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Regolazione e disregolazione emotiva

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Regolazione e disregolazione emotiva
Psicologia e Giustizia
Anno 14, numero 1
Gennaio - Giugno 2013
Regolazione e disregolazione emotiva: apporti conoscitivi e applicativi per la
psicologia forense
Luisa Puddu e Rosalba Raffagnino
Università degli Studi di Firenze
Abstract
Questo lavoro intende contribuire all’importante dialogo tra psicologia e diritto e si
focalizza sul tema della dis/regolazione delle emozioni che da alcuni anni è diventato
oggetto di interesse crescente da parte di psicologi e neuroscienziati. La finalità dello
studio è di offrire indicazioni sui principali risultati scientifici che la ricerca offre
sull’argomento e su possibili contributi in ambito forense, sul piano conoscitivo e
applicativo.
Parole chiave
Regolazione emotiva, disregolazione emotiva, psicologia forense, strategie di
regolazione.
Autore a cui inviare la corrispondenza
[email protected]
1. Introduzione
Come è possibile che si arrivi ad uccidere il proprio figlio, o ad aggredire
violentemente il coetaneo che ha espresso apprezzamenti verso la ragazza per cui si
prova interesse, a tampinare ossessivamente l’ex partner, a divertirsi gettando dal
cavalcavia sassi sulle auto, a scappare dopo aver investito un pedone, a commettere atti
distruttivi nei confronti dell’ambiente o del patrimonio artistico?
Come mai certe coppie si separano e riescono a mantenere un rapporto di rispetto
reciproco e di collaborazione nel ruolo genitoriale, mentre altre continuano ad avere una
relazione conflittuale, alimentata da recriminazioni e critiche distruttive, che può
sfociare in azioni violente contro se stessi o contro altri?
Perché ci sono persone che affrontano più efficacemente situazioni di vita
stressanti e sono in grado di superare perfino traumi e abusi, mentre altre sono più
vulnerabili e vanno incontro a disturbi psicopatologici di fronte agli stessi eventi o ad
altri anche meno severi; e dunque c’è chi riesce ad andare avanti accettando l’accaduto,
mentre c’è chi rimane ancorato al torto subìto meditando vendette compensatorie?
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Come mai il coinvolgimento in una vicenda giudiziaria è vissuto talvolta in
maniera drammatica e altre volte con maggiore disinvoltura ed efficacia, per cui vi sono
attori processuali dominati dall’emotività e dall’ansia, che interferiscono con
l’adeguatezza dei loro comportamenti e delle testimonianze nell’arena forense, mentre
altri mantengono una padronanza di sé e della situazione per tutta la durata della causa?
A simili domande possono contribuire a dare risposte utili gli studi sulla
regolazione e disregolazione emotiva (il modo in cui gestiamo gli stati emozionali): un
argomento ancora non molto considerato in Italia, ma nel panorama internazionale
oggetto di numerosi approfondimenti da parte di discipline psicologiche, a cui la ricerca
è approdata attraverso ripensamenti e revisioni in tema di emozioni. Si è passati infatti
da un approccio attento all’analisi delle emozioni discrete (rabbia, paura, vergogna,
invidia, gelosia, tristezza, gioia, sorpresa, disgusto...), ad una focalizzazione sulle
differenze individuali nel vivere e affrontare gli stati affettivi, e sugli aspetti dinamici
relativi alla loro insorgenza, intensità, modulazione e persistenza (Posner, Russell,
Peterson, 2005; Thompson, 2011). Dall’assunto delle emozioni come fenomeno
disorganizzante e irrazionale si è andati verso una loro considerazione come possibile
fenomeno biologicamente adattivo e costruttivo, in quanto via via le emozioni
forniscono alle persone informazioni sulla rilevanza e qualità di ciò che accade e al
tempo stesso mettono in moto le risorse necessarie per affrontare la situazione. Non
sempre però questo processo si svolge in maniera funzionale, e si possono verificare
reazioni emotivo-comportamentali inefficaci o inadeguate. Da qui l’esigenza di chiarire
quando le emozioni sono adattive e quando invece disadattive rispetto all’ambiente
fisico e sociale e agli eventi di vita.
Superando la semplice distinzione tra emozioni positive e negative in relazione
alla loro piacevolezza, gli studiosi si sono piuttosto indirizzati verso l’analisi del
rapporto tra stato emotivo esperito/espresso e situazione scatenante e contesto in cui si
verifica.
In
tale
prospettiva
la
positività
indica
l’adeguatezza
(emotivo-
comportamentale) al contesto, che è una risultante di articolati processi regolatori. Si
tratta di ciò che in letteratura viene indicato con l’espressione regolazione emotiva, che
si riferisce al modo in cui la persona riesce a monitorare, valutare e modificare il
comportamento emotivo in maniera flessibile, in funzione di un adattamento
all’ambiente, attraverso l’utilizzazione di strategie adeguate, anche dal punto di vista
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sociale (Calkins, 2010; Campos, Campo, Barrett, 1989; Cole, Martin, Dennis, 2004;
Mauss, Bunge, Gross, 2007; Rottenberg, Gross, 2007; Thompson, 1994). In letteratura
si parla invece di disregolazione emotiva quando l’individuo reagisce in maniera
inadeguata rispetto alle situazioni o ai contesti sociali e interpersonali, e/o in modo
inefficace rispetto agli obiettivi che intende perseguire (Gratz, Roemer, 2004; Putnam,
Silk, 2005). Per esempio, se una persona accoltella qualcuno perché ha osato guardare la
propria ragazza oppure se, essendo arrabbiata perché non si sente amata, minaccia
l’altro o lo perseguita per conquistare il suo affetto.
Poiché in ambito forense al centro dell’attenzione vi sono comportamenti umani,
che prevedono un’elevata variabilità inter e intraindividuale, la conoscenza dei processi
regolatori e disregolatori delle emozioni può offrire un’utile chiave di lettura integrativa
nella interpretazione e spiegazione di azioni che sono alla base di vicende giudiziarie.
Infatti, in tale contesto considerare che cosa attiva i comportamenti (le emozioni,
appunto) e come li attiva (i processi regolatori) risulta di fondamentale importanza.
Trattandosi di un tema piuttosto specialistico, verranno qui proposti solo alcuni
spunti che forniscano un’idea della complessità dell’argomento che può avere rilevanza
nell’epistemologia forense.
2. Come è possibile la regolazione delle emozioni?
La conoscenza del funzionamento dei processi di regolazione delle emozioni
implica
il
riferimento
al
requisito
essenziale
della
flessibilità
emotiva
e
comportamentale, che la stessa definizione di regolazione richiama e che facilita
l’adattamento dell’individuo ai contesti e agli eventi della vita. Tale flessibilità è il
portato di condizioni, capacità e processi diversi, a cui in caso di assenza o carenza
possono corrispondere differenti modi di espressione della disregolazione, che è
correlata ad una maggiore rigidità e ad una minore capacità adattiva (Bonanno, Papa,
Lalande, Westphal, Coifman, 2004; Bridges, Denham, Ganiban, 2004; Gross, 2002;
Thompson, 1994).
Si è più flessibili quando non si è dominati da un unico stato emotivo, ma si
dispone invece di un repertorio vario ed ampio e si è capaci di accedervi, per cui
l’individuo non ha difficoltà a percepire, vivere, esprimere emozioni diverse. Viceversa,
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l’individuo può essere dominato in maniera sproporzionata da una particolare emozione
ignorandone altre, e trovarsi così in una condizione di fissità che se perdurante e
invasiva può facilmente condurre a processi disregolatori (Paivio, Greenberg, 2001). Ad
esempio è più facile che si riescano a superare esperienze traumatiche se si è in grado di
uscire dallo stato emotivo intenso e pervasivo da esse provocato e non si rimane in una
condizione di fissità emotiva che può accompagnarsi ad azioni e pensieri ricorrenti e
generalizzati, diversamente da ciò che può accadere ad un giovane che in famiglia ha
subìto maltrattamenti e rimane fermo nelle sue reazioni emotive – di rabbia, paura,
delusione –. Questa fissità può portarlo a coltivare idee ricorrenti di azioni vendicative
verso gli adulti e ad evitare anche interazioni affettive positive, precludendosi così
esperienze relazionali che potrebbero aiutarlo ad affrontare la sofferenza.
Si è più flessibili anche quando si è in grado di attivare l’emozione considerata
tipica e appropriata ad una determinata situazione. In caso contrario, l’individuo non si
sintonizza con il contesto e le sue regole, ed esprime stati emotivi dissonanti rispetto a
ciò che sarebbe adeguato e comunemente ci si aspetterebbe in quella occasione
(Thompson, 2011). Come ad esempio, accade all’imputato che resta indifferente o
manifesta rabbia piuttosto che paura e preoccupazione a fronte di pesanti capi di accusa
e gravi indizi a suo carico, e mette in atto comportamenti oppositivi o comunque non
collaborativi, che non aiutano il difensore nella gestione della situazione.
La flessibilità si può esprimere pure come passaggio graduale da uno stato
emozionale all’altro, diversamente da quanto accade in presenza di labilità emotiva, in
cui l’alternanza tra stati anche opposti avviene in modo repentino, senza il tempo che
l’elaborazione adeguata dell’emozione richiederebbe (Oliver Simons, 2004; Putnam,
Silk, 2005). Tale alternanza può raggiungere livelli psicopatologici come nella
ciclotimia – disturbo cronico dell’umore caratterizzato da fluttuazioni estreme, dalla
depressione alla mania/ euforia eccessiva.
Ancora, si è più flessibili quando si riesce a modulare l’intensità e la durata delle
emozioni di fronte ad un evento scatenante, in modo da non esserne dominati
(Greenberg, Elliott, Pos, 2007). Può accadere infatti che se le reazioni sono esagerate
e/o persistenti possono prendere il sopravvento compromettendo la capacità di mettere
in atto strategie di coping adeguate al problema e socialmente accettabili. Nel caso di
una coppia in fase di separazione, per esempio, la capacità dei partner di modulare
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l’intensità della rabbia verso l’altro può aiutare a contenere e circoscrivere alla relazione
coniugale tale emozione, e in presenza di figli questo facilita un atteggiamento
collaborativo nell’affrontare in modo costruttivo la gestione dei rispettivi ruoli
genitoriali.
Dal punto di vista interpersonale e collettivo questa modulazione risulta
particolarmente importante per le emozioni negative, per evitare che diventino
distruttive o che compromettano la capacità di mettere in atto soluzioni socialmente
accettabili, come in casi estremi si verifica in diversi delitti passionali, anche
premeditati, quando emozioni come la rabbia, la gelosia, l’umiliazione, la vergogna
sono vissute con tale intensità, e a volte durata, da offuscare la valutazione di soluzioni
effettive e realistiche. Si può ricorrere così ad azioni violente che scaricano una tensione
emotiva mal dominata, di fatto non affrontando il problema.
Per essere efficace, il processo di modulazione dell’intensità emotiva dovrebbe
collocarsi in uno spazio intermedio di equilibrio tra la condizione di ipo e ipercontrollo
delle proprie reazioni, in riferimento ai contesti e agli eventi di vita; mentre la
disregolazione risulta associata a reazioni estreme, a volte opposte, che possono
risultare inadeguate rispetto sia alla forza dell’attivazione emotiva sia alla situazione
ambientale (Roberton, Daffern, Bucks, 2012). Nel caso dell’ipocontrollo si ha una
difficoltà ad inibire le proprie reazioni e quindi si tende a mettere in atto comportamenti
impulsivi e aggressivi; nel caso dell’ipercontrollo si è portati invece a trattenere
eccessivamente le emozioni e a non esprimerle, esponendosi a una condizione di
maggiore vulnerabilità allo stress.
In entrambe le situazioni si possono avere difficoltà nelle relazioni sociali e
sopratutto interpersonali. Infatti, quando in un’interazione un interlocutore agisce di
solito in modo impulsivo o aggressivo è facile che la controparte si difenda evitando lo
scambio interpersonale, oppure mettendo in atto reazioni simmetriche che possono
sfociare in escalation conflittuali e distruttive, come si verifica in molte relazioni e
situazioni violente. L’ipercontrollo può invece creare difficoltà nelle relazioni sociali
diminuendo la relativa soddisfazione, ostacolando la creazione di rapporti di amicizia,
di reti sociali e di supporto (Butler et al., 2003; Srivastava, Tamir, McGonigal, John,
Gross, 2009). Nelle interazioni sociali, la persona che non esprime le emozioni fa
mancare all’interlocutore segni e segnali relativi al proprio reale sentire, utili allo
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svolgimento fluido dello scambio comunicativo; e in assenza di questi feedback diventa
più problematico regolare il comportamento tenendo conto della condizione emotiva
dell’altro e può condurre l’interlocutore a interrompere l’interazione o a reagire a questa
impermeabilità. Come già ipotizzato da Megargee negli anni ’60, l’ipercontrollo può
anche giocare un ruolo nelle manifestazioni aggressive più tipiche dell’ipocontrollo. La
studiosa osserva come le persone con un elevato controllo accumulino nel tempo la
rabbia, che aumenta il disagio interno ed esplodono poi in modo più violento rispetto a
coloro che sono ipocontrollati e la manifestano di volta in volta (Megargee, 1966).
La condizione di equilibrio tra l’ipo e l’ipercontrollo dell’intensità emotiva che
caratterizza i processi regolatori non è statica, ma dinamica e può avere vari gradi di
efficacia. La capacità di controllo è ottimale quando la persona è in grado sia di attivare
che di contenere l’emozione, tenendo conto della situazione; infatti, ciò che è adeguato
in un contesto, potrebbe risultare disadattivo in un altro (Chambers, Gullone Allen,
2009; Greenberg et al., 2007; Roberton et al., 2012). Ci si riferisce alla capacità di
attivare un’emozione se ad esempio, pur provando inizialmente sentimenti in contrasto
con la situazione sociale in cui ci si trova, si riesce a mutarli per entrare in sintonia con
gli altri: è il caso in cui, essendo tristi in compagnia di amici in allegria, si è capaci di
aprirsi e di accogliere la positività emozionale che viene dal gruppo; al contrario, si
potranno verificare condizioni di isolamento, chiusura, emarginazione, e sensazioni di
solitudine per la mancata armonizzazione col clima affettivo del contesto in cui ci si
trova. Ci si riferisce invece alla capacità di contenere una reazione emotiva intensa,
quando ad esempio ci si rende conto che deriva da una valutazione errata dello stimolo
o che è dissonante con il contesto sociale immediato e/o con finalità ritenute importanti:
può accadere di spaventarsi perché nel silenzio della notte si sentono passi in casa e poi
si capisce che è un familiare, e quindi si riesce a ridurre l’intensità della paura provata
inizialmente. Questo contenimento è più difficile se viene a mancare la consapevolezza
dell’errata valutazione dello stimolo attivante l’emozione e si reagisce come se la
propria percezione fosse corretta: per esempio, se di fronte ad un rapinatore che si
presenta in una banca con una pistola giocattolo, non ci si rende conto della vera natura
dell’arma, è più probabile vivere un duraturo stato emotivo di panico piuttosto che di
paura passeggera.
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3. Dis-regolazione emotiva: lo stato dell’arte
In ambito psicologico il tema della dis-regolazione delle emozioni è stato
ampiamente studiato da differenti prospettive (psicologia dello sviluppo, psicologia
sociale, psicologia clinica e psicopatologia, psicologia dinamica) e più recentemente è
stato oggetto di crescente attenzione anche da parte delle neuroscienze. La letteratura
mette in evidenza una varietà di fattori (biologici, evolutivi, relazionali, socio-culturali e
ambientali) implicati nella descrizione e spiegazione della regolazione e disregolazione
delle emozioni (Matarazzo, Zammuner, 2009).
Tra i fattori importanti per comprendere i processi regolatori, vi è l’ambiente, in
riferimento alla qualità sia delle relazioni significative e della rete sociale, sia al tipo
delle esperienze di vita stressanti.
La qualità delle relazioni significative è fondamentale dai primi momenti di vita,
in quanto il bambino ancora non dotato di capacità autoregolatorie ha inizialmente
bisogno di essere eteroregolato (Sroufe, 1995). Lo sviluppo delle capacità
autoregolatorie può avvenire se la crescita si verifica in un contesto interattivo che
promuove le emozioni positive (gioia, sorpresa, curiosità), aiuta la codifica dei segnali
emotivi interni fornendo una denominazione alle espressioni comportamentali (per
esempio, la madre chiede al bambino corrucciato, se è arrabbiato) e facilita
l’espressione delle emozioni (Beebe et al., 2010; Evans, Porter, 2009). In questo
percorso, dunque, come ampiamente sottolineato dagli studiosi che si ricollegano alla
teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969, 1973, 1980), hanno un ruolo importante le
figure significative di riferimento (caregiver) e la possibilità di avere con loro
esperienze affettive basate sull’ascolto e sulla capacità e attitudine ad accettare e
sintonizzarsi con gli stati emotivi del bambino. Se ciò non si verifica, si può andare
incontro a difficoltà nel riconoscere i propri vissuti emotivi e/o a controllarne le
espressioni in modo adattivo alle situazioni e ai contesti di vita (Balzotti, 2010; Cassidy,
1994; Láng, 2010; Thompson, 2011), a maggior ragione quando i bambini vivono in
famiglie conflittuali e contesti maltrattanti (Davies, Woitach, 2008; Thompson,
Goodman, 2010).
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Sebbene le prime esperienze vissute in famiglia lasciano una traccia fondamentale
che può influenzare anche i successivi processi di adattamento, anche altri contesti
sociali di vita possono svolgere un ruolo importante nella regolazione delle emozioni.
Infatti, la possibilità di sperimentare diversi modi di stare e di interagire con gli
altri, specie con i coetanei, può fin dai primi anni di vita agevolare l’acquisizione di
regole sociali implicite su quali emozioni esprimere, in che modo e con chi (Baurain,
Nader-Grosbois, 2011). Questi apprendimenti hanno ripercussioni anche sullo sviluppo
e la ricchezza delle competenze emotivo sociali dell’individuo, in quanto l’attitudine a
regolare le proprie emozioni facilita l’ascolto di se stessi e degli altri e l’attuazione di
comportamenti adeguati (Puddu, Raffagnino, in press). Al contrario, la difficoltà di
regolazione delle emozioni sembra essere alla base di problemi comportamentali come
aggressività, violenza, delinquenza, abusi, sia in adolescenza (Sullivan, Helms, Kliewer,
Goodman, 2010; Zaremba, Keiley, 2011), sia in età adulta nei confronti dei partners
(Tager, Good, Brammer, 2010). In vari casi è inoltre percepita come indizio di scarsa
capacità empatica, che appare un significativo predittore di bullismo; mentre risulta che
i giovani che sanno empatizzare riescono più facilmente a stabilire e mantenere rapporti
di amicizia con i coetanei, a manifestare comportamenti prosociali e altruistici, evitando
quelli aggressivi (Blair, Denham, Kochanoff, Whipple, 2004; Gini, Albiero, Benelli,
Altoè , 2007; Srivastava et al., 2009).
Insieme alle esperienze relazionali basilari, ad aumentare il rischio di andare
incontro a una condizione di disregolazione emotiva possono intervenire eventi
traumatici vissuti nel corso dello sviluppo (Goodyer, Park, Netherton, Herbert, 2001).
Tuttavia, per capire i possibili impatti individuali dell’evento traumatico è essenziale
considerare l’interrelazione complessa delle varie risorse in campo – personali, sociali,
relazionali –, attivabili per fronteggiare l’evento. A tale interrelazione si associa la
variabilità individuale osservabile nelle reazioni allo stress, come anche evidenziato da
quell’ampia area di ricerca che ha approfondito il tema delle strategie di coping, che per
alcuni autori si intersecano in maniera più o meno ampia alle strategie di regolazione
delle emozioni (Matarazzo, 2009). Per esempio, sull’esito psicopatologico di un abuso
possono influire una molteplicità di aspetti, relativi non solo ai connotati dell’abuso
(tipo, durata, intensità...), ma anche alle caratteristiche psicofisiche dell’individuo, ai
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suoi legami affettivi, al clima psicologico dell’ambiente di vita e ai tratti di personalità,
come pure ai supporti familiari, sociali, istituzionali, culturali.
In sostanza, dunque, per comprendere i processi di regolazione e disregolazione
delle emozioni è necessario considerare una molteplicità di aspetti costitutivi, evolutivi
e ambientali, tenendo conto del fatto che si declinano in modo diverso da una persona
all’altra. Pertanto, a partire dal riconoscimento delle differenze soggettive nello stile,
ossia nelle situazioni in cui, e nelle modalità con cui, questi processi regolatori vengono
attivati, ne consegue la necessità di affrontare i singoli casi secondo un approccio al
tempo stesso individuale e articolato, che richiede specifiche competenze.
Pure sul fronte della ricerca neuroscientifica i risultati tendono a confermare la
complessità dei processi implicati e le differenze interindividuali e intraindividuali.
Senza entrare nello specifico dei diversi aspetti presi in considerazione dagli studiosi,
basti ricordare come sia emersa l’implicazione di varie aree cerebrali (fra cui l’amigdala
e le regioni prefrontali coinvolte nel controllo cognitivo) e come vi siano differenze
nell’attivazione corticale in relazione al temperamento (caratteristiche bio-psicologiche
della persona), alla fase del ciclo di vita e alla psicopatologia (Davidson, 1992, 1994;
2002; Davidson, Jackson, Kalin, 2000; Davidson, Pizzagalli, Nitschke, Putnam, 2002;
Fales et al., 2008). Ad esempio, approfondendo in una prospettiva evolutiva le
differenze individuali nell’asimmetria della attivazione frontale, è stata riscontrata una
loro presenza fin dal primo anno di vita e queste differenze sembrano predire la
reattività personale a successivi eventi stressanti. Anche a proposito dei disturbi
psicopatologici sono state rilevate alterazioni della normale attività corticale, come nella
depressione e nell’ansia; e lesioni o disfunzioni in specifiche aree cerebrali implicate
nella regolazione delle emozioni, come nel Disturbo Borderline di Personalità (BPD)
(Putnam, Silk, 2005).
4. Le strategie di regolazione delle emozioni
Se non viene diversamente specificato, quando si parla di regolazione delle
emozioni generalmente gli studiosi si riferiscono all’autoregolazione (self-regulation),
sebbene i processi implicati possano riguardare anche le emozioni altrui. Si tratta di
meccanismi di controllo, di carattere per lo più volontario o involontario, consapevole o
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inconsapevole (Gross, Thompson, 2007), che coinvolgono anche aspetti cognitivi
(percezione, attenzione, aspettative, valutazione...) e in cui rientrano le abitudini. A
fronte di una prevalenza di autori che ritiene le emozioni regolate da meccanismi
consapevoli (Mauss et al., 2007; Mauss, Cook, Cheng, Gross, 2007), vi è un gruppo di
ricercatori che ammette la presenza di processi inconsci e subconsci, evidenziandone in
taluni casi la vantaggiosità (Williams, Bargh, Nocera, Gray, 2009), anche perché
richiedono uno sforzo cognitivo limitato (Roberton et al., 2012). In sostanza, si
sottolinea il fatto che i processi di controllo hanno una funzione adattiva e si
differenziano soprattutto in relazione a caratteristiche di volontarietà e reattività: il
controllo volontario implica capacità attenzionali (dirigere l’attenzione e persistere in un
compito) e di attivazione o inibizione dei comportamenti; il controllo reattivo ha un
carattere automatico e impulsivo, abitualmente non dominato dall’individuo (Gross,
Thompson, 2007). Sono, queste, due diverse modalità di regolazione delle emozioni che
sembrano implicare anche processi neurofisiologici distinti, con una differente
implicazione neurocorticale (Goldin, McRae, Ramel, Gross, 2008). La possibilità di
rilevare, attraverso le moderne tecniche neuroscientifiche, la presenza di questi diversi
processi implicati nella regolazione delle emozioni può aggiungere elementi di
valutazione più “oggettivi” rispetto alla volontarietà di un’azione. Poiché al diverso tipo
di controllo sembrerebbe corrispondere una differente possibilità di scelta
comportamentale, tali rilevazioni potrebbero risultare utili anche ai fini della
determinazione della responsabilità penale rispetto alla capacità di volere dell’imputato
nella realizzazione del reato ipotizzato.
Diversi studiosi hanno cercato di capire in quali modi può avvenire il controllo
volontario o automatico delle emozioni, identificando un ampio repertorio di strategie.
Alcune sono basate sull’evitamento (emotional avoidance), sullo spostamento
dell’attenzione, sulla modificazione della valutazione (reappraisal) di situazioni
negative o difficilmente gestibili per la persona. Altre, sono tese a modulare la reazione
emotiva sia attraverso l’inibizione, la mancata o parziale espressione (verbale o non
verbale) dell’emozione (expressive suppression), la sua accettazione (emotional
acceptance), la sua consapevolezza (emotional awareness); sia attraverso il
rilassamento, lo sfogo, la condivisione con gli altri o l’uso di farmaci (Gratz, Roemer,
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2004; Greenberg et al., 2007; Gross, 1998; Gross, John, 2003; Kashdan, 2007; Liverant,
Brown, Barlow, Roemer, 2008; Roberton et al., 2012; Tugade, Fredrickson, 2007).
Si tratta di strategie che Gross, alla fine degli anni ’90, prendendo in
considerazione le fasi in cui si sviluppa il processo di attivazione dell’emozione, ha
distinto in comportamenti messi in atto prima di una reazione emotiva e dopo (riferite
alla risposta) (Gross, 1998), osservando come la prima tipologia sia più efficace
dell’altra (Gross, 2002). Infatti l’intensità dell’esperienza emotiva è più facilmente
ridotta se si riesce a rivalutare l’evento o le sue conseguenze, piuttosto che inibire
l’espressione dell’emozione. Ad esempio, un padre ingiustamente accusato dalla propria
moglie di aver avuto attenzioni morbose nei confronti della figlia può ridurre e
ridimensionare la propria ira verso la compagna, se riesce a vedere in lei un desiderio
protettivo, seppure distorto, nei confronti della figlia, piuttosto che se cerca di
controllare la propria manifestazione comportamentale una volta che si è attivata
intensamente l’emozione.
Altri studiosi valutano l’efficacia delle strategie in base alle modalità, più o meno
rigide o flessibili, con cui vengono utilizzate, e rispetto al rapporto costi/benefici, in
relazione al contesto (Butler, Gross, 2004; Chambers et al., 2009; John, Gross, 2004;
Kashdan, Barrios, Forsyth, Steger, 2006). Per esempio, mentre in situazioni relazionali
conflittuali può essere opportuno evitare di esprimere emozioni come la rabbia o il
risentimento per non alimentare il conflitto, in ambito clinico esprimerle può essere di
aiuto per il proprio benessere e per il processo terapeutico.
Conclusioni
Gli studi sulla regolazione emotiva dimostrano come l’ampia variabilità
individuale nel modo di reagire alle situazioni e controllare le proprie emozioni sia
connessa a fattori temperamentali, evolutivi, neurofisiologici, socio-culturali. Se si
vuole dunque comprendere le diversità di comportamento delle persone anche di fronte
a situazioni critiche o stressanti come la separazione, la violenza, le aggressioni, i
soprusi e lo stesso processo giudiziario, può essere utile considerare il modo in cui le
emozioni vengono gestite.
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Rispetto al contesto forense, la dis/regolazione delle emozioni presenta vari
risvolti riferibili principalmente ai motivi e all’esperienza dei processi. L’assenza di
regolazione può costituire infatti un fattore di rischio rispetto alla probabilità di trovarsi
implicati in vicende giudiziarie che, mettendo in campo situazioni, relazioni, eventi
spesso fortemente connotati in senso negativo sul piano emotivo, possono a loro volta
rappresentare un fattore di rischio nella manifestazione di episodi di disregolazione
emotiva. Una disregolazione che peraltro è in grado di influenzare l’andamento di
momenti o fasi processuali, potendosi facilmente ripercuotere ad esempio sulla
testimonianza o sull’atteggiamento nei confronti del magistrato o della controparte.
Viceversa la capacità di regolazione emotiva può configurarsi come un fattore protettivo
rispetto allo stress rappresentato dal coinvolgimento in situazioni processuali, dal
momento che i procedimenti giudiziari possono in tanti casi essere vissuti come eventi
stressanti, poiché presentano diverse caratteristiche che la letteratura indica come
tipiche delle fonti di stress o stressors. Si tratta infatti di situazioni al tempo stesso
provocate da esseri umani, per molti versi con una scarsa controllabilità (tempi,
andamento, decisioni ...) e una bassa predicibilità (sino alla fine non si sa quale sarà
l’esito), a fronte di poste in gioco rilevanti (e potenzialmente negative) e una durata che
si protrae a lungo e con cadenze periodicamente ripetute; e dunque per questi connotati
riconducibili a quelli che autori come Evans e Cohen (1987) chiamano eventi stressanti
della vita. In questa prospettiva, pertanto, il processo può rappresentare un fattore di
rischio di disregolazione emotiva nell’esistenza personale, in assenza di quelle
componenti psicologiche associabili alla resilienza, ovvero ottimismo, percezione di
avere il controllo sugli eventi, stile di coping attivo, concetto positivo di sé, attribuzione
di significato alla vita, altruismo, accettazione del supporto sociale (Tugade,
Fredrickson, 2004, 2007); mentre la regolazione può essere un fattore di protezione
correlata alla capacità di affrontare efficacemente il processo nelle sue sfaccettature
(incontri col difensore, udienze, testimonianze, ricerca di prove, interazioni con la
controparte...).
In ambito penale, inoltre, la conoscenza dei processi regolatori e la sua
applicazione attraverso l’insegnamento di strategie particolarmente efficaci come il
reappraisal (Chambers et al., 2009; Gross, 2002; Matarazzo, 2009) può essere utile
anche nei programmi riabilitativi. Un esempio è quello dei violent offenders, persone
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per lo più dominate da reazioni automatiche legate alla rabbia. L’automatismo delle loro
risposte connesse a questa emozione risulta problematico in quanto, come rilevato da
Roberton et coll. (2012), la rabbia attiva pensieri ostili, impulsi e schemi
comportamentali aggressivi; e quando associata ad un’elevata attivazione fisiologica
può interferire sulle capacità di elaborare le informazioni e ponderare le decisioni. La
persona che si trova infatti dominata dall’eccessiva emozionalità negativa è in preda a
pensieri irrazionali, legati all’esperienza immediata vissuta, perde di vista i suoi
obiettivi e valori e più facilmente diventa attrice di comportamenti aggressivi.
Se da un lato sembra dunque importante in ambito forense tenere ampiamente
conto di questo tema e dei risultati che la ricerca scientifica mette a disposizione, da un
altro lato è comunque fondamentale considerare che, trattandosi di un argomento
specialistico e complesso, in situazioni in cui è opportuna una valutazione specifica del
caso, risulta necessario l’intervento di un esperto. Questa necessità appare come
un’ulteriore riprova più volte ribadita in letteratura (De Leo, Patrizi, 2002; Gulotta,
2003, 2011; Gulotta, coll. 2002; Gulotta, Curci, 2010) dell’imprescindibilità di un
dialogo, sia sul piano applicativo che della ricerca, tra diverse discipline (in questo caso,
in particolare, diritto e psicologia) e tra i rispettivi operatori interessati alla promozione
della giustizia. Un dialogo che implica la conoscenza e la comprensione del linguaggio
dell’altro, per lo meno delle principali categorie interpretative utilizzate, e della sua
ottica. Ciò significa, a livello teorico, far riferimento ad un’interfaccia diritto-psicologia,
con un diritto cucito sull’uomo e una psicologia contestualizzata nel diritto e, a livello
operativo, prevedere fini comuni, interscambi, collaborazioni e integrazioni delle
reciproche prospettive nel totale rispetto delle specifiche competenze e professionalità.
Stante la trasversalità dell’argomento rispetto ai comportamenti umani e
considerata quindi la sua importanza nella comprensione e spiegazione di azioni che
hanno una rilevanza processuale, si può ritenere che la dis/regolazione emotiva
assumerà nei prossimi anni una visibilità crescente ed esplicita anche nelle consulenze
psicologiche, come ulteriore e specifico criterio diagnostico. Per questo appare
fondamentale che il tema non resti un argomento di nicchia, ma diventi parte di quelle
conoscenze condivise e di quel linguaggio comune, di tutti gli operatori che lavorano
nell’ambito forense.
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