Comments
Description
Transcript
la canzone dalle origini a oggi
BENITO CALONEGO FORME METRICHE ITALIANE DALLE ORIGINI AD OGGI LA CANZONE INDICE 1. LA CANZONE I - La forma classica della canzone (canzone petrarchesca) II. Attenuazione dello stacco tra fronte e sirma III. Rinuncia alla struttura petrarchesca IV. Canzone a strofe libere V. Canzone leopardiana VI. La canzone novecentesca:mantenimento della divisione strofica VII. La canzone novecentesca: rinuncia alla divisione strofica VIII. Nostalgia della forma classica 2. LA CANZONE SESTINA 3. LA CANZONE CICLICA 4. LA CANZONETTA NOTE - Le lettere alfabetiche dello schema metrico (A, B, c, d, ...) si riferiscono alle rime (sottolineate). In particolare, le maiuscole si riferiscono alle rime di versi endecasillabi (cioè di 11 sillabe) o di misura superiore, le minuscole alle rime di versi di misura inferiore all’endecasillabo. Che possono essere di 7 sillabe (settenario), di 5 (quinario), di 3 (ternario), di 10 (decasillabo), ecc… Al cor gentil rempaira sempre amore come l'ausello in selva a la verdura; nè fe' amor anti che gentii core, nè gentil core anti ch'amor, natura: ch'adesso con' fu 'l sole, sì tosto lo splendore fu lucente, nè fu davanti 'l sole; e prende amore in gentilezza loco così propiamente come calore in clarità di foco. A B A B c D c E d E Edecasillabo “ “ “ Settenario Endecasillabo Settenario Endecasillabo Settenario Endecasillabo - Oltre alle rime a tutti note, perfette (in cui la parte terminale dell’ultima parola del verso è uguale a partire dalla vocale tonica), possiamo avere rime quasi perfette, come le seguenti: fiorin di noce c’è poca luce ma tanta pace … fiorin dipinto s’amava tanto nel Quattrocento … Rime imperfette sono le assonanze e le consonanze, abbastanza frequenti nella poesia contemporanea. Le assonanze, a partire dalla vocale tonica, hanno uguali solo le vocali. Qualche esempio: noce / sole; mare / sale ; canzòne / amòre Le consonanze hanno uguali solo le consonanti. Qualche esempio: quaglia / sveglio; dipìnto / tanto; vanto /tenta - Le rime normalmente si trovano al termine del verso, ma possono trovarsi anche al suo interno. Qualche esempio: Voci del dopocorsa, di furore Sul danno e sulla sorte. Un malumore sfiora la città (Vittorio Sereni) Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone, i fiori minm cornice (le buone cose di pessimo gusto) (Guido Gozzano) 1. LA CANZONE I. Forma classica della canzone (canzone petrarchesca) Secondo Dante la canzone è il metro più alto e nobile della poesia in volgare, alla quale si addicono i più nobili dei versi italiani, nell’ordine l’endecasillabo e il settenario. Solo i Siciliani usano anche versi diversi, oltre l’endecasillabo e il settenario. E’ composta di 5 o più stanze o strofe (che contano ciascuna da un minimo di 12 a un massimo di 21 versi), più una stanza più breve che prende il nome di congedo. Ciascuna stanza presenta un identico schema di metri e di rime e si articola in due parti distinte: fronte (a sua volta diviso in piedi) e sirma (che a sua volta può essere divisa in volte ). fronte I piede II piede STANZA sirma I volta II volta Nella canzone che segue la fronte è composta di due piedi di due versi ciascuno (AB,AB), mentre la sirma è composta di due volte di tre versi ciscuna (cDc,EdE). Schema metrico: AB , AB - cDc , EdE. Al cor gentil rempaira sempre amore Al cor gentil rempaira sempre amore come l'ausello in selva a la verdura; A B nè fe' amor anti che gentii core, nè gentil core anti ch'amor, natura: A B 1° piede fronte 2° piede ch'adesso con' fu 'l sole, sì tosto lo splendore fu lucente, nè fu davanti 'l sole; c D c e prende amore in gentilezza loco così propiamente come calore in clarità di foco. E d E Foco d'amore in gentii cor s'aprende come vertute in petra preziosa, A B 1^ volta sirma 2^ volta fronte che da la stella valor no i discende anti che 'l sol la faccia gentil cosa; A B poi che n'ha tratto fòre per sua forza lo sol ciò che li è vile, stella li dà valore: c D c così lo cor ch'è fatto da natura asletto, pur, gentile, donna a guisa di stella lo 'nnamora. E d E Amor per tal ragion sta 'n cor gentile per qual lo foco in cima del doplero: spiendeli al su' diletto, clar, sottile; no li stari' altra guisa, tanfè fero. A B A B Così prava natura recontra amor come fa l'aigua il foco caldo, per la freddura. Amore in gentil cor prende rivera per suo consimel loco com'adamàs del ferro in la minera. c D c E d E sirma fronte sirma Fere lo sol lo fango tutto 'I giorno: vile reman, nè 'I sol perde calore; dis'omo alter: «Gentii per sdatta torno»; lui semblo al fango, al sol gentil valore: ché non dé dar om fè che gentilezza sia fòr di coraggio in degnità d'ere' sed a vertute non ha gentil core, com'aigua porta raggio e '1 ciel riten le stelle e lo splendore. Splende 'n la 'ntelligenzia del cielo Deo criator più che ('n) nostr'occhi 'I sole: ella intende suo fattor oltra 'I cielo, e 'I ciel volgiando, a Lui obedir tole; e con' segue, al primero, del giusto Deo beato compimento, così dar dovria, al vero, la bella donna, poi che ['nI gli occhi splende del suo gentil, talento che mai di lei obedir non si disprende. Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?», siando l'alma mia a lui davanti. «Lo ciel passasti e 'nfin a Me venisti e desti in vano amor Me per sembianti: ch'a Me conven le laude e a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude». Dir Li porò: «Tenne d'angel sembianza che fosse del Tuo regno; non me fu fallo, s’in lei posi amanza>>. (Guido Guinizelli) fronte sirma fronte sirma fronte sirma La <chiave> <<Tra fronte e sirma c’è spesso un verso che avverte del terminare di una serie di rime e prende il mome di chiave. ... Si osseverà come a un certo punto (dopo la chiave), vi è nella canzone una mutazione e le rime cambiano: la canzone si riavvolge su sè stessa, dando una estrema organicità alla composizione: organicità e varietà simmetrica che nessun’altra forma metrica conosce>>. (Mario Santagostini) Nella canzone Di pensier in pensier, di monte in monte del Petrarca la fronte è composta di due piedi di tre versi ciascuno, la sirma è composta di sette versi (il verso chiave più altri sei versi). La stanza finale del congedo ha la struttura metrica della sirma a partire dal verso chiave (sottolineato). Lo schema metrico è il seguente: ABC,ABC - c DEe, DFF Di pensier in pensier, di monte in monte Di pensier in pensier, di monte in monte, mi guida Amor, ch’ogni segnato calle provo contrario alla tranquilla vita. A B C 1° piede Se ‘n solitaria piaggia, rivo o fonte, se ‘n tra due poggi siede ombrosa valle, ivi s’acqueta l’alma sbigottita; A B C 2° piede e come Amor l’invita, c or ride, or piange, or teme or s’assecura; e ‘l volto che lei segue ov’ella il mena, si turba e rasserena, D E e fronte chiave 1^ volta sirma et in un esser picciol tempo dura; D onde a la vista uom di tal vita esperto F dirìa:<<Questo arde, e di suo stato è incerto>>.F 2^ volta Per alti monti e per selve aspre trovo qualche riposo: ogni abitato loco è nemico mortal degli occhi miei. A B C 1° piede A ciascun passo nasce un pensier novo de la mia donna, che sovente in gioco gira ‘l tormento ch’i’ porto per lei; A B C 2° piede et a pena vorrei c chiave cangiar questo mio viver dolce amaro, ch'i' dico: - Forse ancor ti serva Amore ad un tempo migliore; D E e 1^ volta fronte sirma forse, a 'te stesso vile, altrui se' caro. D Et in questa trapasso sospirando: F -Or porrebbe esser vero? or come? or quando? F Ove porge ombra un pino alto od un colle talor m'arresto, e pur nel primo sasso disegno co la mente il suo bel viso. poi ch'a me torno, trovo il petto molle de la pietate; et alor dico: - Ai lasso, dove se' giunto, et onde se' diviso! -Ma mentre tener fiso posso al primo pensier la mente vaga, e mirar lei, et obliar me stesso, sento Amor sì da presso, che del suo proprio error l'alma s'appaga: in tante parti e sì bella la veggio che se l'error durasse, altro non cheggio. I' l'ho più volte (or chi fia che m'il creda?) ne l'acqua chiara e sopra l'erba verde veduto viva, e nel troncon d'un faggio, e 'n bianca nube, sì fatta che Leda avria ben detto che sua figlia perde, come stella che 'I sol copre col raggio; e quanto in più selvaggio loco mi trovo e 'n più deserto lido, A B C A B C c D E e D F F 2^ volta fronte chiave sirma fronte chiave tanto più bella il mio pensier l'adombra. Poi quando il vero sgombra quel dolce error, pur lì medesmo assido me freddo, pietra morta, in pietra viva, guisa d'uom che pensi e pianga e scriva. Ove d'altra montagna ombra non tocchi, verso 'I maggiore '1 più espedito giogo tirar mi suoi un desiderio intenso. Indi i miei danni a misurar con gli occhi comincio, e 'ntanto lagrimando sfogo di dolorosa nebbia il cor condenso, allor ch'i miro e penso quanta aria dal bel viso mi diparte, che sempre m'è sì presso e sì lontano. Poscia fra me pian piano: - Che sai tu, lasso? Forse in quella parte or di tua lontananza si sospira -; et in questo penser l'alma respira. Canzone, oltra quell'alpe, là dove il ciel è più sereno e lieto, mi rivedrai sovr'un ruscei corrente, ove l'aura si sente d'un fresco,et odorifero laureto: ivi è '1 mio cor, e quella che '1 m'invola; qui veder pòi l'imagine mia sola. (Francesco Petrarca) sirma fronte chiave sirma chiave sirma II. Attenuazione dello stacco tra fronte e sirma La canzone petrarchesca subisce, a partire da Quattrocento, un processo graduale di abbandono delle rigidità e delle simmetrie che la caratterizzano. Evidentemente, l’entusiasmo creativo che nel Due-Trecento ha generato una straodinaria quantità di forme metriche (tra cui veri e propri gioielli metrici, quali il sonetto, la canzone, la terzina dantesca ecc...ecc... ), è un poco scemato. E soprattuttao è mutata la concezione dell’arte, il gusto estetico. Nella nuova temperie culturale le forme metriche tradizionali, e in particolare la canzone petrarchesca, possono risultare un po’ troppo rigide e pesanti. Vengono proposti interventi di alleggerimento. Il Boiardo ad esempio <<attenua lo stacco tra fronte e sirma, così che persino la vera struttura caratteristica della canzone può divenire irriconoscibile.>> (Elwert) La canzone che segue presenta lo schema metrico: ABbC, BCcA - ADE, EDE, DFG, FgG. Ancor dentro dal cor vago mi sona Ancor dentro dal cor vago mi sona il dolce ritentir di quella lira; ancor a sé me tira la armonia disusata, e il novo canto tanto suave ancor nel cor me spira che me fa audace de redirne alquanto, abenché del mio pianto la dolce melodia nel fin ragiona. Quando l'Aurora il suo vechio abandona io e de le stelle a sé richiama il coro, poiché la porta vuoi aprir al giorno, veder me parve un giovenetto adorno, che aveva facia di rose e capei d'oro, d'oro e di rose avea la veste intorno; cinta la chioma avea di verde aloro, che ancor dentro amoroso il cor gli morde, ché l'amor perso eternamente dole. Indi movendo il plectro su le corde A B b C B C c A A D E E D E D F G F sì come far si sole, la voce sciolse poi con tal parole: g G - Quando Natura imaginando adopra, quanto di bello in vista può creare, A B ha voluto mostrare in questa ultima etate al mondo ingrato; nè possi a tal belleza acomperare il mio splendor, che il cielo ha illuminato, e ciò che fu creato primeramente, cede a l'ultima opra. Tanto è questa beltate a l'altre sopra quanto a noi Marte, e quanto a Marte Jove, quanto a lui sopra sta l'ultima spera. Formata fu questa legiadra fera che paro in terra di beltà non trove, perché il regno d'Amor qua giù non pera. Amor la sua possanza da lei move, come tu senti e può vedere il mondo, e più degli altri il cor tuo questo intende. Quando Amor vien dal suo regno jocondo, da questa l'arme prende, perché sua forza sol da lei descende. Beato il cielo e felice quel clima sotto al quale nacque e quella regione; beata la stagione a cui tanto di ben pervenne in sorte; beato te, che a la real pregione per te stesso sei chiuso entro a le porte, ché non pregion, ma corte questa se de' nomar, se ben se stima; beati li occhi toi, che veder prima so quel nero aguto e quel bianco suave che a l'amorosa zoglia apre la via; beato il cor che ogn'altra cosa oblia nè altro diletto nè pensier non have fuor che di sua ligiadra campagnia. se Quanto beata è l'amorosa chiave che apre e dissera l'anima zentile nel dolce contemplar de li atti bei! Fatto è beato e nobile il tuo stile nel cantar di colei che in terra è ninfa, e Diva è fra gli Dei. Quando costei dal cielo a vui discese una piogia qua giù cadea de zigli, e rose e fior vermigli b C B C c A A D E E D E D F G F g G avean di bel color la terra piena. Non voglio che perciò sospetto pigli, ma al vero in cielo io mi rateni apena, e in vista più serena mostrai la zoglia mia di fuor palese. Jove, che meco a mano alor se prese, mirava in terra con benigno aspetto, e fesse a nostra vista il mondo lieto. A noi stava summesso ogni pianeto, floria la terra e stava con diletto, tranquillo il mare e il vento era quieto. Così a noi venne questo ben perfetto, favorito dal Cielo e da le stelle più che mai fusse ancor cosa formata. Questa dal petto l'alma a te divelle: ma se al ver ben se guata, mal per te fo cotal beltà creata. Mal fo per te creata, il ver ragiono; sciai che io so Febo e non soglio mentire: per farti alfin languire venuta è in terra questa cosa bella. Misero te che tanto hai da soffrire da questa fera fugitiva e snella! Miser, quanta procella porrà ancor la tua barca in abandono! E se io de lo advenir presago sono, nulla ti giova lo amonir ch'io facio, ché distor non te posso a chi te guida. Tristo chi d'alma feminil se fida, acciò che doppo il danno e doppo il straccio sovente del suo male altri se rida! Nel foco, che rarde ora, vedo un giaccio che te farà tremar l'osse e la polpa, mancar il corpo e il spirto venir meno. Non te doler de altrui, ché l'è tua colpa, e tu lo vidi apieno a che dovevi al desir por prima il freno. Così cantava, e querelando al fine la citera suave sospirava voce più chetta e notte peregrine. Qual vanitate noi mortali agrava! Credere al sogno ne la notte oscura ed al cieco veder dar chiara fede! Ma benché io non sia sciolto da paura, il mio cor già non crede aver del suo servir cotal merzede. (Matteo Maria Boiardo) III. Rinuncia alla struttura petrarchesca Nel Cinquecento il processo di allontanamento dalla canzone petrarchesca subisce una brusca accelerazione.<<Una certa articolazione si conserva ancora talvolta, ma non è quella della strofe petrarchesca. >>(Elwert) La canzone che segue manca del congedo, e le sue strofe si articolano in tre momenti ritmici, che richiamano la struttura dell’ode pindarica. Lo schema è il seguente: A b A b, c D D c, E E. Per Cintio Venanzio da Cagli vincitore ne' giuochi del pallone celebrati in Firenze nell'estate dell'anno 1619. (Velleità pindariche) Io, per soverchia età, piedi ho mal pronti sull'alpe a far cammino: tu muovi, Euterpe, e d'Apennin su' monti ritrova il vago Urbino, ed ivi narra, come un bramoso d'onor germe di Cagli, in bel teatro di gentii travagli, s'inghirlandò le chiome e fé sull'Arno rirnaner pentita ogni possanza a contrastano ardita. A b A b c D D c E E Gente quadrata, e che, nervoso il braccio, i piè quasi ha di piume; e se corre Aquilon padre del ghiaccio, sprezzano ha per costume; ma se dall'alto rugge il leon di Nemèa ne' caldi mesi, va per le piagge aperte, e i lampi accesi fra selve ella non fugge; e pure, di valor Cintio la vinse e dell'acero illustre il crin si cinse. A b A b, c D D c, E E Deh! che fu rimirarlo, arso la pelle e dimagrato il busto portar sul campo le vestigia snelle, indomito, robusto! E, nel fervor del giorno, dar legge al volo delle grosse palle, A b A b, c D e tutto rimbombar l'aereo calle alle percosse intorno, qual se Giove talor fulmini avventa, e squarcia i nembi e i peccator sgomenta! D c, E E Cintio, sentier di desrata gloria ha passi gravi e forti ; ma pena di virtù (siati in memoria) non è senza conforti; e tu, se 'I corpo lasso levar» desli e rinfrescar le vene, non ricercar qua giù fonti terrene, figlie d'alpestre sasso; ché a ristorar delle fatiche oneste altrui vers'io di Pindo acqua celeste. (Gabriello Chiabrera , 1552-1638) A b A b, c D D c E E Anche in questa canzone le strofe si articolano in tre momenti ritmici, che richiamano la struttura dell’ode pindarica. Lo schema metrico è il seguente: AbC,CbA,aDD Serenata all’uscio di Cintia Cintia, la doglia mia cresce con l’ombra, e a le tue mura intorno vo pur girando il piè notturno amante. Tuffato il carro ha già nel mar d’Atlante il condottier del giorno, e caligine densa il cielo adombra: alto silenzio ingombra la terra tutta, e ne l’orror profondo stanco da l’opre omai riposa il mondo. A b C C b A a D D Io sol non poso, e la mia dura sorte su queste soglie amate nell’altrui pace a algrimar mi mena. Tu pur odi il mio duolo, sai la mia pena, apri, deh per pietate apri Cintia cortese, apri le porte. Sonno tenace, e forte de la vecchia custode occupa i sensi: apri Cintia; apri bella; oimè che pensi? A b C C b A a D D Vuoi tu dunque, crudel, ch’io qui mi moia, mentre più incrudelisce le gelid’aria del notturno cielo? D’ispide brine irta è la chioma, il gelo le membra intorpidisce; qual foglia i’ tremo, e tu non m’apri ancora? Durissima dimora! Mentre dormi fors’anco, e ‘l mio tormento non ode altri, che l’ombra, altri che ‘l vento. O Sonno, o de’ mortali amico Nume, sopitor de’ pensieri, sollevator d’ogni affannato core: Deh, s’egli è ver ch’ardessi unque d’amore, da que’ begli occhi alteri, che stan chiusi al mio mal, spiega le piume; tornerai pria, ch’allume la bell’aurora il ciel; vanne soltanto, che Cintia oda il mio duol, senta il mio pianto. Vanne Sonno gentil, vattene omai: così luce nimica, o strepito importun mai non ti svegli; così d’onde Letea sparsa i capegli la tua leggiadra amica ti dorma in seno, e non s’en parta mai. Sonno, ancor non te’n vai? Dimmi, Nume insensato, iniquo Dio, d’un sonno crudel, che t’ho fatt’io? Tu de l’Erebo figlio, e de l’oscura morte fratel non puoi maniere usar, se non atroci, ed empie, possanti inaridire in su le tempie i papaveri tuoi, e siati Pasitea sempre più dura; e per maggior sciagura vigilia eterna ognor t’opprima, e stanchi sì, ch’agli occhi del sonno il sonno manchi. Porte, ma voi, voi non v’aprite. Ah pera chi dall’alpine balze trasse, per voi formare, la quercia, e il cerro: cingasi pur d’inespugnabil ferro, e vallo e muro innalze città, ch’oppressa è da nimica schiera, ma se tromba guerriera qua non giugne col suono, se guai sospetti munir ci fan con tanta cura i tetti? O mille volte, e mille età beata, quando a l’ombra de’ faggi dormian senza timor le prische genti; ricco allora il pastor di pochi armenti non paventava oltraggi di ladro occulto, di falange armata: avarizia mal nata fu che pose a i tesor guardie, e custodi, e mostrò i furti, ed insegnò le frodi. Porte sorde agl’amanti, adunque invano di giacinti odorosi ho tante volte a voi ghirlande inteste? O venti, o pioggie, o fulmini, o tempeste scendete impetuosi, stendete voi le dure porte al piano; e tu lenta mia man invendicata ancor l’ore te ‘n passi? Se ti mancan le fiamme, eccoti sassi. Lasso, ma che vaneggio? In ciel più rare scintillano le stelle, già s’intreccia di fior l’alba le chiome, santi numi del ciel, s’in vostro nome d’odorate fiammelle arder fec’io più d’un divoto altare, de le mie pene amare pietà vi punga; e se giustizia ha il polo levatemi di senso, ovver di duolo. Voi, che mutate a l’uom sembiante, e spoglia ch’altri volar per l’etra, altri fate vagar disciolto in onda; voi, che Narciso in fior, che Dafne in fronda cangiaste, in dura pietra me trasformate ancor su questa soglia. Cesserà la mia doglia e godrò, ch’al mattino, ove si desti, Cintia col piè mi prema, e mi calpesti. (Fulvio Testi, 1593-1646) Lo schema della canzone si articola nei tradizionali due momenti ritmici: fronte e sirma. Lo schema metrico è il seguente: aBa,CBc - Ad,Ee,Dd,FF (in cui Ad costituisce la (doppia) chiave tra fronte e sirma). Sopra l’assedio di Vienna E fino a quanto inulti fian, Signore, i tuoi servi?e fino a quanto de i barbarici insulti orgogliosa n'andrà l'empia baldanza? Dov'è, dov'è, gran Dio, l'antico vanto di tu' alta possanza? Su' campi tuoi, su' campi tuoi più culti semina stragi e morti barbaro ferro, e te destar non pònno da sì profondo sonno le gravi antiche offese e i nuovi torti? E tu '1 vedi, e '1 comporti, e la destra di folgori non armi, o pur le avventi agl'insensati marmi? a B a C B c A d E e D d F F Mira, oimè, qual crudele nembo d'armi e d'armati, e qual torrente d'esercito infedele corre l'Austria a inondar! Mira, che il loco a tant'empito manca, e a tanta gente par che l'Istro sia poco, e di tant'aste all'ombra il di si cele! Tutte son qui le spade dell'ultimo Oriente, e alla gran lutta a B a C B c A d E l'Asia s'unio qui tutta, e quei che '1 Tanai solca, e quei che rade le sarmatiche biade, e quei che calca la bistonia neve, e quei che 'I Nilo e che l'Oronte beve. Di cristian sangue tinta mira dell'Austria la città reina, quasi abbattuta e vinta, mille e mille raccòr nel fianco infermo fulmin temprati all'infernal fucina. Mira, che frale schermo son per lei l'alte mura, ond'ella è cinta: mira le palpitanti sue rocche. Odi, odi il suon ch'a morte sfida: le disperate strida odi, e i singulti e le querele e i pianti delle donne tremanti, che al fiero aspetto de i comun perigli stringonsi al seno i vecchi padri e i figli. L'onnipotente braccio, Signor, doti stendi, e sappian gli empi omai, sappian, che vetro e ghiaccio son br arme a' tuoi colpi, e che sei.Dio. Di tue giuste vendette a i caldi rai struggasi 'I popol rio. Qual porga il collo al ferro, e quale al laccio; e come fuggitiva polve avviene che rabbioso Austro disperga; così persegua e sperga tuo sdegno i traci; e sull'augusta riva dal Danubio si scriva: al vero Giove l'ottoman Tifeo qui tentò di far guerra e qui cadeo. Del re superbo assiro gli aspri arieti di Sion le mura so pur che invan colpiro; e tal poi monte d'insepolti estinti alzasti tu, che inorridi natura. Guerrier dispersi e vinti so che vide Betulia; e 'I duce siro e D d F F con memorando esempio trofeo pur fu di femminetta imbelle. Sulle teste rubelle deh rinnovella or tu l'antico scempio. Non è di br men empio quei che servaggio or ne minaccia e morte; nè men fidi siam noi, nè tu men forte. Che s'egli è pur destino, e ne' volumi eterni ha scritto il Fato, che deggia un dì all'Eussino servir l'ibera e l'alemanna Teti, e 'I suoI cui pane l'Apennin gelato; a' tuoi santi decreti pien di timore e d'umiltà m'inchino. Vinca, se così vuoi, vinca lo scita; e 'l glorioso sangue versi l'Europa esangue da ben mille ferite. I voler tuoi legge son ferma a noi; tu sol se' buono e giusto; e giusta e buona quell'opra è sol che al tuo voler consuona. Ma sarà mai ch'io veggia fender barbaro aratro all'Austria il seno e pascolar la greggia, ove or sorgon cittadi, e senza tèma starsi gli arabi armenti in riva al Reno? Nella ruina estrema fia che dell'Istro la famosa reggia d'ostile incendio avvampi, e dove siede or Vienna, abiti l'eco in solitario speco, le cui disene arene orma non stampi? Ah no, Signor, tropp'ampi son di tua grazia i fonti; e tal flagello se in cielo è scritto, a tua pietà m'appello. Ecco d'inni devoti risonar gli alti templi: ecco soave tra le preghiere e i voti salire a te d'arabi fumi un nembo. Già i tesor sacri, ond'ei sol tien la chiave, dall'adorato grembo versa il grande Innocenzio, e i non mai vòti erari apre e comparte: già i cristiani regnanti alla gran lega non pur commuove e piega; ma in un raccoglie le milizie sparte del teutonico Marte; e se tremendo e fier, più che mai fosse, scende il fulmin polono, ei fu che '1 mosse. Ei dall'esquilio colle ambo in ruina dell'orribil geta, Mosè novello, estolle a te le braccia, che da un lato regge Speme, e Fede dell'altro. Or chi ti vieta il ritrattar tua legge e spegner l'ira, che nel sen ti bolle? Pianse e pregò l'afflitto buon re di Giuda, e gli crescesti etate: lagrime d'umiltate Ninive sparse, e si cangiò 'l prescritto fatale infausto editto. Ed esser può che 'l tuo Pastor devoto non ti sforzi, pregando, a cangiar voto? Ma sento, o sentir parme sacro furor, che di sé m'empie. Udite, udite, o voi, che l'arme per Dio cingete. Al tribunal di Cristo già decisa in pro vostro è la gran lite. Al glorioso acquisto su su pronti movete; in lieto carme tra voi canta ogni tromba, e 'l trionfo predice. Ite, abbattete, dissipate, struggete quegli empi; e l'Istro al vinto stuol sia tomba. D'alti applausi rimbomba la terra omai; che più tardate? aperta è già la strada, e la vittoria è certa. (Vincenzo Da Filicaia, 1642-1707) IV. Canzone a strofe libere Sempre in età barocca l’evoluzione della canzone prende decisamente una strada nuova, quella dell’abbandono delle strofe obbligate. Si approda così alla canzone a strofe libere di Alessandro Guidi, il quale <<non solo rinunciò alla suddivisione della strofa, ma variò anche lo schema di strofa in strofa, foggiando una canzone di strofe diverse l’una dall’altra e per lunghezza e per struttura, la vera e propria canzone a strofe libere ... >> (Elwert) La canzone che segue è composta di endecasillabi e settenari, senza strofe fisse e senza che tutti i versi siano rimati. La Fortuna «Corsi sul Nilo, e dell'egizia Donna al bel collo appressai l'aspre ritorte, e gemino veleno implacabile porsi al bel candido seno; e pria nell'antro avea combattuta e confusa l'africana virtute, e al Punico feroce recate di mia man l'atre cicute. A B c d c e f g h G Per me Roma avventò le fiamme in grembo all 'emula Cartago, ch'andò errando per Libia ombra sdegnata sinché per me poi vide trasformata l'immago de la sua gran nemica: e allor placò i desiri della feroce sua vendetta antica, e trasse anco i sospiri sopra l'ampia mina de l'odiata maestà latina. A b C d B e f E F g g Rammentar non vogl'io l'orrida spada, con cui fui sopra al cavalier tradito sul menfitico lito; né la crudel che il duro Cato uccise, né il ferro che de' Cesari le membra cominciò a violar per man di Bruto. Teco non tratterò l'alto furore sterminator de' regni: A B b C D E F g ché capaCe non sei de' miei gran sdegni, come non fosti delle gran venture. Avrai dell'ira mia piccioli segni: farò che il suono altero de' tuoi fervidi carmi lento e roco rimbombe, e che l'umil siringhe or sembrino uguagliar anco le trombe... » G H G I L m n M Indi levossi furiosa a volo, e, chiamati da lei, sulla capanna mia vennero i nembi, venner turbini e tuoni; e con ciglio sereno dalle grandini irate allora i' vidi, in fra baleni e lampi, divorarsi la speme de' miei poveri campi. (Alessandro Guidi, 1650- 1712) A b C d e F g h g V. Canzone leopardiana In età romantica, il Leopardi attraverso un percorso tutto personale, analogo per certi aspetti a quello del Guidi, perviene gradualmente ai canti della piena maturità espressiva, a strofe libere, mediante: a) l’abolizione delle strofe di uguale lunghezza; b) l’abolizione dell’ordine rigido delle rime, c) l’ inserimento di versi sciolti, d) la sostituzione delle rime perfette con assonanze e consonanze. L’unico schema da rispettare, e in maniera molto elastica, è dato dall’alternanza di versi endecasillabi e settenari. Il gioco delle rime è lasciato libero di <<variare>> secondo l’atteggiamento del poeta nei confronti delle parole. Come accennato, Leopardi parte da un modello di canzone piuttosto tradizionale, come risulta ad esempio dall’analisi metrica della canzone che segue. Le sette stanze presentano uno schema metrico tripartito analogo a quello della canzone <Per Cintio Venanzio da Cagli> del Chiabrera: uno schema metrico non regolare, ma tendente alla regolarità. 1^ 2^ 3^ 4^ 5^ 6^ 7^ stanza: stanza: stanza: stanza: stanza: stanza: stanza: ABcD, ABCe - FGe, FHG - I hl, M iM ABCD, aBDE - FbE, fGb - HGI, LhL ABcD, ABCe - FGe, FHG - I hl, M iM ALL'ITALIA O patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l'erme Torri degli avi nostri, Ma la gloria non vedo, Non vedo il laum e il ferro ond'eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il peflo mostri. Oimè quante ferite, Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Formosissima donna! lo chiedo al cielo E al mondo: dite dite; Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, Che di catene ha carche ambe le braccia: Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia Tra le ginocchia, e piange. Piangi, che ben hai donde, Italia mia, Le genti a vincer nata E nella fausta sorte e nella ria. Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive, Mai non potrebbe il pianto Adeguarsi al tuo danno ed allo scomo; Che fosti donna, or sei povera ancella. Chi dite parla o scrive, Che, rimembrando il tuo passato vanto, Non dica: già fo grande, or non è quella? Mai non potrebbe il pianto Adeguarsi al tuo danno ed allo scomo; Che fosti donna, or sei povera ancella. Chi dite parla o scrive, Che, rimembrando il tuo passato vanto, Non dica: già fu grande, or non è quella? Perché, perché? dov'è la forza antica, Dove l'armi e il valore e la costanza? Chi ti discinse il brando? Chi ti tradì? qual arte o qual fatica O qual tanta possanza Valse a spogliarti il manto e l'auree bende? Come cadesti o quando Da tanta altezza in così basso loco? Nessun pugna per te? non ti difende Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo Combaflerò, procomberò sol lo. Dammi, o del, che sia foco. Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi E dì carri e dì voci e di timballi: In estranie contrade Pugnano i tuoi fighuoli. Attendi, Italia, attendi. lo veggio, o parmi, Un fluttuar di fanti e di cavalli, E fumo e polve, e luccicar di spade Come tra nebbia lampi. Né ti conforti? e i tremebondi lumi Piegar non soffri al dubitoso evento? A che pugna in quei campi L'itala gioventude? O numi, o numi: Pugnan per altra terra itali acciari. Oh misero colui che in guerra è spento, Non per li patrii lidi e per la pia Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui Per altra gente, e non può dir morendo: Alma terra natia, La vita che mi desti ecco ti rendo. Oh venturose e care e benedette L'antiche età, che a morte Per la patria correan le genti a squadre; E voi sempre onorate e gloriose, O tessaliche strette, Dove la Persia e il fato assai men forte Fu di poch'alme franche e generose! lo credo che le piante e i sassi e l'onda E le montagne vostre al passeggere Con indistinta voce Narrin siccome tutta quella sponda Coprir le invitte schiere De' comi ch'alla Grecia eran devoti. Allor, vile e feroce, Serse per l'Ellesponto sì foggia, Fatto ludibrio agli ultimi nepoti; E sul colle d'Antela, ove morendo Si sottrasse da morte il santo stuolo, Simonide solia, Guardando l'etra e la marina e il suolo. E di lacrime sparso ambe le guance, E il petto ansante, e vacillante il piede, Togheasi in man la lira: Beatissimi voi, Ch'ofttiste il petto alle nemiche lance Per amor di costei ch'al Sol vi diede; Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira. Nell'armi e ne' perigli Qual tanto amor le giovanette menti, Qual nell'acerbo fato amor vi trasse? Come sì lieta, o figli, L'ora estrema vi parve, onde ridenti Correste al passo lacrimoso e duro? Parea ch'a danza e non a morte andasse Ciascun de' vostri, o a splendido convito: Ma v'attendea lo scuro Tartaro, e l'onda morta; Nè le spose vi foro o i figli accanto Quando su l'aspro lito Senza baci moriste e senza pianto. Ma non senza de' Persi orrida pena Ed immortale angoscia. Come lion di tori entro una mandra Or salta a quello in tergo e sì gli scava Con le zanne la schiena, Or questo fianco addenta or quella coscia Tal fra le Perse torme infuriava L'ira de' greci petti e la virtute. Ve' cavalli supini e cavalieri; Vedi intralciare ai vinti La foga i carri e le tende cadute E correr fra' primieri Pallido e scapigliato esso tiranno; Ve' come infusi e tinti Del barbarico sangue I greci eroi, Cagione ai Persi d'infinito affanno, A poco a poco vinti dalle piaghe, L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva: Beatissimi voi Mentre nel mondo sì favellì o scriva. Prima divelte, in mar precipitando, Spente nell'imo strideran le stelle, Che la memoria e il vostro Amor trascorra o scemi. La vostra tomba è un'ora; e qua mostrando Verran le madri ai parvoli le belle Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro, O benedetti, al suolo, E bado questi sassI e queste zolle, Che fien lodate e chiare eternamente Dall'uno all'altro polo. Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle Fosse del sangue mio quest’alma terra. Che se il fato è diverso, e non consente Ch'io per la Grecia i moribondi lumi Chiuda prostrato in guerra, Così la verecondo Fama del vostro vate appo i futuri Possa, volendo i numi, Tanto durar quanto la vostra duri. Come accennato, coi grandi idilli Leopardi raggiunge la maturità, caratterizzata dall’abolizione delle strofe di uguale lunghezza nonchè dell’ordine rigido delle rime, dall’ inserimento di versi sciolti, dalla sostituzione delle rime perfette con assonanze e consonanze. L’unico schema da rispettare, e in maniera molto elastica, è dato dall’alternanza di versi endecasillabi e settenari. Il gioco delle rime è lasciato libero di <<variare>> secondo l’atteggiamento del poeta nei confronti delle parole. Il passero solitario D'in sulla vetta della torre antica, passero solitario, alla campagna cantando vai finché non more il giorno; ed erra l'armonia per questa valle. Primavera dintorno brilla nell'aria e per li campi esulta, si che a mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; gli altri augelli contenti, a gara insieme, per lo libero ciel fan mille giri, pur festeggiando il br tempo migliore: tu pensoso in disparte il tutto miri; non compagni, non voli, non ti cai d'allegria, schivi gli spassi; canti e cosi trapassi dell'anno e di tua via il più bel fiore. Oimè, quanto somiglia al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, della novella età dolce famiglia, e te, german di giovinezza, amore, sospiro acerbo de' provetti giorni, non curo, io non so come: anzi da loro quasi fuggo lontano; quasi romito e strano al mio loco natio, passo del viver mio la primavera. Questo giorno ch'omai cede alla sera festeggiar si costuma al nostro borgo. Odi per lo sereno un suon di squilla, odi spesso un tonar di ferree canne che rimbomba lontan di villa in villa. Tutta vestita a festa la gioventt del loco lascia le case e per le vie si spande; e mira ed è mirata, e in cor a allegra. Io solitario in questa rimota parte alla campagna uscendo, ogni diletto e gioco indugio in altro tempo; e intanto il guardo steso nefl'aria aprica, mi fere il sol che tra lontani monti, dopo il giorno sereno, cadendo si dilegua e par che dica che la beata gioventù vien meno. Tu, sonngo augellin, venuto a sera del viver che daranno a te le stelle, certo del tuo costume non ti dorrai; che di natura è frutto ogni vostra vaghezza. A me, se di vecchiezza la detestata soglia evitar non impetro, quando muti quest'occhi all'altrui core, e br fia voto il mondo, e il dl futuro del dì presente più noioso e tetro, che parrà di tal voglia? Che di quest'anni miei? che di me stesso? Ma pentirommi e spesso, ma sconsolato volgerommi indietro. (Giacomo Leopardi) VI. La canzone novecentesca: mantenimento della divisione strofica Vengono impiegati anche versi diversi da quelli propri della canzone (endecasillabo, settenario). La divisione strofica viene mantenuta, ma le strofe di rado hanno un egual numero di versi. Le rime sono spesso sostituite da assonanze, e alcuni versi sono privi di rima. I limoni Ascoltami, i poeti laureati 11 si muovono soltanto fra le piante 11 dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. 7,7 Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi 7,7 fossi dove in pozzanghere 7 mezzo seccate agguantano i ragazzi 11 qualche sparuta anguilla: 7 le viuzze che seguono i ciglioni, 11 discendono tra i ciuffi delle canne 11 e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. 7,8 Meglio se le gazzarre degli uccelli 11 si spengono inghiottite dall'azzurro: 11 più chiaro si ascolta il susurro 9 dei rami amici nell'aria che quasi non si muove, 8,7 e i sensi di quest'odore 8 che non sa staccarsi da terra 9 e piove in petto una dolcezza inquieta. 11 Qui delle divertite passioni 10 per miracolo tace la guerra, 10 qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza 7,9 ed è l'odore dei limoni. 9 Vedi, in questi silenzi in cui le cose s'abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel meno di una verità. Lo sguardo fruga d'intorno, la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. 11 11 11 7 11 8,7 8,8 9 8 11 8 8 Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità. 9 11 11 Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta il tedio dell'inverno sulle case, la luce si fa avara - amara l'anima. Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo del cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d'oro della solarità. (Eugenio Montale) 7,7 8,8 7,5 8,5 11 7,5 11 8 11 9 6 6 5,7 VII. La canzone novecentesca: rinuncia alla divisione strofica La canzone del Cardarelli Sera di Gavinana è composta di una sola stanza di versi liberi, endecasillabi e settenari. La cosa non è una novità assoluta, poichè abbiamo vari esempi anche nel passato, per esempio in Vincenzo Monti ... Tra paentesi sono segnalate le rime imperfette: assonanze e consonanze. Sera di Gavinana Ecco la sera e spiove sul toscano Appennino. Con lo scender che fan le nubi a valle, prese a lembi qua e là come ragne fra gli alberi intricate, si colorano i monti di viola. Dolce vagare allora per chi s'affanna il giorno ed in se stesso, incredulo, si torce. Viene dai borghi, qui sotto, in faccende, un vociar lieto e folto in cui si sente il giorno che declina e il riposo imminente. Vi si mischia il pulsare, il batter secco ed alto del camion sullo stradone bianco che varca i monti. E tutto quanto a sera, grilli, campane, fonti, fa concerto e preghiera, trema nell'aria sgombra. Ma come più rifulge, nell'ora che non ha un'altra luce, il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino. Sui tuoi prati che salgono a gironi, questo liquido verde, che rispunta fra gl'inganni del sole ad ogni acquata, al vento trascolora, e mi rapisce, per l'inquieto cammino, sì che teneramente fa star muta l'anima vagabonda. (Vincenzo Cardarelli) (A) (A) (B) (b) (C) C c d e d e (f) g G H (D) I h I (f) VIII. Nostalgia della forma classica Lungo l’Affrico di Gabriele D’Annunzio, è abbastanza vicina al modello classico. <<Quattro strofe di dieci versi. Ogni strofa di dieci versi “s’ispira certo all’antica stanza di canzone, divisa com’è in due piedi identici (ABC, ABC tutti endecasillabi) più una sirma connessa da una rima chiave [sottolineata] (cDDx, con c settenario e x quinario): la differenza fondamentale sta nel fatto che le rime possono essere, secondo la consuetudine della tecnica dannunziana, sostituite da assonanze e che l’ultimo verso non ha alcuna corrispondenza. ... Mentre l’alternanza di endecasillabi e settenari è fatto banale, non così la giustapposizione di un quinario finale a un endecasillabo ... >> (F. Roncoroni, in G: D’annunzio, Alcyone, Oscar Mondadori, che cita a sua volta G. Contini) Manca il congedo. Schema metrico: ABC,ABC - cDDx. Lungo l’Affrico Grazia del ciel come soavemente ti miri ne la terra abbeverata, anima fatta bella dal suo pianto! O in mille e mille specchi sorridente grazia, che da la nuvola sei nata come la voluttà nasce dal pianto, musica nel mio canto ora t'effondi, che non è fugace per me trasfigurata in alta pace a chi l'ascolti. Nascente Luna, in cielo esigua come il sopracciglio de la giovinetta e la midolla de la nova canna, sì che il più lieve ramo ti nasconde e l'occhio mio, se ti smarrisce, a pena ti ritrova, pel sogno che l'appanna, Luna, il rio che s'avvalla senza parola erboso anche ti vide; e per ogni fli d'erba ti sorride, solo a te sola. O nere e bianche rondini, tra notte e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere ospiti lungo l'Affrico notturno! A B C A B C c D D x 11 11 11 11 11 11 7 11 11 5 Volan elle sì basso che la molle erba sfioran coi petti, e dal piacere il loro volo sembra fatto azzurro. Sopra non ha susurro l'arbore grande, se ben trema sempre. Non tesse il volo intorno a le mie tempie fresche ghirlande? E non promette ogni lor breve grido un ben che forse il cuore ignora e forse indovina se udendo ne trasale? S'attardan quasi immemori del nido, e sul margine dove son trascorse par si prolunghi il fremito dell'ale? Tutta la terra pare argilla offerta all'opera d'amore, un nunzio il grido, e il vespero che muore un'alba certa. (Gabriele D’Annumzio) La nostalgia delle forme classiche (canzone, sonetto, ballata, madrigale, ecc...) si fa vieppiù sentire in questi ultimi tempi, che vedono la rinascita di una sensibilità metrica, nel recente passato gravemente offuscata dal domiunio incontrastato del puro ritmo. 2. CANZONE SESTINA (O SESTINA LIRICA) E’ composta di 6 stanze di 6 versi ciascuna. Le parole-rima sono identiche in tutte le stanze e ritornano nella strofe successiva in ordine retrogrado: 6 1 5 2 4 3. A qualunque animale alberga in terra A qualunque animale alberga in terra, se non se alquanti ch'ànno in odio il sole, tempo da travagliare è quanto è 'l giorno; ma poi che '1 ciel accende le sue stelle, qual torna a casa et qual s'anida in selva per aver posa almeno infin a l'alba. 1 2 3 4 5 6 Et io, da che comincia la bella alba scuoter l'ombra intorno de la terra svegliando gli animali in ogni selva, non ò mai triegua di sospir' col sole; poi quand'io veggio fiammeggiar le stelle vo lagrimando, et disùndo il giorno. 6 1 5 2 4 3 Quando la sera scaccia il chiaro giorno, et le tenebre nostre altrui fanno alba, miro pensoso le crudeli stelle, che m'ànno facto di sensibil terra; et maledico il dì ch'i' vidi '1 sole, che mi fa in vista un huom nudrito in selva. Non credo che pascesse mai per selva sì aspra fera, o di nocte o di giorno, come costei ch'i' piango a l'ombra e al sole; et non mi stancha primo sonno od alba: ché, bench'i' sia mortal corpo di terra, lo mio fermo desir vien da le stelle. ' Prima ch'i' torni a voi, lucenti stelle, o tomi giù ne l'amorosa selva, lassando il corpo che fia trita terra, vedess'io in lei pietà, che 'n un sol giorno può ristorar molt'anni, e 'nanzi l'alba puommi arichir dal tramontar del sole. Con lei foss'io da che si parte il sole, et non ci vedess'altri che le stelle, sol una nocte, et mai non fosse l'alba; et non se transformasse in verde selva per uscirmi di braccia, come il giorno ch'Apollo la seguia qua giù per terra. Ma io sarò sotterra in secca selva e 'l giorno andrà pien di minute stelle prima ch'a si dolce alba arrivi il sole. (Francesca Petrarca) Notte di maggio Non mai seren di più tranquilla noffe Fu salutato dalle vaghe stelle In riva di correnti e lucid'onde; E tremo lavo ronda su 'I verde, Rompendo l'ombre che scendean da' colli, L'antica, errante, solitaria luna. Candida, verecondo, austera luna: Che vapori e tepor per l'alta notte Sallano a te da gli arborati colli! Parea che in gara a le virginee stelle Si svegliasser le ninfe in mezzo il verde, E un soave susurro era ne l'onde. Non tale un navigar d'oblio per l'onde Ebbero amanti mai sotto la luna, Qual io disamorato entro il bel verde: Ché solo a i buoni splender quella noffe Pareami, e da gli avelli e da le stelle Spirti amici vagar vidi su i colli. O voi dormenti ne i materni colli, E voi d'umili tombe a presso l'onde Guardanti in cielo tropassar le stelle; Voi sotto il fiso raggio de lo luna Rividi io popolar la cheta noffe, Lievi strisciando su 'I commosso verde. Deh, quanta parte de l'età mio verde Rivissi in cima a i luminosi colli, E vinta al basso rifuggia la notte! Quando una forma verso me su l'onde, bisegnato nel lume de la luna, Vidi, e per gli occhi le ridean le stelle. Ricorditi: mi disse. Allor le stelle Furon velate, e corse ombra su 'l verde, E di sùbito in ciel tacque la luna; Acuti lai suonarono pe' colli; Ed io soleffo su le flebili onde bi sepolcro sentii fredda la notte. Quando lo notte è fitta più di stelle, A me giova appo l'onde entro il bel verde mirar su i colli la sedente luna. (Giosuè Carducci) Sestina a Firenze Sempre all'inverno delle toni un fiore si posa appena aprile apre la terra con il suo giunco d'aria e agita argento al riso desolato delle sale alle armi dei chiostri. Un fiore d'erba d'aliti cauti anima le pietre. Sterili strenue adolescenti pietre più del variare dei nuvoli in fiore e della virtù avara d'ogni erba che corse le stagioni della terra foste scienza per me d'amaro sale impenetrabili torri d'argento e innanzi a voi negli inverni d'argento volli eguagliare entro di me le pietre essere asciutto scintilflo di sale pensiero e forma limpida di fiore senza peso nè ombra sulla terr senza perire più come fa l'erba. Ma ora è la virtù breve dell'erba quanto mi resta invece, il breve argento degli steli che odorano la terra sui carri del tramonto. Alle tue pietre, città amara, mi guidi, ora che il fiore eterno al gelo delle torri sale. Ritorno, in cima alla memoria sale, e ne sorrido, quel tempo: ero erba e sono, che dissolto al sole il fiore sibili rade sillabe d'argento al vento inaridito delle pietre e pieghi in pace all'ombra della terra. Dunque verso quell'ombra alla mia terra vengo da sempre e alle deserte sale dei templi e delle logge dove il fiore di Firenze scolora antico e l'erba parla dei morti fra i marmi d'argento. Ma per questa mia pace ultima, pietre, se il vento sale e il sereno alle pietre, se aprile grida argento, abbia la terra sempre chi l'erba e il tempo intenda e il fiore. (Franco Fortini) Voglia che in cuore m'entra Voglia che in cuore m'entra ferma non si potrà da becco o unghia scalfire d'uomo che si cuoce l'alma per male dire; e se con ramo o verga non lo punisco, almeno, assente zio, goda io furtivo o in verziere o in stanza. Quando penso alla stanza dove per danno mio so che non s'entra, ché più m'è ognuno che fratello e zio, a membro a membro tremo e fin nell'unghia come fanciullo davanti alla verga, tanto ho paura di non starle in alma. Se di corpo, non d'alma a suo piacere mi celasse in stanza, ché più mi sferza il cuore d'una verga di non essere là dove lei entra, sarò con lei come la carne e l'unghia, non ascoltando né amico né zio. Sorella di mio zio -260né più né tanto ho amata, per quest'alma, di quanto come il dito è presso all'unghia vorrei stare con lei nella sua stanza: con me può amore, che nel cuore m'entra, più che uomo forte con fievole verga. Poi che la secca verga fiorì, e in Adamo son nipoti e zio, mai bell'amore come in cuore m'entra credo non fosse né in corpo nè in alma: da lei il mio cuore, in piazza e dentro stanza, più non si parte che da carne unghia. (Giovanni Raboni) 3. CANZONE CICLICA La canzone ciclica o a rime cicliche è’ composta di sei stanze, ognuna di dodici endecasillabi, e da un congedo di sei endecasillabi: Anche qui è fondamentale la presenza delle parole-rima: esse sono cinque e <<tornano a rotazione nelle cinque stanze in modo che la prima di ogni stanza ricorre sei volte nei versi 1, 3, 4, 6,7,10, la seconda una volta nel verso 2, la terza una volta nel verso 5, la quarta due volte nei versi 8 e 9, la quinta due volte nei versi 11 e 12. A turno l’ultima parola-rima di una stanza è ripresa come prima della successiva mentre le altre seguono a salare. Amor, tu vedi ben che questa donna Amor, tu vedi ben che questa donna La tua vertù non cura in alcun tempo che suol de l'altre belle farsi donna; ’ e poi s accorse ch'ell'era mia donna per lo tuo raggio ch'al volto mi luce, d'ogne crudelità si fece donna; si che non par ch'ell'abbia cor di donna, ma di qual fiera l'ha d'amor più freddo: ché per lo tempo caldo e per lo freddo mi fa sembiante pur come una donna che fosse fatta d'una bella petra per man di quei che me' intagliasse in petra. E io, che son costante più che petra in ubidirti per bieltà di donna, porto nascoso il colpo de la petra con la qual tu mi desti come a petra che t'avesse innoiato lungo tempo, tal che m'andò al core ov'io son petra. E mai non si scoperse alcuna petra o da splendor di sole o da sua luce, che tanta avesse né verlà nè luce che mi potesse atar da questa petra, sì ch'ella non mi meni col suo freddo 1 colà dov io sarò di morte freddo. Segnor, tu sai che per algente freddo l'acqua diventa cristallina petra là sotto tramontana ov'è il gran freddo, e l'aere sempre in elemento freddo vi si converte, si che l'acqua è donna in quella parte per cagion del freddo: così dinanzi dal sembiante freddo mi ghiaccia sopra il sangue d'ogne tempo, e quel pensiero che m'accorcia il tempo mi si converte tuffo in corpo freddo, che m'esce poi per mezzo della luce là ond'entrò la dispietata luce. In lei s'accoglie d'ogni bieltà luce; così di tutta crudeltate il freddo le corre al core, ove non va tua luce: per che ne li occhi sì bella mi luce quando la miro, ch'io la veggio in petra, e po' in ogni altro ov'io volga mia luce. Da li occhi suoi mi ven la dolce luce che mi fa non caler d'ogn'altra donna: così foss'ella più pietosa donna ver' me, che chiamo di notte e di luce, solo per lei servire, e luogo e tempo. Né per altro disio viver gran tempo. Però, vertù che se' prima che tempo, prima che moto o che sensibii luce, increscati di me, c'ho sì mal tempo; entrale in core omai, chà ben n'è tempo, sì che per te se n'esca fuor lo freddo che non mi lascia aver, com'altri, tempo: che se mi giunge lo tuo forte tempo in tale stato, questa gentil petra mi vedrà coricare in poca petra, per non levarmi se non dopo il tempo quando vedrò se mai ti' bella donna nel mondo come questa acerba donna. Canzone, io porto ne la mente donna tal che, con tuffo ch'ella mi sia petra, mi dà baldanza> ond'ogni uom mi par freddo: sì ch'io ardisco a far per questo freddo la noùtà che per tua forma luce, che non ti' mai pensata in alcun tempo. (Dante Alighieri) 4. LA CANZONETTA Come per la canzone, ciascuna stanza presenta un identico schema di metri e di rime. I. Forma classica La canzonetta, seppur modellata sull’impianto della canzone antica, se ne differenzia soprattutto per la brevità del verso (invece di endecasillabi, essa si compone di preferenza di settenari o di ottonari, o di settenari alternati ad ottonari) e della strofe. Si tratta dunque di un componimento fortemente ritmato. Meravigliosa~mente Meravigliosamente un amor mi distringe e mi tene ad ogn'ora. Com'om che pone mente in altro exemplo pinge la simile pintura, così, bella, facc'eo, che 'nfra lo core meo porto la tua figura. In cor par ch'eo vi porti, pinta come parete, e non pare difore. O Deo, co' mi par forte non so se lo sapete, con' v'amo di bon core; ch'eo son sì vergognoso che pur vi guardo ascoso e non vi mostro amore. Avendo gran disio dipinsi una pintura, bella, voi simigliante, e quando voi non vio guardo 'n quella figura, par ch'eo v'aggia davante: come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante. Al cor m'ard'una doglia, com'om che ten lo foco a lo suo seno ascoso, e quando più lo 'nvoglia, allora arde più loco e non pò star incluso: similemente eo ardo quando pass'e non guardo a voi, vis'amoroso. S'eo guardo, quando passo, inver' voi no mi giro, bella, per risguardare; andando, ad ogni passo getto uno gran sospiro ca facemi ancosciare; e certo bene ancoscio, c'a pena mi conoscio, tanto bella mi pare. Assai v'aggio laudato, madonna, in tutte parti, di bellezze ch'avete. Non so se v’è contato ch'eo lo faccia per arti, che voi pur v'ascondete: sacciatelo per singa ciò ch'eo no dico a linga, quando voi mi vedite. Canzonetta novella, va' canta nova cosa; lèvati da maitino davanti a la più bella, fiore d’ogni amorosa, bionda più ch’auro fino: <<Lo vostro amor, ch’è caro, donatelo al notaro, ch’è nato da lentino>>. (Jacopo da Lentini) II. Canzonetta riformata a strofe brevi Sul finire del Cinquecento, Raffaello Chiabrera (1552-1638) opera una riforma radicale della canzonetta ispirandosi ai modelli greci classici: una riforma che porta nella poesia italiana una grande varietà metrica. La strofa <<si accorcia , diventa breve di sei o anche di quattro versi, sul modello della quartina oraziana a rime alterne o incrociate, e dunque senza più divisione interna. Il Chiabrera forma con audacia versi brevi e rotti, perfino quadrisillabi, e poi quinari, settenari, ottonari, avvicina con disinvoltura ai versi piani versi tronchi e sdruccioli e, infine, introduce l’uso della rima tronca in consonante. >> (Gabriella Sica, Scrivere in versi, Pratiche editrice) Nel Settecento, la canzonetta per merito del Metastasio si avvicina alle arie del melodramma, e non se ne allontana più. Tra fine Settecento e Ottocento assume connotazioni e nomi diversi (ode, inno, ecc…), senza peraltro perdere la sua identità metrica. Nel Novecento la canzonetta fa significative apparizioni con Umbero Saba (Preludio e canzonette), Giorgio Caproni (Congedo del viaggiatore cerimonioso, Preghiera), Alfonso Gatto (Canzonetta), Giacomo Noventa, Biagio Marin, ecc… Fugacità della bellezza La violetta, che in sull'erbetta S'apre al mattin novella, di', non è cosa tutta odorosa, tutta leggiadra e bella? Sì certamente, ché dolcemente ella ne spira odori; e n'empie il petto di bel diletto col bel de' Suoi colori, Vaga rosseggia, vaga biancheggia tra l'aure mattutine, pregio d'aprile via più gentile; ma che diviene al fine? Ahi, che in brev'ora, come l'aurora, lunge da noi sen vola; ecco languire, ecco perire la misera viola. a a b c c b Tu, cui bellezza e giovinezza oggi fan sì superba, Soave pena, dolce catena di mia prigione acerba; deh con quel fiore consiglia il core sulla tua fresca etate; chè tanto dura l’alta ventura di questa tua beltate. (Gabriello Chiabrera) Addio Non so frenare il pianto, cara, nel dirti addio; ma questo pianto mio tutto non è dolor. a b b c E’ meraviglia, è amore, È pentimento, è speme, son mille affetti insieme tutti raccolti al cor. (Pietro Metastasio, dal Demetrio) Congedo Il poeta, o vulgo sciocco, Un pitocco Non è giù, che a l'altrui mensa Via con lazzi turpi e matti Porta i piatti Ed il pan ruba in dispensa. E né meno è un perdigiorno Che va intorno Dando il capo ne' cantoni, E co '1 naso sempre a l'aria Gli occhi svaria Dietro gli angeli e i rondoni. a a b c c b E né meno è ùn giardiniero Che il sentiero De la vita co 'I letame Utilizza, e cavolfiori Pe' signori E viole ha per le dame. Il poeta è un grande artiere, Che al mestiere Fece i muscoli d'acciaio: Capo ha fier, collo robusto, Nudo il busto, Duro il braccio, e l'occhio gaio. Non a pena l'augel pia e giulia Ride l'alba a la collina, Ei co '1 mantice ridesta Fiamma e festa E lavor ne la fucina; E la fiamma guizza e brilla E sfavilla E rosseggia balda audace, E poi sibila e poi rugge E poi fugge Scoppiettando da la brace. Che sia ciò, non lo so io; Lo sa Dio Che sorride. al grande artiero. Ne le fiamme cosi ardenti Gli elementi De l'amore e del pensiero Egli gitta, e le memorie' E le glorie De' suoi padri e di sua gente. Il passato e l'avvenire A fluire Va nel masso incandescente. Ei l'afferra, e poi del maglio Co '1 travaglio Ei lo doma su l'incude. Picchia e canta. Il sole ascende E risplende Su la fronte e l'opra rude. Picchia. E per la libertade Ecco spade, Ecco scudi di fortezza: Ecco serti di vittoria Per la gloria, E diadertii a la bellezza. Picchia. Ed ecco istoriati A i penati Tabernacoli ed al rito: Ecco tripodi ed altari, Ecco rari Fregi e vasi pe '1 convito. Per sé il pover manuale Fa uno strale D'oro, e il lancia contro 'l sole; Guarda come in alto ascenda E risplenda, Guarda e gode, e più non vuole. (Giosuè Carducci)