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DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica La di DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 Repubblica l’inchiesta Tokyo, la rivoluzione dei “mutanti” FEDERICO RAMPINI e RAFFAELA SCAGLIETTA cultura Altan prima di Altan, i disegni inediti PINO CORRIAS e SIMONETTA FIORI Oggi l’ex Beatles avrebbe compiuto 65 anni, a dicembre ne saranno passati 25 dalla morte: ecco il suo ritratto nel racconto della prima moglie Cynthia FOTO BOB WHITAKER/CAMERA PRESS/GRAZIA NERI Repubblica Nazionale 33 09/10/2005 “Mio marito John Lennon” GIUSEPPE VIDETTI «S LONDRA arei diventata la signora Lennon se avessi saputo a quali perdite, a quanti dolori, tragedie e sacrifici sarei andata incontro? Ancora oggi, quasi cinquant’anni dopo, non so rispondere. Se mi fossi tirata indietro, non avrei quel meraviglioso figlio che ho e non avrei preso parte a un’esperienza fantastica che milioni di fan dei Beatles avrebbero voluto fare. Non saprei scegliere neanche ora, col senno di poi». Cynthia Powell, la prima moglie, ha 66 anni, lenti da vista spesse davanti agli occhi, lo sguardo triste di chi ha avuto tanto e perso di più. Irriconoscibile da quella mitica foto del 1966 in cui “il club delle prime mogli” dei Beatles (Cynthia, Mo, Jennie e Patti) fu immortalato in costumi psichedelici. Da quando s’incontrarono al liceo artistico di Liverpool nel 1958, John e Cynthia trascorsero insieme dieci anni, dall’anonimato al momento più esaltante della beatlemania. Ora la trascurata prima moglie ha deciso di raccontare tutto in un libro, John (Ed. Hodder & Stoughton Ltd, 352 pagine, 30 euro; il secondo dopo l’innocente A twist of Lennondel 1978), «per far comprendere al mondo il prezzo che si paga a essere la signora Lennon». Gli stucchi della sala conferenze severa e altissima dell’edificio che ospita la stampa estera a Londra sembrano inadeguati per Cynthia, che con la follia dello show business ha avuto solo un incidente di percorso. Ora vive in Spagna con il quarto marito (il secondo è stato un al- bergatore italiano, Roberto Bassanini), vicino al figlio Julian, che ha 42 anni, ha scritto l’introduzione al libro della mamma, ma non riesce a rimettere in piedi la sua carriera, dopo un buon esordio nel 1984 e un letargo che dura ormai dal ‘98. La magra liquidazione di centomila sterline una tantum con cui Lennon prese le distanze dalla prima famiglia deve essersi esaurita da un pezzo. Oggi l’ex Beatles avrebbe compiuto 65 anni, se l’8 dicembre di 25 anni fa non fosse stato assassinato a New York. Per l’occasione ci sono un mare di libri in uscita (compreso uno di Yoko Ono)), ma quello di Cynthia è senz’altro il più autorevole su quel periodo, gli Anni Sessanta, in cui i Beatles entrarono nella leggenda e un’artista giapponese mandò una famiglia in rovina e il gruppo più influente della storia del rock allo sbando. «Ho letto troppe inesattezze sulla mia vita e su quella di John e dei Beatles. Il modo migliore di fare chiarezza era avere un libro scritto da un insider. Ma c’è anche un altro motivo per cui l’ho fatto: volevo raccontare questa storia a Julian. Entrambi siamo cresciuti all’ombra di John, mio figlio è un ragazzo ferito, tutta la sua esistenza è stata condizionata dal fatto di essere il bambino abbandonato di Lennon. Volevo ridargli quel senso di appartenenza che gli spetta. Sembrerò un po’ drammatica, ma spero che quando leggerà questo libro, magari quando non ci sarò più, Julian recuperi quell’amore che il padre gli dimostrò solo in tenera età e finalmente comprenda che non fu lui a tradirlo, ma la vita stessa». Cynthia parla sommessamente, ma ha voglia di raccontare proprio tutto, dall’inizio. (segue nelle pagine successive) con i servizi di GINO CASTALDO e ENRICO FRANCESCHINI la lettura In ospedale con il dottor Malaussène DANIEL PENNAC e MICHELE SERRA spettacoli Le strane coppie di Neil Simon MARIA PIA FUSCO e ANTONIO MONDA le tendenze Il ritorno del trench, l’immortale CORRADO AUGIAS e JACARANDA CARACCIOLO FALCK l’incontro Luciano Spalletti: io, allenatore contadino GIANNI MURA 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Biografia d’artista DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 “Sarei diventata la signora Lennon se avessi saputo a quali perdite, a quanti dolori, tragedie e sacrifici sarei andata incontro?”, inizia così il racconto confessione della prima moglie di John, Cynthia. Che siamo andati ad incontrare a Londra, dove rivela: “Non odio Yoko Ono, sono state le droghe e l’ansia creativa ad avermi allontanato da mio marito. Adesso lei la vedrei volentieri per un tè” “Lavitatristeconungenioegoista” Repubblica Nazionale 34 09/10/2005 «L a mia era una famiglia felice che viveva in un appartamento minuscolo. John invece viveva con sua zia Mimi in una casa enorme. Il fatto che io fossi più borghese di lui era un gioco che ci faceva ridere, in realtà al di là dello stereotipo della “posh girl”, la mia educazione e quella di John erano molto simili. Diversissimo era invece il nostro background familiare. Io non avevo mai sentito i miei dirsi una parola spiacevole, John, al contrario, aveva avuto un’infanzia drammatica. L’unico rapporto affettivo l’aveva stabilito con suo zio George, che morì tragicamente. Mimi, purtroppo, era una zia decisamente fredda e inespressiva». In altre biografie la zia Mimi è stata descritta come l’amorevole tutrice di John, quella che si occupò di lui con la premura di una vera madre. Cynthia non è di questo parere. «Ho vissuto con lei tutto il periodo della gravidanza e dell’allattamento e so bene che era assolutamente incapace di dare affetto. La verità è che Mimi strappò John alla madre con l’inganno: spifferò agli assistenti sociali che sua sorella era stata abbandonata dal marito, viveva con un altro uomo e il bambino non era al sicuro. Fu così che ottenne l’affidamento. John era felice con sua madre: lo copriva di coccole, ballavano insieme, gli insegnava a suonare il banjo. Ma quell’affetto gli fu negato, e proprio per questo crebbe a dismisura. Mille volte John mi ripeteva: “Se potessi fuggire lo farei, per tornare al mio porto sicuro, da mia madre”. Sfortunatamente, proprio nel momento in cui la relazione madre-figlio si stava rafforzando, Julia morì in quell’orribile incidente, nel 1958, travolta dall’automobile di un poliziotto ubriaco fuori servizio». Uno dei lati del carattere di Lennon che raramente è stato messo in risalto dai biografi è la sua aggressività. Già prima del matrimonio ci fu un’occasione in cui John picchiò Cynthia. «Il nostro primo incontro però fu dolcissimo», ricorda. «Ci guardavamo da mesi, e nessuno osava fare la prima mossa. Poi finalmente c’incontrammo a una festa e sgattaiolammo nell’appartamento di Stuart Sutcliffe (membro dei primissimi Beatles, ndr), e lì consumammo il nostro amore. Mi resi subito conto che John era gelosissimo e insicuro. I disagi familiari avevano accentuato fino all’ossessione il suo carattere possessivo. Mi voleva disperatamente, ma non passava giorno in cui non cercasse di mettermi alla prova, riempiendomi di domande, sperando di indurmi a confessare presunte infedeltà. E se le risposte non erano all’altezza delle sue aspettative, sprofondava nella depressione. Accadde che a una festa di amici mi vide ballare con Stuart Sutcliffe e diede per scontato che tra noi ci fosse del tenero. La mattina dopo mi fece la posta al college, accanto al bagno delle ragazze. Sbucò dal nulla, mi colpì in pieno volto e scappò via. Mi dissi: “Posso sopportare le ingiurie e la gelosia in nome dell’amore che gli porto, ma non la violenza fisica”. Fu la fine del nostro rapporto, ma solo per tre mesi». Neanche la rapida ascesa dei Beatles portò pace nella coppia. Cynthia restò incinta, ma il manager Brian Epstein insisteva che non era saggio: i Beatles dovevano restare eternamente celibi agli occhi delle fan. «Ero disperata. A quei tempi le ragazze madri venivano messe al bando e i bambini dati in adozione. John mi sposò nel 1962, poi mi nascose in casa di Epstein. Le fan furono in realtà molto comprensive quando le prime foto di Julian apparvero sui tabloid alla fine dell’anno successivo». Più la popolarità dei Beatles cresceva, più profonda diventava la voragine che separava la coppia. Era come se Cynthia non riuscisse ad adattarsiainuoviritmi;nonerafacileperunamadrecon bambino tenere il passo con quella crescente frenesia. «A New York, con il bambino al seguito, in mezzo a tutta quell’isteria, restavo sempre indietro, e lui mi gridava: “Perdio, Cyn, ma perché sei così lenta, perché sei sempre in ritardo?”. Anni dopo, a Londra, avrei perso il treno per Bangor, dove il Maharishi aspettava la band, perché John, arrivati in ritardo alla stazione, si mise a correre verso la carrozza, noncurante di me e del bambino che arrancavamo dietro di lui con i bagagli». La fuga negli allucinogeni La voragine diventò un baratro quando John incominciò a sperimentare le droghe. Cynthia decise di provare l’Lsd per cercare di entrare nel suo mondo, ma i risultati furono disastrosi. «Rimasi scioccata da quell’esperienza, ma insisto: fu la vita a separarci, il fatto che John trascorreva sempre più tempo lontano da casa, da suo figlio. L’entusiasmo per l’Lsd fece il resto. Ma la creatività di John aveva bisogno di quegli spazi, di quella libertà creativa che poi ha prodotto tanti capolavori. La vita procede a fasi. Io ho fatto parte di quella in cui John aveva bisogno di stabilità». La stabilità non è terreno fertile per il genio. E le stagioni della vita delle rockstar si consumano più in fretta di quelle dei comuni mortali. Cynthia e i Beatles erano diventati sintomo di letargia fatale per il suo spirito irrequieto. Alla fine degli anni Sessanta, John stressò la situazione in modo che entrambi uscissero dalla sua esistenza. Per farlo aveva bisogno di una complice, una compagna di vita meno “posh”, più spregiudicata e matura, più sfrenatamente artista. Yoko Ono faceva già parte del suo metabolismo quando ancora Cynthia neanche aveva il sospetto del tradimento. «John si nutriva ormai esclusivamente di esperienze straordinarie. Non posso biasimare Yoko per aver distrutto i Beatles. Sarebbe successo comunque. Ha solo accelerato i tempi». Cynthia scoprì di persona che una giapponese aveva preso il suo posto, non ci fu mai un confronto diretto con il marito prima del divorzio. «John sapeva che quel giorno sarei tornata da una vacanza. In casa c’era uno strano silenzio. Spalancai la porta, erano in soggiorno, seduti per terra uno davanti all’altro, Yoko con indosso il mio accappatoio, era chiaro che aveva passato lì la notte. Non sapendo che dire, ripetei la frase che mi ero preparata durante il viaggio ma che a quel punto non aveva più senso: “Ciao John. Oggi ho fatto colazione in Grecia e pranzo a Roma. Possiamo cenare insieme a Londra stasera, sarebbe perfetto”. ‘‘ Paul McCartney “Hey Jude” era un messaggio ottimistico di speranza per Julian: “Dai, ragazzo, i tuoi genitori divorziano ma andrà tutto bene” Jude, che inizialmente si chiamava Hey Jules. Un inno dei Beatles e la fine della loro storia. Era il 1968». Pochi momenti felici Quando restiamo soli, dopo l’incontro stampa, s’illumina ricordando gli anni trascorsi a Pesaro con Bassanini. Prova a parlare in italiano, ma ormai è inesorabilmente misto a spagnolo. «Le mie relazioni con gli uomini che sono arrivati dopo John non sono state facili», ammette mentre scendiamo lungo la scalinata vittoriana, verso Golden Square. Ancora oggi la prima signora Lennon prova verso Yoko sentimenti contrastanti. Mai odio, solo un senso di inadeguatezza nei confronti di una rivale che la fece sentire “artisticamente” inadeguata. La reazione non sarebbe stata la stessa se la seconda signora Lennon fosse stata una sciùra qualsiasi. «Sarò un’illusa, ma vorrei provare ad avere una conversazione decente con lei, per conoscere la donna che in qualche modo ha cambiato il corso della storia del rock. Ma non c’è verso, non me ne ha mai dato l’opportunità. Julian e Sean sono fratellastri, dovrebbero conoscersi meglio, sentirsi regolarmente. Spero che un giorno, quando Sean sarà un po’ più maturo e i vecchi rancori si saranno placati, i due saranno in grado di sedersi in un pub, bere una birra insieme e parlare del padre». Ci sono stati dei momenti in cui è stata veramente felice con John? «Pochi. Una volta che, da studenti, restammo soli in casa sua. Mimi era andata a far visita a una zia e non riuscì a rientrare a causa della nebbia. Così restai a dormire da lui, finalmente in una vera casa, non nel sudicio appartamento di Stuart». Ha mai pensato di non usare più il cognome del suo primo marito? «Se l’ho conservato è solo per una ragione economica. Dopo la separazione, ho pagato conti salati. Chi comprerebbe un libro di Cynthia Powell?». EVENING STANDARD/GETTY IMAGES (segue dalla copertina) Lui, perso negli occhi di lei, rispose: “No, grazie”». Una crudeltà premeditata che Cynthia sorprendentemente è pronta a giustificare: «Sapeva che stavo arrivando, l’avevo chiamato da Roma. Non so quale fosse il suo stato mentale quel giorno. Magari si erano fatti di acido tutta la notte». La prima moglie di Lennon è stata ripetutamente accusata di aver subito troppo passivamente quella separazione: «Cosa avrei potuto fare? Ero già stata messa alla porta. A Yoko fu persino permesso di entrare negli studi di registrazione, cosa che a tutte noi era stato vietato per anni. Paul (McCartney) fu l’unico a farsi vivo. Venne da me con una rosa, mi disse: “È spaventoso, non so come sia potuto succedere”. Poi, per tirarmi su: “Hey Cyn, perché non ci sposiamo noi due? Questo sì che farebbe notizia”. Ma so che più di ogni altra cosa si preoccupava per Julian. Fu quello il periodo in cui scrisse per mio figlio Hey La fantasia al potere GINO CASTALDO N FOTO AP GIUSEPPE VIDETTI ASSEDIATI DAI FAN Nella foto grande, John e Cynthia Lennon al momento dell’imbarco all’aeroporto di Londra nel 1965 Nella foto in alto i Beatles salutano i fan. Oltre a Cynthia c’e Maureen, la moglie di Ringo Starr Qui sopra John e Chyntia nel ’65 Nell’altra pagina, la folla di fan e curiosi davanti al Dakota dopo l’omicidio di Lennon. In copertina John, Cynthia e il figlio Julian in uno scatto del 1965 LA VITA otate gli occhi, mai calmi, sempre vigili. In quello sguardo inquieto ci sono le tracce della ricerca, dell’inseguimento, i segni tipici di chi per tutta la vita è corso dietro a un fantasma, ovvero la canzone perfetta, capace di parlare per tutti e in tutti smuovere la necessità di sognare un altrove, meglio ancora se un altrove realizzabile, un anarchico guizzo di gloria poetica con cui costruire paesaggi. Forse la canzone perfetta l’aveva trovata, era Imagine il magico mantra che dopo trent’anni ancora produce effetti, ancora commuove, ancora ci costringe a pensare che forse un mondo migliore potrebbe esistere. In fondo se mai una volta la fantasia è arrivata davvero al potere è stato nelle canzoni di John Lennon, bagliori sfacciati di una nuova bellezza rivelata a un mondo brulicante di giovani rivoluzionari. Di quella rivoluzione Lennon incarnava in modo sublime l’innocenza, la sprovveduta e spavalda certezza di imminenti cambiamenti, anzi il sospetto che già essere “uomini diversi” fosse una garanzia di riuscita. Canzoni come nuova moneta di scambio, canzoni come finestre aperte sull’imprevisto, canzoni come talismani. Già nei Beatles aveva scavato ombre e lande desolate, aveva invitato tutti a salpare verso l’ignoto nelle tenebre di Strawberry fields forever, aveva introdotto surrealismi raffinati (Norvegian wood), elegie smarrite (Julia), varchi nel crepuscolo oppiaceo del dormiveglia (I’m only sleeping), aveva giocato con spregiudicate capriole linguistiche (Come together), travestimenti folli (I’m the walrus), evocato solidarietà collettive (Help) e nostalgiche (In my life), sconvolto orizzonti spirituali (Tomorrow never knows) e infine scritto alcune tra le pagine musicali più alte della storia della musica popolare, soprattutto l’enigmatica A day in the life, la storia di un giorno, che sta alla canzone come l’Ulisse di Joyce sta alla letteratura del Novecento. Poi ha proseguito da solo, tra disarmanti dolcezze dedicate alla osteggiata consorte giapponese, smentendo se stesso e perfino il mito beatlesiano, ha urlato come in una primaria terapia liberatoria contro la madre e il padre, ha scritto canzoni di lotta, inni pacifisti e poi Imagine. Era soprattutto un modo di essere. Allora chiunque avrebbe fatto molta fatica a distinguere la persona dal musicista. Quando usciva un suo disco era un modo per sapere “chi” era in quel momento Lennon, cosa aveva da dire, seppure non sempre in modo diretto, su quello che succedeva in giro. I suoi silenzi erano i silenzi di una generazione, le sue intemperanza erano quelle di altri milioni, la sua a volte ingenua volontà di sovvertimento era un monito e un imperativo categorico. Scriveva canzoni ma era capace anche di riempire le capitali di tutto il mondo con manifesti di auguri o di inviare ghiande ai capi di stato perché riflettessero sul bisogno di “piantare” nuovi semi. Pubblico e privato si confondevano, erano poli mescolati in un concetto di vita come manifestazione costante di un pensiero. E le canzoni erano il frutto di questa scelta. Quando è stato ucciso, è morto con lui un modo di intendere la musica. Poco dopo scompariva l’altro grande sognatore Bob Marley. Calava il sipario su una stagione che era stata caratterizzata da una sorta di frenetica creatività militante. Questo era in fondo Lennon, un guerriero che aveva scoperto nelle canzoni un modo di giocare con l’universo. L’INFANZIA I PRIMI BEATLES IL SUCCESSO John Lennon nasce a Liverpool il 9 ottobre 1940. Dopo la separazione dei genitori è affidato alla zia Mimi. Nel ’52 si iscrive alla Quarry Bank High School Nel 1957 Lennon incontra Paul McCartney. Due anni dopo i Quarry Men, primo gruppo fondato da John, il nome della band diventa Silver Beatles Il 4 ottobre 1962 esce “Love Me Do”. Per i Beatles è il successo: la canzone fa conoscere al mondo una nuova realtà musicale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 FOTO CORBIS DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 Il ricordo di un cronista a New York il giorno dell’omicidio Insieme a John morì un’epoca ENRICO FRANCESCHINI FOTO GETTY IMAGES N IL VIAGGIO IN INDIA LA SEPARAZIONE L’ASSASSINIO Il ’68 è l’anno del viaggio dei Beatles in India presso il guru Maharishi che per una breve stagione diventa il loro padre spirituale L’ingresso di Yoko Ono nella vita di John contribuisce a incrinare l’armonia del gruppo: nel ’70 i Beatles, all’apice del successo, si separano Nel ’71 esce “Imagine”. Nello stesso anno Lennon e Yoko Ono si trasferiscono a New York dove, l’8 dicembre 1980, John viene ucciso egli Stati Uniti, i corrispondenti italiani si svegliano presto: tra le sei e le sette, per seguire i primi notiziari televisivi del mattino e avere un quadro della giornata, in attesa della telefonata da Roma, dove a quell’ora si è appena conclusa la riunione di redazione. La mattina del 9 dicembre 1980 non ero ancora un corrispondente dagli Stati Uniti, soltanto un free-lance in cerca di impiego, ma accesi lo stesso il piccolo televisore in bianco e nero sistemato su una sedia nella mia stanzetta di “Hell’s Kitchen”, la cucina dell’inferno, come si chiamava il quartiere di New York in cui vivevo. Il telegiornale della Cbs aprì con una notizia drammatica su John Lennon, questo lo compresi subito; ma a causa del mio inglese, all’epoca tutt’altro che fluente, non ero sicuro del resto. Lennon morto? Assassinato, la sera prima, davanti alla sua residenza newyorchese? Da un giovane killer che gli aveva sparato da pochi passi, come al cinema? Possibile? Corsi in edicola a comprare i giornali, ma non tutti avevano fatto in tempo a riportare il fatto. Le notizie viaggiavano più lentamente di oggi: venticinque anni fa non esistevano la Cnn con le “news” 24 ore su 24, Internet, i telefonini. I particolari emersero in seguito, poco per volta. Lennon era morto alle 22 e 50 dell’8 dicembre, mentre rientrava a casa con Yoko Ono. L’omicida era Mark Chapman, giovane squilibrato, ossessionato dai Beatles. Il cantante era stato un suo mito, poi ne aveva fatto un mostro, simbolo di tutti i suoi sogni irrealizzati. L’8 dicembre era rimasto ad aspettarlo sotto casa, con la rivoltella in tasca, per ore. Verso le 16 e 30, quando lo vide apparire nell’androne, gli si parò davanti con la scusa di un autografo: John glielo firmò, poi chiese se poteva «fare qualcos’altro per lui». Disarmato dalla sua gentilezza, Chapman non riuscì a profferire parola, tantomeno a estrarre la pistola. Ma restò lì. Quando poco prima delle undici di sera una limousine riportò indietro Lennon, l’assassino gli andò incontro e aprì il fuoco, senza esitazioni, sul marciapiede. Andai anch’io sul luogo del delitto, quella mattina. Lennon abitava da anni al Dakota, lugubre palazzo di stile gotico, alla 72esima strada, affacciato a Central Park West. Un edificio anomalo, carico di guglie, torri, figure minacciose, con la reputazione di portare sfortuna: forse conseguenza di Rosemarie’s baby, il film dell’orrore che vi girò Roman Polanski, in cui John Cassavetes interpreta un demonio che vuole mettere incinta la pura Mia Farrow. Maledetto o meno, al Dakota vivevano un sacco di artisti: mesi prima c’ero stato a recapitare una richiesta d’intervista per l’attrice Lauren Bacall, che si prese la briga di rispondermi con un cortese rifiuto. Quando arrivai, una folla di turisti, curiosi, fans dei Beatles, premeva dietro le transenne della polizia. Non c’era niente da vedere, ma nessuno si muoveva, nonostante un vento gelido: sembrava una veglia funebre. Per giorni, in effetti, New York si sentì a lutto. Il Village Voice, settimanale alternativo, a lungo bibbia della controcultura americana, uscì con un titolo provocatorio, «Perché non hanno assassinato Mick Jagger?»: l’articolista si chiedeva come mai gli assassini sparano sempre ai “buoni”, ai dolci, invece che ai duri e ai cinici. Perché a Kennedy e non a Nixon, e così via. Invece di un funerale pubblico, Yoko Ono organizzò una commemorazione musicale, a Central Park, di fronte al Dakota. Ci andammo in decine di migliaia: giovani e meno giovani, padri che avevano vent’anni nel 1960 con i figli per mano o sulle spalle, capelloni ed ex-capelloni. Dagli altoparlanti sugli alberi senza foglie uscì tutto il repertorio dei Beatles. Poi, per ultima, Imagine. Quando si sentì la voce di John intonare «Imagine all the people», un singhiozzo collettivo si alzò verso il cielo grigio. Piangevamo tutti per Lennon? Sì, ma non solo. Sentivamo che stava finendo qualcosa, pur non sapendo bene cosa. Quattro mesi dopo, un altro psicopatico sparò al neo-eletto presidente Reagan, ferendolo. Ancora due mesi, e Alì Agca sparò al Papa. Pareva che sul mondo fosse calato il “tempo degli assassini”, mentre in realtà il mondo stava voltando pagina. Dietro l’angolo c’erano i ruggenti anni Ottanta, l’“edonismo reaganiano”, gli yuppies al posto degli hippies, il thatcherismo, il collasso del comunismo. Se il Secolo Breve finì nel 1989 con il crollo del muro di Berlino, di fatto con quegli spari su John Lennon, icona di «love and peace», di «fate l’amore non la guerra», finirono gli anni Sessanta, prolungatisi dal ‘68 sino al termine dei Settanta. Finiva un’era, come in Italia ci avevano preannunciato altri due insensati omicidi, quelli di Pasolini e Moro, e ne cominciava un’altra. Quel giorno a Central Park, sulle note di Imagine, eravamo diventati grandi. Avevamo perduto un po’ di illusioni. E ci sentivamo più soli. 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 l’inchiesta FOTO DI SHOICHI AOKI - EDITORE PHAIDON FOTO DI SHOICHI AOKI - EDITORE PHAIDON Svolte generazionali Tutto è cominciato come un gioco, con le Harajuku Girls a inventarsi una moda bizzarra a ogni giro di weekend. Ma ora i giovani trasgressivi, individualisti e anarchici del nuovo Giappone sono diventati un fenomeno economico e politico, il segnale di una metamorfosi nazionale che ha portato Koizumi al recentissimo trionfo elettorale Tokyo, l’ora dei ragazzi mutanti FEDERICO RAMPINI Repubblica Nazionale 36 09/10/2005 L TOKYO a cantantepop californiana Gwen Stefani le imita e le esalta nella sua canzone Harajuku Girls. Spuntarono dal nulla in una domenica d’estate del 1997 che sembra lontanissima, oggi sono un’attrazione mondiale, le teen-agers che hanno reso celebre il quartiere Harajuku di Tokyo. Passano i weekend lì, a passeggiare sulla Omote-sando, a mangiare crèpes dolci e profumate, a far niente, a sorridere disinibite e a tirare la lingua ai fotografi. Sfoggiano ogni weekend cento nuove mode che elaborano loro con un’unica regola: non esistono regole, cioè gli stilisti e le grandi marche non contano più nulla, perché a comandare sono i capricci individuali e la fantasia bizzarra delle Harajuku Girls. Combinano stracci vecchi insieme a costosi capi firmati delle loro mamme; abiti da samurai o da geisha dell’antica tradizione giapponese; divise regolamentari da scolaretta-lolita provocatoriamente accorciate; accessori punk-gotico o neohippy o da clown o quant’altro suggerisce una immaginazione maliziosa. È nato come un gioco, è cresciuto fino a diventare un fenomeno di costume e un pezzo di antropologia contemporanea. Attira giovani emuli da tutto il Giappone. Seduce stilisti italiani francesi e americani in pellegrinaggio qui alla ricerca d’ispirazione. Un fotografo d’arte, Shoichi Aoki, ha dedicato anni della sua carriera a collezionare i ritratti di centinaia di Harajuku Girls, ciascuna con il suo personalissimo travestimento. Poi è spuntato un trend concorrente nel vicino quartiere di Shibuya, con le Shibuya Girls dallo stile più sexy, decise a farsi notare dagli animatori di show televisivi: è nato un magazine dedicato solo a loro. Con il radicale rifiuto di farsi dettare le mode da altri, con la loro inventiva sfrenata, i teenagers giapponesi hanno una lunghezza d’anticipo sui nostri, e il mondo intero se n’è accorto. Che l’Occidente sia invaso da miti e stili venuti Chi ha meno di trent’anni viene chiamato la nuova razza, come fosse un alieno: è l’esercito dei “freeters”, i lavoratori precari che stanno rovesciando la tradizione da Tokyo non è una novità. Il sushi è la dieta più diffusa da Soho a Brera, il regista americano Quentin Tarantino ha venerato l’estetica marziale del cinema nipponico nei cult-movie Kill Bill, Louis Vuitton fa disegnare le borse da Murakami Takashi, e la giovane avanguardia artistica di Tokyo cresciuta sui fumetti manga è la vera erede di Andy Warhol. Quello che non era ancora chiaro, però, è quanto questo nuovo Giappone sia diventato “il” Giappone: quanto cioè la vena trasgressiva, individualista e anarchica è diventata un tratto forte della fisionomia nazionale. A intuirlo è stato per una volta un leader di governo, il primo ministro Junichiro Koizumi. Il trionfo alle elezioni dell’11 settembre, che gli ha garantito una maggioranza parlamentare schiacciante, è più di un evento politico. È la rivelazione di una metamorfosi nazionale. Non importa che il suo partito liberaldemocratico sia al potere da mezzo secolo, né che a 63 anni compiuti il premier appartenga alla generazione dei nonni delle Harajuku Girls. Il carisma che Koizumi sprigiona, il personaggio pubblico che si è costruito abilmente in questi anni la dice lunga sulla sua scelta di campo lungo la linea di frattura generazionale. È divorziato e single in un paese dominato per secoli dal rispetto confuciano dei valori familiari. Ha lanciato un cd-compilation delle sue canzoni preferite di Elvis Presley e si lascia fotografare con le star del cinema e della pop-music nelle discoteche della Tokyo by night. Porta capelli lunghi e vestiti casual invece del doppiopetto grigio dei suoi colleghi. È rilassato e divertente davanti alle telecamere, non ossequioso e reticente come gli altri politici. Soprattutto, in una civiltà che era dominata dalla cultura del gruppo, dall’obbedienza alle regole dell’organizzazione (esercito o azienda, scuola o famiglia), da un conformismo disciplinato, Koizumi è un monumento vivente all’individualismo. Ha personalizzato la campagna elettorale, ha umiliato i notabili del suo partito, ha fatto politica usando il pronome “io”. Inoltre il suo cavallo di battaglia — la privatizzazione delle Poste — è una rottura con decenni di assistenzialismo, è l’abiura di un dirigismo economico quasi socialista, l’inizio della fine del “capitalismo comunitario” made in Japan. Koizumi recita la sua parte in modo da smentire tutto quello che credevamo di sapere sul Giappone. Il risultato delle urne gli ha dato ragione. C’era qualcosa di serio dietro gli estrosi sberleffi creativi delle Harajuku Girls. Da quando nel 1989 la grandiosa macchina da guerra dell’economia giapponese si è fermata, alla sclerosi dell’establishment economico e dell’antico ordine sociale ha risposto una formidabile esplosione di creatività, dal design alla moda, dalla musica alla pittura d’avanguardia. Un’analogia storica è con l’Inghilterra degli anni Sessanta: la stessa transizione dolorosa verso una società post-industriale, la decadenza di un vecchio ordine sociale moralista e conservatore, la lacerazione generazionale che là generò i Beatles e i Rolling Stones, Mary Quant e la Mini Morris, gli hooligans e Arancia meccanica. Per capire quanto sia dirompente la frattura generazionale a Tokyo basta il termine con cui i giapponesi definiscono chi ha meno di trent’anni: shinjinrui, letteralmente “la nuova razza”. Quasi che agli occhi del vecchio Giappone fossero dei mutanti, alieni venuti da un altro pianeta. Nella sua fascia più giovane la nuova razza non presenta sempre il volto giocondo o stralunato delle Harajuku Girls. C’è un lato oscuro, tragico e violento della ribellione. I giovani che respingono la tradizione e l’autorità degli anziani non lo fanno solo componendo simbolici caleidoscopi di vestiti colorati. Da dieci anni la polizia giapponese registra una escalation della criminalità minorile. I teenagers tra i 14 e i 19 anni, pur rappresentando solo il 7% della popolazione, sono coinvolti nel 50% degli arresti per crimini violenti, inclusi gli omicidi. Di fronte a forme di severità e disciplina scolastica ancora (per noi) ottocentesche, esplodono improvvise e incontrollabili delle vere e proprie “epidemie” di insubordinazione selvaggia, spesso fin dalle classi elementari. Tra le studentesse liceali di buona famiglia dilaga la prostituzione occasionale, per procacciarsi denaro con cui comprare abiti firmati e gadget elettronici di lusso. Dietro l’apparenza gioiosa dell’individualismo trasgressivo talvolta appare il baratro della disperazione. Una insegnante di scuola media di Okinawa ha raccontato quel che accadde il giorno in cui diede agli studenti un tema in classe su «che tipo di persona volete diventare da grandi e quali cose volete realizzare nella vostra vita». Alcuni rimasero a lungo con gli sguardi fissi nel vuoto senza scrivere una riga, poi scoppiarono a piangere. I sociologi alla ricerca di una spiegazione razionale l’hanno chiamata “la generazione senza padri”. Non tanto per via di divorzi e separazioni (pure in aumento), quanto per l’etica del lavoro che ha regolato e continua a stritolare la vita di molti maschi adulti: al servizio dell’azienda dall’alba alle dieci di sera, spesso anche il sabato e la domenica. I ragazzi sono cresciuti senza quasi mai incontrare il padre. Un’assenza resa oggi più destabilizzante dal fatto che le donne si rassegnano sempre meno alla tradizionale gerarchia nei ruoli familiari. Crescendo questi teen-agers scoprono un’altra economia giapponese che per i loro padri sembra una giungla misteriosa e feroce. Addio alla tranquilla prevedibilità della vita dell’uomo in doppiopetto grigio, ai binari che portavano dalla scuola DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 FRESHFRUITS Le foto delle Harajuku Girls pubblicate in queste pagine sono state scattate da Shoiki Aoki e sono tratte dal libro “Freshfruits” edito da Phaidon Press Limited Maiko, una Harajuku Girl di quindici anni, si racconta “La mia emozione contro la loro disciplina” RAFFAELA SCAGLIETTA M TOKYO FOTO DI SHOICHI AOKI - EDITORE PHAIDON Repubblica Nazionale 37 09/10/2005 aiko è una creatura dark a cui piacciono le maschere dell’orrore ma detesta farsi fotografare. «Damè, foto damè. No, la foto no», dice in tono arrabbiato. Il suo volto dipinto di cipria bianca è coperto da tre catene di pelle che scendono dalla cresta di capelli ingelatinati e rigidi, come il suo sguardo. Al posto degli occhi Maiko ha messo due lenti colorate: una è rossa, l’altra tigrata. A guardarli sembrano due biglie di vetro, oppure occhi di una bambola vecchia che a forza di cadere si sono rotti. Le ciglia sono affilatissime. I denti nascosti da un rossetto aggressivo, nero. È seduta con le sue amiche in quel piccolo spazio che è concesso alle adolescenti di Tokyo per essere trasgressive per qualche ora a settimana: Harajuku. Le cosplayer — “costume player” che copiano stile e vestiti dai personaggi dei manga, dalle riviste specializzate o dai film dell’orrore — sono trasgressive non per cambiare il mondo ma per distacco, disinteresse, nichilismo adolescenziale: figlie di una rivoluzione passiva che vuole allontanarsi da una società in crisi orientata finora al successo sociale, alla ricchezza, al lavoro e alle severe tradizioni. Maiko è seduta proprio davanti al parco di Yoyogi che porta al tempio Meji, luogo sacro e privilegiato per le ragazze di buona famiglia che si sposano ancora secondo il rito shintoista. Lei ha 15 anni, ha scelto uno pseudonimo che provoca: in Giappone una maiko è una giovane geisha che si appresta a imparare le arti per intrattenere il suo cliente. È vestita di nero, stivali a zattera, coperta da corde, piume e lacci: sembra uno dei tanti corvi di Tokyo, pronta a spiccare il volo, invece è seduta a terra, mangia da un pacchetto di patatine fritte americane e ride. «Mi chiamo Maiko — dice guardando con la lente rossa una compagna che invece è vestita di bianco e sugli occhi sfoggia lenti verdi — vengo qui ogni tanto, quando mi va, quando voglio farmi vedere. Mi piace vestirmi così perché è divertente, veniamo qui e aspettiamo». Aspettate chi, cosa? «Niente, le nostre amiche. Questa è la nostra identità — racconta Maiko — il nostro modo di vivere a Tokyo. Un modo per sfuggire a un ordine fisso, a una disciplina severa, a una società opprimente. A conferma di ciò che scriveva Mishima in Confessioni di una maschera: “Le emozioni non hanno simpatia per l’ordine fisso”». all’università all’azienda, al tran tran della carriera d’ufficio con il posto garantito fino alla pensione. Il 50% dei giovani giapponesi che lasciano gli studi dopo la maturità, e il 30% dei laureati, cambiano lavoro almeno ogni tre anni. Perché quindici anni di stagnazione economica hanno inaridito gli sbocchi; perché anche le multinazionali giapponesi delocalizzano in Cina e tagliano i costi fino all’osso; infine perché i giovani stessi aborriscono l’idea del posto fisso a vita che dava sicurezza ai padri. «Il part-time ha avuto un’esplosione che sarebbe stata impensabile nel Giappone di una volta — osserva l’economista Takuro Morinaga autore de L’economia della sopravvivenza— oggi più di un terzo degli occupati lavorano a tempo parziale, con contratti a termine, o altre forme instabili e precarie. In questa evoluzione è l’intera società giapponese ad avere subito una trasformazione drastica». È una società dura, dove il costo della vita è tra i più cari del mondo ma il 40% dei lavoratori a part-time guadagna meno di 750 euro al mese. Tuttavia il mondo giovanile ha interiorizzato questa insicurezza fino a trasformarla in una scelta di vita, in un sistema di valori. Lo conferma il consolidarsi nel gergo corrente del neologismo coniato per i giovani che fanno lavoretti brevi, precari e dequalificati, con l’orgoglio o l’illusione di essere più liberi: si chiamano “freeter”, un’invenzione giapponese che unisce l’inglese “free” (libero) col tedesco “Arbeiter” (lavoratore). È questo il cambio di atmosfera che Koizumi ha cavalcato proponendo più mercato e meno Welfare, un futuro ancora più flessibile e senza garanzie. Non tutto quel che dice e fa Koizumi è uno specchio fedele della nuova razza. Il 35enne Takahashi Jun, ex cantante punk dei Tokyo Sex Pistols, habitué di Harajuku, oggi è lo stilista di avanguardia considerato l’erede di Miyake Issey. Quando il premier va a visitare il tempio Yasukuni dove sono onorati dei criminali di guerra, facendo infuriare Cina e Corea, secondo Takahashi «rappresenta un punto di vista della sua generazione, un vecchio atteggiamento che non corrisponde ai sentimenti di tutti i giapponesi». Con la sua decisione di manda- FOTO DI SHOICHI AOKI - EDITORE PHAIDON re truppe giapponesi in Iraq, Takahashi è secco: «Non capisco come possa farla franca». Tuttavia neanche i giovani sono impermeabili al revival del nazionalismo. È arduo leggere dentro l’animo dei shinjinrui, gli under 30, capire cosa pensano di grandi temi come la guerra, il passato imperialista, in un paese dove su Nanchino Pearl Harbor e Hiroshima si è steso per decenni un velo di ambigua reticenza. Murakami Takashi, che oltre a disegnare per Vuitton è il guru dell’arte visuale d’avanguardia, porta in giro per il mondo un’esposizione di pittori giapponesi intitolata Little Boy, il nomignolo che gli americani diedero alla prima bomba atomica. Le immagini dei giovani artisti mescolano con geniale disinvoltura il linguaggio della pubblicità e quello dei videogame, l’iconografia buddista e i fumetti pornografici; Godzilla, il fungo atomico e lo tsunami. L’occhio occidentale rimane turbato dal continuo accostamento di immagini di bambine e violenza, con quella venatura di pedofilia presente in tanti fumetti giapponesi divorati da milioni di lettori di ogni età e sesso. Nella pop-art nipponica appaiono altre creature infantili dai corpi minuscoli (Little Boy) e dalle teste immense, con lo sguardo incollato agli schermi dei computer, che giocano alla distruzione del mondo. Ricordano i ragazzi veri che incontri a migliaia ogni sabato sera in quei formicai luccicanti di fantascienza che sono le sterminate sale di videogiochi di Tokyo. Loro sono i gemelli delle Harajuku Girls. Dopo la discoteca, quando l’ultimo metrò è partito e tornare a casa in taxi (data l’immensità della megalopoli) costerebbe lo stipendio di un mese, i ragazzi affittano a ore dei loculi elettronici, isolati ovattati e confortevoli come piccole capsule spaziali, dove si può passare la notte immersi nello stordimento degli effetti speciali. Si isolano nella tempesta magnetica della realtà virtuale, finché scivolano nel sonno per qualche ora. Quando sorge il sole il giovane popolo della notte riemerge sbadigliando dalle migliaia di celle dei videogame, con gli occhi gonfi e i timpani indolenziti. È l’ora di tornare al lavoro part-time, l’alba di una nuova giornata da “freeter”. 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 il racconto Il 9 ottobre di centocinquanta anni fa veniva depositato il brevetto che lanciava la macchina da cucire: strumento di lavoro destinato a diventare un totem domestico e un fenomeno di costume in un Paese non più contadino e non ancora industriale, un Paese in bianco e nero, povero ma non necessariamente bello Oggetti di culto L’Italia piccola piccola delle sartine P er dire che una donna non valeva granché si diceva: non sa tenere l’ago in mano. Oggi sono moltissime le donne che «non valgono», secondo questo metro di giudizio che vorrebbe signore e signorine di ogni età «all’opre femminili intente». Quello delle sartine è un universo che appare tramontato per sempre, fotogramma di un’Italia in bianco e nero, povera ma non necessariamente bella. Sartina: già il diminutivo la dice lunga. È uno di quei diminutivi che non comportano tanto tenerezza o affetto o nostalgia, quanto piccolezza. Piccolezza di confini, claustrofobia di orizzonti limitati, stanze che odorano di chiuso. L’Enciclopedia della Moda lo spiega con chiarezza: mentre le sarte avevano uno status riconosciuto e lavoravano in un vero atelier, le sartine — modeste, umili, alla mano, economiche — dispiegavano la loro industriosissima attività dentro casa, arrangiandosi spesso in cucina, o nel tinello, o nella camera da letto matrimoniale. Tutto ruotava attorno alla macchina da cucire, prima a manovella, poi a pedale, lustra e ben oleata, decorata con fregi e svolazzi. Era un totem casalingo, oggetto avanzato del progresso, simbolo di un’Italia attenta al risparmio, non ancora consumista, che rivoltava i cappotti e le giacche, un’Italia appena uscita dal mondo contadino e pronta a entrare in quello protoindustriale. Il mestiere di sartina — mai nessun mestiere è stato più in nero, senza protezione legislativa, senza limiti d’orario, senza potere contrattuale — era molto apprezzato poiché presentava caratteristiche che risultavano perfettamente compatibili con la funzione di moglie e madre e soprattutto di casalinga in cui le donne venivano confinate. Un lavoro da fare, magari fino a notte fonda, fra le quattro mura domestiche e che aiutava a quadrare il bilancio. Negli anni del fascismo quella della casalinga — all’epoca si diceva massaia — era una vocazione obbligata, meglio se madre di prole numerosa. E non c’era casalinga che non sapesse cucire, a mano o a macchina. Le bambine imparavano l’arte sin dall’asilo e venivano cresciute senza grilli per la testa. «La Patria si serve anche spazzando la propria casa», si legge nel decalogo della Piccola Italiana. Spazzando ma anche cucendo, rammendando, facendo orli, e nel tempo libero — come uno svago — ricamando. La sartina è per definizione dimessa, pallida, affaticata. Vive nell’ombra. Non rispecchia molto l’immagine stucchevole e frivola che ne dà una canzonetta d’epoca, Pippo non lo sa, anno 1940, di Kramer e Panzeri: «Ma Pippo Pippo non lo sa/ che quando passa ride tutta la città/ e le sartine/ dalle vetrine/ gli fan mille mossettine». Sandra Leschan, del Trio Lescano, ha raccontato: «Negli anni in cui si cantava “Se potessi avere mille lire al mese”, noi guadagnavamo mille lire al giorno. Avevamo comprato un bellissimo appartamento a Torino, possedevamo una Balilla fuori serie a quattro porte, i nostri armadi erano pieni di vestiti». Stile di vita ben diverso per le provinciali sartine, obbligate a guardare al centesimo e a non concedersi non soltanto nessun capriccio, ma anche ben poca visibilità o «mossettine dalle vetrine». Il loro mestiere, tipicamente femminile, spesso era un destino. Le ragazze che potevano preferivano lavorare fuori casa. Negli anni del boom molte scelgono di andare in fabbrica a fare le operaie, le più fortunate trovano un impiego da commessa. Spesso fa la sartina chi è già, comunque, confinata dentro le mura domestiche: non soltanto la madre di famiglia ma, per esempio, la portinaia. Le signore più fortunate la sartina la facevano venire a casa, almeno due volte l’anno, a ogni cambio di stagione, per periodi piuttosto lunghi, anche per una settimana di seguito, anche per dieci giorni. Iolanda — o Elvira, o Antonietta — si fermava a pranzo e spesso anche a cena e parlava tantissimo, raccontava, commentava, essendo il taglia e cuci un lavoro che molto si concilia con l’affabulazione. Era amatissima dalla figlia della padrona di casa: di nascosto, a fine giornata, dopo aver rivoltato un paltò e trasformato un abito di Principe di Galles in una scamiciata, cuciva al volo un vestito per le bambole con un ritaglio di stoffa o uno scampolo luccicante. Siamo decisamente nell’epoca pre-Barbie. In quella settimana la sartina rimetteva a posto il guardaroba dell’intera famiglia e qualche volta si improvvisava anche tappezziere. Allungava le gonne, allargava i pantaloni, rammendava, rivoltava, «rammodernava». Lavoro fati- coso anche se dal dispendio energetico contenuto: cucire a macchina col pedale fa bruciare 48 calorie ogni mezz’ora. Al di là delle piccole ma indispensabili riparazioni non tutte le sartine erano in grado di fare vestiti ex novo. Burdae Mani di fata erano la loro Bibbia, nell’Italia ormai scomparsa del cartamodello. Le signore che non potevano permettersi la sartina a domicilio ne avevano tuttavia una di fiducia, che andavano a visitare in quartieri non sempre vicini, in sottoscala, pianterreni, portierati angusti, dove la sarta passava ore e ore china sulla sua Singer a pedale, il metro a fettuccia giallo penzolante attorno al collo, le forbici appese a un lungo nastro alla cintola, sulla pettorina del grembiule un puntaspilli che sembrava un istrice, gli spilli stretti fra le labbra durante le prove. Per terra o nelle scatole aperte un gran groviglio di fettucce, cerniere lampo, rocchetti di filo, bottoni, automatici, spille da balia. Dalla porta socchiusa della cucina arrivavano sempre vapori e odori di cibi in ebollizione. Quante erano le sartine? Qualcuno ha azzardato il numero di 400mila, un numero che coincide perfettamente con quello delle “vedove bianche”: tante erano, nel 1959, in pieno boom economico, le donne senza più notizie né sostegno economico da parte dei mariti emigrati. Alcune di loro, ma una minoranza davvero trascurabile, hanno fatto carriera, arrivando fino a Hollywood. Che cos’erano Zoe, Giovanna e Micol Fontana se non tre sartine che ebbero l’audacia di lasciare il loro paesino di Traversetolo, in provincia di Parma, per marciare su Roma? Certo non immaginavano neppure lontanamente che un Singer, l’attore fallito che inventò l’ago a pedale MARINA CAVALLIERI L’ invenzione che rivoluzionò la vita domestica delle donne e la storia della moda fu il frutto di una vocazione frustrata e di un talento vissuto come ripiego. Accadde 150 anni fa. Quando Isaac Merrit Singer brevettò uno dei primi motori per macchine da cucire lo fece soprattutto costretto dalle circostanze: aveva quarant’anni, avrebbe preferito fare l’attore ma con le ambizioni teatrali non riusciva a mantenere i suoi numerosi figli, così abbandonò l’arte per la meccanica, le aspirazioni per il pane quotidiano e alla vita sregolata preferì, come disse, «un lavoro vero». Andò a lavorare in un’azienda che costruiva macchine da cucire che allora erano apparecchi molto complicati, non adatti a una signora. A Singer bastarono undici giorni per mettere a punto l’invenzione che avrebbe fatto la sua fortuna. Dopo aver esaminato le macchine osservò: «Invece di far seguire alla navetta un moto circolare, lo farei muovere avanti e indietro su una linea diritta. Invece di una barra d’ago che spinge orizzontalmente un ago curvo userei un ago diritto e lo farei lavorare verticalmente su e giù». Quell’idea funzionò così bene che rimase quasi intatta per oltre un secolo. Sotto l’ago verticale mosso da un pedale (anche questa un’idea di Singer) è passato un secolo di economia casalinga fatta di risparmio e creatività, magica combinazione di necessità e virtù. Perché c’è stato un tempo, fino a cinquant’anni fa, che tutte le donne sapevano cucire e questo è stato possibile anche grazie a Isaac Merrit Singer. La Singer fa risalire al 1851 la data di nascita della macchina da cucire ma è nel 1855, esattamente il 9 ottobre, che fu depositato il brevetto. Quelli furono anni molto produttivi per il suo inventore, uomo di aggiustamenti più che di invenzioni pure, tanto che in pochi anni depositò una ventina di «miglioramenti». Le prime macchine furono vendute a 100 dollari l’una, troppo care, così nacque «l’affitto a riscatto», primo esempio di acquisto con anticipo e pagamento rateale, un mercato che si diffuse rapidamente appena fu perfezionata nel 1858 la UN SECOLO DI PUBBLICITÀ Qui sopra, una Singer a pedale del 1964. A sinistra, pubblicità d’epoca delle macchine da cucire macchina leggera per uso domestico. Le vendite decollarono anche in Europa, un business vertiginoso, milioni di pezzi finirono nelle case di donne ansiose di avere abiti alla moda a poco prezzo, del resto era al successo commerciale che puntava Singer, dell’invenzione, ammise un giorno, non gli importò mai un granché. In Italia bisogna attendere il primo dopoguerra perché sorgano fabbriche di macchine da cucire: nascono la Borletti, la Visnova, la Salmoiraghi, la Vigorelli e la Necchi. Nuovi marchi ma con poche novità sostanziali: aumento della velocità, possibilità di cucire a zig zag, luce incorporata. Gli anni passano ma la macchina da cucire rimane emblema di laboriosa femminilità, decoro, sana produttività, quasi una garanzia di pace domestica, tanto che negli anni Cinquanta non disdegnano di farsi fotografare compiaciute accanto ad una Singer o una Necchi attrici famose come Sofia Loren. Macchine d’uso domestico, che rimandano ad un universo privato, familiare ma su cui si è esercitata anche la creatività di noti designer: la Visetta del 1949 è disegnata da Giò Ponti; la Necchi del 1981 sarà pensata da Giorgio Giugiaro. Poi qualcosa cambia, il Boom rende meno necessario il risparmio, le donne cercano nuovi ambiti, lontani da casa, per la loro creatività. Le macchine da cucire vengono incorporate dentro contenitori-mobiletto, chiuse con coperchi a forma di valigia, si nascondono, si mimetizzano, si mettono da parte e le vecchie Singer finiscono in soffitta. Ecco ora l’ultima rivoluzione. I più recenti modelli sono raffinati strumenti tecnologici, digitali, mille punti al minuto, dove basta collegarsi ad un computer per trasformare in schema-ricamo la foto del videotelefonino del figlio o del fidanzato. Dopo il grande rifiuto dell’ago e del filo, si è formata in questi anni una generazione di donne che non disdegna il cucito, naviga su Internet, forma una comunità virtuale che affolla siti dove si scambiano informazioni e consigli sul punto overlock e il nido d’ape. PatternReviw. com, Cactuspunch. com, Embroderyonline. com, l’antica virtù femminile riparte da qua. giorno avrebbero abbigliato dive come Linda Christian, Ava Gardner, Audrey Hepburn imponendo nel mondo il primissimo Made in Italy e scalzando l’impero delle maison francesi. La sartina è anche un personaggio portante del cosiddetto neorealismo rosa, come nel film Le ragazze di piazza di Spagna, di Luciano Emmer, anno 1952, con Lucia Bosè e Marcello Matroianni. È la storia intrecciata di tre sartine: una, Lucia Bosè, sogna di fare l’indossatrice ma rinuncia per sposare un semplice operaio; un’altra tenta il suicidio per amore ma ritrova la felicità accanto a un tassista; la terza, minuscola di statura, si innamora di un fantino. Ne esce un’Italia piccola piccola, storie quotidiane di gente comune e laboriosa. Anche in letteratura la sartina è spesso percepita come un personaggio innocente, di buon sentimenti, come ne La bella estate di Cesare Pavese, un romanzo che mette in scena lo scontro tra purezza e corruzione: è il storia di Ginia, una ragazza di 16 anni che lavora presso una sarta e si innamora di un pittore che non la ama, finendo per ammalarsi di sifilide. Le sartine hanno anche una loro santa protettrice, Santa Caterina, che cade il 25 novembre. In molti paesi quel giorno si celebrava la festa delle caterinette. È sicuramente l’ascesa della confezione in serie a decretare il tramonto delle sartine, diventate sempre più rare, o forse ancora più sommerse, come sempre più rari sono i negozi di mercerie e quelli che vendono foderami e stoffe a metraggio. La macchina per cucire — ce n’era una in ogni casa — esce onorevolmente di scena, o al massimo resta come oggetto di hobby, o icona di modernariato domestico. I modelli più avanzati, quelli di oggi, anzi di domani — sono avveniristici e hi-tech, e puntano a donne giovani che non hanno alcuna dimestichezza con i lavori tradizionali femminili ma ne hanno molta con il computer. Sono macchine interamente assistite dal pc e possono scaricare da Internet milioni di decori e di ricami personalizzati. La macchina per cucire, tuttavia, resta un emblema di efficienza, nitore, femminilità: non a caso Bree, la più impeccabile delle “desperate housewives”, più che perfetta in ogni faccenda domestica, ne tiene una elettrica al centro della propria casa e della propria esistenza. Sparite (o mimetizzate) le sartine, resta il problema, se non dei vestiti fatti in casa copiando il cartamodello, delle piccole e inevitabili riparazioni. Sono affollatissime, specie in città, la catene di negozi, spesso in franchising, che fanno orli rapidi e sostituiscono cerniere lampo. Si legge nel sito della Caritas di Roma la storia di Franca, 38 anni e due figli, che lavora in nero per un laboratorio di riparazioni celeri e fa una trentina di orli al giorno: «Prendevo seicento lire a orlo e ora sono trenta centesimi, va bene. Ma il negozio al cliente faceva pagare il lavoro diecimila lire; e ora dieci euro. Io non posso protestare, perché trovano subito un’altra che lo fa al posto mio. Però è così: i prezzi sono raddoppiati e gli stipendi no». Ci sono sartine che cuciono come fossero alla catena di montaggio e altre — in estinzione — che fanno cose più complesse, anche creative, e che vengono pagate in proporzione. Le boutique di un certo tono ne hanno sempre una di riferimento. Racconta Letizia Morini, proprietaria di “Dettagli”, elegante negozio d’abbigliamento a Roma Parioli: «È la sarta che fa la differenza. La nostra Lucia, che ha 79 anni, è insuperabile. Non si limita certo ad allungare e ad accorciare gli orli, ma spesso ha intuizioni e soluzioni per modifiche che accontentano ogni nostra cliente. È così, dando la sensazione del capo su misura, che combattiamo la crisi». FOTO GETTY IMAGES -RONCHI Repubblica Nazionale 38 09/10/2005 LAURA LAURENZI DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 Repubblica Nazionale 39 09/10/2005 LE CURIOSITÀ IL MARCHIO IL DESIGN LE DIVE LE NOVITÀ Il marchio Singer debutta nel 1870: la ragazza e la "S" rossa diventano uno dei loghi più conosciuti Nel secondo dopoguerra si cerca l’eleganza Nel 1981 anghe Giorgio Giugiaro ne disegna una Testimonial per le macchine da cucire anche note attrici negli anni ’50 e ’60. Tra loro Sofia Loren Gli ultimi modelli computerizzati personalizzano i punti e scaricano da Internet schede-ricamo DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 Cantieri aperti Riapre dopo vent’anni di chiusura e di abbandono il più celebre e modaiolo “roof” di Manhattan, in vetta ai 259 metri del Rockefeller Center. Ascensori come macchine del tempo per rivedere, sopra quella magica terrazza , il dirigibile Hindenburg, il generale De Gaulle e le scene del musical di Frank Sinatra e Gene Kelly Top of the Rock, New York ritrova il suo tetto Repubblica Nazionale 41 09/10/2005 D NEW YORK all’alto dei suoi 259 metri si può osservare New York a 360 gradi, una vista unica che spazia dalla Statua della Libertà fino al Bronx passando per Brooklyn e il New Jersey. Il primo novembre, dopo vent’anni di chiusura, riapre al pubblico il più famoso “roof” di Manhattan, il “Rockefeller Center Observation Deck”. Fu da questa terrazza — che Repubblica ha potuto visitare in anteprima, mentre gli operai stavano ancora terminando i lavori — che nel maggio del 1936 centinaia di newyorchesi furono testimoni entusiasti dell’arrivo di una grande macchina volante: quell’Hindenburg che, partito dalla Germania hitleriana, dopo sessanta ore di viaggio era arrivato tra i grattacieli della “Big Apple”, un viaggio transatlantico che sarebbe finito tragicamente l’anno successivo con la distruzione del famoso dirigibile. Fu qui che nel luglio del 1944, un mese decisivo per le sorti della guerra mondiale in Europa — da poche settimane c’era stato il D-Day, l’invasione della Normandia da parte delle truppe angloamericane —, il generale Charles De Gaulle trascorse un’ora guardando New York dall’alto e facendosi indicare nei dettagli da una “centerette” — una guida che parlava francese — dove si trovavano Harlem, Central Park, la Fifth Avenue e Coney Island. Fu in questo “roof deck” che nel 1949 tre marinai in licenza dai nomi famosi (Frank Sinatra, Gene Kelly e Jules Munshin) portarono le loro amichette per girare alcune scene di uno dei “musical movie” più popolari di Hollywood, On the Town. Per la prima volta in un musical, gli attori avevano abbandonato palcoscenici e studios per girare le scene nelle vere strade della città. E fu Gene Kelly che, dopo una furiosa litigata con la produzione, riuscì ad imporre quelle scene dall’alto il cui sottofondo divennero i versi di una famosa canzone di Leonard Bernstein («New York, New York, a helluva town, the Bronx is up and the Battery’s down»): una chiave del successo nelle sale. Quando nel 1933 il “Rockefeller Center Observation Deck” aveva aperto i battenti l’America, ancora profondamente segnata e ferita dalla Grande Depressione, stava iniziando una nuova era: il New Deal, quel sogno politico visionario che Franklin Delano Roosevelt sarebbe riuscito a trasformare in pochi anni in una grande realtà destinata ad incidere sui destini degli States per quasi mezzo secolo. Questa terrazza, da cui nelle giornate più limpide lo sguardo poteva correre fino alla Pennsylvania, divenne rapidamente lo spot favorito dei newyorkers che lasciavano volentieri ai turisti venuti dal Midwest le lunghe file davanti all’Empire State Building; per ritrovarsi qui, tra le guglie art decò, a parlare di affari, per indicare ai bimbi la casa nell’Upper West Side, o per salirci al tramonto per baciare la ragazza o proporre alla fidanzata il matrimonio. Anche se più basso di sedici piani rispetto all’Empire, il “Rockefeller Center Observation Deck” aveva qualcosa in più per meritare di essere il simbolo della “Golden Era” di Manhattan. Prima di tutto la posizione, nel pieno centro di Midtown, dove l’imponente grattacielo al numero 30 di Rockefeller Plaza, attirava ogni giorno migliaia di persone: quelle che ogni sera riempivano il “Radio City Music Hall” per concerti swing e jazz che hanno segnato la storia della musica americana; quelle che nel periodo natalizio si lanciavano sulla pista di pattinaggio sotto l’albero di Natale più famoso del mondo; quelle che facevano la fila davanti agli studios della Nbc, do- IL RESTAURO Nella foto sopra, il roof come si presenta oggi. Sotto, due immagini degli anni Trenta In basso, la vista dalla terrazza ristrutturata FOTO ROCKEFELLER CENTER ARCHIVES ALBERTO FLORES D’ARCAIS Tra le guglie art decò per parlare di affari o d’amore. E godere la vista più bella ve nei primi anni Quaranta faceva la tour-guide un certo Gregory Peck. Ma c’era anche un altro motivo per cui il “Rockefeller Deck” era considerato più charming del suo rivale Empire, un motivo legato alla vista: dalla sua terrazza si poteva osservare Central Park in tutta la sua dimensione senza che nulla ostruisse la visuale, mentre dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building la vista era (ed è tuttora) ostruita proprio dal roof del Rockefeller Center. Erano anni ruggenti quelli per New York, anni in cui Cosa Nostra non aveva ancora ceduto le armi alle nuove mafie cinesi e sudamericane e il sindaco Fiorello La Guardia teneva alto l’onore di tutti gli italo-americani. Quando il deck aprì i battenti mancavano ancora quarant’anni alla costruzione delle Twin Towers, il “Top of the World” che sarebbe diventato il bersaglio del più clamoroso attentato terroristico della storia. Ma non fu la concorrenza delle torri del World Trade Center e neanche quella dell’Empire che costrinsero alla chiusura il “Rockefeller Center Observation Deck” nel 1986. Fu un motivo di business apparentemente banale ma allora irrisolvibile. Con l’ampliamento della “Rainbow Room” (la terrazza-ristorante ai piani inferiori, che oggi appartiene a Cipriani) non fu più possibile utilizzare l’ascensore che portava al roof. E così per quasi vent’anni il punto di osservazione più trendy della metropoli dei grattacieli venne chiuso al pubblico. Adesso, fra circa tre settimane, è il momento della riapertura con il nome di “Top of the Rock”, pubblicizzato in tutta New York da grandi cartelloni su cui campeggia il grattacielo stilizzato. Tishman Speyer, il coproprietario del Rockefeller Center ha studiato il progetto nei minimi dettagli, affidando allo studio di architetti “Gabellini Associates Llp” il FOTO DI CASEY KELBAUGH le storie LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 design del nuovo osservatorio, con il compito di assicurare l’integrità storica del sito. Alla “Entertainment Group Bob Weis Design Island Associates” è stato dato invece l’incarico di ideare e sviluppare una «esperienza di intrattenimento» che sia unica e indimenticabile anche nel vasto panorama di divertimenti che una città come New York offre. Il risultato è una nuova entrata — sulla Cinquantesima strada tra la Quinta e la Sesta Avenue — il passaggio in uno spazio espositivo ricco di foto storiche e dove vengono proiettati su tre grandi schermi al plasma gli avvenimenti che hanno segnato i decenni di gloria del deck (anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta), per poi prendere gli sky shuttle, gli ascensori che in 54 secondi ti portano al 67esimo piano, che ha un’altezza doppia del normale (per cui il 68esimo non esiste) e che porta alle vere e proprie terrazze — al 69esimo e 70esimo piano — attraverso delle scale mobili. Gli sky shuttle sono ascensori avveniristici, sorta di macchine del tempo, con i soffitti trasparenti che consentono di vedere l’accelerazione mentre quattro videoproiettori mandano sui soffitti in rapidissima sequenza le immagini del Rockefeller Center dagli anni Trenta fino ai giorni nostri. Il 67esimo piano negli ultimi anni è stato usato come sede di macchinari, mentre un tempo una parte era uno splendido attico in cui aveva l’ufficio il famoso impresario della boxe Don King. Adesso diventerà la “Weather Room”, una grande sala panoramica che potrà essere usata per serate ed eventi particolari (e probabilmente molto costosi). Per evitare le file che rischiano di essere lunghissime (come quelle che intasano ogni giorno l’Empire) i futuri visitatori potranno dribblare le sette biglietterie previste e comprare i biglietti online (la vendita è già iniziata) prenotando mese, giorno e ora in cui scalare il roof più trendy della New York anni Duemila. 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 i luoghi Bolivia misteriosa Nella capitale più alta del mondo i ricchi abitano nei quartieri bassi mentre i poveri sono confinati in cima alla montagna. Per questo La Paz è una piramide rovesciata, che rappresenta le contraddizioni di un Paese diviso fra due popoli. Dove gli eredi del colonialismo possiedono tutto ma dove i nativi hanno trovato il modo per difendersi: riducendoli alla fame La vita sottosopra della città di El Alto, l’ex sobborgo divenuto ormai un’altra città, a quattromila metri. Così La Paz è una piramide rovesciata, una sorta di immenso imbuto con i ricchi giù giù in basso e i poveri su su in alto. Fondata a metà del Cinquecento dagli spagnoli, divenne capitale amministrativa della Bolivia — sede del Parlamento e dei principali ministeri — soltanto alla fine dell’Ottocento, quando esaurito l’oro e l’argento delle rocce di Potosì, l’economia del paese si concentrò sull’estrazione dello stagno. La Paz è una città di grattacieli e villette in basso, catapecchie di legno e pietra in alto. Il suo paesaggio cambia mentre si sale. Poco a poco le strade si fanno più strette e rotte, s’aprono voragini nell’asfalto, le fogne sono all’aperto, fiumiciattoli d’acqua marcia che scende verso il basso. Le facciate diventano screziate, poi del tutto senza l’intonaco. Ipotesi di case, costruite solo per metà. Questo scenario è abbastanza diffuso in America Latina. Anche in megalopoli come Caracas e Rio de Janeiro, la piccola e media borghesia vive nelle zone più basse, vicino al mare in questo caso, mentre l’esercito dei poveri s’arrampica sulle colline (cerros e morros), in favelas che sembrano sfidare le leggi delle fisica, con le case appese, una sull’altra, lungo il costone. La legge è sempre la stessa. Più devi salire e più sei povero, nonostante il panorama. E anche a La Paz, quando sali fino a mezza costa, la vista è spettacolare. Da OMERO CIAI A LA PAZ FOTO REUTERS ll’inizio è un mal di testa. Come un chiodo a espansione nella base del cranio che ti lascia stordito e dolente per ore. L’effetto dell’altitudine, La Paz si trova a 3.600 metri, si cura solo con molta pazienza e con l’infuso, il “mate” di foglie di coca. Il primo giorno passa così, seduti accanto alla teiera calda con la pianta benedetta. «Camina lentito, come poquito y duermo solito» (Cammina pianissimo, mangia pochissimo e dormi da solo), sono le tre regolette per superare il “sorochi”, quel giramento di testa che ti assale appena sbarchi dall’aereo dopo una discesa da brivido tra i picchi innevati dell’Illimani, la montagna sacra degli incas che domina, ad oltre seimila metri, la vallata della città. Appena la guardi dall’aeroporto La Paz sembra un cratere lunare. Una gola brulla e spoglia di case e sassi. Scendendo verso sud, nella parte più bassa sorge la zona ricca, i quartieri borghesi di Colacoto, La Florida, San Miguel. Man mano che si sale, a rovescio, la città impoverisce fino alle favelas aggrappate sul costone della montagna e alla spianata Agli indios in protesta basta chiudere la strada che scende dall’altipiano verso il centro per paralizzare ogni attività economica e bloccare gli approvvigionamenti destra a sinistra si domina tutta la valle. Però la tua casa è sicuramente senz’acqua, probabilmente senza impianto del gas e forse anche senza luce. Poi certamente è anche abusiva. Non ti appartiene. Ma se vivi a La Paz, hai un vantaggio rispetto a Rio e a Caracas: puoi vendicarti abbastanza facilmente contro tutti quelli che stanno in più in basso. Un paese in crisi perenne La morfologia di La Paz è un controsenso politico e strategico. E se, solo negli ultimi tre anni, crisi e proteste sono costati il posto a due presidenti bisogna rifarsi alla geografia della città per capirne il perché. Qui, affamare i ricchi è facilissimo. Ogni volta che coloro che vivono in alto decidono che hanno sopportato abbastanza è sufficiente che chiudano la strada per ottenere il risultato e paralizzare la città. Infatti qualsiasi cosa, per raggiunge La Paz, deve scendere dall’altipiano. È lassù che passano sia la strada provinciale che la ferrovia. Ed è lassù che c’è l’aeroporto. Da lassù arrivano gli alimenti, la benzina, il gas, e perfino l’acqua. E, lassù, fra vie dissestate aggredite dal fango e baraccopoli sudicie, ci vivono solamente indios, “kollas”, poveri. Ogni volta che s’arrabbiano per qualcosa, vincono. È facile. Qualche mese fa mentre seimila vittime dei blocchi della zona sud circondavano il Parlamento esigendo la “mano dura” dell’esercito, centomila indios nativi, cinquecento metri più in alto, chiudevano tutte le vie d’accesso alla valle costringendo in meno di due giorni il presidente a fare le valigie. Negli ultimi anni il fenomeno si è ripetuto con straordinaria regolarità lasciando senza opzioni parlamentari e presidenti. A La Paz comandano quelli di El Alto, la gente della montagna, non c’è scampo: se vuoi governare devi scendere a patti con loro. È come se, per uno scherzo della geografia, gli abitanti di una bidonville avessero il potere di vita e di morte su tutti gli altri cittadini di un paese. E, da quando gli indios l’hanno capito, non c’è stata più partita. Blocchi stradali, non mediazione politica. Come in un gioco di scatole cinesi la morfologia di La Paz simboleggia quella dell’intero paese. Questa spaccatura così netta fra l’alto (i più poveri) e il basso (i più ricchi) riproduce esattamente quella geografica fra le zone dell’altopiano andino e le vaste pianure che confinano con il Paraguay e il Brasile; e quella etnica. In montagna, sopra i quattromila, vivono gli indios nativi (30% quechua, pronipoti della colonizzazione incaica, e 25% aymara), in pianura europei (15%, in maggioranza spagnoli) e meticci (30% per cento del totale). Ossia, secondo la denominazione comune e abbastanza razzista nei due sensi, in pianura vivono i “cambas”, mentre la montagna è territorio dei “kollas”. Due popoli. I DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 METROPOLI IN QUOTA LA PAZ CUZCO QUITO KATMANDU Con i suoi 3.627 metri è la capitale più alta del mondo: una città adagiata su un canyon e contornata dalle cime innevate del monte Illimani. Conta un milione di abitanti Si staglia sulle Ande a 3.500 metri: è la città più famosa del Perù, l’antica capitale inca che con i suoi 220mila abitanti viene chiamata l’“ombelico del mondo” La capitale dell’Ecuador è una delle città più antiche del Sud America: sorge a 2.850 metri, fiancheggiata da maestose montagne. Conta un milione e mezzo di abitanti Situata ai piedi dell’Himalaya, la capitale del Nepal è a 1.300 metri di quota. Ha una popolazione di 800mila abitanti. La valle di Katmandu è una delle grandi culle della civiltà dove l’inferno tocca il cielo primi sono imprenditori, funzionari, laureati, aristocrazia coloniale al potere proprietaria delle — ancora numerose — risorse naturali, dal gas al petrolio; gli altri sono “nativi” poveri, contadini, disoccupati, nullafacenti che fanno della Bolivia uno dei paesi con indici di sviluppo umano da quarto mondo. Esempio: il 36% dei boliviani non ha un lavoro; il 64% vive al di sotto della linea di povertà (cifra che sale all’82% tra i nativi); il 37% è del tutto indigente; il 51% dei bambini soffre di anemia. Repubblica Nazionale 43 09/10/2005 Cinque secoli di saccheggi L’eccezionalità della Bolivia è quella di essere l’unico paese dell’America Latina dove la colonizzazione spagnola (o portoghese) non ha concluso il suo ciclo di mattanze. Ragion per cui gli indios puri sono ancora la maggioranza del paese. Sono più dei discendenti dei colonizzatori e anche più dei meticci. L’altra eccezionalità è quella di essere stato uno dei paesi più saccheggiati negli ultimi cinque secoli. All’inizio furono le miniere d’oro e d’argento che sostennero gli sfarzi e gli eserciti della corona spagnola. Poi vennero gli inglesi che cercavano fertilizzanti e salnitro (per la polvere da sparo). Poi, non ancora era finito l’Ottocento, vennero i cercatori di gomma, il caucciù, e la Bolivia — che era il secondo produttore mondiale — regalò alla Goodyear le ruote per la nascente industria dell’au- to. E poi lo stagno, minerale strategico durante la Seconda guerra mondiale. E il petrolio, e il rame, e il gas. La storia del saccheggio delle risorse naturali boliviane si confonde con quella della nostra modernizzazione industriale: un’altra piramide a rovescio. A dominare è sempre stata “la logica di Potosì”, quella della colonia da spogliare di risorse. Come gli spagnoli, che in un paio di secoli trasportarono in Europa tutto l’oro della Bolivia, quando nel 1924 la Standard Oil scoprì il primo pozzo di petrolio tenne nascosta la notizia al governo locale. E per tredici anni, fino al 1937, trafugò il greggio senza pagare neppure un dollaro di tasse. Forse non basta a spiegare l’assoluta povertà di questa città e di questo paese ma di sicuro aiuta. I boliviani hanno avuto sempre pochissimo dal loro ricchissimo sottosuolo. E, fino a vent’anni fa, gli indios avevano una sola risorsa per sopravvivere: la coltivazione della foglia di coca. Nel 1990 il 30% della popolazione viveva grazie alle piantagioni. Poi arrivarono la Dea (l’antinarcotici americana) e i programmi di fumigazione a tolleranza zero. Dalla coca agli ananas. Ma la riconversione non funziona. È una questione di rendimento. Una piantagione di coca regala quattro raccolti all’anno, con pochissimo lavoro come valore aggiunto, e consente ad una famiglia di contadini di vivere agiatamente, l’ananas no. Così, la tolleranza zero, ha prodotto un nuovo esodo di contadini im- ‘‘ Isabel Allende La Paz è una città straordinaria, talmente vicina al cielo e dall’aria così rarefatta che all’alba si possono vedere gli angeli, il cuore è sempre sul punto di scoppiare e lo sguardo si perde nella purezza opprimente dei suoi paesaggi Da PAULA Feltrinelli 1995 poveriti dalle zone sub-tropicali del Chapare alle montagne di La Paz. E quando, nel 2000, il presidente Sanchez de Losada ha firmato un contratto per esportare il gas boliviano, via Messico, fino alla California, le favelas sono esplose, costringendolo alla fuga. Così oggi — altra eccezionalità — la Bolivia è uno dei luoghi tendenzialmente più conflittuali del Sud America. Fratture sociali, regionali e politiche, ormai ingovernabili, la rendono esplosiva. E l’ultima grande risorsa naturale che le resta, nel sottosuolo boliviano — la Pachamama degli indios — ci sono i giacimenti più ricchi di gas del continente, è divenuta la calamita di uno scontro finale. Nelle pianure cresce, guidato dall’élite bianca, il movimento separatista che vorrebbe staccarsi dalle regioni andine degli altipiani, commercializzare gli idrocarburi e agganciarsi al treno della globalizzazione; mentre sulle montagne s’ingrossa quello indigeno che, arroccato a difesa dell’ultimo tesoro, s’oppone allo sfruttamento indiscriminato del gas così come s’è opposto alla distruzione delle coltivazioni di coca. Global e no global, ecco servito il terreno ideale per il conflitto del secolo in corso. L’ennesimo. Stavolta all’interno. Nessuno dei due blocchi sociali è in grado di prevalere democraticamente sull’altro, né di avere la forza sufficiente per governare. Dovrebbero scendere a patti. Ma, visti i presupposti, gli spazi sono alquanto stretti. Di guerre, in ogni caso, la Bolivia è paese esperto: ha perso tutte quelle che ha combattuto. Quattro in meno di cent’anni. Contro il Cile, alla fine dell’Ottocento, perse il mare nella cosiddetta “guerra del Pacifico”. Contro il Brasile, all’inizio del Novecento, perse quasi tutta la provincia amazzonica dell’Acre, quella del caucciù. E, infine, contro il Paraguay e l’Argentina, nel 1932, perse la guerra per il controllo dei giacimenti di petrolio del Chaco, regione che gli apparteneva. Città dalle salite (e discese) mozzafiato, La Paz conserva sempre qualche sorpresa per lo straniero che la percorre. Le più gioiose sono i suoi numerosissimi mercati che trovi all’improvviso appena girato l’angolo e dove prevalgono le sciarpe, i maglioni e i copricapo di lana di alpaca, morbidi e colorati. Basta una piazza, uno slargo, perfino un marciapiede per fare spazio alle donne che stendono a terra le loro vivaci mercanzie. Città di colori forti e condizioni un po’ estreme ti lascia dentro una nostalgia ambivalente. Perché tornarci è comunque uno sforzo e una scelta come sopportare il mal di testa che, finalmente, quando la lasci si dissolve lentamente insieme agli ultimi sguardi che dall’aereo le concedi. 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 Un bestiario fantastico in quaranta tavole, per la prima volta esposto al pubblico a Este: mostri piumati, uccelli grifagni, donne bovine. Sono i lavori degli anni brasiliani del più celebre disegnatore italiano. E l’autore racconta: “Li facevo di notte, con la radio accesa... la testa era libera di andare per conto suo... mentre facevo mi liberavo dagli incubi, una specie di terapia occupazionale” Altan Altan prima di SIMONETTA FIORI «S e mi riconosco in questi disegni? Li sento ancora molto freschi, come annusare un profumo o ascoltare una musica che ti riporta a quei momenti». Altan prima di diventare Altan. Un bestiario fantastico in quaranta tavole, che dalla casa di Rio de Janeiro è volato in Italia e per la prima volta viene esposto in pubblico. Mostri piumati e terrifici, uccelli grifagni, donne bovine dallo sguardo spiritato: po- trebbe sorprendere questo inedito incunabolo in bianco e nero del più celebrato disegnatore italiano. In un primo tempo si esita nel rintracciarne la cifra più consueta, l’incubo non appare ancora del tutto esorcizzato nel grottesco. Ma il sospetto d’un «Altan nero» s’infrange sul lungo naso slabbrato ed ecco il primo riconoscimento, uno dei tanti: la proboscide dei suoi disincantati personaggi germoglia in Brasile, oltre trent’anni fa, una stagione della vita ora rievocata con grande nostalgia. «Stavo bene, perché mi sentivo a casa. O forse perché ero lontano da casa». Singolare in molti sensi, questa mostra aperta ad Este. Non solo perché sconosciuti sono questi disegni a china firmati da un Altan non ancora trentenne, e largamente in penombra è rimasto il periodo brasiliano. Ma anche perché è una mostra diversa dalle altre, d’impronta più intima, quasi famigliare, tenacemente voluta dalla moglie brasiliana Mara, che ora però ne è un po’ gelosa. «È una cosa tutta nostra», dice con l’inconfondibile cadenza portoghese. «Ci sono anch’io, là dentro, tra le magnifiche donnine di Checco, ma non dirò mai quale. Era un periodo bellissimo della nostra vita. Ci eravamo incontrati sul finire degli anni Sessanta a Rio, lavorava- mo allo stesso film. Io ero costumista, Checco faceva di tutto: autore, scenografo, tecnico del rumore. La prima volta che lo vidi era seduto dietro una scrivania, in mano un bicchiere di pessimo rum. Scarabocchiava di continuo, senza mai staccare gli occhi dal foglio: erano disegni di inaudita cattiveria...». Poi la storia d’amore che dura tuttora, e questa mostra ne è un po’ un diario. «Nel 1970 andammo a vivere insieme, l’anno successivo sarebbe nata nostra figlia Francesca. La sera Checco col pennino s’attardava su suoi disegni: io con lui, in uno stato di felicità. Erano solo per noi, per la nostra casa. Ne è uscito fuori questo strano bestiario affollato di mostri, grottesco e divertente. Se ne sono sorpresa? Direi tutt’altro: Checco andava liberandosi dei suoi fantasmi». Altan, è così: si stava liberando dei suoi fantasmi? «Sì, in un certo senso Mara ha ragione. Ma prima devo soffermarmi sulla tecnica di questi disegni, che è diversa dai miei lavori più conosciuti». Sono disegni a china. «Una tecnica che richiede disponibilità e tenacia. Un po’ come nelle incisioni: se solitamente lavoro con un tratto unico, qui il pennino si stacca continuamente dalla carta, fino a trovare un giusto equilibrio tra ombre e prospettive. Lavori che facevo di notte, con la radio accesa. Lavori senza tempo. La testa era libera di andare per conto suo, come succede nel ricamo o nell’uncinetto. In questo senso si trattava di una “terapia occupazionale”: mentre facevo, mi liberavo degli incubi». “Questi miei disegni li sento ancora freschi, come annusare un profumo o ascoltare una musica che ti riporta a quei momenti Stavo bene, mi sentivo a casa” DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 Gli ingranaggi alle origini dell’arte PINO CORRIAS I LA MOSTRA Repubblica Nazionale 45 09/10/2005 Le illustrazioni in queste pagine sono tratte dalla mostra “Altan, 40 disegni inediti”, inaugurata ieri a Este (Padova) e visitabile fino al 30 ottobre. L’iniziativa è del Centro di cultura La Medusa e del Comune di Este, in collaborazione con Nuages edizioni. Nella foto qui sopra, Francesco Tullio-Altan Quali? «Non so se sia giusto definirli fantasmi. Era piuttosto la paura di quel che mi aspettava. O, meglio, il timore di non essere adeguato alle sfide della vita». Forse non aveva ancora capito in che direzione muoversi. «A dire il vero è una mia caratteristica: non ho mai capito che strada prendere. Sono sempre andato dove le cose mi portavano. Nel tempo s’impara a non sbandare troppo, ma la corrente rimane sempre forte». Cosa l’aveva condotto in Brasile? «Arrivai a Rio la prima volta nel 1967, insieme a un amico che doveva realizzare per conto della Rai un film sulla musica popolare brasiliana. Avevo 25 anni, studiavo ancora Architettura a Venezia». Ma poi si fermò là? «No, ci tornai poco dopo con Gianni Amico per girare un altro film, Tropici, storie di migranti dal Nordest verso San Paolo. Fu l’occasione per viaggiare molto nel paese. E conoscere una dittatura, che però in quegli anni non si sentiva molto. Al generale Humberto Castelo Branco era succe- duto il più moderato maresciallo Artur da Costa e Silva. Ma era pur sempre un regime militare». Ebbe dei problemi? «Sì, un giorno fummo fermati dagli agenti e portati nella sede della polizia politica. Era la stagione della protesta studentesca. Con me c’era il produttore brasiliano del film, fratello di Chico Anisio, un attore comico allora molto popolare. Quando il commissario lesse il suo nome, ci lasciò andare immediatamente: non voleva grane». Cosa l’affascinava nel mondo del cinema? «C’era il cinema nôvo brasiliano, si respirava aria di cambiamento. Sul naturalismo prevaleva la visionarietà, attraverso cui passava anche la denuncia. Insieme all’attore Joel Barcellos, scrissi una favola che non aveva riferimenti alla realtà. Ne scaturì un film, Tatu Bola, in cui ebbe una particina anche Glauber Rocha, il capostipite di quel movimento. Io facevo di tutto: l’autore, lo scenografo, il tecnico dei suoni. Fu lì che conobbi Mara, mia moglie». Così decise di non tornare in Italia. «Sì, rimasi in Brasile da clandestino. Non avevo il permesso di soggiorno ed ero costretto a lavorare in nero. Disegnavo per un foglio satirico, ma senza figurare. Il giornale si chiamava Pasquim, era l’unico libero in tempi di dittatura: l’informazione passava nella forma indiretta della satira. Ogni tanto i censori se ne accorgevano e qualche redattore finiva in galera. A quel punto mi chiamavano a dargli una mano». Cosa faceva esattamente? «Disegnavo vignette surreali, affidate solo all’immagine. In questo senso diverse dai lavori usciti in Italia su Playman, giocati sulle parole. Non conoscevo ancora bene il portoghese. Anche in queste tavole a china, ora in mostra a Este, rare sono le didascalie: un po’ in inglese, un po’ in finto inglese». In che misura vi si riconosce? C’è una continuità con la produzione successiva, quel frugare negli aspetti più bassi delle pulsioni umane: sempre in forma di bestiario. «Quel tipo di gesto è sempre lo stesso: prende forma segni remoti dell’eccelso Altan hanno il valore di certi reperti cuneiformi, conducono ai primi attimi di vita della sua scrittura e per dissonanza, persino alle fiorite scorribande della Pimpa. Trattandosi di radici contengono la fibra del legno che verrà e dunque la promessa dell’albero. Sono il fascio di linee che il tempo e l’esperienza scioglieranno. Carte segrete. Dimenticate. Anche se con qualche dettaglio già inciso a futura memoria, come l’olfatto speciale che promettono nasi tanto grossi. E gli sguardi sgranati. Arrivano dalla bottiglia del tempo, lungo rotte che hanno alle spalle il Brasile, il suo realismo magico, i suoi bestiari di zoologia fantastica. Sono la traccia di un laboratorio che si riempirà di altri segni, altri incanti, pochissimo esotismo. Per diventare, in forma di disegno, una delle migliori storie della nostra vita quotidiana. Catastrofi comprese. Altan prima di Altan. Come un Andrea Pazienza ancora ignaro di Zanardi, ma già carico di ombre magre. Come un Lorenzo Mattotti in bianco e nero, prima del suo biglietto sola andata verso i colori di Parigi. Come i primi soldatini geometrici di Pino Pascali, che avrebbe fabbricato cannoni di compensato, seminato il mare, arato la spiaggia. Ritrovare i lavori d’esordio di un artista è come dare un’occhiata ai suoi ingranaggi sotto la carrozzeria. E poter misurare la sua energia iniziale, per calcolarne la traiettoria, l’intensità, la direzione. Talvolta sono una sorpresa, rimandano proprio a altre vite, altri mondi, altre proporzioni, come (per dire del più grande) le primissime ceramiche barocche di Lucio Fontana, le sue sculture così cariche di spazio pieno, non tagliabile. Altan, dunque, viene da quei disegni ritrovati. E da quei viaggi. Figlio di un antropologo, ha realizzato il sogno di tutti gli antropologi. Si è messo a maneggiare i prototipi della nostra specie, studiandone le loro mutazioni provvisorie. Così dal malinconico Cipputi, intercettato nell’era finale della Tuta Blu, ha pescato lo sguardo asciutto che ancora ci sorprende. E dal potere, i gomiti sul tavolo. E dal Cavalier Banana (il suo capolavoro) l’avventurosa ridondanza del suo dominio, dilagato dalle pianure alluvionali del Terziario, imbracciando bugie e cattivi sogni scheggiati nella selce e ormai nella nostra storia. Lui, che forse ancora un po’ viene da quel remoto Brasile, ce la tramanda, giorno per giorno, con l’inchiostro esatto della lontananza. diversa a seconda della tecnica. Ho sempre sentito fortissimo il piacere dello strumento, che condiziona profondamente l’esito del lavoro. La mia parte infantile nasce dall’uso di un pennarellone. Al pennino ho affidato un’altra parte di me». Il naso a proboscide nasce in quegli anni. «Sì, diventa una scelta forse inconsapevole ma definitiva». Cosa della realtà brasiliana travasava in quelle tavole? «Non riesco a metterlo a fuoco. Io vivevo là come se ci fossi nato. Dopo un paio d’anni, sognavo in portoghese. Stavo bene, perché mi sentivo a casa. O forse perché non ero a casa». Quanto la scelta del cinema, del lavoro creativo, segnava un’autonomia da suo padre, Carlo Tullio-Altan, celebre antropologo culturale? «Forse il problema l’avevo sentito prima, quando ero ragazzo: non perché mio padre fosse uno studioso con una dimensione pubblica, ma perché l’avvertivo esigente. Negli anni dell’Università, ci vedevamo relativamente poco: ciascuno viveva per conto proprio». Non è mai stata una figura per lei ingombrante? «No, ho un ricordo di grande discrezione: raramente esprimeva un giudizio, mai una censura. Ha sempre mostrato interesse per il mio lavoro, con qualche preoccupazione: si chiedeva se questa mia attività mi avrebbe dato sicurezza per la vita. Poi le cose sono andate bene, e lui ne era felice». Nel 1975 lei rientrò in Italia. Incontrandola nella redazione di Linus, Oreste del Buono pensò che fosse brasiliano. «Sì, parlavo poco e quel poco lo dicevo con una certa cadenza. Del Buono fu uno dei miei incontri fortunati, insieme a Marcelo Ravoni, un grande amico argentino scomparso di recente: persone che mi hanno aiutato a trovare la strada. Come le ho detto prima, ho sempre avuto la tendenza a farmi portare dagli eventi». È questo suo essere «brasiliano» in Italia che le ha suggerito come un distacco dalla realtà? «Sì, mi ha aiutato a trovare una cifra, uno sguardo un po’ sorpreso e distaccato. Ripensandoci oggi, tutto questo nasce da lì». 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Anticipazioni DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 Feltrinelli pubblica l’ultimo lavoro dello scrittore francese,“La lunga notte del dottor Galvan” Un romanzo breve che ha al centro un grande ospedale parigino, una domenica di luna piena e un “Malaussène” in camice bianco alle prese con una galleria di personaggi stralunati e grotteschi. Ne anticipiamo i primi due capitoli DANIEL PENNAC «S ono vent’anni oggi, signore. Quasi un anniversario. Così viene voglia di raccontarlo a qualcuno... Ha un momento? Le dovrebbe interessare, visto che mi hanno detto che fa lo scrittore». «...». «No? Sì? Ma comunque fa lo stesso, lei o un altro... Un caffè?». «Come dicevo, era esattamente vent’anni fa. Ero di guardia al pronto soccorso della clinica universitaria Postel-Couperin. Era domenica ed eravamo nel pieno della classica frenesia notturna: incidenti domestici, infezioni eruttive, suicidi abortiti, aborti mancati, sbronze comatose, infarti, attacchi epilettici, embolie polmonari, coliche nefritiche, bambini bollenti come pentole, automobilisti in polpette, spacciatori fatti a colabrodo, barboni in cerca di alloggio, donne picchiate e mariti pentiti, adolescenti fumati, adolescenti catatonici... Insomma, la tipica domenica notte al pronto soccorso, e per giunta con la luna piena. Tutta quella bella gente faceva il possibile per sottrarsi al lunedì mattina e io come sempre iniettavo, otturavo, intubavo, cucivo, suturavo, sondavo, zaffavo, drenavo, medicavo, facevo partorire, qualche volta addirittura prevenivo e depistavo! Insomma, dispensavo. Ero un dispensario fatto persona. Sostituivo Pansard, Verdier, Samuel, Desonge: “A buon rendere, Galvan...”. “Lasciate stare, ragazzi, lo faccio volentieri”. (Tutti baroni, oggi, quelli). I più ingenui vedevano in me un idealista facente funzioni di interno, due soldi al mese per ottanta ore alla settimana, a scapito della mia salute, della mia giovinezza, della Pennac Il Dottor Al pronto soccorso col malato-camaleonte mia carriera, della mia vita privata. La mia famiglia (tutti medici sin dall’epoca di Molière, la medicina è la più diffusa malattia ereditaria) mi trovava esemplare. Mio padre già mi vedeva nei panni dell’arcangelo che sgomina il cancro del sistema linfatico: “La tua strada è l’ematologia, Gérard!”. Io lasciavo correre la fantasia di mio padre, ma facevo di testa mia; sapevo che non sarei mai stato l’uomo di una sola specialità. La mia specialità sarebbe stata il pronto soccorso: tutti i mali dell’uomo, i mali di tutti gli uomini, come dire tutte le specialità. Il mago della medicina interna, ecco cosa volevo diventare. Lei mi dirà che era un’ambizione più che onorevole... No? Sì? Eh?». «...». «Be’, si sbaglia. In realtà, io sognavo una cosa sola... Quasi non oso dirgliela, tanto è... Da non crederci! Sognavo il mio futuro biglietto da visita! Sul serio! Una vera e propria ossessione. Non pensavo ad altro che al giorno in cui avrei potuto sguainare un biglietto da fare impallidire tutti gli amanti del genere. Era questo, in fondo, il mio grande progetto! Françoise sposava la mia ambizione e io avrei sposato Françoise. Anche lei era figlia di un medico e in due contavamo di sfornarne altri quattro o cinque. Nel frattempo Françoise lavorava al progetto del mio biglietto da visita. Cesellava discreti corsivi inglesi in puro stile nouvelle revue française: “Ti occorre un biglietto da visita semplicissimo, Gérard, hai una tradizione troppo importante alle spalle e un futuro troppo brillante di fronte per scegliere qualcosa di pacchiano!”. Aveva ragione: mi occorreva un cartoncino discreto, infinitamente rispettabile, retaggio di un tempo in cui il tempo non passava. Dire che sognavo quel biglietto da visita è dir poco. Nella mia immaginazione si dispiegava come uno stendardo la cui ombra cancella- va i colleghi e copriva tutto il campo medico. Un pirletta, insomma. Non avevo ancora scavato le mie fondamenta e già mi credevo la statua di me stesso. *** Quella famosa domenica di luna piena ero dunque di guardia alla clinica ospedaliera PostelCouperin, e affrontavo ogni malato come uno scalino. Se mi pigliava una botta di stanchezza, il mio biglietto da visita garriva al vento della mia testa per darmi una bella sferzata. Quatto quatto, mi esercitavo a tirarlo fuori, dico sul serio! Nella mano non c'è DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 LA TRAGEDIA, L’IRONIA, L’URGENZA Sessantaquattro pagine per un racconto dal gusto tragico e ironico di Daniel Pennac, “La lunga notte del Dottor Galvan” edito da Feltrinelli nei Super Ue e in vendita da giovedì a 6,50 euro. Sessantaquattro pagine, di cui anticipiamo qui un “assaggio di lettura”, in cui il protagonista Dottor Galvan racconta una notte drammatica e paradossale al pronto soccorso alle prese con un paziente dai mille malanni. La missione del giovane medico è salvarlo ad ogni costo. L’uomo è in fin di vita, ma all’improvviso ecco che... Da Malaussène a Galvan Eroi ingenui ma teste fine MICHELE SERRA ILLUSTRAZIONI DI GIPI D niente, in tasca non c'è niente e oplà! L'onorevole cartoncino tra il medio e l'indice: Professor Gérard Galvan. “Si metta distesa, signora Taldeitali, Cooooosì”. E solamente medicina interna. “No, signorina, ha fatto bene a portarlo qui, un patereccio non è cosa da prendere sotto gamba! È il suo fratellino? Come ti chiami, giovanotto?”. Magari Medicina scritto maiuscolo, e anche Interna. Oppure... Mentre sono alle prese con un'impetigine, Eliane piomba lì con il solito motociclista della tangenziale. Ha l'orecchio in tasca e il braccio nello zaino. “Chirurgia”. E solo un numero di telefono. Sul biglietto da visita. Niente indirizzo. Solo il telefono. “Mi raccomando, prenda gli antibiotici, signor Vattelapesca. Non interrompa finché non ha finito il ciclo. Eliane, tesoro, a chi tocca?”. “C'è qui un attacco di asma, ma quel signore là è un bel po' che aspetta”. Ecco, avevo iniziato il turno al pronto soccorso alle nove del mattino, Fatima aveva sostituito Gisèle, Eliane aveva dato il cambio a Fatima e, dirigendomi verso “quel signore là” mi domandavo se un cartoncino Lacermois non sarebbe stato più presentabile, per il polpastrello, rispetto a un Adventis 12. Uno stronzetto, ecco cos'ero, ve lo dico io. “Qual è il suo problema, signore?”. Il signore non aveva né età né ambizione. Era da un po' che l'avevo notato, con la coda dell'occhio. Aveva lasciato che gli passasse davanti metà del corridoio. Qual era il suo problema? Non si sentiva tanto bene. “Non mi sento tanto bene”. Aveva la carnagione pallida e la voce neutra, il tono stanco e l'aria mesta. Non si sentiva tanto bene. Ma non stava neanche troppo male. Il classico tipo che Eliane detestava. Sapeva fin troppo bene che l'avremmo rivisto. “Ma santo dio, Galvan, questo è un pronto soccorso, mica uno Sportello Aiuto di vatelapesca!”. Men- tre mi interessavo al signore, ho sussurrato: “Il soccorso di cui ha bisogno è la tua dolcezza, Eliane, ha bisogno della mamma”. “E così lei non si sente tanto bene... Vediamo un po'... Si tiri su la manica per favore...”. Si tira su la manica. Mentre sotto i miei polpastrelli il suo polso batte a un ritmo tranquillo, l'asmatico sulla panca di fronte vira a un color indaco. “Mi scusi...”. La maggior parte degli asmatici hanno una madre, la questione è tutta lì. L'asma è una vera e propria mamma. A proposito di polpastrello, prestare la massima attenzione al rilievo della stampa litografica! Ho detto proprio litografica. Un biglietto da visita litografato. Non liscio. Né uno di quei biglietti in rilievo così tarocchi. No. Litografato! Litografato! Quando ne ho parlato con Françoise, ha alzato gli occhi al cielo tanto era ovvio. Dopo l'asmatico, ci siamo beccati un pittoresco delirium tremens con sfilza di verità tonanti neanche poi così cazzute. Cui hanno fatto seguito tutte le urgenze prioritarie tipiche di una notte di luna piena quando uno crede di aver già affrontato le urgenze assolute. E poi, verso le due del mattino, la sorgente si è prosciugata. Il corridoio era quasi vuoto. Con quel buon odore di pausa caffè. È stato allora che “quel signore là” è crollato a terra. aniel Pennac, parigino di ceppo corso, è uno dei non molti scrittori europei che abbia saputo far convivere serenamente una vastissima popolarità con una seria impostazione letteraria. Non è un’alchimia facile, quella tra il “facile” e il “difficile”. Spesso lo stile comprensibile, di pronta lettura, va a scapito della profondità intellettuale. E viceversa le ambizioni intellettuali sovraccaricano la scrittura, e allontanano i lettori. In Pennac si avverte che il problema è affrontato, perfino a monte della scrittura, da una profonda propensione al comico. È lo sguardo comico che alleggerisce e de-retorizza, che aiuta il lettore (e lo scrittore) a non soccombere nel mare procelloso della solitudine, dell’egoismo, del classismo, dell’avidità e delle vanità “professionali” nel quale, pure, ambienta le sue storie. Pennac lo applica, il suo sguardo comico, fin dagli esordi, a un paesaggio umano (il nostro) spesso terrificante e violento. Il paradiso degli orchi e La fata carabina, suoi primi grandi successi, trattavano orrende storie di pedofilia e delitti politici con mano ferma e certo non esitante. Ma se il protagonista buono, Malaussène, non arretrava mai, era perché il suo status di eroe comico lo immunizzava dal male, come altri famosissimi omini intrepidi (Charlot, il Benigni della Vita è bella) protetti dall’aura quasi santa dell’ingenuità. Impavidi di fronte ai demoni. La fortuna teatrale di Pennac dipende anche da questo efficacissimo, invidiabile mix tra tragico e comico: molto drammaturgico. Claudio Bisio, già protagonista del fortunatissimo Monsieur Malaussène, porta in scena in questi giorni, sempre per la regia di Giorgio Gallione, il monologo pennacchiano Grazie, una conferenza in pubblico molto sui generis, e per Bisio una prova d’attore parecchio impegnativa. Sarà al Teatro Strehler, a Milano, dal 12 ottobre. E Neri Marcoré (ancora con Gallione, meritorio trasportatore di letteratura in teatro) sta per debuttare proprio con la versione teatrale di questo ultimo romanzo breve, La lunga notte del dottor Galvan, del quale anticipiamo uno stralcio in queste pagine. Argomento e ambientazione sono tipici di Pennac. Il pronto soccorso di un grande ospedale urbano, la condizione di fragilità e paura di chi sta male, la soggezione dei deboli rispetto ai forti, l’arrabattarsi sussiegoso ed esilarante di un gruppo di medici che vedono nel paziente soprattutto l’occasione di indovinare la diagnosi, aggiungere un mattoncino alla carriera e, sogno dei sogni, abbellire il biglietto da visita, vero protagonista del racconto. C’è un po’ dell’umore cinico e ribaldo alla MASH, un pizzico di Molière nella descrizione della prosopopea borghese dei personaggi, e c’è soprattutto molto Pennac: la morte e la sofferenza presi per il bavero, l’impaccio trafelato del giovane medico protagonista, munito di un biglietto da visita assai meno qualificato di quello dei colleghi più affermati. Come tutto Pennac, il libro può essere letto dagli otto anni in su, tanto è scorrevole la scrittura, rapidi gli snodi, divertente la trama. Il colpo di scena finale non va detto, si intende. Diciamo solo che si tratta della rivincita del paziente sul medico, ma anche della ribellione del medico alla sua umiliante sconfitta. Perché Pennac, ripeto, è uno scrittore semplice ma mai semplicistico, non ama dividere buoni e cattivi con la riga netta del moralismo, concede spazio e argomenti a quasi tutti, perfino ai medicastri, che evidentemente gli sono simpatici perché, come tutti, fanno quello che possono. L’ingenuo non è uno stupido, sapete. Ha la testa fina. Chiedete a Malaussène. 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 Ventisei settimane di programmazione con i biglietti già esauriti in pochi giorni: è il ritorno trionfale di una delle commedie più famose e rappresentate dello spettacolo. Abbiamo incontrato l’autore nella sua nuova casa di New York, dove è tornato a vivere E lui ci svela il segreto del suo successo: “Scrivo di cose che capitano a qualunque persona e tutti ci si riconoscono” ANTONIO MONDA Repubblica Nazionale 48 09/10/2005 È IL SUCCESSO NEW YORK bastato il semplice annuncio che La strana coppia ritorna a Broadway per stabilire il record assoluto di prevendite nella storia del teatro americano: prima ancora di debuttare, lo spettacolo ha già collezionato il tutto esaurito per tutte le ventisei settimane di programmazione con un incasso che ha già superato i ventuno milioni di dollari. Chi conosce i cambiamenti in corso nella Broadway contemporanea sa che un successo di tali proporzioni è da attribuire ad una serie di fattori differenti: il richiamo della magnifica coppia di protagonisti Nathan Lane e Matthew Broderick, reduci dal trionfo dei Producers, di cui è in uscita un’attesissima versione cinematografica; un formidabile battage pubblicitario basato in egual misura sul ritorno di un classico del teatro leggero americano ed una interpretazione innovativa di attori che sfruttano al meglio la diversità della loro impostazione recitativa; una crescente reazione del pubblico di Broadway all’invasione di spettacoli lontani dalla tradizione del teatro americano quali Mama Mia; ed infine la garanzia del nome di Neil Simon, che dopo un momento critico alla fine degli anni Ottanta, nel quale fu costretto a lanciare le nuove commedie in teatri secondari mentre a Broadway gli veniva intitolato un teatro, ha riconquistato i favori del pubblico e della critica con la trilogia autobiografica Brighton Beach Memoirs, Biloxi Blues e Broadway Bound, e con la commedia Lost in Yonkersgrazie alla quale ha vinto anche il premio Pulitzer. Ad incontrarlo oggi, Neil Simon sembra molto più giovane dei settantotto anni che ha compiuto lo scorso luglio e il sorriso con cui stempera gli argomenti più seri di ogni conversazione riflette la saggezza di chi ha scritto: «Se riesci a vivere senza provare dolore significa che non sei ancora nato». Negli ultimi tempi ha visto scomparire molti amici che hanno segnato profondamente la sua esistenza, ma il dolore più grande è stato quello per la morte del fratello maggiore Danny, primo responsabile della sua vocazione teatrale e mentore di un’intera esistenza. Ha deciso di tornare a vivere a New York dopo ventotto anni a Los Angeles e, come i protagonisti dei Ragazzi irresistibili, si sente rinascere quando avverte il caos, la frenesia e l’aggressività della città in cui è nato e dalla quale andò via dopo la morte della prima moglie Joan. «Non riesco a credere che non ho bisogno della macchina e non puoi immaginare quanto ne sia felice — racconta nel suo lussuoso appartamento di Park Avenue — anche se so bene che New York non è la Mecca, pur avendone lo stesso odore». La nuova edizione della Strana Coppia ha rappresentato il pretesto per un trasferimento che anelava sin dai primi anni californiani, ma le prove dello spettacolo rappresentano anche un momento di malinconia: «La strana coppia è uno dei testi più personali che abbia mai scritto, ed è basato direttamente sulle esperienze di mio fratello. Quando divorziò dalla moglie andò a vivere con un amico che era a sua volta divorziato, ed ogni sera mi raccontava la loro improbabile convivenza. Danny sapeva cucinare e nel giro di poco tempo si occupò di tutti gli aspetti che almeno all’epoca erano delegati alle donne. Fu proprio Danny a scrivere la commedia, ma poi me la passò, forse perché per lui era troppo autobiografica. Nessuno dei due pensava che avrebbe avuto un successo di questo tipo, e devo alle scelte di un manager inqualificabile se ne cedetti i diritti cinematografici e televisivi per una cifra modestissima. È incredibile come non si abbia mai la percezione di quello che si ha tra le mani: mi è accaduto lo stesso anche con A piedi nudi nel parco, un’altra commedia che racconta in maniera spudoratamente autobiografica la luna di miele con la mia prima moglie». Da come parla, il commediografo di maggior successo della storia americana non ha alcuna intenzione di comunicare un senso di riflessione conclusiva rispetto alla propria carriera. Anzi, annuncia con un pizzico d’orgoglio che la prossima primavera ritornerà a Broadway proprio A piedi nudi nel parco, mentre i suoi spettacoli continuano ad essere rappresentati in tutto il mondo. I ricono- LA COMMEDIA È del 1965 la prima rappresentazione teatrale di “The Odd Couple”: “La strana coppia” avrà subito un enorme successo, destinato ad andare ben oltre il palcoscenico IL FILM Nel 1968 la famosa rappresentazione teatrale di Neil Simon diventa un film con Jack Lemmon e Walter Matthau: la regia è di Gene Sacks, la sceneggiatura dello stesso Simon LA SERIE TV Negli anni ’70 prima in America e poi in Italia (su Raiuno) va in onda la serie televisiva in 114 episodi con Tony Randall e Jack Klugman “La strana coppia”, ispirata ovviamente alla commedia di Simon IL CARTONE ANIMATO Nel 1983 arriva in Italia “L’incredibile coppia”. Si tratta di sei episodi, di 22 minuti ciascuno, che trasformano in cartoon il lavoro di Simon Negli Stati Uniti il cartone animato era andato in onda nel 1975 IL SEQUEL Nel 1998 Jack Lemmon e Walter Matthau tornano sullo schermo con “La strana coppia II”, il seguito del film girato trent’anni prima. La regia stavolta è di Howard Deutch scimenti ottenuti durante la carriera sono impressionanti: oltre al Premio Pulitzer per Lost in Yonkers, Simon ha avuto quattro candidature all’Oscar, ben quindici ai Tony con tre vittorie (per La Strana Coppia, Biloxi Blues e Lost in Yonkers), un Golden Globe (per The Goodbye Girl), oltre a una infinità di premi internazionali. Nel 1967 a Broadway erano in scena contemporaneamente quattro suoi spettacoli: Sweet Charity (adattamento in chiave musical delle Notti di Cabiria), La Strana Coppia, A piedi nudi nel parco e Due scapoli e una bionda. All’interno di una carriera lunga più di cinquant’anni, con un bilancio di trenta commedie, cinque musical e sessantadue sceneggiature (comprese quelle televisive), La Strana Coppia è probabilmente il testo più noto e apprezzato in ogni parte del mondo. Simon ne spiega il segreto con un dato molto semplice: «Non c’è nessuno che non abbia convissuto, almeno per un breve periodo, con un’altra persona». E racconta che quando sentiva i racconti del fratello non avrebbe mai creduto che un giorno ci sarebbero state anche delle versioni femminili. Simon non fu molto soddisfatto del primo allestimento a Broadway e “Non c’è nessuno che non abbia convissuto, almeno per un breve periodo, con qualcun altro. E “A piedi nudi nel parco” è ispirata alla mia luna di miele” non si stupì che chiudesse i battenti dopo un anno e mezzo: durata per i suoi standard quasi fallimentare ma, ricorda ancora una volta con orgoglio, «pari a quella della prima edizione di Morte di un commesso viaggiatore». Il film, realizzato da Gene Sacks, gli apparve decisamente più riuscito, e Simon si dichiara tuttora particolarmente felice di alcune soluzioni che scrisse apposita- mente per il grande schermo, come l’inizio in cui si vede Jack Lemmon che non riesce ad aprire la finestra dalla quale vuole suicidarsi. Non lontano da uno splendido olio di Modigliani che campeggia nel salone c’è un poster di un vecchio allestimento della commedia. Simon lo indica mentre continua il racconto: «Reagii per molto tempo con perplessità quando numerose attrici cominciarono a chiedermi la versione femminile e decisi di cedere soltanto quando mi chiamò Rita Moreno. Da allora la storia di Felix e Oscar è diventata il simbolo di un modo di concepire la vita eternamente provvisorio, e tra le tante versioni mi ha molto divertito quella spagnola interpretata da un attore di origine medio-orientale come Tony Shalloub. Oggi sono felicissimo per questa incredibile prevendita, ma mi chiedo che tipo di successo avrebbe incontrato se fosse stata un testo nuovo». Ci sono voluti molti anni prima che la critica americana riconoscesse in Simon un commediografo di prim’ordine e non solo un abilissimo autore di gag. Il cambio di atteggiamento è stato prodotto da California Suite, diventato celebre grazie al film di Herbert Ross. «Credo che il successo di quel testo sia dovuto in gran par- DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 IL PERSONAGGIO ‘‘ Neil Simon nasce a New York nel Bronx il 4 luglio 1927 e si fa le ossa come autore di gag per comici televisivi. Il primo successo arriva nel ’61 con “Come Blow Your Horn” da cui è stato tratto il film “Alle donne ci penso io” con Frank Sinatra. Da allora non smette di mietere successi, vincendo innumerevoli premi. Tra le sue commedie, molte delle quali adattate per lo schermo, famosissime restano “A piedi nudi nel parco”, “La strana coppia”, “Plaza Suite” FOTO GETTY IMAGES Neil Simon Se non si rischiasse mai nella vita, Michelangelo avrebbe dipinto il pavimento della cappella Sistina LE STAR Inseparabili o rivali dispettosi il segreto del successo sicuro MARIA PIA FUSCO sia sullo scontro tra l’ingenua stupialter Matuschanskayasky? Ma tu sei uno sciodità di Laurel e la burbera irascibilità glilingua per balbudi Hardy. Il successo sfumò negli anzienti!», disse Jack Lemmon quando ni della guerra, il loro ultimo film è Walter Matthau gli confidò il suo vedel 1950, Atollo K. Tentarono senza ro nome. «E tu che ti chiami John Uhrisultati strade separate e, poiché i ler? Non è un nome, è il singhiozzo di pettegoli del cinema parlavano di un rospo nervoso», reagì Matthau e gelosie reciproche, alla morte di se ne andò indispettito per tornare Hardy suscitò stupore l’annuncio di dopo poco con un bicchiere in maLaurel: non avrebbe più lavorato. no: «Manda giù il rospo». È una delle Difficile parlare di amicizia tra leggende sulla scontrosa e bellissiJerry Lewis e Dean Martin che pure, ma intesa che legò i due attori fin dal a partire dal 1949, con il film La mia ‘66, dal primo incontro favorito da amica Irma, furono insieme in 16 Billy Wilder per il film Non per soldi... film e formarono una coppia comima per denaro, una cinica commeca — folle, impacciato e surreale l’udia sull’avidità umana. Il sodalizio si no; aitante, fascinoso e sicuro l’altro impose due anni dopo con La strana — che accompagnò dieci anni di coppia, nacque una delle più infallistoria degli Usa. Si separarono alla bili coppie del cinema mondiale, fine degli anni Cinquanta per «inprotagonista di dieci film, tra i quali compatibilità di carattere». Lewis Prima pagina, Buddy Buddy, La stracontinuò una grande carriera, Marna coppia II del 1998 (Matthau morì tin si affermò nella canzone, ebbe ottantenne due anni dopo) in cui i buone occasioni drammatiche e due amici-nemici riproponevano le mantenne la notorietà con l’ingresbizze e i litigi di sempre, non più nelso nella cerchia di Frank Sinatra. la convivenza forzata in un appartaBreve ma intenso l’incontro tra mento come nel primo film ma duPaul Newman e Robert Redford, due rante un disastroso viaggio in Cafilm: Butch Cassidy nel 1969, che lifornia. portò a Redford la prima popolarità; Malgrado la diversità di origini — e La stangata nel ‘73, due capolavoLemmon, nato nel ‘25, di indole quieri da Oscar. Ma ormai anche Redford ta, curiosa e accomodante, era creera una star, e due star dello stesso sciuto in una famiglia borghese, colsesso raramente dividono un film. Il ta e benestante; Matthau, figlio di imtempo attenua rivalità e gelosie ed è migrati russi, aveva conosciuto la mirecente l’annuncio di Newman e seria, era irruente e smodato, eccesRedford insieme per il remake di La sivo nel fumo e nell’alcol per tutta la stangata. vita — la loro fu un’amicizia profonAnche in Italia le “strane coppie” da che indusse Lemmon ad affrontadella comicità nascono, finiscono e si re per la prima ed unica volta la regia rinnovano da sempre. La più celebre solo per il piacere di dirigere l’amico degli anni recenti resta quella di Ugo in Vedovo aitante, bisognoso d’affetto Tognazzi e Raimondo Vianello, che offresi anche babysitter. ha attraversato decenni di teatro, ciSe quasi unico è il sodalizio tra nema e tv, modernizzando la tradiLemmon e Matthau, attori di pari fazione della comicità da avanspettama, la ricerca di interpreti che nel colo di “animali da palcoscenico” cocontrasto di coppia esaltassero la me i fratelli De Rege, evocati poi da comicità è nella tradizione del cineWalter Chiari e Carlo Campanini. E se ma fin dagli albori. L’esempio più l’inventiva isterica e irresistibile di noto resta il felice incontro tra Stan Tognazzi e Vianello è indimenticabiLaurel e Oliver Hardy, Stanlio e Ollio, le e sono insuperabili le apparizioni che con l’esito trionfale dei loro cendi una strana coppia sporadica come to film, di cui 27 lungometraggi, suTotò e Peppino De Filippo, è imposperarono la fama di Bud Abbott e sibile ignorare la popolarità della Lou Costello, Gianni e Pinotto per coppia Franco Franchi e Ciccio Inl’Italia. Inglese, classe 1890, Laurel, grassia, uno dei fenomeni più intearrivato negli Usa ventenne e con ressanti dello spettacolo italiano, inuna buona esperienza di teatro, non sieme al fortunato e particolare sodafaticò ad affermarsi e nel ‘17 ebbe il lizio western-comico tra Bud Spenprimo ruolo da protagonista in Cane cer e Terence Hill. La più recente delfortunato. Tra le comparse c’era le strane coppie nostrane è quella di Hardy, americano della Georgia, Massimo Boldi e Christian De Sica, classe 1892. Allora si ignorarono, ma oltre venti film, quasi tutti record di nel 1926 il produttore Hal Roach li incassi. Ma la separazione è annunaccoppiò, sfruttando con risultati ciata: l’ultima volta sarà nel prossimo esilaranti la vena delle loro gag, baNatale a Miami, poi le loro strade si sate sia sul ridicolo contrasto fisico separeranno. «W STANLIO E OLLIO Dal muto al sonoro: Stan Laurel e Oliver Hardy, i nostri Stanlio e Ollio, sono la coppia comica protagonista di una lunga serie di film di successo che li porta nel 1932 a vincere un Academy Award con “The Music Box” Neil Simon “Racconto la magia della vita” VIANELLO E TOGNAZZI Nel 1954, quando nasce in Italia la televisione, la riuscita coppia formata da Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi spopola con la trasmissione “Un, due, tre”, che va avanti fino al 1959 La strana Repubblica Nazionale 49 09/10/2005 coppia te alla sincerità: mi ero trasferito in California e sentivo la necessità di inserirmi in quella società e una istintiva repulsione». Chi ha visto il film, ricorderà lo sconcerto della newyorkese Jane Fonda quando incontra il suo vecchio marito Alan Alda vestito con un golf giallo canarino indossabile solo ad Hollywood, e l’atmosfera di malessere che emana Maggie Smith nel ruolo di una celebre attrice immortalata in compagnia del marito omosessuale Sydney (Michael Caine) al ritorno da una cerimonia degli oscar nella quale lei non ha vinto. Non si era ancora in tempi di correttezza politica, ed il volto sconfitto dell’attrice inglese chiarisce che per chi vive nel grande nulla di Hollywood ha avuto ben poco significato cambiare l’annuncio “the winner is” con “the oscar goes to”. L’amarezza di una mancata vittoria si rispecchia nel disastro esistenziale della coppia, ma Simon riesce sempre a trovare il modo di sorridere e cogliere la tenerezza dell’elemento umano: «Ho conosciuto coppie del genere, e mi sono sempre interrogato sull’equilibrio che riescono a raggiungere: Sydney è certamente un compagno e riesce a soddisfare alcuni aspetti della vita di coppia, ma c’è qualcosa tra i due che mancherà sempre. Anche se devo dire che gli anni mi hanno insegnato che la felicità è rara in ogni tipo di rapporto». Dopo la morte della prima moglie Joan, Simon si è sposato altre tre volte e quando parla dei divorzi si limita a dire: «C’era qualcosa che non funzionava». Ma l’approccio che ha nei confronti del passato è tutt’altro che freddo e ancora una volta il commediografo rifiuta ogni possibile idea di conclusione. I racconti degli anni della tv, durante i quali scriveva gag per Woody Allen e Mel Brooks, sono pieni di umanità, e emerge il desiderio di riscrivere qualche capitolo della propria vita per capirne il senso ultimo. Il suo sguardo sullo spettacolo odierno è disorientato ma per nulla scoraggiato: «Sembra che oggi si possano produrre soltanto musical e show destinati ad un pubblico giovane, ma poi arriva all’improvviso un testo appassionante come The Pillowman. Lo stesso si può dire del cinema: recentemente ho visto Capote e ho ammirato la capacità di raccontare lo scrittore anche nei suoi lati più sgradevoli, lasciando nello spettatore un sentimento ambiguo. Alla fine mi sono chiesto: cosa c’è che non mi piace di questo personaggio? E il dilemma etico mi comunicava l’emozione del successo drammaturgico». LEMMON E MATTHAU Sono la strana coppia per eccellenza: Jack Lemmon e Walter Matthau girano insieme, nel 1968, il film tratto dalla commedia di Simon. Trenta anni dopo tornano sullo schermo in“La strana coppia II” REDFORD E NEWMAN È una delle coppie mitiche del cinema americano anni ’70: Robert Redford e Paul Newman vincono nel 1973 sei Oscar con “La stangata”. Nel ’60 avevano girato insieme “Butch Cassidy” 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori Natura in tavola DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 Ormai quasi introvabili, gli antichi prodotti della civiltà contadina (come la pera cotogna o la sorba) potranno essere riscoperti e degustati il prossimo weekend nel cuore delle colline romagnole, a Casola Valsenio, dove tra visite al giardino delle erbe e ricette golose si celebrano le varietà sopravvissute allo strapotere dell’agricoltura globale Azzeruola Detta anche Lazzeruola, è come una grossa ciliegia con uno o due noccioli, polpa bianca o giallastra, consistenza croccante e burrosa, gusto dolce-agro, piacevolissimo Ricca di provitamina A, vanta proprietà antianemiche Corbezzola Se la pianta permette alle api di confezionare un miele amaro e prezioso, il frutto – una bacca acidula – vanta doti digestive e rinfrescanti. Si consuma fresca spolverata di zucchero, in gelatina o conserva Mela cotogna Forma tondeggiante, colore giallognolo, gusto aspro e allappante. Entra nella ricetta dei mosti cotti arricchiti (salse per carni o formaggi), con le preparazioni di maiale e oca come contorno rinfrescante Mela da rosa Medio-piccola e di forma schiacciata, attira per le sue macchie rossastre, che la fanno assomigliare ad una gota. Matura in autunno tardo, si usa sia cruda che in confetture, torte e cotta con le spezie Melagrana Repubblica Nazionale 50 09/10/2005 Il bellissimo frutto delle fiabe è ricco di semi globosi color rosso granata, deliziosi per insalate verdi, di frutta, e come contorno rinfrescante. Il succo, dissetante e diuretico, serve nelle cotture salate, per gelatine e bevande Nespola Simile all’albicocca, ha polpa bianco-rosata, sapore acidulo e astringente. Si consuma fresca (squisito il purè freddo con zucchero vanigliato e liquore) o in marmellata e sciroppo. È un ottimo diuretico e antidiarroico Nell’Eden degli archeo-gourmet LICIA GRANELLO Rosa canina La madre di tutte le rose produce dei frutti, i cinorroidi, di forma ovoidale e un bel colore rosso vivo, ricchissimi di vitamina C. Raccolti dopo le prime gelate, servono per tisane, confetture, gelatine, liquori, beauty-maschere Sorba Sembra una piccola pera di colore tra il giallo scuro e il rosso-bruno, con gusto acidulo. Se lasciata maturare sulla paglia, diventa dolce e succosa. In passato, era usata per preparare bevande dissetanti con proprietà astringenti A ndare in brodo di giuggiole. Per un film, un libro, una musica, un sapore, un amore, un sorriso, un complimento. La sensazione è meravigliosa: avvolti in una dolcezza languida e vagamente sciropposa, il mondo appare un luogo di delizie infinite. Ma le giuggiole, in brodo poi, che c’entrano? C’entrano eccome. Perché nella quotidianità della civiltà contadina, il bicchiere della festa, quello da offrire agli ospiti per condividere una gioia, era spesso una ricetta di più o meno sapiente fai-date. Come la bevanda a base di giuggiole, uva e mele cotogne cotte insieme alla scorza di limone. Da gustare in compagnia, con grandi e piccini, per alzare il bicchiere del brindisi o inzuppare i biscotti secchi custoditi nell’imprescindibile scatola di latta. Dolce, languido, sciropposo: il brodo di giuggiole, appunto. Prima che entri definitivamente a far parte dell’archeologia alimentare, varrebbe la pena andarlo ad assaggiare là dove non hanno mai smesso di prepararlo. Insieme alla marmellata di azzeruole e di pere volpine, alla carruba trasformata in biscotti, alla melagrana in insalata, al mosto cotto con le mele cotogne. Sabato e domenica, a Casola Valsenio, a due passi dalla più celebre Brisighella, cuore delle colline romagnole, si celebrano i frutti dimenticati: quelli caduti in disuso, vittime dell’agricoltura intensiva, dell’obbligo di stagionalità, del “più bello che buono”. Ci saranno i frutti freschi e quelli preparati, laboratori didattici e visite guidate al bel giardino delle erbe, degustazioni e concorsi per decretare la ricetta più golosa. Tanto per ricordarci che non si vive di soli duroni di Vignola e pere Williams. Dicono che le varietà vegetali smarrite nel- l’ultimo secolo ammontino a decine di migliaia. Due concetti in lotta: biodiversità contro erosione genetica. Diminuendo drasticamente il numero delle varietà e incrementando a tutti i costi quantità e perfezione estetica, si interviene pesantemente sugli equilibri della natura. Siamo sicuri che sia la soluzione migliore? Per fortuna, i frutti dimenticati resistono. Quasi duemila orti botanici, insieme alle oasi naturali e alle biobanche, custodiscono e accudiscono, come vestali premurose, le varietà sopravvissute. Del resto, per sposare fino in fondo la causa dell’archeologia fruttaria, basta regalarsi una passeggiata alla riserva dello Zingaro, superbamente adagiata di fronte alle isole Egadi. Conosciuta, amata e frequentata soprattutto per le spiagge di sabbia finissima e il mare dai colori caraibici, in realtà è una riserva “terrestre”, dove le stagioni riempiono i prati dei colori e dei profumi delle diverse coltivazioni protette, estese dal mare alla mezza montagna, con esiti spettacolari. Ottobre è il mese giusto per imparare il gusto solleticante dell’azzeruola, la pastosità della sorba, la croccantezza dissetante dell’anguria gialla. E siccome biodiversità e globalizzazione virtuosa vanno assai d’accordo, durante l’ultima edizione del Cous Cous Fest di San Vito Lo Capo i responsabili della riserva hanno scoperto che il sommacco, coltivato allo Zingaro come pianta ornamentale (era utilizzato in passato per colorare le reti dei pescatori) è una delle più prelibate spezie nordafricane, grazie al suo mix di sapori limonato e piccante. Ma questo è anche il tempo delle mele. L’appuntamento con “Pomaria” trasformerà nei prossimi giorni il Trentino in un immenso meleto da percorrere tra menù dedicati e percorsi guidati. Armatevi di cestino, pazienza e allegria: obbiettivo, far scorta di mele per tutto l’inverno. DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51 Frutti itinerari L'avvocato ravennate Guido Tampieri, ex assessore regionale agricoltura dell'Emilia Romagna, è uno dei più colti e appassionati esperti internazionali di cultura agricola e ambientale dimenticati Casola Valsenio (Ra) La capitale dei frutti dimenticati, appoggiata sul fondo della Val di Senio, nell’Appennino romagnolo, deve la sua fama al bel “giardino delle erbe” fondato nel 1938 da Augusto Rinaldi, dove crescono oltre 400 varietà botaniche DOVE DORMIRE HOTEL ANTICA CORONA Via Roma, 38 Tel. 0546-73847 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE LA GROTTA Via Metalli 1 Tel. 0546-81829 Chiuso martedì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE AGRITURISMO LA CA’ NOVA (con cucina e camere) Via Breta 29 Tel. 0546-75177 NATURA MORTA DI LIMONI, ARANCI E MELE GRANATE DI JACOB VAN HULSDONCK/FOTO CORBIS Città di Castello (Pg) Importante centro agricolo e culturale appoggiato tra le colline dell’Alta Valle del Tevere, ospita l’associazione di Archeologia Arborea, che recupera e conserva molte varietà di piante da frutto di antica origine, salvaguardandone il patrimonio genetico DOVE DORMIRE HOTEL TIFERNO Piazza Raffaello Sanzio 13 Tel. 075-8550331 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE IL POSTALE DI MARCO E BARBARA Via De Cesare 8 Tel. 075-8521356 Chiuso sabato a pranzo, domenica sera e lunedì, menù da 40 euro DOVE COMPRARE IL SARALE Località Coldipozzo 49 Bizzi di Sopra Tel. 075-8540545 L’importanza di ritrovare i piccoli protagonisti della grande storia Uno scavo nella memoria che dà allegria MASSIMO MONTANARI S toria e memoria: si fa spesso confusione fra i due termini, quasi fossero la stessa cosa. Non è così, come ci ha insegnato Le Goff in un celebre saggio. La memoria è corta e selettiva: ricorda solo i fatti più vicini, o quelli che per qualche motivo le piace pescare dal mucchio. La memoria non è un contenitore di ciò che è successo; è un’abilità, un organo mentale, una funzione che può atrofizzarsi se non la teniamo in esercizio. Inoltre, la memoria deforma: ciò che crede di ricordare spesso non è la realtà, ma solo l’immagine che ce ne siamo fatta. Per questo è utile il lavoro dello storico: per ricucire i frammenti di una memoria distratta, verificarli, confrontarli con le tracce che il passato ci ha trasmesso. Quelle tracce sono lì in mezzo a noi, basta guardare per vederle. Allora ci accorgiamo che qualcosa, che pareva perduto, in realtà era solo dimenticato. E che valeva la pena ricordarsene, perché il migliore dei mondi possibili non è il nostro, né quello di cento o di mille anni fa, ma quello che riesce a far tesoro della parte buona che tutti i mondi possiedono. Anche un frutto può servire a questo esercizio. Anche una nespola, una giuggiola, un corbezzolo, una pera volpina. Se le abbiamo relegate in un angolo oscuro della nostra memoria, perché altre cose ci pressano, più importanti, più urgenti, non per questo sarà inutile recuperarne il sapore. Non sono stati dei grandi protagonisti della storia, questi frutti dimenticati. Anche il cotogno, il sorbo, il corniolo, il lazzeruolo potevano diventare marmellata o conserva, ma non era certo in questo modo che si rimediava ai morsi della fame. Ma proprio in ciò stava la loro importanza: introdurre qualcosa di insolito, di diverso, di curioso nella monotonia della vita e della dieta quotidiana è sempre stato essenziale per vivere bene. Il gusto del superfluo e il piacere del bello (e del buono) non sono esclusivi della società del benessere. Nelle società tribali si stimano necessari certi oggetti inutili che hanno la sola (utilissima) funzione di tenere allegro lo spirito, perché, dicono, se lo spirito si annoia abbandona il corpo, e senza spirito non si sopravvive. Eppure, è capitato che certe cose siano passate nel dimenticatoio proprio perché inutili. Ripensiamo ai nostri frutti: producono poco, non sono grossi né belli, non durano, magari sono anche un po’ acidi. E soprattutto, non danno profitto: peccato mortale, nella società dei consumi. Ma quei frutti non sono perduti. Solamente dimenticati. E se — come accade ogni anno a Casola — riportarli alla memoria diventa anche un successo commerciale, è perché la domanda di memoria cresce a vista d’occhio. Soprattutto cresce la domanda di quelle cose inutili che servono a rendere più allegra e interessante la vita, ad accompagnare senza angoscia il passo delle stagioni, a sentirsi in sintonia col mondo. Attenzione: non è uno sfizio da ricchi, l’ennesimo capriccio da aggiungere alla nostra tavola sovraffollata di cibi. È il recupero delle differenze, della biodiversità, del rispetto per la varietà delle cose, di un valore etico (sì, etico) che in fin dei conti ci conviene pure. Dato il successo dell’operazione, proporrei ormai di chiamarli “frutti ritrovati”. L’autore è docente di storia medievale all’Università di Bologna San Vito Lo Capo (Tp) La splendida riserva naturale dello Zingaro, conosciuta per le spiagge incontaminate e il mare dai colori caraibici, è prima di tutto un’oasi floristica e faunistica, che ospita una sontuosa selezione di piante da frutto antiche e rare DOVE DORMIRE VENTO DEL SUD Via Duca Degli Abruzzi 157 Tel. 0923-621450 Camera doppia da 70 euro DOVE MANGIARE THA’AM (con camere) Via Abruzzi 32 Tel. 0923-972836 Chiuso mercoledì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE BAGLIO CASE COLOMBA (con cucina e camere) Via Toselli 183, località Pianoneve Busto Palizzolo Tel. 0923-852729 52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 le tendenze Guardaroba d’autunno Pelle, paillette, raso, tessuti hi-tech l’impermeabile trionfa sulle passerelle e torna ad essere un cult per uomini e donne. Del capo “classico” conserva il taglio, ma per la stagione gli stilisti ne hanno cambiato forme e colori INTRAMONTABILE ISPIRAZIONE LONDINESE VERSIONE MINI È firmato Burberry, in gabardine beige con interno a scacchi Ispirazione Swingin London In pelle con cintura alta firmato da Galliano per Dior Si porta sopra il ginocchio, il trench con allacciatura doppiopetto. Massimo Dutti Trench Il boom di un cappotto in carriera JACARANDA CARACCIOLO FALCK Repubblica Nazionale 52 09/10/2005 T uttocominciò alla fine degli anni Novanta quando una geniale signora americana, Rose Marie Bravo, ex boss del grande magazzino di Manhattan Saks Fifth Avenue, specializzata nell’arte di vendere sogni, venne chiamata a lavorare alla Burberry’s (allora si scriveva ancora con l’apostrofo) per ravvivare un marchio che sembrava aver perso ogni appeal. Capo-simbolo della casa di moda inglese era il trench coat, quel “cappotto da trincea” in gabardine impermeabile, inventato negli anni appena precedenti la Prima guerra mondiale da un giovane sarto di provincia. E divenuto, nell’arco di qualche decennio un vero pezzo cult. Uno di quei capi, insomma, che ogni uomo o donna deve prima o poi acquistare. E che, quasi tutti, conservano gelosamente in fondo all’armadio anche nei periodi di magra, con la certezza che prima o poi tornerà in auge. Un po’ come il little black dress, il classico abitino da cocktail, il twin set, o i jeans a cinque tasche che, ciclicamente, entrano e escono dal nostro guardaroba. Nei Novanta però il trench stava vivendo uno dei periodi più infelici della sua gloriosa carriera. Snobbato dai cosiddetti trendsetter che lo consideravano un capo-oggetto ormai obsoleto, superato come prestazioni tecniche da una pattuglia di agguerriti concorrenti (giacche a vento, mantelle, eccetera), ignorato da stilisti e creativi per i quali era diventato sinonimo di un certo stile un po’ troppo british e conformista, la sua popolarità sembrava avviata al tramonto. In modo definitivo. Poi, da un giorno all’altro, con l’arrivo di Rose Marie Bravo, tutto è cambiato. E l’impermeabile è tornato a essere quello che era: uno dei capi d’abbigliamento icona del nostro secolo. Le cui origini si fondono con quelle della moda stessa. La prima mossa della Bravo fu commissionare al celebre fotografo di moda Mario Testino una campagna pubblicitaria con la top model Kate Moss, allora all’apice della popolarità, come testi- monial. Contemporaneamente la manager mise sotto contratto un nuovo stilista, Christopher Bailey. E nel giro di pochi mesi, le vendite cominciarono a risalire. All’inizio piuttosto lentamente. Poi in modo vertiginoso. Mentre i grandi magazzini e le boutique di tutto il mondo si riempivano di impermeabili a scacchi, i più grandi designer del pianeta decisero che era arrivato il momento di seguire quel filone. I primi a fiutare la nuova aria furono i creativi del colosso americano Gap, che ebbero la felice idea di abbinare un impermeabile dal taglio classico con un colore inusuale: il trench rosa shocking di Gap registrò nell’arco di qualche settimana il tutto esaurito. E diede un segnale forte: il modello del Nuovo Millennio, per catturare l’attenzione di un pubblico sempre più esigente, doveva imparare a osare. Nei colori, nelle forme, negli abbinamenti. Da allora sono passate diverse stagioni eppure l’impermeabile, coniugato in decine di versioni, tempestato di paillettes o rivestito di raso, corto o lungo, da lavoro o da gran sera, di pelliccia o di nylon è sempre più richiesto. E oggi un nuovo boom: non c’è designer, da Miuccia Prada a Louis Vuitton, da Giorgio Armani a Yves Saint Laurent, da Michael Kors a Versace che non ne produca almeno un modello. Qualche esempio per l’autunno-inverno 2005? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Dai revival hippy de luxe di Dior firmati da John Galliano, alle ironiche reinterpretazioni in vernice nera di Chanel. Dai modelli gioiello del giovane stilista cult Matthew Williamson (appena ingaggiato per la maison Emilio Pucci), alla versione dark di Gucci. Centinaia di evoluzioni all’ultimo grido. Da indossare a qualsiasi ora del giorno o della sera. LUSSO SPORTIVO ALTERNATIVA CHIC CAPPUCCIO NASCOSTO Un’idea lusso? Tweed corsair e colllo in zibellino porta la firma di Loro Piana È un’alternativa al classico cappotto da ufficio il trench marrone di casa Ferragamo Ha il cappuccio nascosto nel collo e l’interno in microfibra il modello di Stone Island DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53 I DETECTIVE HUMPHREY BOGART ROBERT MITCHUM PETER FALCK Prima con Casablanca (1942) poi nei panni dell’ispettore Marlowe ne “Il grande sonno” (1946) incarna nel cinema hollywoodiano il mito dell’uomo in trench Negli anni Settanta tocca a lui vestire i panni del detective in trench, interpretando i film “Marlowe, il poliziotto privato” (1975) e “Marlowe indaga” (1978) Il tenente Colombo, inseparabile dal suo impermeabile perennemente sdrucito, è ancora un classico per gli amanti del poliziesco in tv TRASFORMISTA PENSATO AL MASCHILE EFFETTO SCAMOSCIAT0 Si chiama Meringue il trench che, indossato, “si gonfia”, di Moncler Taglio maschile in gabardine di cotone antracite È la proposta di Bally Per un’immagine sbarazzina: doppiopetto in scamosciato United colors of Benetton Il capo fu inventato nel 1901 dall’inglese Burberry commerciante del Surrey Dalle trincee della Grande Guerra al fascino macho di Humphrey Bogart CORRADO AUGIAS Repubblica Nazionale 53 09/10/2005 A stare all’etimologia si potrebbe sobbalzare. Trench in inglese vuol dire trincea, ci si potrebbe chiedere che diavolo c’entri la trincea con il simpatico capo d’abbigliamento: dieci bottoni, doppio petto. Invece tutto nasce dalle trincee. Nel 1901 un proprietario di negozi nel Surrey, un certo Thomas Burberry, specializzato nel disegno e produzione di abiti per il tempo libero (quelli che oggi si definiscono causal), inventore del tessuto chiamato gabardine, presentò al ministero della Guerra britannico un progetto di impermeabile per ufficiali. L’oggetto si presentava pratico, non privo di una sua sciatta eleganza, come piace agli inglesi. Breve, il progetto venne approvato, il capo entrò in produzione e fece la sua prima vera prova pochi anni più tardi durante la Grande Guerra che fu lungamente combattuta appunto nelle trincee, donde trench coat, cappotto da trincea. Se si osserva con attenzione un trench di taglio classico questa lontana origine è tuttora visibile poiché, ingentilite dall’impiego civile, sono rimaste nel modello alcune peculiarità militari. La doppia copertura sulle spalle, le spalline che servivano per infilarci i guanti o la bustina, i cinturini ai polsi per proteggere le braccia per esempio durante una corsa in motocicletta, la cintura robusta con i gancetti a forma di “D” adatti per appendervi granate, un binocolo, una custodia porta-mappe. Il trench da guerra era molto più lungo dell’attuale arrivando non all’altezza del ginocchio ma fino a metà polpaccio. Unito a un paio di stivali assicurava un’ottima protezione contro il fango che era una delle più penose caratteristiche delle trincee. La fodera estraibile assicurata all’interno da alcuni bottoni ne faceva un capo adatto ai mesi sia invernali sia estivi. Il trench piacque molto anche gli americani. Durante l’ultimo conflitto (19391945) sarà adottato dalle forze armate Usa per l’esercito, l’aeronautica, i marines. Più volte i capi militari sono passati nell’abbigliamento civile. Il generale B. L. Montgomery dette fama a un ampio comodo giaccone a tre quarti con alamari di corda che aveva disegnato ispirandosi alla giubba delle truppe canadesi. Altri due ufficiali inglesi che presero parte alla guerra di Crimea (1854) sarebbero passati alla storia più per il loro abbigliamento che per le imprese militari. Lord Raglan dette nome alle celebri maniche senza cucitura; Lord Cardigan, uomo di aristocratica bellezza comunemente giudicato uno stupido, passò alla storia per la comoda giacca di lana che pare indossasse anche durante la celebre carica dei 600, eroica e demenziale. La mitologia del trench, deriva però più che dalla guerra dalla letteratura. Il trench è stato a lungo, e in parte è rimasto, il capo d’abbigliamento che ha caratterizzato gli investigatori privati, anzi i detective. L’immagine forte di questa mitologia, il canone che la consacra, è Humphrey Bogart in Casablanca; un misto di spavalda malinconia, di rassegnato eroismo, fa di lui (e del suo trench) l’icona di una seduttività mascolina ma al tempo stesso altamente civilizzata, l’immagine stereotipa di una guerra che pareva aver scacciato per sempre il male dal mondo. Poi ci sono ovviamente tutti gli altri che al trench hanno dato lustro. Dick Tracy il poliziotto più celebre della storia del fumetto, protagonista delle strisce di Chester Gould; Sam Spade, creatura di Dashiell Hammett, uno dei più grandi investigatori (di carta) mai creati; The Phantom, altro eroe a fumetti creato da Lee Falk a metà degli anni trenta. E poi Peter Sellers come ispettore Clouseau, ma qui siamo già nel campo della più ilare parodia; o il tenente Colombo dove l’eroico trench, fattosi misero impermeabile stazzonato, imprime al personaggio la nota di fondo del suo carattere: un uomo che parte come vinto per finire vincitore. C’è nel trench anche un risvolto nero che risale all’unico grande amore di Eva Braun. È il 1929 quando l’allora diciassettenne commessa di fotografo incontra «un uomo di una certa età, con dei buffi baffetti, un soprabito chiaro di stile inglese». È Adolf Hitler naturalmente. Infine ci sono le varianti criminali del trench che cominciano con i lunghi soprabiti di pelle nera indossati dagli uomini della Gestapo e finisce con il penoso equivoco dei Trenchcoat Mafia, un gruppo di studenti della Columbine High School in Colorado che indossavano trench come simbolo di appartenenza. Vennero a torto accusati di aver preso parte al massacro avvenuto in quella scuola nell’aprile del 1999. In realtà erano innocenti e così il simbolico trench che era stato il loro distintivo. ELEGANZA TECNICA LOOK DA SERA MAI SOTTOTONO Gabardine tecnico con impunture a contrasto e gilet staccabile, di Fay Si rifà ai cappotti degli anni Sessanta il modello da sera proposto da Miuccia Prada Tonalità grigio chiaro, doppiopetto, design minimal, di Alviero Martini 54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 OTTOBRE 2005 l’incontro Fuori dal campo Dalla provincia, non solo calcistica, ha compiuto il passo più lungo: una grande squadra, una grande città, Roma. Ma lui affronta l’esame con la cultura del lavoro: “Allenarsi è l’unico modo che abbiamo per crescere, è il nostro mestiere e lo dobbiamo fare al meglio”. E poi con il buon senso che gli viene dalle sue origini: “Mi sento contadino, so andare con il trattore. Mio padre era guardacaccia, poi magazziniere: mi ha insegnato a rispettare tutti” Luciano Spalletti uciano Spalletti, da pochi mesi allenatore della Roma, può collocarsi più tra gli emersi che tra gli emergenti. Un passato, da calciatore e da tecnico, ben lontano da Capello, o Ancelotti. Mai più su della serie C, in panchina tra alti (Empoli, Udinese) e bassi (Samp, Venezia). Passo una sera con lui cercando di parlare di calcio normalmente, e di varia umanità. Incontro in tre tempi. Due ore a Trigoria, stanza che potrebbe sembrare l’anticamera del dentista, non fosse per le videocassette, la lavagna magnetica, i quaderni pieni di appunti e schemi. Un fascicolo è intitolato “Lavoro a secco”. Che vorrà dire. Meglio non chiedere. Un quarto d’ora a casa sua, a Casalpalocco. Tamara, la moglie, sta stirando camicie. I figli Samuele e Federico (13 e 11 anni) guardano un film in tv. Spalletti vuole mostrarmi le etichette del suo Chianti e del suo olio (non in commercio, solo ad uso di familiari e amici), ma non riesce a trovarle. Così me le racconta. Per il vino, una foto di lui bambino, sul cofano di un’auto bardata di lepri e fagiani. Per l’olio, una foto di sua madre che aiuta suo fratello a salire su un cavallino. Tanto per ricordare le radici. «Il vino non lo faccio io, me lo fa un vicino». Possiede circa un ettaro di vigna, fra Certaldo e Montespertoli, e qualche centinaio di ulivi. «Io mi sento contadino, so lavorare col trattore. Mio padre Carlo era guardacaccia, poi magazziniere alle vetrerie di Empoli. Mi ha insegnato a rispettare tutti». Il padre, la madre («vive da sola, e questo mi dà dei pensieri, ma è indipendente, ha la sua macchinina»), la moglie e i figli tornano spesso nei discorsi di Spalletti. Tutto casa e campo. calciatore ero uno dei tanti, ho giocato 18 anni, e quando ho avuto bisogno d’una casa mia me la sono tirata su mattone per mattone con le mie mani. Quando criticano un giocatore perché rende poco, io obietto: se mandiamo via questo, ne arriva un altro che guadagna uguale, con due avvocati e due procuratori». E allora che si fa? «Si cerca di migliorare, di lavorare molto e più in profondità. Di curare i dettagli. Per esempio, quando ci alleniamo pretendo che le cose che riguardano il lavoro, tipo spostare una porta, le facciamo insieme, io e i giocatori. Non devono pensare che i magazzinieri siano i loro maggiordomi». Un altro dettaglio, suppongo, è aver levato a Cassano la fascia da vicecapitano, non particolarmente indicata per chi fa le corna agli arbitri e demolisce le bandierine del corner. Non raccoglie: «Alleno tutti, non solo Cassano. Ma nove domande su dieci riguardano Cassano. A me piacerebbe sentirne anche su Tommasi, Chivu, Nonda». Eccone una “Uno dei miei figli ama la storia, nella Capitale ci siamo venuti da turisti quando la panchina giallorossa non era nemmeno un’ipotesi. Ora stiamo in casa, non amo la mondanità” FOTO ACTIONIMAGES Repubblica Nazionale 54 09/10/2005 L ROMA Si vocifera di un giorno in cui ha tenuto per 37 minuti i giocatori a discutere di un errore difensivo. È vero? «Non me lo ricordo, non posso escluderlo. Sa una cosa? Noi la domenica ci agitiamo, ci sbracciamo dalla panchina, ma quello che riusciamo a comunicare ai giocatori è poco, quasi nulla. Ecco perché si parla molto della filosofia del lavoro, dell’allenamento. A me non piace usare la lavagna, tutte le situazioni vanno provate sul campo, undici contro undici. I piloti s’allenano in pista, mica in poltrona. E i calciatori facciano altrettanto. Ci sono passato anch’io, sia pure a livello minore. Allenarsi annoia, ma è solo così che si migliora». In tv si nota di più: Spalletti cerca parole adeguate, non troppo basse per non sembrare banale, non troppo alte o calde, perché farebbero capire quello che davvero pensa. Mi sa che ogni tanto il tappo salti. «Sì, ma solo quando serve. E senza giornalisti nei dintorni». Mentre guida verso un ristorante di Ostia (terzo tempo) è più rilassato ma non disattento. Sul macchinone, cd di cantautori italiani (De Gregori, Ligabue, Venditti). «Ma il vero colpo di fulmine è stato Lucio Battisti». Lo rivedo per lavoro dopo otto anni. Quando era allenatore dell’Empoli, quasi tutti i giorni andava a bere un caffè alla Casa del Popolo di Sovigliana, dove abita la madre. Sui muri di viale Palmiro Togliatti c’erano manifesti di questo tono: «Sacchi + Zeman = Spalletti». Non male, per un esordiente in B, stabilire il premio-salvezza e conquistare la promozione. «Mi vergogno a leggerli, li strapperei di notte ma non posso, li hanno messi i miei compaesani». Voi allenatori, in generale, siete troppo musoni. Si potrebbe anche sorridere, ogni tanto. In fondo, sono solo partite di calcio. «Non so gli altri, io non sono d’accordo. Il calcio in Italia è giusto prenderlo sul serio. Ed essere serio, a costo di passare per sfigato o portasfiga, non ricordo più come mi aveva definito Zamparini. Per fortuna Zamparini è spesso in tv e la gente può valutare la profondità del suo pensiero e la finezza del suo parlare. Noi almeno, noi che ci siamo dentro, il calcio dobbiamo prenderlo sul serio per i risvolti economici che ha, ma anche per quelli sentimentali, sociali. Non è un mestiere facile, ci sono molte pressioni. Può diventare un mestiere pericoloso. Si parla sempre di quello che guadagna un calciatore. Ma credo che un famoso giornalista tv o un cantante guadagnino grandi cifre. Però se un cantante stecca in concerto i suoi fan non lo aspettano sotto casa per menarlo. Ecco una piccola differenza». Sì, ma questo discorso dei soldi è ricorrente. Lo fanno sia i tifosi sia i non tifosi. «È un discorso che salta fuori solo quando si perde. C’è questo sistema in tutta Europa, non è una caratteristica nostra. Un calciatore ha sempre guadagnato più di un operaio. Io da su Tommasi: a che punto è? «Continua a migliorare, e tornerà molto utile. Si parla tanto dello spogliatoio. Bene, buono o cattivo che sia lo fanno i giocatori. A Udine avevo ragazzi in gamba, come De Sanctis, Bertotto, Sensini. Se qualcuno dei compagni diceva o faceva una bischerata, intervenivano loro. L’allenatore non può essere dappertutto». L’allenatore cosa fa, in sostanza? «Studia, e molto. Studia le caratteristiche degli avversari, e il modo di metterli in difficoltà. Valuta le caratteristiche e la condizione dei suoi. Lavora per avere una squadra ordinata ed equilibrata, questo è fondamentale. Una squadra disordinata fa più fatica a segnare, e la si buca con più facilità. Studia le situazioni a palla inattiva. Studia allenamenti non noiosi. A me non piaceva allenarmi e soffrivo se non giocavo. È per questo che non mi hanno più voluto nelle giovanili della Fiorentina. Allenava Sergio Cervato. Avevo sedici anni e ho saltato qualche allenamento, diciamo che dal paese non andavo a Firenze solo per allenarmi, insomma ero più bellino, avevo anche tutti i capelli. Non è che alla Fiorentina mi hanno cacciato, semplicemente a fine stagione mi hanno detto che in futuro potevo anche starmene a casa. Questo per dire che capisco perfettamente quello che prova un ragazzo che escludo. All’inizio della carriera mi sentivo una specie di fratello maggiore dei miei calciatori, alcuni erano miei ex compagni, parlo di Baldini, Ficini, che il primo giorno di lavoro si son nascosti dietro i teli, in spogliatoio, per non ridermi in faccia... Al posto loro avrei fatto la stessa cosa. Sembrava solo un’avventura, all’inizio». Una pausa. «Ma ci fosse solo quello, lo studio, la tensione, un lavorìo continuo. Quando parliamo di sistema, dobbiamo capire che ognuno di noi è una rotellina del sistema. Quando mi chiedono un bilancio della mia carriera, io dico che la promozione in A con l’Empoli è stata un miracolo, l’Udinese al quarto posto con relativo ingresso in Champions league un ottimo lavoro. Ma una cosa che mi riempie di gioia, come allenatore, è che l’Udinese abbia vinto la Coppa Disciplina, che i miei giocatori siano stati i più positivi nel comportamento con arbitri e avversari. Perché il rispetto che m’insegnava mio padre io lo insegno ai miei giocatori. E ai miei figli». E che altro? «Che studiare è importante. Che non si giudica dalle apparenze. Mi piace che si sentano liberi. Tutto il tempo che non mi toglie il pallone, lo passo con loro. In campagna gli ho insegnato a distinguere le bisce dalle vipere. Il più grande ha la passione della storia, siamo venuti tutti a fare i turisti anni fa, quando la panchina della Roma non era immaginabile. Fori Imperiali, Isola Tiberina, anche Piazza San Pietro per vedere il Papa. Non ci siamo negati nulla. Ma adesso la situazio- ne è cambiata, sono qui per lavorare e dunque Roma è un meraviglioso fondale. Vivo ai margini. Non sono portato alle apparizioni mondane. Sento anche molta responsabilità nei confronti dei miei figli. A Udine si erano fatti molti amici, andavano bene a scuola. Qui è tutto nuovo». A Udine sono anche cadute, prime in Italia, le barriere negli stadi. «Ci volevo arrivare, è una cosa di cui sono felice come addetto ai lavori e come cittadino italiano. A questo alludevo quando parlavo di sistema e di rotelline. Abbattere le barriere allo stadio è stato possibile grazie a un lavoro di gruppo. Un questore molto in gamba, intanto, e una società sensibile al problema, e tifosi a loro volta interessati a cambiare l’immagine degli stadi militarizzati. Serve più cultura sportiva, lo dicono tutti. Già, e chi la dà? Io ho dato il mio numero di cellulare ai capi ultrà, sono andato a parlare con loro o loro sono venuti da me. Non mi sembra giusto criminalizzare tutti senza prima conoscere, scambiarsi opinioni e vedere come si può collaborare». Herrera e Rocco non avevano di questi problemi. «Beati loro. Coi calciatori avevano un rapporto più umano e diretto. Oggi possono dirti sì mister, va bene mister, e appena li lasci in panchina cominciano le telefonate dei procuratori». Mi resta una curiosità: di che marca è il trattore? «Un Fiat 455. Rosso, naturalmente. Che, non mi ci vede come contadino? Uso il trincia per tenere l’erba rasa sotto gli ulivi, poto le piante da frutto, tengo basse le acacie, tolgo i rami secchi agli alberi del bosco, tengo puliti i ciglioni, la motosega per fare la legna la so usare». Poi una domanda incauta del cameriere lo induce a tirar fuori un foglio e disegnare uno schema difensivo. I moscardini si raffreddano e fuori piove. ‘‘ GIANNI MURA