche nella storia sia nelle caratteristiche dei personaggi: La vittima non ha personalmente colpe, non viene considerata nel suo aspetto di persona, deve essere ben visibile (fisico, costumi, luoghi), resa estranea (si sfrutta la paura degli estranei) e distante, diviene oggetto di odi atavici e demonizzato con assenza di empatia; solitamente la vittima ha delle caratteristiche di diversità forti rispetto al suo persecutore (per razza, potere, ceto sociale, religione, mito delle origini), viene delegittimata, subisce una morte psicosociale. Il profittatore trae beneficio dall’esclusione altrui e ne diventa spesso un’apparente soccorritore. Di solito vi è un testimone, interno o esterno, coinvolto o indifferente. La risoluzione può derivare da un aiuto esterno o dall’attivazione delle risorse salvifiche del protagonista/vittima; l’aiuto si differenzia nelle modalità ma solitamente si tratta di vita o morte. Ciò che condiziona positivamente l’andamento della fiaba, o mito sono le norme di reciprocità all’interno di un gruppo o di una famiglia, quelle di responsabilità parentali, le capacità empatiche. Il profittatore/persecutore di solito si fa finalmente giustizia dopo essere stato vittima, non vede la vittima come persona (relazione ioesso), ma solo come nemico o esponente del nemico. Vi è un lavoro sistematico e organizzato per allontanare la vittima dal suo gruppo, che solitamente è debole nella protezione. Il persecutore ha un piacere sadico, prova disgusto per la vittima, tende all’annientamento, e vi è un’analogia con il cannibalismo (vittima = solo corpo). 52 Due fiabe, un esempio di lavoro con gli adulti ed uno con i bambini. La Fiaba di Barbablù Come è noto questa fiaba è incentrata sul divieto che un ricco e potente signore dalla inquietante barba blu rivolge alla moglie. Il divieto è relativo all'entrare in una misteriosa stanza, di cui però le viene consegnata la chiave. Approfittando di un'assenza di Barbablù, la donna varca la soglia della stanza e fa la macabra scoperta che essa è piena dei cadaveri delle sue precedenti mogli. Scoperta dal marito a causa di un'indelebile macchia di sangue rimasta sulla chiave, sta per subire la stessa sorte delle altre mogli, ma l'arrivo dei suoi fratelli la salva. Angela Carter offre nel suo libro “La camera di sangue” una modalità differente di narrazione della fiaba omonima di Perrault che consiste in una riscrittura della fiaba, pur mantenendone le funzioni narrative. Innanzitutto facendo parlare in prima persona la protagonista, modificandone lo stile narrativo. La prima evidente deviazione rispetto al testo di Perrault è data dall'introduzione di un narratore autodiegetico, che cioè è il protagonista del suo stesso racconto. La narrativa è dunque orientata secondo il suo punto di vista. Invece del narratore impersonale e onnisciente che inizia a raccontare con il consueto "c'era una volta", con cui ogni fiaba viene localizzata in un passato mitico ed assoluto, qui il racconto prende l'avvio con le seguenti parole "Ricordo come passai quella notte nel vagone letto sveglia" . In questa maniera vi è una duplice e basilare deviazione rispetto al testo di Perrault: la protagonista stessa ci racconta la sua esperienza ed il presente usato nell'atto del rimemorare e nel dare l'avvio alla narrazione crea uno iato temporale rispetto agli eventi, che sono invece narrati al passato. Vi è insomma quella scissione tipica di ogni racconto in forma autobiografica. Si tratta della scissione tra l'io narrante e l'io narrato, che inizialmente risultano separati dalla differenza d'esperienza e che poi giungono a convergere negli ultimi paragrafi del racconto contraddistinti dall'uso del presente. 53 In secondo luogo ribaltando il ruolo di vittima in colei che sceglie la trasgressione, il potere, ed è consapevole dell’ambivalenza nei confronti della violenza di lui. Vi è un mutamento di stato che la protagonista sperimenta e che viene ricordato nel momento della transizione tra due luoghi dalla pregnante valenza simbolica: Parigi, l'infanzia ed il luogo chiuso, quieto e familiare rappresentato dalla casa materna ed il nuovo, misterioso territorio a cui avrà accesso, che viene prefigurato con eccitazione e delizia, e che appartiene al marito, il Marchese. In genere, ci ricorda Bettelheim, il compito della fiabe è proprio quello di dare espressione simbolica ai riti di passaggio o iniziatici, caratterizzati dalla morte di un sé vecchio ed inadeguato per poter rinascere su un diverso e più alto piano di esistenza. E' da notare che nella descrizione del passaggio tra i due universi la protagonista lascia al treno la funzione attiva di trasportarla, treno che diviene così il correlativo oggettivo del suo desiderio, anch'esso incontrollabile potenza attiva che la spinge verso l'ignoto. Come risulta dal testo sopra citato, la sessualità ricopre un ruolo importante nell'economia del racconto. Bettelheim ritiene che già il testo originale affronti la questione della sessualità e della sua possibile componente distruttiva e che la funzione della fiaba sia proprio di agire da monito rispetto ai rischi legati al cedere alla curiosità sessuale. Infatti le mogli di Barbablù venivano da lui punite con la morte per il non aver saputo resistere alla tentazione di avvicinarsi alla stanza proibita del castello, cioè per aver commesso infedeltà nei confronti del consorte. Per ribadire con più forza la componente didattica della fiaba, Perrault stesso la conclude con un esplicito commento che è anche un consiglio morale offerto alle donne: la curiosità, malgrado tutte le attrattive, è un ben tenue piacere in confronto ai costi che porta con sé. Nel caso del racconto di Carter tale dimensione grottesca viene amplificata ed accostata al rapporto della protagonista con il proprio desiderio. Infatti si delinea un legame tra eroina ed antagonista contraddistinto dall'ambivalenza. In "The Bloody Chamber" il motivo della leggenda viene inserito in un contesto che si richiama agli stilemi del romanzo gotico, da un lato, e dell'estetica decadentistica, dall'altro. Il Marchese è un colto libertino dalle raffinate perversioni 54 sessuali, la cui ricchezza poggia su traffici illeciti, che ha scelto la giovane, di umili natali, proprio per la sua innocenza (in questo vi è un esplicito riferimento al Marchese de Sade). Delle tre precedenti mogli, sofisticate signore dell'alta società, non si ha più notizia. Lo sviluppo del racconto è relativo all'iniziazione sessuale della fanciulla che, abbandonata la sua precedente innocenza, si inoltra nel territorio oscuro della conoscenza e del desiderio. Il conflitto che contraddistingue il tono del racconto della protagonista è infatti relativo all'attrazione e repulsione che il Marchese, con la sua testa leonina, il suo volto impassibile come una maschera e non segnato dal tempo, la sua imponente figura ed il suo odore maschile di pelle e spezie, suscita in lei. Già quando la giovane indossa il collare di rubini che lui le offre come dono di nozze, e che fa pensare ad una gola tagliata, l'immagine di sé che lo specchio le rimanda è di identità con il monile: “Vidi quanto mi si adattava quella collana crudele. E per la prima volta, in quella vita innocente e reclusa che avevo vissuto, capii che in me c'era un tale potenziale di corruzione che mi sentii mancare”. Il matrimonio si configura subito come luogo di esilio e solitudine, il cui effetto di seduzione è irresistibile. Tale dimensione viene ben localizzata nell'immagine del castello che costituisce la dimora della coppia. Nel caso del racconto di Carter, il castello partecipa anch'esso della duplicità che contraddistingue tutto il testo; infatti è sia il luogo incantato delle fiabe che il contenitore degli orrori e dell'inquietudine. “Il suo castello. La solitudine fatata di quel posto; quel castello, a casa né sulla terra né sull'acqua, un luogo misterioso, anfibio, incoerente rispetto alla materialità e della terra e delle onde, melanconico come una sirena che per sempre rimane abbarbicata alla sua roccia, in attesa di un amante annegato da tempo, in un luogo lontano. Quel luogo grazioso, triste, una sirena! ”. Questa immagine liquida e rarefatta del luogo che sta per accogliere la giovane è la proiezione delle sue fantasie, dei suoi sogni, del suo immaginario fantastico nutritosi di fiabe e romantiche meditazioni sull'amore, consegnatole da tutta una tradizione culturale e letteraria. Ma il castello all'interno offre un'altra immagine: è sovrappopolato da specchi dalla contorta cornice dorata e da gigli bianchi dal profumo denso e malsano, mentre la biblioteca è piena di pesanti volumi pornografici ed osceni. E' in questo luogo che si consuma la prima 55 notte di desiderio, vissuta come una lotta corpo a corpo, ritratta dai mille specchi appesi alle pareti che moltiplicano le immagini, lotta da cui lui esce vincitore. Ma colui che infligge la pena e il dolore è anche colui che consola e protegge, che si può amare e la cui assenza ferisce: “Tesoro, piccolo amore, bimba dolcissima, ti ha forse fatto male? Gli dispiace moltissimo, così impetuoso, non è riuscito a controllarsi; vedi, lui ne è così innamorato... una dichiarazione d'amore così teatrale mi sciolse gli occhi al pianto. Mi strinsi a lui, come se solo la persona che tanto dolore mi aveva provocato potesse consolarmi per aver così patito. Per un po' mi sussurrò all'orecchio con toni che mai avevo udito prima di allora, toni sommessi e rasserenanti, come quelli del mare”. Anche la confusione narrativa di piani temporali e persone del verbo con cui la protagonista riporta le parole del Marchese nel brano sopra citato (dal passato al presente, dal resoconto in terza persona alle modalità del dialogo diretto) aiuta a percepire una delle dimensioni più interessanti del racconto: l'alternarsi continuo di fascino e repulsione da parte della protagonista nei confronti del mondo inquietante a cui lo sposo appartiene, con il carico di trasgressione, piacere e dolore che porta con sé. Più avanti infatti dirà: "Rimasi nel letto distesa, sola. E per lui provai desiderio, disgusto.". La giovane non è dunque succube delle circostanze e di una volontà più forte della sua, bensì gioca e sperimenta insieme a lui il perverso rapporto tra vittima e carnefice e le sue ambivalenze. Il Marchese, come nella fiaba di Perrault, parte e le affida le chiavi del castello, lasciandole libero accesso a tutti i suoi tesori, tranne ad una stanza, di cui però le dà la chiave. Le regole del gioco sono stabilite, insieme al suo esito. Che la giovane si inoltri nel ventre del castello, verso la stanza segreta è inevitabile: è ciò che la si spinge a fare nel momento in cui viene stabilita la proibizione. Nessuna volontà umana può sottrarsi al desiderio di trasgredire un divieto perché la proibizione rende l'oggetto precluso il fine di ogni ricerca, la sua ossessione insostenibile. Cosa cerca di scoprire nella cavità più profonda del castello, la verità sulla natura dell'uomo con cui divide l'intimità dei corpi, o una verità ancora più crudele su se stessa? Ciò che vi trova è una camera di tortura, la "camera di sangue", arredata con gli strumenti più perversi per infliggere dolore e morte, ma soprattutto vi trova una connessione con quell'amore di cui aveva già conosciuto 56 qualcosa nel letto coniugale: i cadaveri lacerati e smembrati delle sue tre precedenti mogli, di cui anche lei tra breve avrebbe condiviso la sorte. Infatti la chiave nel frattempo caduta a terra e macchiata indelebilmente di sangue è il segno della trasgressione compiuta dalla giovane che non potrà non essere punita. Il piano ordito dall'uomo si è svolto esattamente secondo la sua volontà: “Sapevo di essermi comportata esattamente come aveva desiderato lui.[...] Si era preso gioco di me spingendomi, attraverso il mio stesso tradimento, in quel buio senza fine in cui, in sua assenza, ero stata costretta a cercare l'origine, ed ora che avevo incontrato quella sua realtà segretamente sorvegliata che risaliva alla luce solo in presenza delle atrocità commesse, dovevo pagare il prezzo di ciò che avevo appreso. Il segreto della scatola di Pandora.[...] Avevo perso. Perso in quella charade di innocenza e di vizio in cui egli mi aveva coinvolta. Perso, come la vittima perde con il boia”. Il Marchese è dunque il vampiro che odia la luce del giorno, obbligato a gioire delle atrocità commesse sulle anime e i corpi di chi egli desidera, è l'essere che conosce e attraversa tutte le opache densità dell'amore. Un amore che deve distruggere per possedere, come i corpi delle donne nella stanza proibita che attestano dell'abiezione sottesa alla passione, che attestano di come tra uomo e donna il gioco dell'amore possa rivestire i colori della ferocia inusitata, della distruttività più assoluta. L'oggetto di passione può essere incorporato solo a prezzo della sua distruzione, cioè della sua perdita irrimediabile, soprattutto se l'oggetto appartiene all'altro sesso visto come minaccia da cui doversi difendere, costruzione fantasmatica che ha gli attributi di una potenza irrazionale e asimmetrica da dover schiacciare, ricordo di quella arcaica presenza materna detentrice di un potere vitale e temibile. Ma se l'oggetto è distrutto per sempre, anche l'io che nel cancellarlo pensava di rimarcare la propria differenza e di separarsi una volta per tutte, ha sancito la propria distruzione, si è tramutato in abietto disperso nelle acque dell'insignificabile. Senza che la spirale di amore e morte possa più fermarsi. La giovane, che ha accettato di sapere, tramite la abiezione del proprio sposo, qualcosa di più della propria, si ritrova nel racconto a dover portare inciso sulla propria fronte e per sempre il marchio di sangue di quella chiave che le dato accesso all'orrore della conoscenza, portandola a squarciare il velo del mistero comunitario 57 sul quale si costruisce l'amore di sé e del prossimo per intravedere l'abisso di abiezione che li sottende. Perché l'abiezione è in fondo l'altra faccia dei codici religiosi, morali e ideologici sui quali poggiano il sonno degli individui e i momenti di calma delle società. Il finale del racconto inserisce una dimensione parodica nei temi dell'orrore e della morte. La dimensione definitiva del racconto rimane infatti indecidibile, mantenendo quest'ultimo un'ambivalenza di fondo, un'oscillazione sospesa tra l'orrore e il carnevale, tra il terrore e il riso. Il finale infatti appartiene completamente alla madre dell'eroina, che arriva a cavallo armata di tutto punto nel momento cruciale in cui la figlia sta per essere decapitata e la salva uccidendo il Marchese con la sua pistola. Si tratta di una figura non prevista nel disegno di alcuna fiaba tradizionale, che di solito riserva la funzione del salvataggio a seguito di una lotta ad un uomo, ma la descrizione del suo arrivo è assolutamente identica alle descrizioni riservate all'eroe maschile. Naturalmente questa forma del legame tra madre e figlia ricorda quello che univa le mitiche figure della dea Demetra e della figlia Persefone rapita da Ade e trascinata da lui negli Inferi. Questo lavoro è stato molto utile in terapia con una mia paziente adulta, che ha subito violenza fisica e abuso psicologico dall’ex compagno. Pur senza offrirle pedissequamente il racconto della Carter ne ho utilizzato la traccia e Zora ha preso consapevolezza del proprio ruolo. Già nella lettura della fiaba originale aveva identificato nella scelta del suo uomo il suo desiderio di fuga dalla famiglia, il bisogno d’apprezzamento, la fascinazione progressiva dettata dal potere, il non ascoltare il proprio intuito ed i pericoli, l’ambivalenza fra attrazione e repulsione, il rifiuto di prestare ascolto ai fratelli che la diffidavano da quell’uomo. Giulia ha nove anni e mi è stata inviata per una valutazione diagnostica su un sospetto abuso sessuale perpetrato dal prozio del quale la bambina non ha mai parlato. Il dubbio è emerso nei genitori per via della rivelazione da parte del fratello del padre che la cuginetta avrebbe rivelato molestie a proprio danno. I sintomi di Giulia erano paura del buio, di dormire da sola, “strizzo” alla bocca. Decido di fare alcuni incontri con lei e le leggo la fiaba di Barbablù. Le chiedo cosa la colpisce di più nel racconto e lei mi dice “io sono come lei”, di 58 somigliare alla protagonista femminile perché ha molto bisogno di essere apprezzata a valorizzata. Giulia scopre che ognuno ha una cantina dove vi sono segreti o cose brutte. Le chiedo se valga la pena aprirla, e come lei avrebbe reagito al posto della protagonista… “non lo so”, mi dice. Le chiedo di immaginarlo e così Giulia mi dice soltanto che anche lei ha una cantina. Le chiedo allora di dipingere la parte della fiaba che l’ha colpita di più e Giulia, seppur esitando dipinge “la stanza della tortura”, tinta di rosso e piena di ossa, con tre cadaveri. Si permette di accompagnare il dipinto con espressioni di disgusto e le chiedo di permettersi, se le va, di amplificare i suoni, facendole alcuni esempi ricalcando i suoi suoni. Giulia si lascia andare: “bleach, che schifo, che paura”, man mano che prende confidenza con il dipinto si permette di aggiungere dettagli: “metto anche le ragnatele”. E’ la chiave è insanguinata con una porta aperta. Le chiedo quale dettaglio la colpisca di più: la porta socchiusa e la chiave insanguinata, come se, mi dirà, “ormai è troppo tardi, ma allo stesso tempo mi sento sollevata”. La seduta successiva le propongo una fantasia guidata ad occhi chiusi dal libro di Stevens, con una stanza con una porta di uscita e una di entrata dalle quali entrano ed escono immagini, pensieri, emozioni; le porte si chiudono e rimane qualcosa intrappolato. Le chiedo di aprire gli occhi e di plasmare con la creta quello che visto. Giulia non è mai contenta del proprio lavoro, ma io le sottolineo che non siamo a scuola e potrà fare quello che desidera, quello che le riesce, in un secondo tempo potremo lavorare anche sul fatto che non le piace mai ciò che fa. Così Giulia divide l’argilla in due e nomina il pezzo più piccolo arrotondato con fatica “il signor buio” e poi una ruota con i raggi “il signor sole”. Le chiedo di prendere in mano alternativamente un pezzo e l’altro e di dar loro voce. Il signor sole comincia per primo, si sente il protettore di Giulia, ed è schifato dal signor buio e vorrebbe che se ne andasse. Il signor buio è stupito, lui consente a Giulia di dormire, di sognare. Il signor sole gli crede ma non del tutto e così il signor buio replica che ciò che spaventa Giulia è il segreto che contiene, perché in se stesso sarebbe vuoto, non vi sarebbe niente di male in lui. “Forse”, dice il signor sole, “se tu mi dicessi il tuo segreto potrei aiutare Giulia”. Giulia tentenna, prende in mano il piccolo pezzo di creta del signor buio e impiega un quarto d’ora per pronunciare per intero la frase che segue: “Due anni 59 fa, con lo zio Franco, eravamo sul divano e lui mi ha baciata in bocca, con la lingua”. Trema e lascia cadere i due pezzi sul tavolo. Le chiedo se posso avvicinarmi e metterle una mano sulla spalla. Lei me lo permette, e il contatto si trasforma in un abbraccio che Giulia cerca crollando in un pianto dapprima sommesso e poi più intenso, fino a dirmi che si sente in colpa. Le spiego che cos’è un abuso senza stigmatizzarla, soltanto per spiegarle che cosa accade e quale è la disparità fra un adulto e un bambino, e che anche nel caso estremo in cui sia il bambino a chiedere attenzioni è l’adulto responsabile di dare dei confini. Mi confessa di aver chiesto un bacino sulla guancia allo zio e che ora sa che non c’era nulla di male in quella richiesta. Di certo non si aspettava una reazione del genere. Ora può esprimere tutto il suo disgusto. La paura del buio è svanita, come lo strizzo alla bocca, ma rimaneva la paura dello sguardo dei gatti quando si addormentava. Mi è venuta la fantasia che ci fosse altro, che lo zio l’avesse guardata in modo penetrante. Nelle sedute successive ormai la porta della stanza di Barbablù era stata aperta e Giulia è riuscita a raccontarmi di altri abusi, ad arrabbiarsi, a prendere la bambola con la quale mi aveva mimato la scena fra lei e lo zio e schiacciarla, picchiarla, poi su un materasso a dar pugni e calci e urli: “sei un vecchio! Sei solo un vecchio! Come hai potuto, non te lo permetterò mai più”. Tutte le tecniche citate nel paragrafo dedicato alla “Play Therapy” sono state utilizzate con Giulia e si sono impastate e mescolate insieme in modo fluido, anche se per Giulia è stato faticoso non ha detto né fatto nulla che non si sentisse pronta di dire o di fare. Ma tutto è partito dalla fiaba e nell’ultima seduta Giulia mi ha detto che la sua vanità, inizialmente declinata in modo negativo nel riconoscersi nella figura della protagonista della fiaba non era qualcosa di sbagliato ma che l’avrebbe rivolta e richiesta con maggiore prudenza. Giulia mi ha mostrato più di ogni altra che Barbablù è una storia sulle pericolose tendenze del sesso e sul suo stretto rapporto con le emozioni violente e distruttive, sugli oscuri aspetti che possono essere tenuti celati dietro una porta permanentemente chiusa, controllati. La curiosità e l’intervento (fraterno, non del Salvatore) di terzi sono spesso la chiave per perire quella porta. 60 Le varie identità di Cappuccetto Rosso29 Dopo l'accurata descrizione dello sfondo su cui si va ad innestare la narrazione, ci viene presentata una bambina mandata dalla madre a far visita alla nonna malata nel freddo dell'inverno. Nella fiaba (differente nel racconto di Perrault rispetto a quello dei fratelli Grimm) la bambina viene invitata da una voce a non lasciare il sentiero che attraversa la foresta: "Non allontanarti dal sentiero, ci sono gli orsi, il cinghiale, i lupi affamati". Come fa osservare Bettelheim, il racconto di Perrault perde molto del suo fascino perché è troppo evidente la metafora che lascia poca libertà all’immaginazione dell’ascoltatore e ci da una semplificazione morale così direttamente espressa che trasforma questa fiaba in un ammonimento di tutto. Il valore di una fiaba è distrutto per un bambino se qualcuno glie ne chiarisce dettagliatamente il significato. Per cappuccetto rosso è il fatto di non considerare il mondo esterno come “temuto” che la espone al pericolo. Una spiegazione freudiana ci offre il dilemma della bambina fra il principio del piacere e il principio di realtà. In ogni caso vi è un’immaturità emotiva per affrontare il pericolo, una famiglia ce espone al pericolo (abuso transgenerazionale) ed un pericolo reale non percepito. Di fatto molte donne che sono state abusate da bambine mi rimandano in terapia l’immagine di Cappuccetto Rosso, e così senza troppe parole utilizzo le immagini della bravissima illustratrice di fiabe per bambini Lizbet Zwerger e glie le mostro. Nel caso di Roberta, questa giovane donna si è riconosciuta nella fiaba attraverso l’illustrazione e al termine della terapia mi ha regalato la fiaba riscritta. Durante il processo sono emerse molte tematiche relative alla fiaba, come ad esempio il fatto che lei avesse scoperto che a sua volta sua madre fosse stata abusata ed anche la sorella. L’esposizione al lupo poiché l’abusante era un vicino di casa al quale la madre affidava la bambina per giocare. Il cappuccetto rosso la colpì in modo particolare perché ancor prima che io le mostrassi l’immagine mi parlava speso nelle sedute di un alone dal quale si sentiva circondata, come se attirasse su di sé l’attenzione di persone sgradevoli e invadenti, poco rispettose dei suoi confini. Non le 29 Similitudine col mito di Crono che ingoia i propri figli, i quali riemergono dal suo ventre. 61 mancava il senso di colpa per aver condiviso, talvolta a suo dire provocato questi comportamenti. “C’era una volta una bambina graziosa. Tutti la chiamavano Cappuccetto Rosso perché indossava sempre,d’estate e d’inverno, un cappuccio rosso che i suoi genitori si erano prodigati a confezionarle fin dal giorno in cui era nata. Cappuccetto Rosso viveva in un paese vicino al bosco, al di là del quale abitava la nonna prediletta. In realtà questa bambina aveva un nome, ma nessuno, nemmeno lei, aveva mai pensato di usarlo…era molto più facile riconoscerla per quel cappuccio, che a dir la verità a lei proprio non piaceva, ma essendo un regalo dei suoi genitori non aveva neanche mai pensato di non indossarlo: faceva così parte di lei che non credeva sarebbe mai esistito giorno senza che lo indossasse. Una mattina la mamma, dopo aver preparato buone ciambelle, chiamò la bambina e le disse: -ho saputo che la nonna non sta bene; vai a trovarla e portale questi dolci-. Per arrivare alla casa della nonna c’erano due strade: una che girava attorno al bosco e l’altra che lo attraversava. Cappucceto Rosso temeva il bosco perché era sempre buio anche quando splendeva il sole; ma poiché suo padre la sgridava ogni volta che mostrava paura per qualcosa quel giorno decise di prendere la strada che tagliava per il bosco, per poi raccontare ai suoi genitori quanto fosse coraggiosa. Percorse il sentiero canticchiando fino a quando non vide un’altra bambina un poco più avanti: avrà avuto più o meno la sua età, con un piccolo zainetto sulle spalle e un cane che le trotterellava attorno; la guardò per un bel po’ di tempo fino a quando questa si accorse di lei e le chiese:-ciao, come ti chiami?- Cappuccetto Rosso!Cappuccetto Rosso?!? Io voglio sapere come ti chiami veramente, non m’interessa il tuo stupido soprannome-. Cappuccetto Rosso ci pensò un po’ su; faticava a ricordarsi il proprio nome ma riuscì a ricordare e disse: - Beh, Roberta, ma tutti mi chiamano così per via di questo copri capo. tu come ti chiami?Non hai paura di stare nel bosco?-Io mi chiamo Laura e no, non ho paura di questo bosco perché sono con il mio cane che mi avvisa dei pericoli…tu piuttosto sei sciocca a girare da queste parti con un cappuccio così brillante! Lo sai che il lupo cattivo che si aggira in questo bosco potrebbe avvistarti da lontano?-. Roberta ci non aveva proprio pensato e si meravigliò di come i suoi genitori non l’avessero mai avvisata…rifletté per un po’. -Hai ragione, dovrei togliermelo ma poi avrei freddo, come posso fare?-. Allora Laura la prese per mano e le disse: -Dai, ti accompagno dalla strega buona del bosco che sicuramente potrà aiutarti-. Di lì a poco si trovarono di fronte a una casetta piena 62 di gatti,nel fitto del bosco, ma stranamente illuminata da un raggio di sole. Laura la guardò e le disse:- Siamo arrivate…entra e parla con lei, io e il mio cane ti aspettiamo qua fuori-. La strega, a differenza di come ce la si potesse immaginare, era una giovane donna molto disponibile, che ascoltato il racconto di Roberta le disse: - non temere, posso aiutarti, ma devi darmi il cappuccio. Solo se vuoi però, se tu non sei convinta i miei poteri non funzionano-. Roberta voleva evitare di essere mangiata dal lupo, voleva andare dalla nonna, voleva mangiare le ciambelle insieme alla sua nuova amica che le aveva fatto ricordare il suo nome, anche se in modo brusco…VOLEVA… e diede alla strega il proprio cappuccio rosso. La strega lo prese, pronunciò una formula magica a bassa voce e lo gettò in un pentolone fumante. Dopo uno scoppio e un turbinare di coriandoli colorati né tirò fuori una comunissima felpa blu!. – Con questa potrai stare al caldo senza attirare l’attenzione del lupo. Ricordati anche che hai un nome-. Era il più bel regalo che qualcuno potesse farle, ma lo aveva ricevuto facendo una scelta e rinunciando a qualcosa. Grata delle parole e del lavoro della strega Roberta le regalò una ciambella ed uscì. Laura ed il cucciolo la stavano aspettando:- molto meglio questa felpa, non sembri più così stupida Roberta!- e le sorrise. Anche Roberta sorrise, comprese il complimento e invitò la compagna ad andare insieme a lei dalla nonna. Attraversarono il bosco in silenzio, tenendosi per mano, e quando furono a destinazione, mangiarono le ciambelle insieme alla nonna. Roberta e Laura sono ancora amiche.” Il vero pericolo rappresentato dal lupo è che esso si nasconde tra di noi, che non è possibile tenerlo lontano, perché appartiene in qualche modo alla nostra razza umana: il licantropo è segno della presenza continua del lupo tra di noi e delle sue imprevedibili metamorfosi. Roberta ha tenuto a dirmi che ha scoperto il valore della fuga, della sua necessità di emanciparsi dai valori familiari senza rinunciarvi completamente. Francesca-Persefone/Kore. Nel lavoro in terapia con Francesca abbiamo fatto una lunga ricerca sul suo mito e tante idee sono emerse; ma è soprattutto, nella sua fuga dalla famiglia (da rapita), nel suo aderire al mito degli uomini che aveva conosciuto (compresa la fissazione per i gruppi di preghiera, i multilevel), abbandonando interessi personali e progetti per dedicarsi ai loro progetti, ai loro interessi o nel annullarsi, ecco apparire Demetra e Persefone. Sono lei e la madre. 63 Parte del nome Demetra contiene, meter, sembra significare madre. Consorte di Zeus e madre di Persefone, mentre la figlia sta cogliendo fiori su un prato con le compagne il suolo si spalanca e dalle profondità della terra esce Ade, che la porta con sé inabissandosi col suo carro dorato. La madre cerca la figlia ma si piega alla volontà di Zeus che ratifica il rapimento e la violenza…dopotutto Ade non è un genero da disdegnare, (e secondo alcune leggende è Zeus stesso ad accendersi di desiderio per la figlia Persefone diventata fanciulla e a ricongiungersi a lei come serpente e a generare Zagreus, il toro). Rifiutandosi di far crescere le messi nulla poteva crescere e nulla rinascere. Zeus cede, chiedendo tramite Mercurio ad Ade di far vedere la figlia alla madre per placarla. Ma quando Ermes prende il carro per riportare Persefone al mondo della luce Persefone ha già mangiato i chicchi del melograno che Adele ha donato (metafora della perdita della verginità); la madre si assicura con la figlia che non abbia mangiato nulla ma è troppo tardi. Da quel momento la figlia avrebbe trascorso due terzi dell’anno con lei ed un terzo con Ade come signora degli Inferi. Demetra è l’archetipo della madre ma può anche predisporre una donna alla depressione se il suo bisogno di essere nutrice venga rifiutato. Le donne con un forte archetipo Demetra sono impazienti di essere madri e la maternità è la funzione più importante della vita. Ma l’aspetto distruttivo di Demetra si esprime nel rifiuto di fornire ciò che prima offriva all’altro, può rifiutarsi di parlare ai figli per giorni, isolarli o danneggiarli psicologicamente. Vi è un ritiro dell’approvazione di cui un bambino ha molto bisogno per esprimere la propria autostima e soprattutto quando i figli diventano meno dipendenti la madre vive la crescita del figlio come una perdita affettiva. Sentendosi rifiutata e meno necessaria diventa collerica. Nel tentativo di rendersi indispensabile una donna così infantilizza gli altri: “nessuno lo sa meglio della mamma”, o esercita un controllo eccessivo “lascia che io la faccia per te”. Questo alimenta l’inadeguatezza e l’insicurezza, soprattutto nelle figlie femmine. Persefone, Proserpina o Kore era una giovane dea slanciata e bellissima. Quando si ricongiunge alla madre le confessa di essere stata costretta a mangiare i semi del melograno (cosa non vera). Se non avesse mangiato niente le sarebbe stata restituita senza condizioni. 64 A differenza delle altre dee che sono dominate da istinti potenti Persefone non avverte questa spinta. Se è il suo mito a fornire la struttura della personalità la donna non è predisposta ad agire, ma ad essere agita dagli altri, vale a dire ad avere un comportamento condiscendente e passivo. Nel suo aspetto di fanciulla fa sì che la donna sembri eternamente giovane. L’aspetto Kore di Persefone la rende inconsapevole dei propri desideri sono eterne adolescenti prive di un progetto personale. Come “bambina della mamma” Persefone vuole compiacere Demetra: “Mamma posso andare a nuotare? Sì mia adorata. Appendi gli abiti al ramo di un albero E non avvicinarti all’acqua”. Dice un filastrocca. Alimentare a dipendenza della figlia per tenersela vicina è l’incastro ingannatore, perché ha bisogno della figlia come di un’estensione di sé. Allo stesso tempo è come se qualcosa di fanciullesco permanesse in lei facendole chiedere ‘prenditi cura di me’. Come donna anima, in genere non si conosce, assume in sé la proiezione dell’immagine inconscia che l’uomo ha della donna e se ne conforma all’immagine. Inizialmente segue un modello camaleontico, “prova” qualsiasi cosa gli altri si aspettino da lei, si conforma a ciò che l’uomo vuole che lei sia: con uno fanatica del tennis, con un altro sfreccia a tutto gas sulla motocicletta,per un altro è modella da dipingere. Come regina degli inferi Persefone conosce il mondo degli strati più profondi della psiche e quando è guarita può far da guida ad altri in questo mondo sotterraneo. Nell’infanzia era una brava bambina ben vestita e compiacente, anche se le preoccupazioni della madre alimentano la sua fragilità anche fisica (Francesca è stata spesso malata), trasferendole il senso di pericolosità per il mondo che come bambina va ad esplorare. Proprio come con Ade, il rapporto con un uomo può essere il mezzo con il quale la donna Persefone si separa dalla madre dominatrice, e si innamora di qualcuno che alla madre non piace, diverso nella classe sociale e nei valori Le si potrà impedirle di vederlo ma lei scapperà per ricongiungersi a lui. 65 Come madre non si sentirà tale se non si attiva in lei la dimensione Demetra, altrimenti la nonna assumerà la guida della nipote facendo sentire la figlia inadeguata. Le trappole di Persefone : Alla domanda della madre sul melograno Persefone mente. Pur dando l’impressione di non avere alcun potere di controllo sul destino e quindi di non esserne responsabile, in realtà lo determinò. Sentendosi impotente e dipendente dagli altri impara ad ottenere ciò che vuole in via indiretta e non affronta le situazioni. Evita la collera e non vuole che ci si adiri contro di lei. In realtà Kore, la Pupilla, fu colta da Ade ed incontrando il suo sguardo il suo si incontra con quello del Dio. La Pupilla della Pupilla fu accolta da un’altra pupilla, in cui vide se stessa e quel grido che lancia nel rapimento forse non era soltanto il terrore per l’ignoto ma anche quello di un riconoscimento irreversibile. Alcuni autori insinuano che Persefone provò un funesto desiderio di essere rapita; vedendo se stessa negli occhi di Ade riconobbe nell’occhio che guarda se stesso, l’occhio di un invisibile altro, l’attimo in cui la coscienza vede se stessa, varcando la soglia di Eleusi e separandosi dalla madre. In questo mito ci sono tutti gli elementi della storia di Francesca: Il rapporto con la madre, la fuga, la madre che si ostina a cercare la figlia, il padre che nel rifiuto del genero gli somiglia (Zeus è parente di Ade, anche se Ade presiede agli inferi), come abbiamo scoperto la somiglianza nel potere occulto fra padre ed ex compagno. La scelta di un uomo che per ceto e valori non rispecchi quelli familiari (Piero era anche separato a fronte di una famiglia ipercattolica). L’invalidazione della figura femminile per procrastinare il proprio ruolo materno da parte della madre di Francesca, che tenterà anche un predominio educativo su Dafne laddove Alessandra Persefone non si è ancora attivata. Lo scarso rapporto di intima solidarietà fra i genitori di lei (Zeus non ascolta Demetra se non quando rifiuta di svolgere le funzioni nutritive- crescita delle messi). Tutta la personalità di Francesca è permeata da Persefone, dalla storia della sua infanzia alla scelta di un Edipo relitto (uomo simile al padre) che la porterà a seguire le stesse sorti della madre ma senza sentirne profondamente i valori e quindi a non goderne i vantaggi. Rispetto alla figlia Francesca riconosce Dafne. 66 Nelle Metamorfosi di Ovidio è ben descritto il destino della figlia: “Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore vuol sentire e, come vergine Diana, gode della penombra dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata (…) molti la chiedono ma lei respinge i pretendenti, e decisa a non subire un marito vaga nel folto dei boschi indifferente a cosa siano le nozze, amore e amplessi. Il padre le ripete:-figliola mi devi un genero; le ripetebambina, mi devi dei nipoti ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale, il bel volto soffuso da un rossore di vergogna si aggrappa al collo del padre)”. Sappiamo che Dafne fugge e che Febo la costringe a trasformarsi in Alloro ed anche sotto queste sembianze la fa sua. Francesca ha trovato un nuovo mito da cavalcare, quello del personaggio letterario di Modesta, del romanzo “l’Arte della Gioia”, di Goliarda Sapienza, che seppur abusata fa salute e ricchezza della propria vita e riesce a realizzarsi. Spunti di lavoro sulle fiabe e sui miti nei casi di abuso e maltrattamento: Hansel e Gretel sono vittime di abbandono, trascuratezza e incuria. Portano con sé le tematiche dell’angoscia dell’abbandono da parte di genitori non nutrivi. La casetta di marzapane con la sua bellezza è la metafora di come il rischio sia spesso mascherato e a volte bypassato dal bisogno di nutrimento del fanciullo. Spesso i bambini vittime di abuso o di maltrattamento sentono la colpa di aver mangiato il tetto di quella casetta, o di essersi abbeverati ad un lago amaro soltanto perché avevano sete. Lo sviluppo dell’alleanza e la scoperta delle proprie risorse personali offrono la soluzione per i due protagonisti che grazie a questo ereditano il tesoro, solo dopo aver bruciato la strega nel forno, come in ogni rituale che si rispetti. Cenerentola affronta il tema del bisogno di dipendenza, del desiderio che gli altri si prendano cura di noi incarnato in un insieme di atteggiamenti acquiescenti e di paure che mantiene le donne e le bambine in una sorta di penombra (fatta di maltrattamento psicologico e di incuria) che impedisce loro di usare fino in fondo la loro creatività per diventare autonome. Allo stesso tempo ci parla della natura rovinosa della gelosia edipica. 67 Mantello Grigio o La Bella e la Bestia affronta il tema di un padre che per salvare se stesso promette la figlia minore al mostro. La bestia o il grigio fanno riferimento all’ambiguità o all’oscurità. Il tema è quello del rapporto incestuoso padre-figlia. Nelle fiabe che ci parlano della paura la paura può essere superata solo rimanendo in contatto con tutti gli aspetti del maschile. E’ importante bruciare il mantello o la pelle dell’animale al momento opportuno poiché l’incontro prematuro con un segreto incute un timore che ci riporta alle difese bloccando il processo, e nell’incontro tardivo il timore affrontato in ritardo può bloccare la trasformazione. Il Brutto Anatroccolo ci parla del tema dell’abbandono, della deprivazione, della non appartenenza se non genetica alla propria famiglia; lo svilimento della propria immagine, delle proprie qualità (maltrattamento, incuria, abbandono, abuso psicologico). La Piccola Fiammiferaia ci parla del tema dell’incuria, che impoverisce qualsiasi possibilità creativa. La bambina è in una situazione psichica e fisica che le consente poche scelte e il rischio che la porta alla morte è quello del rifugio nel congelamento, rappresentato dall’anestesia del rifugio nella fantasia. La fantasia può essere una fonte di piacere, un’immaginazione intenzionale come un veicolo che ci porta all’azione, oppure come nel caso della piccola fiammiferaia uno stop che ostacola alla giusta azione nei momenti critici; quest’ultima categoria di fantasie non ha nulla a che fare con la realtà e ci dicono che nulla può essere fatto nel presente, come una sorta di fantasia oziosa che però porta al congelamento ed alla morte. Il Mito nella letteratura: Puella vs. Amazzone30 (filone patriarcale vs. matriarcale (Quattrini, 2007). Le donne elogiate per la loro amabilità e socievolezza, compiacenza e adattabilità che preferiscono rimanere fanciulle eterne. “Casa di Bambola” di Ibsen offre un esempio molto chiaro di questo tipo di mito-archetipo. 30 Leonard, L.S. 1985, La donna ferita, modelli e archetipi dei rapporti padre-figlia. 68 Attraverso la liberazione dal marito e dal padre la decisione è di avventurarsi nel mondo e smettere di essere un oggetto. Nora riesce a capire che non basta esistere i funzione dei desideri e delle proiezioni del marito e che bisogna cercarsi veramente. “Lo zoo di vetro” di Tennesee Williams ne offre un altro esempio: Laura è stata abbandonata dal padre e vive in un mondo d’animaletti di vetro lasciati dal padre. Attraverso la conoscenza di Jim il suo animale preferito è sbalzato e si rompe. Il salto che Laura opera nella sua vita è rappresentato da quell’atto di fede (Kirkegaard) che le richiede di rischiare ed avere fiducia, di riconoscere che l’animale è morto Un’identificazione inconscia con il maschile, soprattutto se il maschile è stato negligente, irresponsabile, trascurante, abusante è tipica dell’Amazzone. Apparentemente lo rifiuta perché lo ha vissuto come poco affidabile ma la tendenza è l’identificazione con lui. Invece di integrare quegli aspetti che potrebbero renderla più forte come donna si identifica con l’aspetto del potere del maschile. La corazza le impedisce l’accesso ai suoi istinti femminili. Nella “Campana di Vetro” Sylvia Platt illustra questo tipo d’esistenza. Esther, la protagonista ottiene nel lavoro ciò che il padre non ha raggiunto, sviluppa un umorismo cinico come modo per difendersi dal fatto che si sente sola e dal fatto che i suoi rapporti con gli uomini sono ‘oggettivizzati’. Dietro questo c’è però una paura di essere respinta: “se non ti aspetti niente da nessuno non sarai delusa”. Una buona relazione terapeutica con una donna nella quale troverà quello che non aveva ricevuto dalla madre (affetto e comprensione) troverà il coraggio di affermarsi nel mondo piena di punti interrogativi. Turandot è il prototipo dell’Amazzone Corazzata: per vendicare i soprusi commessi dagli uomini verso tutte le donne che l’hanno preceduta, vive in realtà sola e segregata nel palazzo reale di Pechino con il vecchio padre, condannando ogni pretendente che si presenti a tre impossibili indovinelli che conducono inevitabilmente alla morte. E’ del tutto irrazionale e paradossale che per punire il maschile vi si identifichi vivendo simbioticamente protetta con il padre. La vita è una continua 69 battaglia da vincere piuttosto che un insieme di momenti di cui godere. La scelta di credere nell’amore di Calaf avviene soltanto quando un’altra donna, Liù, le insegna l’abnegazione e il sacrificio estremo della propria vita per amore. E’ in quel momento che qualcosa si scioglie nella principessa di gelo. Rassegna mitologica e spunti di lavoro: Urano seppelliva i figli appena nati, procreati con Gea, nel corpo di lei. Crono, che evirò Urano sostituendosi a lui, si accoppiò con la sorella Rea e a sua volta cercò di eliminare i suoi figli, inghiottendoli appena nati per timore che lo spodestassero. Le dee non potevano possedere nulla, poiché la natura della religione greca era patriarcale. Zeus e Leto generarono Artemide e Apollo. Zeus e Metis generarono Atena. Zeus e Demetra generarono Persefone. Zeus e Maia generarono Ermes. Zeus ed Era generarono Efesto ed Ares. Zeus e Semele generarono Dioniso. Quando Zeus vuole calcare la terra, la sua manifestazione frequente è lo stupro. E’ questo il segno della sopraffazione divina, della residua capacità, da parte degli dei lontani, di invadere la mente e il corpo mortali. Lo stupro è un possesso che è una possessione. Caduta la familiarità conviviale col divino, e anche affievolito il contatto cerimoniale del sacrificio, l’anima rimane esposta al vento di violenza, ad una persecuzione amorosa, ad un pungolo ossessivo. Alcuni esempi: - il ratto della principessa Fenicia Europa, assumendo le sembianze di un toro bianco. - Il ratto di Io, figlia del Dio fluviale Inaco, poi punita dalla moglie Era che la trasformò in mucca. - Il suo palesarsi sotto forma di cigno a Leda, regina di Sparta, dalla quale ebbe Castore e Polluce. Artemide aiuta nel travaglio la madre a partorire anche Apollo, corre in soccorso della madre che sta per essere violentata da un gigante. Chiede al padre la castità eterna, ed arco e frecce per essere libera di correre nei boschi. Spietata con coloro che la offendevano fino a 70 vendicarsi. Sorellanza e fratellanza come doti. Spietatezza, inacessibilità e disprezzo per la vulnerabilità punti deboli. La verginità perenne chiede Artemide, come segno invincibile del distacco, perché la copula, mixis, è la mescolanza col mondo. Vergine è il segno isolato e sovrano. Il suo correlato, quando il divino cerca di toccare il mondo, è lo stupro. Nella figura del ratto si fissa il rapporto canonico del divino col mondo maturato e bollito dai sacrifici: ora il contatto è ammesso, ma non è più nella mensa comune, è l’invasione rapida e ossessiva che recide il fiore della mente. Ma è nota la vendicatività delle dee non solo in Artemide ed Atena. Leto, offesa da Niobe e Anione, si vendicò facendo trafiggere dai propri figli, Apollo e Artemide, tutta la prole della coppia. Apollo ha un inclinazione incestuosa verso la sorella e la spinge ad uccidere con l’inganno un suo amante. Come figlio di Zeus, insieme a Dioniso, nemici ma amici nella possessione, anch’egli perseguiterà ninfe ed esseri umani. Atena esce già adulta dalla bocca del padre, che ha ingoiato la madre Metis e si considera suo braccio destro, e figlia soltanto del padre. Votò per il primato maschile sulla decisione rispetto ad Oreste che si era vendicato sulla madre . Il padre uccide Pallas, la sua amica d’infanzia, non riconoscendo chi fosse la figlia e chi l’amica. Quando Atena costruì una statua e le pose la propria egida sul petto riconobbe se stessa, e forse anche la prepotenza subita dal padre. Scelse comunque di schierarsi sempre con lui e contro le donne. Uno strumento trasversale alle specifiche storie che è di grande aiuto per i miei pazienti è costituito dal libro: Risvegliare l’Eroe dentro di Noi, consigliatoci durante un lavoro sui miti da Paolo Baiocchi. E’ un libro che parla del Viaggio dell’Eroe che è i ciascuno di noi e delle qualità-figure specifiche che lo caratterizzano: la necessità di protezione del bambino interiore, lo spirito che consente di accedere ai misteri, la capacità di esprimersi nel mondo. Attraverso dodici archetipi è possibile identificarne i traguardi, le paure, le risorse, i compiti evolutivi ei doni. Queste figure sono suddivise negli stadi del viaggio secondo gli obiettivi: Nella preparazione al viaggio compaiono l’Innocente (ambiente che offra protezione e sicurezza, amore e accettazione incondizionati), 71 l’Orfano (riconoscimento della propria condizione e provare dolore), il Guerriero (mettere dei confini per lottare in modo assertivo), l’Angelo Custode (dare senza menomarsi, imparare a prendersi cura di sé cosicché la cura degli altri no sia menomante). Nel viaggio (divenire reali) compaiono Il Cercatore (esplorazione, provare cose nuove senza venir meno alla nostra essenza profonda); Il Distruttore (essere capaci di trasformare, accettazione della perdita e della morte, capacità di rinuncia); l’Amante (perseguimento della propria felicità e di ciò che si ama) e il Creatore (ispirazione e immaginazione, sapere ciò che si deve fare, si prova a creare ciò che si immagina). Nel Ritorno (il divenire liberi) compaiono Il Sovrano (assumersi la responsabilità della propria vita); Il Mago (fare esperienza della guarigione, usare la padronanza di trasformare la padronanza dell’arte di trasformare la realtà); Il Saggio (scetticismo, conquista della saggezza, conquista della verità); Il Folle (gioia e libertà come conquiste, celebrazione della vita). In-Conclusione ho notato che nella storia delle mie pazienti emergeva quasi sempre un mito, e non intendo soltanto il mito in senso stretto, ma anche nella sua accezione di fiaba, genere letterario, film. Questi miti non venivano esperiti nelle mie pazienti come qualcosa di consapevole, da cavalcare per farne esperienza di passaggio dall’uno all’altro; non vedevo in loro né la consapevolezza né la possibilità di muovere figura e sfondo in modo creativo per farne salute e ricchezza. Ne erano immerse, ripetevano “quella cosa”, che emergeva mano a mano. L’idea è stata quella di parlare dell’abuso e del maltrattamento cercando di definirli nelle varie forme che assumono, anche in modo non gestaltico. Come venga visto e declinato l’abuso dalla Gestalt e quali tecniche vengano utilizzate dal nostro orientamento è stato il passaggio successivo fino ad arrivare al rapporto vittima persecutore nelle fiabe e nei miti. Il perché il mito venga reiterato e ripetuto rientra nel concetto di Gestalt Inconclusa. Ma come collegare l’abuso in un’ottica gestaltica? Certamente in Gestalt non esiste un modo di dire “questo è”, ma si affrontano le situazioni nel qui ed ora e nella loro 72 specificità e si guarda man mano come trattarle. I vissuti sono tanti quanti le persone. Per esempio può capitare che manchi la memoria dell’abuso e che questo venga agito nel corpo a livello muscolare e o viscerale in modo evidente senza che ve ne sia un ricordo preciso, nel qual caso si può agire come si lavora con una retroflessione corporea, quando c’è un movimento, che è probabilmente un’emozione indirizzata verso un’azione c’è probabilmente un’energia che la blocca e la rivolta indietro, un “faccio a me stesso” dopo aver iniziato l’impulso che dopo diventa un boomerang; qui l’indizio e la soluzione sono già nell’azione, come certe forme di disturbi a livello della gola e dello stomaco. Nei casi di abuso sessuale e violenza assistita quello che si forma è come un’anestesia della parte, come una forma cronica di irrigidimento muscolare: l’unica difesa è il blocco, il fermarsi, il bloccarsi: non c’è figura-sfondo ma estraneazione, il fermare l’immagine. Si crea una forma di modo monotono il cui scopo è quello di non rendere più il “percepibile”. Per cui è difficile, a volte le cose vengono fuori spontaneamente a volte è bene fare presente che ci sono degli schemi corporei, lavori di consapevolezza che servono per portare alla coscienza una parte mancante, rimossa. Quest’ultima cosa si può far rientrare in un discorso più generale che è quello dello shock del trauma percepito e la risposta è sempre la paralisi: “Mi blocco”-contrazione per non sentire quello che è troppo da sopportare. Nel trauma questa cosa è riconoscibile perché la persona a fronte di uno stimolo che ricorda il trauma si blocca, può avere un blocco mentale e non trovare risorse nel pensiero. Per un momento non respira, non parla, non ha idee, è una forma di incoscienza. Il lavoro del completamento della gestalt incompiuta si svolge a vari livelli: nella drammatizzazione entrando nei fantasmi delle emozioni. Si può rappresentare una figura di protezione che può essere un alter ego o un protettore fisico e la possibilità di difendersi su chi fa l’aggressore, che deve prestarsi ad essere sconfitto, non a reiterare il trauma. Si può usare il doppiaggio, soprattutto è d’aiuto il lavoro nel gruppo. Ognuno può trovare il suo specifico modo per concludere quella Gestalt, così come nel mio lavoro personale la mia terapeuta mi ha restituito, dopo un lavoro sul sogno, l’importanza di rivolgermi ad un centro istituzionale e giuridico per restituirmi la dignità di ciò che mi era 73 accaduto. E’ importante scoprire che l’abuso ha delle fasi, e che ad ogni porta di quel corridoio oscuro è possibile uscire. La conoscenza del carattere (Enneagramma) del paziente aiuta a comprendere in quale trappola è caduto e come, ma il lavoro dovrebbe essere fatto in un primo tempo nel rinforzare la persona. Successivamente è possibile affrontare, nel caso si tratti di un adulto/a, rendersi conto, e prendersi perfino la responsabilità che essere abusati è anche essere visti, privilegiati, in una posizione di interazione rispetto ad un genitore, ad esempio. Oppure l’abuso può far leva su una strategia di compiacenza che apparentemente soddisfa l’abusato nella sua forma ablativa di essere accettato. Un’altra motivazione può essere quella di dimostrare che le persone di riferimento intorno sono inaffidabili e l’esposizione all’abuso conferma definitivamente che loro rifiutano la fiducia in quelle persone e un mezzo per emanciparsi precocemente, per competere (il mito di Persefone ne è un esempio). In questo caso il carattere può essere più seduttivo o allearsi col persecutore e quindi diventare “quella che gioca col fuoco”… L’abuso può diventare una manifestazione esteriore di autoprivazione: laddove c’è astato uno svilimento della propria essenza l’abuso è come un monito: “stai andando a bere del veleno”. Nel lavoro sul mito si apre la libertà di immaginarsi ed uno spazio dove, soprattutto nel lavoro di gruppo, viene rappresentato un rituale in cui si entra dal quale si esce trasformati. Le storie più recenti sembrano storie a stimolo terapeutico, molto simili a dei rebus che la persona deve interpretare; Propp sottolinea molto questo. La fiaba lascia un buco che va colmato e che va riempito e spesso si tende a trovare un finale che ribalti la situazione; in tal senso ha una funzione molto buona anche per i bambini; come direbbe Bettelehim le fiabe offrono la possibilità di allearsi con il buono non perché è buono ma per come è, per come fa, la differenza fra il ‘cosa’ e il ‘come’ che il bambino conosce da subito. 74 Conclusioni “ ….Lo so che state pensando tutti la stessa cosa e cioè a Julien Leclou. Avrete visto i giornali, i vostri genitori ne avranno parlato fra di loro o con voi. Domani ve ne andrete tutti in vacanza e anch’io voglio parlarvi di Julien. non è che io sappia di Julien molto più di voi, ma voglio.. voglio dirvi quello che penso.. Se è vero quanto mi hanno detto Julien sarà affidato all’assistenza pubblica e sarà mandato presso una famiglia. In qualunque posto andrà starà certamente meglio che con sua madre e sua nonna che lo trattavano male. Anzi per dirla chiaramente quelle donne lo picchiavano. Sua madre sarà privata della patria potestà, cioè non avrà più il diritto di occuparsi di lui...io credo che per Julien la vera libertà comincerà verso i 15-16 anni quando sarà libero nei suoi movimenti. Di fronte ad una storia così terribile come quella di Julien la nostra prima reazione è di paragonarci con lui. io ho avuto un’infanzia difficile, non tragica come quella di Julien, ma difficile.. e mi ricordo che ero molto impaziente di crescere perché vedevo che gli adulti hanno tutti i diritti, possono decidere della propria vita. Un adulto infelice può ricominciare la vita altrove, può ripartire da zero; un bambino infelice nemmeno lo pensa, sa di essere infelice ma non può dare un nome a questa infelicità e soprattutto dentro di lui non può neanche mettere in discussione i genitori o gli adulti che lo fanno soffrire. Un bambino infelice, un bambino martire si sente sempre colpevole ed è questo che è orribile! Fra tutte le ingiustizie che ci sono al mondo quelle che colpiscono i bambini sono le più ingiuste le più ignobili le più odiose. Il mondo non è giusto e forse non lo sarà mai, ma è necessario lottare perché vi sia giustizia. bisogna.. bisogna farlo! Le cose cambiano ma lentamente, le cose migliorano ma lentamente. Quelli che ci governano cominciano sempre i loro discorsi dicendo: "Il governo non cederà di fronte alle minacce!", invece è il contrario: cede solo alle minacce! E i cambiamenti si ottengono solo acclamandoli energicamente. Da qualche anno gli adulti hanno capito e ottengono in piazza quello che si rifiuta negli uffici. Vi dico tutto questo soltanto per dimostrarvi che gli adulti quando lo vogliono veramente possono migliorare la loro vita, migliorare il loro destino, ma in tutte queste lotte i bambini sono dimenticati. non 75 c’è nessun partito politico che si occupi veramente dei bambini, dei bambini come Julien o dei bambini come voi. Esiste una spiegazione: i bambini non sono elettori. se i bambini avessero diritto al voto voi potreste chiedere più asili nido, più assistenti sociali, più di qualsiasi cosa e la otterreste perché i deputati vorrebbero i vostri voti. Per esempio: potreste ottenere di arrivare a scuola un’ora più tardi d’inverno, invece che arrivare che è ancora notte. Volevo anche dirvi che è proprio perché ho un brutto ricordo della mia infanzia, ed è perché non mi piace come ci si occupa dei bambini che io ho scelto di fare il lavoro che faccio: cioè insegnare! La vita non è facile, è dura, ed è importante che impariate a diventar forti per poterla affrontare. oh badate, io non vi spingo a diventare dei duri, ma forti. Per uno strano equilibrio quelli che hanno avuto un’infanzia difficile sono più preparati ad affrontare la vita adulta di quelli che sono stati molto protetti o molto amati. una specie di legge di compensazione. La vita è dura ma anche bella, infatti ci teniamo molto, basta essere costretti a letto da un’influenza o per una gamba rotta per accorgerci di aver voglia di uscire, di andare a spasso. per accorgerci che la vita ci piace! Bene. fra poco partirete per le vacanze, conoscerete dei nuovi posti, della gente nuova, e quando tornerete andrete tutti in una classe superiore.. a proposito l’anno prossimo le classi saranno miste.. e poi vedrete, il tempo passa in fretta.. un giorno avrete anche voi dei bambini e io spero che li amerete. Anzi loro vi ameranno se voi lì amate, altrimenti loro rivolgeranno la loro attenzione, la loro tenerezza su altra gente o su qualcos’altro perché la vita è fatta così. non si può fare a meno di amare e di essere amati. Bene ragazzi. la scuola è finita e vi auguro buone vacanze.. Discorso finale del maestro ne “Gli Anni in Tasca” di Francois Truffaut, 1976 76 Bibliografia: Enciclopedia Garzanti di Filosofia e epistemologia, logica formale, psicologia, psicoanalisi, pedagogia, antropologia culturale, teologia, religioni, sociologia, Garzanti ed. 1988. Campbell, J., 1088 Il potere del mito, Guanda ed. Propp, V. J., 1972 Le Radici storiche dei racconti di fate, Bollati Boringhieri, 1972 Miller, A. 1087, La persecuzione del bambino, le radici della violenza, Bollati Boringhieri. Von Franz, M.L., 1983, Il femminile nella fiaba, Bollati Boringhieri. Bolen, J.S. 1991, Le dee dentro la donna, Astrolabio ed. Downing, C., 2000, Il complesso di Cenerentola, TEA Tascabili degli Editori Associati. Berne, E., 2005, A che gioco giochiamo, Tascabili Bompiani. Leonard, L.S. 1985, La donna ferita, modelli e archetipi dei rapporti padre-figlia, Astrolabio. Von Franz, M.L., 1990, Il mondo dei sogni, il simbolismo onirico nella psicologia junghiana, RED Edizioni. Pearson, C.S., 1992 Risvegliare l’eroe dentro di noi, dodici archetipi per trovare noi stessi, Astrolabio. Perls, F., 1995 L’Io, la Fame, l’Aggressività, Franco Angeli Editore. Kopp, R.R., 1998, Le metafore nel colloquio clinico, l’uso delle immagini mentali del cliente, Erikson Edizioni. Hilmann, J., 1984, Le storie che curano, Freud, Jung, Adler, Raffaello Cortina Editore. Polster, E., 1988, Ogni vita merita un romanzo, quando raccontarsi è terapia, Astrolabio. Kast, V., 1992, Le Fiabe di paura, il trauma della separazione e il rischio della simbiosi, RED Edizioni. Von Franz, M.L. 1980, Le fiabe interpretate, Bollati Boringhieri. Bettelheim, B., 2004 Il mondo incantato, uso importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Gian Giacomo Feltrinelli ed. 77 Pinkola Estés, C., 1993, Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia, Frassinelli Edizioni. Calasso, R., 1991, Le nozze di Cadmo e Armonia, , Adelphi ed. Ginger, S., 2005, Iniziazione alla Gestalt, l’arte del contatto, Edizioni Mediterranee. Kast, V., 2002, Abbandonare il ruolo di vittima, vivere la propria vita, Koinè. Quattrini, G.P. 2007, Fenomenologia dell’esperienza, Zephiro Edizioni. Luberti, R.., La violenza assistita, in biblioteca de Il Faro Truffaut, F., 1976, Gli anni in tasca. CISMAI (Coordinamento italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia), Settembre 2005, Documento sui requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamento sulle madri Bergman, I., 1982, Fanny e Alexander Naranjo C., Agosto 200 n.43 maggio-agosto 200 pag.66-80 , Racconti Popolari, Favole Didattiche e Miti, in Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria. Baiocchi, P., 2006, Il vero Edipo, articolo pubblicato sul sito del Istituto Gestalt Trieste. Dostoevskij, F., 1949, I Fratelli Karamazov, Einaudi Editore Appunti e memorie di lezione IGF I, II, III, IV anno Montecchi, F., 2005, Dal bambino minaccioso al bambino minacciato, Franco Angeli. Istituto degli Innocenti Firenze, 2006, Vite in bilico, indagine retrospettiva su maltrattamenti e abusi in età infantile, Quaderni del Centro Nazionale di Documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Baiocchi, P., Toneguzzi, D. a cura di, La comunicazione affettiva e il contatto umano, Istituto Gestalt Trieste. Polster, E., Poster, M., 1986 Terapia della Gestalt integrata, profili di teoria e pratica, ed. Giuffrè. Perls, F., Hefferline, R.F., Goodman, P., 1997, Teoria e Pratica della terapia della Gestalt, vitalità e accrescimento nella personalità umana, Astrolabio Ed. 78 Sassanelli, G., 1982, Le basi narcisistiche di personalità, Bollati Boringhieri Perls, F., 1980, La terapia Gestaltica Parola per Parola, Astrolabio ed. Cohen, A., 2002, Gestalt Therapy and Post-traumatic Stress Disorder: The potential and its (lack of) Fulfilment. Gestalt! Mariese M., 2007. The utilization of Gestalt Play Therapy in occupational therapy intervention with traumatised children. Tesi di specialità in Neuropsichiatria, South Africa. Ferreira, S. e Read, M. 2006. Gestalt Play Therapy with grieving and Traumatized Children. In: Bloom, R., The Handbook of Gestalt Play Therapy Practical Guidelines for Child Therapists. London: Jessica Kingsley Publishers. Geldard, K. & Geldard, D. 2002. Counselling Children: A Practical Introduction. Second Edition. London: SAGE Publishers. Gill, E. 2006. Helping Abused and Traumatized Children: Integrating Directive and Nondirective Approaches. New York: The Guildford Press. Landreth, G.L. 2002, Play Therapy: The Art of the Relationship. Second Edition. United Kingdom: Brunner Rutledge. Bloom, R. 2006. The Handbook of Gestalt Play Therapy. Practical Guidelines for Child Therapist. London: Jessica Kingsley Publishers. Propp, V. 1997, Le radici storiche dei racconti di magia, Newton C., Roma La Riscrittura delle fiabe, La camera di sangue di Angela Carter, Scritture/Visioni. Percorsi femminili della discorsività, a cura di Patrizia Calefato, Bari, Edizioni dal Sud, 1996 (pp. 169197) Winnicott, D.W., 1971, Gioco e Realtà. Tr.it. Armando Armando, Roma. Corti, M., 1076 Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani. Carter, A., 1984, La camera di sangue, Milano, Feltrinelli ed. 79 Perrault, C., 1860 "La barbe-bleue", in Les Contes de Perrault, de Madame D'Aulnoy, et de Madame Leprince de Beaumont, (a cura di H. Le Gai), Paris, Passard. M. Bachtin, M. 1979, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, p. 46. E. Cronan Rose, E., 1983, "Through the Looking Glass", in Fictions of Female Development, a cura di E. Abel, M. Hirsch, E. Langland, Hanover and London, University Press of New England. Magli, P., 1981, "Sotto quello sguardo", in AAVV, Strategie di manipolazione, a cura di C. Sibona, Ravenna, Longo, p. 90. Ainsworth, M. 1985, Patterns of infant mother attachment: antecedents and effects on development, in Bullettin of the New York Academy of Science, 61, p. 771-791 Chop, S.M. , 2003 Relationship Therapy with Child Victims of Sexual Abuse, Placed in Residential Care, in Child and adolescent Social Work Journal, 20(4), p. 297-301 Briere, J., 1992 Child Abuse Trauma, Thousand Oaks, Sage Publications Bowlby, J. 1988 Una Base Sicura, Raffaello Cortina. Milano Herman, J., 1992 Trauma and Recovery: the aftermath of violence, New York, Basic Books. Kepner, J.I., 1993, Body Process, Il Lavoro con il corpo in psicoterapia, a cura di Istituto di Gestalt H.C.C., Franco Angeli Editore Morpurgo, G., 1955, Le favole antiche, Notizie e Racconti di mitologia Greca e Romana, G.B.Petrini, Torino. 80 81