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la canzone dalle origini a oggi

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la canzone dalle origini a oggi
BENITO
CALONEGO
FORME METRICHE ITALIANE DALLE ORIGINI AD OGGI
LA CANZONE
INDICE
1. LA CANZONE
I - La forma classica della canzone (canzone petrarchesca)
II. Attenuazione dello stacco tra fronte e sirma
III. Rinuncia alla struttura petrarchesca
IV. Canzone a strofe libere
V. Canzone leopardiana
VI. La canzone novecentesca:mantenimento della divisione strofica
VII. La canzone novecentesca: rinuncia alla divisione strofica
VIII. Nostalgia della forma classica
2. LA CANZONE SESTINA
3. LA CANZONE CICLICA
4. LA CANZONETTA
NOTE
- Le lettere alfabetiche dello schema metrico (A, B, c, d, ...) si riferiscono alle
rime (sottolineate). In particolare, le maiuscole si riferiscono alle rime di versi
endecasillabi (cioè di 11 sillabe) o di misura superiore, le minuscole alle rime
di versi di misura inferiore all’endecasillabo. Che possono essere di 7 sillabe
(settenario), di 5 (quinario), di 3 (ternario), di 10 (decasillabo), ecc…
Al cor gentil rempaira sempre amore
come l'ausello in selva a la verdura;
nè fe' amor anti che gentii core,
nè gentil core anti ch'amor, natura:
ch'adesso con' fu 'l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
nè fu davanti 'l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propiamente
come calore in clarità di foco.
A
B
A
B
c
D
c
E
d
E
Edecasillabo
“
“
“
Settenario
Endecasillabo
Settenario
Endecasillabo
Settenario
Endecasillabo
- Oltre alle rime a tutti note, perfette (in cui la parte terminale
dell’ultima parola del verso è uguale a partire dalla vocale tonica),
possiamo avere rime quasi perfette, come le seguenti:
fiorin di noce
c’è poca luce
ma tanta pace …
fiorin dipinto
s’amava tanto
nel Quattrocento …
Rime imperfette sono le assonanze e le consonanze, abbastanza
frequenti nella poesia contemporanea.
Le assonanze, a partire dalla vocale tonica, hanno uguali solo le
vocali. Qualche esempio: noce / sole;
mare / sale ;
canzòne /
amòre
Le consonanze hanno uguali solo le consonanti. Qualche esempio:
quaglia / sveglio; dipìnto / tanto; vanto /tenta
- Le rime normalmente si trovano al termine del verso, ma possono
trovarsi anche al suo interno. Qualche esempio:
Voci del dopocorsa, di furore
Sul danno e sulla sorte.
Un malumore sfiora la città
(Vittorio Sereni)
Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone,
i fiori minm cornice (le buone cose di pessimo gusto)
(Guido
Gozzano)
1. LA CANZONE
I. Forma classica della canzone (canzone petrarchesca)
Secondo Dante la canzone è il metro più alto e nobile della poesia in
volgare, alla quale si addicono i più nobili dei versi italiani, nell’ordine
l’endecasillabo e il settenario. Solo i Siciliani usano anche versi diversi, oltre
l’endecasillabo e il settenario.
E’ composta di 5 o più stanze o strofe (che contano ciascuna da un
minimo di 12 a un massimo di 21 versi), più una stanza più breve che prende
il nome di congedo.
Ciascuna stanza presenta un identico schema di
metri e di rime e si articola in due parti distinte: fronte (a sua volta diviso
in piedi) e sirma (che a sua volta può essere divisa in volte ).
fronte
I piede
II piede
STANZA
sirma
I volta
II volta
Nella canzone che segue la fronte è composta di due piedi di due versi
ciascuno (AB,AB), mentre la sirma è composta di due volte di tre versi ciscuna
(cDc,EdE).
Schema metrico: AB , AB - cDc , EdE.
Al cor gentil rempaira sempre amore
Al cor gentil rempaira sempre amore
come l'ausello in selva a la verdura;
A
B
nè fe' amor anti che gentii core,
nè gentil core anti ch'amor, natura:
A
B
1° piede
fronte
2° piede
ch'adesso con' fu 'l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
nè fu davanti 'l sole;
c
D
c
e prende amore in gentilezza loco
così propiamente
come calore in clarità di foco.
E
d
E
Foco d'amore in gentii cor s'aprende
come vertute in petra preziosa,
A
B
1^ volta
sirma
2^ volta
fronte
che da la stella valor no i discende
anti che 'l sol la faccia gentil cosa;
A
B
poi che n'ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
c
D
c
così lo cor ch'è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo 'nnamora.
E
d
E
Amor per tal ragion sta 'n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
spiendeli al su' diletto, clar, sottile;
no li stari' altra guisa, tanfè fero.
A
B
A
B
Così prava natura
recontra amor come fa l'aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com'adamàs del ferro in la minera.
c
D
c
E
d
E
sirma
fronte
sirma
Fere lo sol lo fango tutto 'I giorno:
vile reman, nè 'I sol perde calore;
dis'omo alter: «Gentii per sdatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fè
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d'ere'
sed a vertute non ha gentil core,
com'aigua porta raggio
e '1 ciel riten le stelle e lo splendore.
Splende 'n la 'ntelligenzia del cielo
Deo criator più che ('n) nostr'occhi 'I sole:
ella intende suo fattor oltra 'I cielo,
e 'I ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con' segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che ['nI gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.
Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
siando l'alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e 'nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per sembianti:
ch'a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d'angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza>>.
(Guido Guinizelli)
fronte
sirma
fronte
sirma
fronte
sirma
La <chiave>
<<Tra fronte e sirma c’è spesso un verso che avverte del terminare di una serie
di rime e prende il mome di chiave. ... Si osseverà come a un certo punto
(dopo la chiave), vi è nella canzone una mutazione e le rime cambiano: la
canzone si riavvolge su sè stessa, dando una estrema organicità alla
composizione: organicità e varietà simmetrica che nessun’altra forma metrica
conosce>>. (Mario Santagostini)
Nella canzone Di pensier in pensier, di monte in monte del Petrarca la
fronte è composta di due piedi di tre versi ciascuno, la sirma è composta di
sette versi (il verso chiave più altri sei versi).
La stanza finale del congedo ha la struttura metrica della sirma a
partire dal verso chiave (sottolineato).
Lo schema metrico è il seguente: ABC,ABC - c DEe, DFF
Di pensier in pensier, di monte in monte
Di pensier in pensier, di monte in monte,
mi guida Amor, ch’ogni segnato calle
provo contrario alla tranquilla vita.
A
B
C
1° piede
Se ‘n solitaria piaggia, rivo o fonte,
se ‘n tra due poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta l’alma sbigottita;
A
B
C
2° piede
e come Amor l’invita,
c
or ride, or piange, or teme or s’assecura;
e ‘l volto che lei segue ov’ella il mena,
si turba e rasserena,
D
E
e
fronte
chiave
1^ volta
sirma
et in un esser picciol tempo dura;
D
onde a la vista uom di tal vita esperto
F
dirìa:<<Questo arde, e di suo stato è incerto>>.F
2^ volta
Per alti monti e per selve aspre trovo
qualche riposo: ogni abitato loco
è nemico mortal degli occhi miei.
A
B
C
1° piede
A ciascun passo nasce un pensier novo
de la mia donna, che sovente in gioco
gira ‘l tormento ch’i’ porto per lei;
A
B
C
2° piede
et a pena vorrei
c
chiave
cangiar questo mio viver dolce amaro,
ch'i' dico: - Forse ancor ti serva Amore
ad un tempo migliore;
D
E
e
1^ volta
fronte
sirma
forse, a 'te stesso vile, altrui se' caro.
D
Et in questa trapasso sospirando:
F
-Or porrebbe esser vero? or come? or quando? F
Ove porge ombra un pino alto od un colle
talor m'arresto, e pur nel primo sasso
disegno co la mente il suo bel viso.
poi ch'a me torno, trovo il petto molle
de la pietate; et alor dico: - Ai lasso,
dove se' giunto, et onde se' diviso!
-Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga,
e mirar lei, et obliar me stesso,
sento Amor sì da presso,
che del suo proprio error l'alma s'appaga:
in tante parti e sì bella la veggio
che se l'error durasse, altro non cheggio.
I' l'ho più volte (or chi fia che m'il creda?)
ne l'acqua chiara e sopra l'erba verde
veduto viva, e nel troncon d'un faggio,
e 'n bianca nube, sì fatta che Leda
avria ben detto che sua figlia perde,
come stella che 'I sol copre col raggio;
e quanto in più selvaggio
loco mi trovo e 'n più deserto lido,
A
B
C
A
B
C
c
D
E
e
D
F
F
2^ volta
fronte
chiave
sirma
fronte
chiave
tanto più bella il mio pensier l'adombra.
Poi quando il vero sgombra
quel dolce error, pur lì medesmo assido
me freddo, pietra morta, in pietra viva,
guisa d'uom che pensi e pianga e scriva.
Ove d'altra montagna ombra non tocchi,
verso 'I maggiore '1 più espedito giogo
tirar mi suoi un desiderio intenso.
Indi i miei danni a misurar con gli occhi
comincio, e 'ntanto lagrimando sfogo
di dolorosa nebbia il cor condenso,
allor ch'i miro e penso
quanta aria dal bel viso mi diparte,
che sempre m'è sì presso e sì lontano.
Poscia fra me pian piano:
- Che sai tu, lasso? Forse in quella parte
or di tua lontananza si sospira -;
et in questo penser l'alma respira.
Canzone, oltra quell'alpe,
là dove il ciel è più sereno e lieto,
mi rivedrai sovr'un ruscei corrente,
ove l'aura si sente
d'un fresco,et odorifero laureto:
ivi è '1 mio cor, e quella che '1 m'invola;
qui veder pòi l'imagine mia sola.
(Francesco Petrarca)
sirma
fronte
chiave
sirma
chiave
sirma
II. Attenuazione dello stacco tra fronte e sirma
La canzone petrarchesca subisce, a partire da Quattrocento, un processo
graduale di abbandono delle rigidità e delle simmetrie che la caratterizzano.
Evidentemente, l’entusiasmo creativo che nel Due-Trecento ha generato una
straodinaria quantità di forme metriche (tra cui veri e propri gioielli metrici, quali
il sonetto, la canzone, la terzina dantesca ecc...ecc... ), è un poco scemato. E
soprattuttao è mutata la concezione dell’arte, il gusto estetico.
Nella nuova temperie culturale le forme metriche tradizionali, e in
particolare la canzone petrarchesca, possono risultare un po’ troppo rigide e
pesanti. Vengono proposti interventi di alleggerimento. Il Boiardo ad esempio
<<attenua lo stacco tra fronte e sirma, così che persino la vera struttura
caratteristica della canzone può divenire irriconoscibile.>> (Elwert)
La canzone che segue presenta lo schema metrico:
ABbC, BCcA - ADE, EDE, DFG, FgG.
Ancor dentro dal cor vago mi sona
Ancor dentro dal cor vago mi sona
il dolce ritentir di quella lira;
ancor a sé me tira
la armonia disusata, e il novo canto
tanto suave ancor nel cor me spira
che me fa audace de redirne alquanto,
abenché del mio pianto
la dolce melodia nel fin ragiona.
Quando l'Aurora il suo vechio abandona
io e de le stelle a sé richiama il coro,
poiché la porta vuoi aprir al giorno,
veder me parve un giovenetto adorno,
che aveva facia di rose e capei d'oro,
d'oro e di rose avea la veste intorno;
cinta la chioma avea di verde aloro,
che ancor dentro amoroso il cor gli morde,
ché l'amor perso eternamente dole.
Indi movendo il plectro su le corde
A
B
b
C
B
C
c
A
A
D
E
E
D
E
D
F
G
F
sì come far si sole,
la voce sciolse poi con tal parole:
g
G
- Quando Natura imaginando adopra,
quanto di bello in vista può creare,
A
B
ha voluto mostrare
in questa ultima etate al mondo ingrato;
nè possi a tal belleza acomperare
il mio splendor, che il cielo ha illuminato,
e ciò che fu creato
primeramente, cede a l'ultima opra.
Tanto è questa beltate a l'altre sopra
quanto a noi Marte, e quanto a Marte Jove,
quanto a lui sopra sta l'ultima spera.
Formata fu questa legiadra fera
che paro in terra di beltà non trove,
perché il regno d'Amor qua giù non pera.
Amor la sua possanza da lei move,
come tu senti e può vedere il mondo,
e più degli altri il cor tuo questo intende.
Quando Amor vien dal suo regno jocondo,
da questa l'arme prende,
perché sua forza sol da lei descende.
Beato il cielo e felice quel clima
sotto al quale nacque e quella regione;
beata la stagione
a cui tanto di ben pervenne in sorte;
beato te, che a la real pregione
per te stesso sei chiuso entro a le porte,
ché non pregion, ma corte
questa se de' nomar, se ben se stima;
beati li occhi toi, che veder prima
so quel nero aguto e quel bianco suave
che a l'amorosa zoglia apre la via;
beato il cor che ogn'altra cosa oblia
nè altro diletto nè pensier non have
fuor che di sua ligiadra campagnia.
se Quanto beata è l'amorosa chiave
che apre e dissera l'anima zentile
nel dolce contemplar de li atti bei!
Fatto è beato e nobile il tuo stile
nel cantar di colei
che in terra è ninfa, e Diva è fra gli Dei.
Quando costei dal cielo a vui discese
una piogia qua giù cadea de zigli,
e rose e fior vermigli
b
C
B
C
c
A
A
D
E
E
D
E
D
F
G
F
g
G
avean di bel color la terra piena.
Non voglio che perciò sospetto pigli,
ma al vero in cielo io mi rateni apena,
e in vista più serena
mostrai la zoglia mia di fuor palese.
Jove, che meco a mano alor se prese,
mirava in terra con benigno aspetto,
e fesse a nostra vista il mondo lieto.
A noi stava summesso ogni pianeto,
floria la terra e stava con diletto,
tranquillo il mare e il vento era quieto.
Così a noi venne questo ben perfetto,
favorito dal Cielo e da le stelle
più che mai fusse ancor cosa formata.
Questa dal petto l'alma a te divelle:
ma se al ver ben se guata,
mal per te fo cotal beltà creata.
Mal fo per te creata, il ver ragiono;
sciai che io so Febo e non soglio mentire:
per farti alfin languire
venuta è in terra questa cosa bella.
Misero te che tanto hai da soffrire
da questa fera fugitiva e snella!
Miser, quanta procella
porrà ancor la tua barca in abandono!
E se io de lo advenir presago sono,
nulla ti giova lo amonir ch'io facio,
ché distor non te posso a chi te guida.
Tristo chi d'alma feminil se fida,
acciò che doppo il danno e doppo il straccio
sovente del suo male altri se rida!
Nel foco, che rarde ora, vedo un giaccio
che te farà tremar l'osse e la polpa,
mancar il corpo e il spirto venir meno.
Non te doler de altrui, ché l'è tua colpa,
e tu lo vidi apieno
a che dovevi al desir por prima il freno.
Così cantava, e querelando al fine
la citera suave sospirava
voce più chetta e notte peregrine.
Qual vanitate noi mortali agrava!
Credere al sogno ne la notte oscura
ed al cieco veder dar chiara fede!
Ma benché io non sia sciolto da paura,
il mio cor già non crede
aver del suo servir cotal merzede.
(Matteo Maria Boiardo)
III. Rinuncia alla struttura petrarchesca
Nel Cinquecento il processo di allontanamento dalla canzone petrarchesca
subisce una brusca accelerazione.<<Una certa articolazione si conserva ancora
talvolta, ma non è quella della strofe petrarchesca. >>(Elwert)
La canzone che segue manca del congedo, e le sue strofe si articolano in tre
momenti ritmici, che richiamano la struttura dell’ode pindarica. Lo schema è il
seguente: A b A b, c D D c, E E.
Per Cintio Venanzio da Cagli
vincitore ne' giuochi del pallone celebrati in Firenze nell'estate
dell'anno 1619.
(Velleità pindariche)
Io, per soverchia età, piedi ho mal pronti
sull'alpe a far cammino:
tu muovi, Euterpe, e d'Apennin su' monti
ritrova il vago Urbino,
ed ivi narra, come
un bramoso d'onor germe di Cagli,
in bel teatro di gentii travagli,
s'inghirlandò le chiome
e fé sull'Arno rirnaner pentita
ogni possanza a contrastano ardita.
A
b
A
b
c
D
D
c
E
E
Gente quadrata, e che, nervoso il braccio,
i piè quasi ha di piume;
e se corre Aquilon padre del ghiaccio,
sprezzano ha per costume;
ma se dall'alto rugge
il leon di Nemèa ne' caldi mesi,
va per le piagge aperte, e i lampi accesi
fra selve ella non fugge;
e pure, di valor Cintio la vinse
e dell'acero illustre il crin si cinse.
A
b
A
b,
c
D
D
c,
E
E
Deh! che fu rimirarlo, arso la pelle
e dimagrato il busto
portar sul campo le vestigia snelle,
indomito, robusto!
E, nel fervor del giorno,
dar legge al volo delle grosse palle,
A
b
A
b,
c
D
e tutto rimbombar l'aereo calle
alle percosse intorno,
qual se Giove talor fulmini avventa,
e squarcia i nembi e i peccator sgomenta!
D
c,
E
E
Cintio, sentier di desrata gloria
ha passi gravi e forti ;
ma pena di virtù (siati in memoria)
non è senza conforti;
e tu, se 'I corpo lasso
levar» desli e rinfrescar le vene,
non ricercar qua giù fonti terrene,
figlie d'alpestre sasso;
ché a ristorar delle fatiche oneste
altrui vers'io di Pindo acqua celeste.
(Gabriello Chiabrera , 1552-1638)
A
b
A
b,
c
D
D
c
E
E
Anche in questa canzone le strofe si articolano in tre momenti ritmici, che
richiamano la struttura dell’ode pindarica. Lo schema metrico è il seguente:
AbC,CbA,aDD
Serenata all’uscio di Cintia
Cintia, la doglia mia cresce con l’ombra,
e a le tue mura intorno
vo pur girando il piè notturno amante.
Tuffato il carro ha già nel mar d’Atlante
il condottier del giorno,
e caligine densa il cielo adombra:
alto silenzio ingombra
la terra tutta, e ne l’orror profondo
stanco da l’opre omai riposa il mondo.
A
b
C
C
b
A
a
D
D
Io sol non poso, e la mia dura sorte
su queste soglie amate
nell’altrui pace a algrimar mi mena.
Tu pur odi il mio duolo, sai la mia pena,
apri, deh per pietate
apri Cintia cortese, apri le porte.
Sonno tenace, e forte
de la vecchia custode occupa i sensi:
apri Cintia; apri bella; oimè che pensi?
A
b
C
C
b
A
a
D
D
Vuoi tu dunque, crudel, ch’io qui mi moia,
mentre più incrudelisce
le gelid’aria del notturno cielo?
D’ispide brine irta è la chioma, il gelo
le membra intorpidisce;
qual foglia i’ tremo, e tu non m’apri ancora?
Durissima dimora!
Mentre dormi fors’anco, e ‘l mio tormento
non ode altri, che l’ombra, altri che ‘l vento.
O Sonno, o de’ mortali amico Nume,
sopitor de’ pensieri,
sollevator d’ogni affannato core:
Deh, s’egli è ver ch’ardessi unque d’amore,
da que’ begli occhi alteri,
che stan chiusi al mio mal, spiega le piume;
tornerai pria, ch’allume
la bell’aurora il ciel; vanne soltanto,
che Cintia oda il mio duol, senta il mio pianto.
Vanne Sonno gentil, vattene omai:
così luce nimica,
o strepito importun mai non ti svegli;
così d’onde Letea sparsa i capegli
la tua leggiadra amica
ti dorma in seno, e non s’en parta mai.
Sonno, ancor non te’n vai?
Dimmi, Nume insensato, iniquo Dio,
d’un sonno crudel, che t’ho fatt’io?
Tu de l’Erebo figlio, e de l’oscura
morte fratel non puoi
maniere usar, se non atroci, ed empie,
possanti inaridire in su le tempie
i papaveri tuoi,
e siati Pasitea sempre più dura;
e per maggior sciagura
vigilia eterna ognor t’opprima, e stanchi
sì, ch’agli occhi del sonno il sonno manchi.
Porte, ma voi, voi non v’aprite. Ah pera
chi dall’alpine balze
trasse, per voi formare, la quercia, e il cerro:
cingasi pur d’inespugnabil ferro,
e vallo e muro innalze
città, ch’oppressa è da nimica schiera,
ma se tromba guerriera
qua non giugne col suono, se guai sospetti
munir ci fan con tanta cura i tetti?
O mille volte, e mille età beata,
quando a l’ombra de’ faggi
dormian senza timor le prische genti;
ricco allora il pastor di pochi armenti
non paventava oltraggi
di ladro occulto, di falange armata:
avarizia mal nata
fu che pose a i tesor guardie, e custodi,
e mostrò i furti, ed insegnò le frodi.
Porte sorde agl’amanti, adunque invano
di giacinti odorosi
ho tante volte a voi ghirlande inteste?
O venti, o pioggie, o fulmini, o tempeste
scendete impetuosi,
stendete voi le dure porte al piano;
e tu lenta mia man
invendicata ancor l’ore te ‘n passi?
Se ti mancan le fiamme, eccoti sassi.
Lasso, ma che vaneggio? In ciel più rare
scintillano le stelle,
già s’intreccia di fior l’alba le chiome,
santi numi del ciel, s’in vostro nome
d’odorate fiammelle
arder fec’io più d’un divoto altare,
de le mie pene amare
pietà vi punga; e se giustizia ha il polo
levatemi di senso, ovver di duolo.
Voi, che mutate a l’uom sembiante, e spoglia
ch’altri volar per l’etra,
altri fate vagar disciolto in onda;
voi, che Narciso in fior, che Dafne in fronda
cangiaste, in dura pietra
me trasformate ancor su questa soglia.
Cesserà la mia doglia
e godrò, ch’al mattino, ove si desti,
Cintia col piè mi prema, e mi calpesti.
(Fulvio Testi, 1593-1646)
Lo schema della canzone si articola nei tradizionali due momenti ritmici:
fronte e sirma. Lo schema metrico è il seguente: aBa,CBc - Ad,Ee,Dd,FF
(in cui Ad costituisce la (doppia) chiave tra fronte e sirma).
Sopra l’assedio di Vienna
E fino a quanto inulti
fian, Signore, i tuoi servi?e fino a quanto
de i barbarici insulti
orgogliosa n'andrà l'empia baldanza?
Dov'è, dov'è, gran Dio, l'antico vanto
di tu' alta possanza?
Su' campi tuoi, su' campi tuoi più culti
semina stragi e morti
barbaro ferro, e te destar non pònno
da sì profondo sonno
le gravi antiche offese e i nuovi torti?
E tu '1 vedi, e '1 comporti,
e la destra di folgori non armi,
o pur le avventi agl'insensati marmi?
a
B
a
C
B
c
A
d
E
e
D
d
F
F
Mira, oimè, qual crudele
nembo d'armi e d'armati, e qual torrente
d'esercito infedele
corre l'Austria a inondar! Mira, che il loco
a tant'empito manca, e a tanta gente
par che l'Istro sia poco,
e di tant'aste all'ombra il di si cele!
Tutte son qui le spade
dell'ultimo Oriente, e alla gran lutta
a
B
a
C
B
c
A
d
E
l'Asia s'unio qui tutta,
e quei che '1 Tanai solca, e quei che rade
le sarmatiche biade,
e quei che calca la bistonia neve,
e quei che 'I Nilo e che l'Oronte beve.
Di cristian sangue tinta
mira dell'Austria la città reina,
quasi abbattuta e vinta,
mille e mille raccòr nel fianco infermo
fulmin temprati all'infernal fucina.
Mira, che frale schermo
son per lei l'alte mura, ond'ella è cinta:
mira le palpitanti
sue rocche. Odi, odi il suon ch'a morte sfida:
le disperate strida
odi, e i singulti e le querele e i pianti
delle donne tremanti,
che al fiero aspetto de i comun perigli
stringonsi al seno i vecchi padri e i figli.
L'onnipotente braccio,
Signor, doti stendi, e sappian gli empi omai,
sappian, che vetro e ghiaccio
son br arme a' tuoi colpi, e che sei.Dio.
Di tue giuste vendette a i caldi rai
struggasi 'I popol rio.
Qual porga il collo al ferro, e quale al laccio;
e come fuggitiva
polve avviene che rabbioso Austro disperga;
così persegua e sperga
tuo sdegno i traci; e sull'augusta riva
dal Danubio si scriva:
al vero Giove l'ottoman Tifeo
qui tentò di far guerra e qui cadeo.
Del re superbo assiro
gli aspri arieti di Sion le mura
so pur che invan colpiro;
e tal poi monte d'insepolti estinti
alzasti tu, che inorridi natura.
Guerrier dispersi e vinti
so che vide Betulia; e 'I duce siro
e
D
d
F
F
con memorando esempio
trofeo pur fu di femminetta imbelle.
Sulle teste rubelle
deh rinnovella or tu l'antico scempio.
Non è di br men empio
quei che servaggio or ne minaccia e morte;
nè men fidi siam noi, nè tu men forte.
Che s'egli è pur destino,
e ne' volumi eterni ha scritto il Fato,
che deggia un dì all'Eussino
servir l'ibera e l'alemanna Teti,
e 'I suoI cui pane l'Apennin gelato;
a' tuoi santi decreti
pien di timore e d'umiltà m'inchino.
Vinca, se così vuoi,
vinca lo scita; e 'l glorioso sangue
versi l'Europa esangue
da ben mille ferite. I voler tuoi
legge son ferma a noi;
tu sol se' buono e giusto; e giusta e buona
quell'opra è sol che al tuo voler consuona.
Ma sarà mai ch'io veggia
fender barbaro aratro all'Austria il seno
e pascolar la greggia,
ove or sorgon cittadi, e senza tèma
starsi gli arabi armenti in riva al Reno?
Nella ruina estrema
fia che dell'Istro la famosa reggia
d'ostile incendio avvampi,
e dove siede or Vienna, abiti l'eco
in solitario speco,
le cui disene arene orma non stampi?
Ah no, Signor, tropp'ampi
son di tua grazia i fonti; e tal flagello
se in cielo è scritto, a tua pietà m'appello.
Ecco d'inni devoti
risonar gli alti templi: ecco soave
tra le preghiere e i voti
salire a te d'arabi fumi un nembo.
Già i tesor sacri, ond'ei sol tien la chiave,
dall'adorato grembo
versa il grande Innocenzio, e i non mai vòti
erari apre e comparte:
già i cristiani regnanti alla gran lega
non pur commuove e piega;
ma in un raccoglie le milizie sparte
del teutonico Marte;
e se tremendo e fier, più che mai fosse,
scende il fulmin polono, ei fu che '1 mosse.
Ei dall'esquilio colle
ambo in ruina dell'orribil geta,
Mosè novello, estolle
a te le braccia, che da un lato regge
Speme, e Fede dell'altro. Or chi ti vieta
il ritrattar tua legge
e spegner l'ira, che nel sen ti bolle?
Pianse e pregò l'afflitto
buon re di Giuda, e gli crescesti etate:
lagrime d'umiltate
Ninive sparse, e si cangiò 'l prescritto
fatale infausto editto.
Ed esser può che 'l tuo Pastor devoto
non ti sforzi, pregando, a cangiar voto?
Ma sento, o sentir parme
sacro furor, che di sé m'empie. Udite,
udite, o voi, che l'arme
per Dio cingete. Al tribunal di Cristo
già decisa in pro vostro è la gran lite.
Al glorioso acquisto
su su pronti movete; in lieto carme
tra voi canta ogni tromba,
e 'l trionfo predice. Ite, abbattete,
dissipate, struggete
quegli empi; e l'Istro al vinto stuol sia tomba.
D'alti applausi rimbomba
la terra omai; che più tardate? aperta
è già la strada, e la vittoria è certa.
(Vincenzo Da Filicaia, 1642-1707)
IV. Canzone a strofe libere
Sempre in età barocca l’evoluzione della canzone prende decisamente
una strada nuova, quella dell’abbandono delle strofe obbligate. Si approda così
alla canzone a strofe libere di Alessandro Guidi, il quale <<non solo rinunciò
alla suddivisione della strofa, ma variò anche lo schema di strofa in strofa,
foggiando una canzone di strofe diverse l’una dall’altra e per lunghezza e per
struttura, la vera e propria canzone a strofe libere ... >> (Elwert)
La canzone che segue è composta di endecasillabi e settenari, senza
strofe fisse e senza che tutti i versi siano rimati.
La Fortuna
«Corsi sul Nilo, e dell'egizia Donna
al bel collo appressai l'aspre ritorte,
e gemino veleno
implacabile porsi
al bel candido seno;
e pria nell'antro avea
combattuta e confusa
l'africana virtute,
e al Punico feroce
recate di mia man l'atre cicute.
A
B
c
d
c
e
f
g
h
G
Per me Roma avventò le fiamme in grembo
all 'emula Cartago,
ch'andò errando per Libia ombra sdegnata
sinché per me poi vide
trasformata l'immago
de la sua gran nemica:
e allor placò i desiri
della feroce sua vendetta antica,
e trasse anco i sospiri
sopra l'ampia mina
de l'odiata maestà latina.
A
b
C
d
B
e
f
E
F
g
g
Rammentar non vogl'io l'orrida spada,
con cui fui sopra al cavalier tradito
sul menfitico lito;
né la crudel che il duro Cato uccise,
né il ferro che de' Cesari le membra
cominciò a violar per man di Bruto.
Teco non tratterò l'alto furore
sterminator de' regni:
A
B
b
C
D
E
F
g
ché capaCe non sei de' miei gran sdegni,
come non fosti delle gran venture.
Avrai dell'ira mia piccioli segni:
farò che il suono altero
de' tuoi fervidi carmi
lento e roco rimbombe,
e che l'umil siringhe
or sembrino uguagliar anco le trombe... »
G
H
G
I
L
m
n
M
Indi levossi furiosa a volo,
e, chiamati da lei,
sulla capanna mia vennero i nembi,
venner turbini e tuoni;
e con ciglio sereno
dalle grandini irate allora i' vidi,
in fra baleni e lampi,
divorarsi la speme
de' miei poveri campi.
(Alessandro Guidi, 1650- 1712)
A
b
C
d
e
F
g
h
g
V. Canzone leopardiana
In età romantica, il Leopardi attraverso un percorso tutto personale,
analogo per certi aspetti a quello del Guidi, perviene gradualmente ai canti della
piena maturità espressiva, a strofe libere, mediante: a) l’abolizione delle strofe
di uguale lunghezza; b) l’abolizione dell’ordine rigido delle rime, c) l’
inserimento di versi sciolti, d)
la sostituzione delle rime perfette con
assonanze e consonanze.
L’unico schema da rispettare, e in maniera molto elastica, è dato
dall’alternanza di versi endecasillabi e settenari. Il gioco delle rime è lasciato
libero di <<variare>> secondo l’atteggiamento del poeta nei confronti delle
parole.
Come accennato, Leopardi parte da un modello di canzone piuttosto
tradizionale, come risulta ad esempio dall’analisi metrica della canzone che
segue.
Le sette stanze presentano uno schema metrico tripartito analogo a quello della
canzone <Per Cintio Venanzio da Cagli> del Chiabrera: uno schema metrico non
regolare, ma tendente alla regolarità.
1^
2^
3^
4^
5^
6^
7^
stanza:
stanza:
stanza:
stanza:
stanza:
stanza:
stanza:
ABcD, ABCe - FGe, FHG - I hl, M iM
ABCD, aBDE - FbE, fGb - HGI, LhL
ABcD, ABCe - FGe, FHG - I hl, M iM
ALL'ITALIA
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il laum e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il peflo mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! lo chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia:
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scomo;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi dite parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fo grande, or non è quella?
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scomo;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi dite parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? dov'è la forza antica,
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
O qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combaflerò, procomberò sol lo.
Dammi, o del, che sia foco.
Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi
E dì carri e dì voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi fighuoli.
Attendi, Italia, attendi. lo veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itala gioventude? O numi, o numi:
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre;
E voi sempre onorate e gloriose,
O tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
lo credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
De' comi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto sì foggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide solia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Togheasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'ofttiste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell'armi e ne' perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun de' vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'onda morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza de' Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira de' greci petti e la virtute.
Ve' cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La foga i carri e le tende cadute
E correr fra' primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
Ve' come infusi e tinti
Del barbarico sangue I greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo sì favellì o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ora; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
O benedetti, al suolo,
E bado questi sassI e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest’alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la verecondo
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la vostra duri.
Come accennato, coi grandi idilli Leopardi raggiunge la maturità,
caratterizzata dall’abolizione delle strofe di uguale lunghezza nonchè dell’ordine
rigido delle rime, dall’ inserimento di versi sciolti, dalla sostituzione delle rime
perfette con assonanze e consonanze.
L’unico schema da rispettare, e in maniera molto elastica, è dato
dall’alternanza di versi endecasillabi e settenari. Il gioco delle rime è lasciato
libero di <<variare>> secondo l’atteggiamento del poeta nei confronti delle
parole.
Il passero solitario
D'in sulla vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
brilla nell'aria e per li campi esulta,
si che a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme,
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il br tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cai d'allegria, schivi gli spassi;
canti e cosi trapassi
dell'anno e di tua via il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella età dolce famiglia,
e te, german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de' provetti giorni,
non curo, io non so come: anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito e strano
al mio loco natio,
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
odi spesso un tonar di ferree canne
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventt del loco
lascia le case e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor a allegra.
Io solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo; e intanto il guardo
steso nefl'aria aprica,
mi fere il sol che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua e par che dica
che la beata gioventù vien meno.
Tu, sonngo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti quest'occhi all'altrui core,
e br fia voto il mondo, e il dl futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ma pentirommi e spesso,
ma sconsolato volgerommi indietro.
(Giacomo Leopardi)
VI. La canzone novecentesca: mantenimento della divisione strofica
Vengono impiegati anche versi diversi da quelli propri della canzone
(endecasillabo, settenario). La divisione strofica viene mantenuta, ma le strofe
di rado hanno un egual numero di versi. Le rime sono spesso sostituite da
assonanze, e alcuni versi sono privi di rima.
I limoni
Ascoltami, i poeti laureati
11
si muovono soltanto fra le piante
11
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
7,7
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
7,7
fossi dove in pozzanghere
7
mezzo seccate agguantano i ragazzi
11
qualche sparuta anguilla:
7
le viuzze che seguono i ciglioni,
11
discendono tra i ciuffi delle canne
11
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
7,8
Meglio se le gazzarre degli uccelli
11
si spengono inghiottite dall'azzurro:
11
più chiaro si ascolta il susurro
9
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
8,7
e i sensi di quest'odore
8
che non sa staccarsi da terra
9
e piove in petto una dolcezza inquieta.
11
Qui delle divertite passioni
10
per miracolo tace la guerra,
10
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza 7,9
ed è l'odore dei limoni.
9
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel meno di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
11
11
11
7
11
8,7
8,8
9
8
11
8
8
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
9
11
11
Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.
(Eugenio Montale)
7,7
8,8
7,5
8,5
11
7,5
11
8
11
9
6
6
5,7
VII. La canzone novecentesca: rinuncia alla divisione strofica
La canzone del Cardarelli Sera di Gavinana è composta di una sola
stanza di versi liberi, endecasillabi e settenari. La cosa non è una novità
assoluta, poichè abbiamo vari esempi anche nel passato, per esempio in
Vincenzo Monti ...
Tra paentesi sono segnalate le rime imperfette: assonanze e consonanze.
Sera di Gavinana
Ecco la sera e spiove
sul toscano Appennino.
Con lo scender che fan le nubi a valle,
prese a lembi qua e là
come ragne fra gli alberi intricate,
si colorano i monti di viola.
Dolce vagare allora
per chi s'affanna il giorno
ed in se stesso, incredulo, si torce.
Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,
un vociar lieto e folto in cui si sente
il giorno che declina
e il riposo imminente.
Vi si mischia il pulsare, il batter secco
ed alto del camion sullo stradone
bianco che varca i monti.
E tutto quanto a sera,
grilli, campane, fonti,
fa concerto e preghiera,
trema nell'aria sgombra.
Ma come più rifulge,
nell'ora che non ha un'altra luce,
il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.
Sui tuoi prati che salgono a gironi,
questo liquido verde, che rispunta
fra gl'inganni del sole ad ogni acquata,
al vento trascolora, e mi rapisce,
per l'inquieto cammino,
sì che teneramente fa star muta
l'anima vagabonda.
(Vincenzo Cardarelli)
(A)
(A)
(B)
(b)
(C)
C
c
d
e
d
e
(f)
g
G
H
(D)
I
h
I
(f)
VIII. Nostalgia della forma classica
Lungo l’Affrico di Gabriele D’Annunzio, è abbastanza vicina al modello
classico. <<Quattro strofe di dieci versi. Ogni strofa di dieci versi “s’ispira certo
all’antica stanza di canzone, divisa com’è in due piedi identici (ABC, ABC tutti
endecasillabi) più una sirma connessa da una rima chiave [sottolineata]
(cDDx, con c settenario e x quinario): la differenza fondamentale sta nel fatto
che le rime possono essere, secondo la consuetudine della tecnica
dannunziana, sostituite da assonanze e che l’ultimo verso non ha alcuna
corrispondenza. ... Mentre l’alternanza di endecasillabi e settenari è fatto
banale, non così la giustapposizione di un quinario finale a un endecasillabo
... >> (F. Roncoroni, in G: D’annunzio, Alcyone, Oscar Mondadori, che cita a
sua volta G. Contini) Manca il congedo.
Schema metrico: ABC,ABC - cDDx.
Lungo l’Affrico
Grazia del ciel come soavemente
ti miri ne la terra abbeverata,
anima fatta bella dal suo pianto!
O in mille e mille specchi sorridente
grazia, che da la nuvola sei nata
come la voluttà nasce dal pianto,
musica nel mio canto
ora t'effondi, che non è fugace
per me trasfigurata in alta pace
a chi l'ascolti.
Nascente Luna, in cielo esigua come
il sopracciglio de la giovinetta
e la midolla de la nova canna,
sì che il più lieve ramo ti nasconde
e l'occhio mio, se ti smarrisce, a pena
ti ritrova, pel sogno che l'appanna,
Luna, il rio che s'avvalla
senza parola erboso anche ti vide;
e per ogni fli d'erba ti sorride,
solo a te sola.
O nere e bianche rondini, tra notte
e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere
ospiti lungo l'Affrico notturno!
A
B
C
A
B
C
c
D
D
x
11
11
11
11
11
11
7
11
11
5
Volan elle sì basso che la molle
erba sfioran coi petti, e dal piacere
il loro volo sembra fatto azzurro.
Sopra non ha susurro
l'arbore grande, se ben trema sempre.
Non tesse il volo intorno a le mie tempie
fresche ghirlande?
E non promette ogni lor breve grido
un ben che forse il cuore ignora e forse
indovina se udendo ne trasale?
S'attardan quasi immemori del nido,
e sul margine dove son trascorse
par si prolunghi il fremito dell'ale?
Tutta la terra pare
argilla offerta all'opera d'amore,
un nunzio il grido, e il vespero che muore
un'alba certa.
(Gabriele D’Annumzio)
La nostalgia delle forme classiche (canzone, sonetto, ballata, madrigale, ecc...)
si fa vieppiù sentire in questi ultimi tempi, che vedono la rinascita di una
sensibilità metrica, nel recente passato gravemente offuscata dal domiunio
incontrastato del puro ritmo.
2. CANZONE SESTINA (O SESTINA LIRICA)
E’ composta di 6 stanze di 6 versi ciascuna. Le parole-rima sono
identiche in tutte le stanze e ritornano nella strofe successiva in ordine
retrogrado: 6 1 5 2 4 3.
A qualunque animale alberga in terra
A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti ch'ànno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è 'l giorno;
ma poi che '1 ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa et qual s'anida in selva
per aver posa almeno infin a l'alba.
1
2
3
4
5
6
Et io, da che comincia la bella alba
scuoter l'ombra intorno de la terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non ò mai triegua di sospir' col sole;
poi quand'io veggio fiammeggiar le stelle
vo lagrimando, et disùndo il giorno.
6
1
5
2
4
3
Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
et le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m'ànno facto di sensibil terra;
et maledico il dì ch'i' vidi '1 sole,
che mi fa in vista un huom nudrito in selva.
Non credo che pascesse mai per selva
sì aspra fera, o di nocte o di giorno,
come costei ch'i' piango a l'ombra e al sole;
et non mi stancha primo sonno od alba:
ché, bench'i' sia mortal corpo di terra,
lo mio fermo desir vien da le stelle.
'
Prima ch'i' torni a voi, lucenti stelle,
o tomi giù ne l'amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess'io in lei pietà, che 'n un sol giorno
può ristorar molt'anni, e 'nanzi l'alba
puommi arichir dal tramontar del sole.
Con lei foss'io da che si parte il sole,
et non ci vedess'altri che le stelle,
sol una nocte, et mai non fosse l'alba;
et non se transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno
ch'Apollo la seguia qua giù per terra.
Ma io sarò sotterra in secca selva
e 'l giorno andrà pien di minute stelle
prima ch'a si dolce alba arrivi il sole.
(Francesca Petrarca)
Notte di maggio
Non mai seren di più tranquilla noffe
Fu salutato dalle vaghe stelle
In riva di correnti e lucid'onde;
E tremo lavo ronda su 'I verde,
Rompendo l'ombre che scendean da' colli,
L'antica, errante, solitaria luna.
Candida, verecondo, austera luna:
Che vapori e tepor per l'alta notte
Sallano a te da gli arborati colli!
Parea che in gara a le virginee stelle
Si svegliasser le ninfe in mezzo il verde,
E un soave susurro era ne l'onde.
Non tale un navigar d'oblio per l'onde
Ebbero amanti mai sotto la luna,
Qual io disamorato entro il bel verde:
Ché solo a i buoni splender quella noffe
Pareami, e da gli avelli e da le stelle
Spirti amici vagar vidi su i colli.
O voi dormenti ne i materni colli,
E voi d'umili tombe a presso l'onde
Guardanti in cielo tropassar le stelle;
Voi sotto il fiso raggio de lo luna
Rividi io popolar la cheta noffe,
Lievi strisciando su 'I commosso verde.
Deh, quanta parte de l'età mio verde
Rivissi in cima a i luminosi colli,
E vinta al basso rifuggia la notte!
Quando una forma verso me su l'onde,
bisegnato nel lume de la luna,
Vidi, e per gli occhi le ridean le stelle.
Ricorditi: mi disse. Allor le stelle
Furon velate, e corse ombra su 'l verde,
E di sùbito in ciel tacque la luna;
Acuti lai suonarono pe' colli;
Ed io soleffo su le flebili onde
bi sepolcro sentii fredda la notte.
Quando lo notte è fitta più di stelle,
A me giova appo l'onde entro il bel verde
mirar su i colli la sedente luna.
(Giosuè Carducci)
Sestina a Firenze
Sempre all'inverno delle toni un fiore
si posa appena aprile apre la terra
con il suo giunco d'aria e agita argento
al riso desolato delle sale
alle armi dei chiostri. Un fiore d'erba
d'aliti cauti anima le pietre.
Sterili strenue adolescenti pietre
più del variare dei nuvoli in fiore
e della virtù avara d'ogni erba
che corse le stagioni della terra
foste scienza per me d'amaro sale
impenetrabili torri d'argento
e innanzi a voi negli inverni d'argento
volli eguagliare entro di me le pietre
essere asciutto scintilflo di sale
pensiero e forma limpida di fiore
senza peso nè ombra sulla terr
senza perire più come fa l'erba.
Ma ora è la virtù breve dell'erba
quanto mi resta invece, il breve argento
degli steli che odorano la terra
sui carri del tramonto. Alle tue pietre,
città amara, mi guidi, ora che il fiore
eterno al gelo delle torri sale.
Ritorno, in cima alla memoria sale,
e ne sorrido, quel tempo: ero erba
e sono, che dissolto al sole il fiore
sibili rade sillabe d'argento
al vento inaridito delle pietre
e pieghi in pace all'ombra della terra.
Dunque verso quell'ombra alla mia terra
vengo da sempre e alle deserte sale
dei templi e delle logge dove il fiore
di Firenze scolora antico e l'erba
parla dei morti fra i marmi d'argento.
Ma per questa mia pace ultima, pietre,
se il vento sale e il sereno alle pietre,
se aprile grida argento, abbia la terra
sempre chi l'erba e il tempo intenda e il fiore.
(Franco Fortini)
Voglia che in cuore m'entra
Voglia che in cuore m'entra
ferma non si potrà da becco o unghia
scalfire d'uomo che si cuoce l'alma
per male dire; e se con ramo o verga
non lo punisco, almeno, assente zio,
goda io furtivo o in verziere o in stanza.
Quando penso alla stanza
dove per danno mio so che non s'entra,
ché più m'è ognuno che fratello e zio,
a membro a membro tremo e fin nell'unghia
come fanciullo davanti alla verga,
tanto ho paura di non starle in alma.
Se di corpo, non d'alma
a suo piacere mi celasse in stanza,
ché più mi sferza il cuore d'una verga
di non essere là dove lei entra,
sarò con lei come la carne e l'unghia,
non ascoltando né amico né zio.
Sorella di mio zio
-260né più né tanto ho amata, per quest'alma,
di quanto come il dito è presso all'unghia
vorrei stare con lei nella sua stanza:
con me può amore, che nel cuore m'entra,
più che uomo forte con fievole verga.
Poi che la secca verga
fiorì, e in Adamo son nipoti e zio,
mai bell'amore come in cuore m'entra
credo non fosse né in corpo nè in alma:
da lei il mio cuore, in piazza e dentro stanza,
più non si parte che da carne unghia.
(Giovanni Raboni)
3. CANZONE CICLICA
La canzone ciclica o a rime cicliche è’ composta di sei stanze, ognuna di dodici
endecasillabi, e da un congedo di sei endecasillabi: Anche qui è fondamentale
la presenza delle parole-rima: esse sono cinque e <<tornano a rotazione nelle
cinque stanze in modo che la prima di ogni stanza ricorre sei volte nei versi 1, 3,
4, 6,7,10, la seconda una volta nel verso 2, la terza una volta nel verso 5, la
quarta due volte nei versi 8 e 9, la quinta due volte nei versi 11 e 12. A turno
l’ultima parola-rima di una stanza è ripresa come prima della successiva mentre
le altre seguono a salare.
Amor, tu vedi ben che questa donna
Amor, tu vedi ben che questa donna
La tua vertù non cura in alcun tempo
che suol de l'altre belle farsi donna;
’
e poi s accorse ch'ell'era mia donna
per lo tuo raggio ch'al volto mi luce,
d'ogne crudelità si fece donna;
si che non par ch'ell'abbia cor di donna,
ma di qual fiera l'ha d'amor più freddo:
ché per lo tempo caldo e per lo freddo
mi fa sembiante pur come una donna
che fosse fatta d'una bella petra
per man di quei che me' intagliasse in petra.
E io, che son costante più che petra
in ubidirti per bieltà di donna,
porto nascoso il colpo de la petra
con la qual tu mi desti come a petra
che t'avesse innoiato lungo tempo,
tal che m'andò al core ov'io son petra.
E mai non si scoperse alcuna petra
o da splendor di sole o da sua luce,
che tanta avesse né verlà nè luce
che mi potesse atar da questa petra,
sì ch'ella non mi meni col suo freddo
1
colà dov io sarò di morte freddo.
Segnor, tu sai che per algente freddo
l'acqua diventa cristallina petra
là sotto tramontana ov'è il gran freddo,
e l'aere sempre in elemento freddo
vi si converte, si che l'acqua è donna
in quella parte per cagion del freddo:
così dinanzi dal sembiante freddo
mi ghiaccia sopra il sangue d'ogne tempo,
e quel pensiero che m'accorcia il tempo
mi si converte tuffo in corpo freddo,
che m'esce poi per mezzo della luce
là ond'entrò la dispietata luce.
In lei s'accoglie d'ogni bieltà luce;
così di tutta crudeltate il freddo
le corre al core, ove non va tua luce:
per che ne li occhi sì bella mi luce
quando la miro, ch'io la veggio in petra,
e po' in ogni altro ov'io volga mia luce.
Da li occhi suoi mi ven la dolce luce
che mi fa non caler d'ogn'altra donna:
così foss'ella più pietosa donna
ver' me, che chiamo di notte e di luce,
solo per lei servire, e luogo e tempo.
Né per altro disio viver gran tempo.
Però, vertù che se' prima che tempo,
prima che moto o che sensibii luce,
increscati di me, c'ho sì mal tempo;
entrale in core omai, chà ben n'è tempo,
sì che per te se n'esca fuor lo freddo
che non mi lascia aver, com'altri, tempo:
che se mi giunge lo tuo forte tempo
in tale stato, questa gentil petra
mi vedrà coricare in poca petra,
per non levarmi se non dopo il tempo
quando vedrò se mai ti' bella donna
nel mondo come questa acerba donna.
Canzone, io porto ne la mente donna
tal che, con tuffo ch'ella mi sia petra,
mi dà baldanza> ond'ogni uom mi par freddo:
sì ch'io ardisco a far per questo freddo
la noùtà che per tua forma luce,
che non ti' mai pensata in alcun tempo.
(Dante Alighieri)
4. LA CANZONETTA
Come per la canzone, ciascuna stanza presenta un identico schema di metri e di rime.
I. Forma classica
La canzonetta, seppur modellata sull’impianto della canzone antica, se ne differenzia
soprattutto per la brevità del verso (invece di endecasillabi, essa si compone di preferenza di
settenari o di ottonari, o di settenari alternati ad ottonari) e della strofe. Si tratta dunque di un
componimento fortemente ritmato.
Meravigliosa~mente
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn'ora.
Com'om che pone mente
in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc'eo,
che 'nfra lo core meo
porto la tua figura.
In cor par ch'eo vi porti,
pinta come parete,
e non pare difore.
O Deo, co' mi par forte
non so se lo sapete,
con' v'amo di bon core;
ch'eo son sì vergognoso
che pur vi guardo ascoso
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio
dipinsi una pintura,
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo 'n quella figura,
par ch'eo v'aggia davante:
come quello che crede
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.
Al cor m'ard'una doglia,
com'om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso,
e quando più lo 'nvoglia,
allora arde più loco
e non pò star incluso:
similemente eo ardo
quando pass'e non guardo
a voi, vis'amoroso.
S'eo guardo, quando passo,
inver' voi no mi giro,
bella, per risguardare;
andando, ad ogni passo
getto uno gran sospiro
ca facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c'a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.
Assai v'aggio laudato,
madonna, in tutte parti,
di bellezze ch'avete.
Non so se v’è contato
ch'eo lo faccia per arti,
che voi pur v'ascondete:
sacciatelo per singa
ciò ch'eo no dico a linga,
quando voi mi vedite.
Canzonetta novella,
va' canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d’ogni amorosa,
bionda più ch’auro fino:
<<Lo vostro amor, ch’è caro,
donatelo al notaro,
ch’è nato da lentino>>.
(Jacopo da Lentini)
II. Canzonetta riformata a strofe brevi
Sul finire del Cinquecento, Raffaello Chiabrera (1552-1638) opera una riforma
radicale della canzonetta ispirandosi ai modelli greci classici: una riforma che porta nella poesia
italiana una grande varietà metrica. La strofa <<si accorcia , diventa breve di sei o anche di
quattro versi, sul modello della quartina oraziana a rime alterne o incrociate, e dunque senza più
divisione interna. Il Chiabrera forma con audacia versi brevi e rotti, perfino quadrisillabi, e poi
quinari, settenari, ottonari, avvicina con disinvoltura ai versi piani versi tronchi e sdruccioli e,
infine, introduce l’uso della rima tronca in consonante. >> (Gabriella Sica, Scrivere in versi,
Pratiche editrice)
Nel Settecento, la canzonetta per merito del Metastasio si avvicina alle arie del melodramma, e
non se ne allontana più. Tra fine Settecento e Ottocento assume connotazioni e nomi diversi
(ode, inno, ecc…), senza peraltro perdere la sua identità metrica.
Nel Novecento la canzonetta fa significative apparizioni con Umbero Saba (Preludio e
canzonette), Giorgio Caproni (Congedo del viaggiatore cerimonioso, Preghiera), Alfonso Gatto
(Canzonetta), Giacomo Noventa, Biagio Marin, ecc…
Fugacità della bellezza
La violetta,
che in sull'erbetta
S'apre al mattin novella,
di', non è cosa
tutta odorosa,
tutta leggiadra e bella?
Sì certamente,
ché dolcemente
ella ne spira odori;
e n'empie il petto
di bel diletto
col bel de' Suoi colori,
Vaga rosseggia,
vaga biancheggia
tra l'aure mattutine,
pregio d'aprile
via più gentile;
ma che diviene al fine?
Ahi, che in brev'ora,
come l'aurora,
lunge da noi sen vola;
ecco languire,
ecco perire
la misera viola.
a
a
b
c
c
b
Tu, cui bellezza
e giovinezza
oggi fan sì superba,
Soave pena,
dolce catena
di mia prigione acerba;
deh con quel fiore
consiglia il core
sulla tua fresca etate;
chè tanto dura
l’alta ventura
di questa tua beltate.
(Gabriello Chiabrera)
Addio
Non so frenare il pianto,
cara, nel dirti addio;
ma questo pianto mio
tutto non è dolor.
a
b
b
c
E’ meraviglia, è amore,
È pentimento, è speme,
son mille affetti insieme
tutti raccolti al cor.
(Pietro Metastasio, dal Demetrio)
Congedo
Il poeta, o vulgo sciocco,
Un pitocco
Non è giù, che a l'altrui mensa
Via con lazzi turpi e matti
Porta i piatti
Ed il pan ruba in dispensa.
E né meno è un perdigiorno
Che va intorno
Dando il capo ne' cantoni,
E co '1 naso sempre a l'aria
Gli occhi svaria
Dietro gli angeli e i rondoni.
a
a
b
c
c
b
E né meno è ùn giardiniero
Che il sentiero
De la vita co 'I letame
Utilizza, e cavolfiori
Pe' signori
E viole ha per le dame.
Il poeta è un grande artiere,
Che al mestiere
Fece i muscoli d'acciaio:
Capo ha fier, collo robusto,
Nudo il busto,
Duro il braccio, e l'occhio gaio.
Non a pena l'augel pia e giulia
Ride l'alba a la collina,
Ei co '1 mantice ridesta
Fiamma e festa
E lavor ne la fucina;
E la fiamma guizza e brilla
E sfavilla
E rosseggia balda audace,
E poi sibila e poi rugge
E poi fugge
Scoppiettando da la brace.
Che sia ciò, non lo so io;
Lo sa Dio
Che sorride. al grande artiero.
Ne le fiamme cosi ardenti
Gli elementi
De l'amore e del pensiero
Egli gitta, e le memorie'
E le glorie
De' suoi padri e di sua gente.
Il passato e l'avvenire
A fluire
Va nel masso incandescente.
Ei l'afferra, e poi del maglio
Co '1 travaglio
Ei lo doma su l'incude.
Picchia e canta. Il sole ascende
E risplende
Su la fronte e l'opra rude.
Picchia. E per la libertade
Ecco spade,
Ecco scudi di fortezza:
Ecco serti di vittoria
Per la gloria,
E diadertii a la bellezza.
Picchia. Ed ecco istoriati
A i penati
Tabernacoli ed al rito:
Ecco tripodi ed altari,
Ecco rari
Fregi e vasi pe '1 convito.
Per sé il pover manuale
Fa uno strale
D'oro, e il lancia contro 'l sole;
Guarda come in alto ascenda
E risplenda,
Guarda e gode, e più non vuole.
(Giosuè Carducci)
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