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Ricerca dedicata a Paride BRUNETTI

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Ricerca dedicata a Paride BRUNETTI
RICERCA DEDICATA
ALL’AMICO SCOMPARSO
Dott. BIASIA Franco
…la strada della vita ci ha fatto incontrare
uniti nell’impegno di riabilitare e dare un nome
ai Sommersi evocando i rumori della storia e
i valori della Resistenza al sonno della Ragione
per impedire il ritorno dei Mostri…
IMPOSTAZIONE DATA ALLA RICERCA SU PARIDE BRUNETTI “Bruno”
Ho scelto di strutturare la ricerca usando, come “traccia”, la base del sito internet con il
solo fine di “sommare”, a quanto è stato pubblicato, elementi assenti o non aggiornati.
Come ulteriore elemento strutturato ho proceduto a “sbobinare” quanto Paride Brunetti
ha detto nell’intervista a Radiosaronno in data 25 ottobre 2005. Dalla trascrizione fedele
di detta intervista sono emersi dei capitoli tematici specifici. Gli stessi si sono evoluti in
sette paragrafi preceduti da un “cappello” introduttivo e seguiti da note segnalate con uno
e più asterischi. Il lavoro si completa con foto, una cartografia, dei documenti e si
conclude con cinque Allegati ( A, B, C, D, E). Pur essendo a conoscenza della esistenza di
autori e testi che hanno trattato le stesse tematiche, al fine di tentare di comprendere sia
la militanza che la vita di Paride Brunetti “Bruno” nel modo più umano e “oggettivo”
possibile, ho scelto un percorso di conoscenza personale.
CECCHINATO Silvio
CADONEGHE, 8 gennaio 2012
1
INDICE
DEDICA al dottor BIASIA Franco + Impostazione della Ricerca su PARDE BRUNETTI “Bruno”
PREMESSA
pag. 1
PRESENTAZIONE
1) Prgf. – Dall’Infanzia al Liceo “Pigafetta” di Vicenza
2)
“
3)
“ -
4) “
- Dall’Accademia Militare di Torino all’ A.R.M.I.R. in Russia
L’ 8 settembre 1943 a Padova
“
2
“
3
“
4
“
7
“
- Partigiano nel Feltrino e Bellunese
9
5) “ - Operazione “Forte Tombion” in Valsugana
“ 13
6) “ -
Il “Proclama Alexander” e il Rastrellamento del Grappa
“
7) “
Liberazione e “Guerra Fredda”
-
15
“ 17
ALLEGATI
( A ) - Con Concetto Marchesi da Padova a Milano
pag. 24
(B)-
“
Il maggiore Tilman con la Brigata “Gramsci”
( C ) – Il
27
“
36
( D ) – ALBERTAZZI: un nazifascista (tra i tanti) impunito!
“
38
( E ) – Dalla “Cronaca Parrocchiale” di don
“ 40-51
Rastrellamento del Monte Grappa
F. Galzignan – Crespano d. G. (1944-45)
2
PREMESSA ALLA RICERCA SU PARIDE BRUNETTI
Presentare una ricerca su un Comandante Partigiano come Paride BRUNETTI - in sede di una Giuria che mira a
valorizzare la storia delle Comunità della ValBrenta senza ricordare il “prezzo della vita” pagato dalle popolazioni che
qui sono nate ma sono andate a lavorare, lottare e morire per la democrazia e la giustizia sociale – non può rispondere al
suo fine se prima non vanno ricordati gli emigranti che sono partiti per difendere la democrazia in Spagna perché, è
oramai riconosciuto, che se le democrazie si fossero mobilitate contro l’aggressione nazifascista a quella Repubblica la
stessa 2° Guerra Mondiale sarebbe potuta essere scongiurata. Dal Veneto partirono oltre 250 combattenti dei quali 42
morirono. Dei 53 combattenti partiti dalla provincia di Vicenza nove sono i caduti:
AMBROSINI Vittorio nato a Canove (Roana) nel 1904. Proveniente dal Belgio. Caduto sul fronte del
Guadarrama nel luglio 1937.
BARTOLOMEI Sante nato a Vicenza nel 1906. Proveniente dalla Francia. Caduto sul fronte dell’Ebro nel
settembre 1938.
CLEMENTI Pietro nato a Cismon del Grappa il 10/7/1914. Proveniente dalla Francia. Caduto sul fronte
dell’Ebro nel settembre 1938.
DALLA COSTA Giuseppe n. a S. Giacomo di Lusiana e caduto sul fronte dell’Ebro nel settembre 1938.
DE ROSSI Valentino nato a Carrè il 16/02/1907. Operaio proveniente dal Belgio. Ferito gravemente sul
Jarama e deceduto nel febbraio 1937.
LAZZAROTTO Andrea nato a Valsugana il 21/7/1915. Operaio proveniente dalla Francia. Caduto sul fronte
dell’Ebro nel settembre 1938.
MUTTON Giacomo nato ad Arzignano il 03/6/1906. Minatore proveniente dalla Mosella volontario della
compagnia Italiana “Dimitrov” disperso sul Jarama nel febbraio 1937.
SELLA Antonio nato a Valli dei Signori il 09/11/1903.
Venissero dall’estero o dall’Italia i garibaldini della provincia di Vicenza avevano una comune origine dalle zone
socialiste e comuniste: Altopiano di Asiago, Valle del Brenta, Vicenza città e, soprattutto, Schio. Ho scelto di rendere
omaggio ai nostri/vostri Martiri per ricordare Giovanni PESCE, medaglia d’Oro al Valore Militare scomparso a Milano
il 27 luglio 2007. Il 13 agosto 2005, come Assessore alla Cultura del Comune di Cadoneghe (PD), gli telefonai per
invitarlo ad una Conferenza quale relatore. Nel mezzo della stessa, mentre reclinava al mio invito a causa dei dolori che
lo affliggevano a causa di una ferita subita nel fronte dell’Ebro nel 1938 in Spagna, quasi scusandosi mi disse:”Io nel
Veneto ci torno sempre volentieri perché mia madre, BIANCHIN Maria, era di Solagna”. Era la madre piangente al
momento della sua entrata in miniera “Grand-Combe” nelle Cévennes nel 1931 unitamente al padre: ambedue “spinti in
giù” dalla miseria a 13 anni di età. Nel 1936 a 18 anni Giovanni Pesce, ingannata la madre Maria con il pretesto di
recarsi al confine belga per incontrare una ragazza, si arruolò e si recò in Spagna insieme a numerosi altri giovani
antifascisti d'origine italiana che aderirono alla Brigata Garibaldi alla parola d'ordine "Oggi in Spagna, domani in Italia"
dei fratelli ROSSELLI, assassinati nel 1937 da sicari fascisti inviati da Mussolini e coordinati dal gen. Roatta del
Servizio Informazioni Militari (SIM). Il dolore delle donne rimane la pagina mancante di ogni nostra ricerca. Mi fermo
qui per ricordare che nei rimanenti 44 volontari per la difesa della Democrazia Spagnola troviamo i nomi di chi
organizzerà la Resistenza in Italia. Tra questi un martire padovano Manlio SILVESTRI “ Monteforte” di Saccolongo
(PD) che, coi compagni PERUZZO Angelo da Enego e BORTOLOTTI Armando da Castel di Fiemme, fu impiccato il
29 luglio 1944 davanti alla Chiesa Parrocchiale di Sappada. A loro unisco LONGON Mario, padovano, morto nel lager
di Bolzano il 1° gennaio 1945 con il grado di Maggiore Partigiano, promotore della “Divisione CLN Zona Bolzano”.
Solo, con quanto sin qui premesso, mi sento di passare a Paride BRUNETTI “Bruno” che venne inviato per
continuare la loro lotta.
3
PRESENTAZIONE
Purtroppo è diventata una consuetudine presentare, come proprie, ricerche pubblicate su quella preziosa fonte di
documentazione qual’é Wikipedia pur essendo limitata per legge e costituendo un atto infedele. Nel mio caso mi
sono limitato a usare la impostazione grafica di detta enciclopedia mediatica al fine di “sommare” e aggiornare
quanto è stato già pubblicato sulla figura e militanza di Paride Brunetti. Infatti, pur basandomi sul testo video di
“pierodasaronno” del 05 novembre 2005, è stata mia cura “sbobinarlo” e commentarlo con date e dati mancanti.
L’aggiunta di testimonianze, in parte reperibili via internet, sia da testimonianze sottoscritte da Paride Brunetti
che da testi e rilievi nel territorio hanno finito con il dare alla ricerca una originalità che si conferma con
l’apprendimento che io stesso ne ho tratto. Certo il giudizio spetta ad altri ma, intanto, il primo usufruttuario ne è
il redattore che, dal lavoro, ne esce ancor più acculturato. Il messaggio che l’insieme intende tramandare è che, in
ogni occasione sia pubblica che privata, Paride Brunetti ha sostenuto che “Non basta dire vogliamo la Pace,
bisogna dire di no e ripudiare la guerra”. Questo è quanto ha ripetuto nella intervista del 2005 che ho trascritto,
così ha riaffermato anche in occasione della sua ultima visita a Padova il 25 maggio 2010 in occasione del
recepimento del Sigillo della Città di Padova quale Cittadino Onorario: onorificenza che si aggiunge a quelle già
riconosciutegli dalle città di Feltre (BL) e di Vittorio Veneto (TV). Dal sito ANPI che accompagna l'estremo
saluto a Paride Brunetti, si può ascoltare altri concetti che Egli intendeva fossero recepiti: “ Se si deve parlare di
democrazia devo fare riferimento alla vita della banda partigiana dove tutti eravamo uguali. Il comandante era
l'ultimo a prendere da mangiare, per tradizione, perché se ce n'è vabbene sennò ti arrangi; l'importante è di non
essere il primo a mangiare e non in modo appartato separato dagli altri ma insieme a tutti. Il comandante
partigiano era quello che doveva essere sempre il primo nell'azione e l'ultimo nel ripiegamento. Il comandante
partigiano veniva democraticamente scelto e, se sbagliava, saltava: noi non avevamo gradi. Quando alla sera si
faceva l'ora politica si leggeva Marx e si recitava il Rosario o le Lettere di San Paolo: perché anche questa era
democrazia. Chi erano i partigiani? Era gente che, magari, andava a mitragliare un pezzo di strada anche se lì
vicino c'era la sua casa; così poteva accadere che arrivassero i tedeschi e gliela bruciassero. I partigiani nella
resistenza sono stati dei bravi combattenti ma, i veri protagonisti, vanno ricercati nella popolazione. E' questa
che ha dato delle cose che non potete nemmeno immaginare. Pensate che, se uno dava ospitalità o peggio ancora
curava un ferito e i tedeschi ne fossero venuti a conoscenza; per prima cosa gli bruciavano la casa e poi
deportavano gli uomini nei campi di concentramento. Chi è più eroico: il partigiano che si mette dietro il
cespuglio e spara sul nemico e se ne va o una donna che ospita un partigiano sapendo che una spia o una amica
che indica che là dentro c'è un partigiano?”. Nessuna retorica o mito ma una riflessione sul “prezzo della vita”
che si è dovuto pagare a causa di chi aveva imposto una dittatura e una guerra. Eppure anche Brunetti,
parafrasando padre Camillo Torres, ebbe a scegliere come coniugare “Il Vangelo e il fucile”. Tutte le
testimonianze confermano che, nelle formazioni della “Gramsci” (…) “si leggeva Marx ma alla sera si recitava
anche il rosario” come ebbero a confermare sia il giornalista Giovanni Castiglioni in una intervista a Saronno che
Giuseppe Tittoni in una conversazione telefonica con Brunetti del 29 nov. 2004: “ La brigata Gramsci fu
l’antesignana del Cristianesimo di sinistra, non ci fu spazio per il comunismo stalinista. Le due componenti, la
cattolica e la comunista, agivano in così perfetto accordo che due responsabili dell’Azione Cattolica, “Momi”,
Gigi Doriguzzi di Feltre e “Carducci”, Edoardo de Bortoli di Aune ( Sovramonte) ricoprirono alti incarichi nella
brigata il primo fu vice commissario politico, mentre Edoardo de Bortoli fu il Capo di stato maggiore”. Che
Paride Brunetti possa definirsi un esempio di “catto-comunista combattente”, é una mia opinione, che si basa però
su dati di fatto. Come ritengo doveroso qui riportare le poche parole che profferì a Padova il 25 maggio 2010 in
occasione della inaugurazione della lapide apposta sulla casa di Adolfo Zamboni in via Sanmicheli n.53:
“ Il nostro obbiettivo di allora era che i tedeschi e i fascisti fossero sconfitti e, soprattutto, che la gente
avesse un avvenire socialmente migliore. Non basta dire vogliamo la Pace, bisogna ripudiare la guerra.
Ricordate che la Costituzione è stata scritta con il sangue e il sudore: cercate di attuarla e godetevela”.
4
Paride Brunetti
Paride BRUNETTI partigiano a. 1944
-
Paride Brunetti nell'intervista WEB TV 05 nov. 2005
Paride Brunetti detto Bruno (Gubbio, 15 maggio 1916 – Saronno, 9 gennaio 2011) è stato un partigiano,
ingegnere nella Montedison e ex-ufficiale di carriera.
Da giovane frequentò il seminario diocesano di Gubbio e dal 1934 al 1936 si trasferì a Vicenza, al
seguito del padre, capo delle Guardie carcerarie, dove frequentò il liceo Antonio Pigafetta. Nel
1937 entrò all'Accademia Militare a Torino e ne uscì nel 1941 con il grado di tenente di artiglieria.
(In carattere corsivo–grossetto viene qui trascritto il testo della intervista Web TV del 05.XI.2005)
1.
Dall'infanzia al Liceo “Pigafetta” di Vicenza
Io sono umbro di origine contadina. Ricordo la mia infanzia, i miei nonni, la vita dei contadini e quella
della corte quando avevo dieci anni. E il senso di amicizia e solidarietà che c’era. Ma penso che, a voi,
interessi di più l’età in cui mi sono formato cioè al Liceo. lI liceo l’ho fatto per 3 anni al “Pigafetta” di
Vicenza perché mio padre, dopo avere provato tutti i mestieri possibili e immaginabili; alla fine si è
arruolata nelle guardie carcerarie come agente di custodia . Poi riuscì a diventare sottoufficiale, facendo
carriera, sì da diventare Capoguardie nel Carcere di Vicenza. Io seguivo mio padre nel suo peregrinare.
Al liceo, nell’età della cultura, leggevano e discutevamo moltissimo sopratutto di ideali. In quel momento
appartenevo alle organizzazioni fasciste nello stesso tempo che ero vicepresidente del Circolo di Azione
Cattolica di Vicenza. Sembrerà strano ma era il periodo in cui ci insegnavano che eravamo discendenti di
Roma e dell’Impero Romano. Quando a scuola dibattevamo le “Guerre del Pelopponeso” tra Sparta e
Atene; noi facevamo il tifo per Sparta, per il popolo guerriero spartano. Mentre gli Ateniesi pensavano a
chiacchierare: ventimila persone che chiacchieravano e quarantamila schiavi che li servivano. Poi
abbiamo saputo cos’era la Grecia! Dal 1934 al ’37 c’era stata la conquista dell’Africa Orientale e la
nascita dell’Impero con le manifestazioni. Mi ricordo che facemmo una manifestazione per gli Alpini che
partivano per l’Africa. A un certo momento c’era stata una specie di tafferuglio (di cui nessuno ne ha
parlato) con gli Alpini che ci dicevano: “Andate voi in Africa. Io a chi lascio le mie bestie e i miei
campi?”. Però silenzio su tutto questo. Mi ricordo le imprese di allora del fascismo: due campionati
mondiali di calcio vinti. Insomma una continua esaltazione del nazionalismo sicché, quando mi sono
trovato a scegliere, ho deciso per la carriera militare.
5
Il 13 giugno 1942 partì da Padova con l’ARMIR in Russia dove venne decorato al valor militare per la
battaglia di Kantermirowka (19 dicembre 1942), vicino al fiume Don. Con le tradotte fino in Polonia, quindi
procedendo su automezzi, si addentrò nell'immensa e gelida steppa russa. Nella battaglia di Kantermirowka
(19 dicembre, vicino al Don) si meritò una medaglia di bronzo. Dalla Bielorussia (Russia Bianca), dopo varie
vicissitudini ma con tutti i soldati della sua batteria antiaerea, e questo lo rammenta con orgoglio, ritornò a
Padova nell'aprile del '43.
2.
Dall'Accademia Militare di Torino all' ARMIR in Russia
Alla fine del liceo affrontai un concorso durissimo: 5000 concorrenti per 56 posti . Lo superai per il “rotto
della cuffia” qualificandomi 53°. Nel bel mezzo dell’Accademia di Artiglieria e Genio di Torino, tra il 3° e
4° anno, si sospesero le lezioni per l’avvento della guerra. Alla domanda su dove avrei preferito essere
destinato io scelsi l’Africa. Quando arrivai a Tripoli, malgrado le mie proteste perché volevo essere inviato
al fronte per combattere, venni destinato alla Divisione “Pavia” schierata sul confine tunisino. Passato
qualche mese fui richiamato a Torino per completare l’Accademia. Lasciai l’Africa con molta nostalgia .
Al termine della Scuola di applicazione, malgrado il mio desiderio di ritornare in Africa, il mio gruppo di
artiglieria contraerea fu destinato al Fronte Russo. Così a 27 anni partii al comando di una batteria di
150 uomini e incominciai la tragica esperienza di Russia. Avevamo in dotazione dei cannoni modernissimi
i 75/46. Si pensi che, in tutto il fronte russo, di quei cannoni ce n’erano solo 52! L’esercito era dotato
ancora dei vecchi 75/13 con pochissime munizioni e un equipaggiamento inadatto. Il nostro gruppo, per
esempio, eravamo destinati all’Africa e siamo partiti per la Russia con lo stesso equipaggiamento. Io
avevo una 1100 “decappottabile” a 40° sottozero di temperatura e, grazie a un falegname friulano che me
l’ha ricoperta tutta in legno, potevo muovermi. Quando dovevo andare al Comando di Gruppo mi davano
delle taniche di acqua per riscaldarmi. Eravamo partiti convinti che la guerra era già pressoché finita
perché ci avevano detto: “…rimarrete lì 2/3 anni come truppe di occupazione”. Una volta arrivati al
fronte, nel giugno 1942 (sono partito da Padova il giorno di Sant’Antonio-13 giugno) , abbiamo seguito i
tedeschi nell’avanzata fino a che il fronte si è stabilizzato sul Don mentre i Tedeschi puntavano su Mosca
e sul Caucaso. Però, prima di dicembre ’42, iniziò l’impatto con la guerra .Noi, la guerra, l’avevamo
studiata sui libri di scuola con i miti e tutte quelle cose che servono alla propaganda a far si che l’uomo
diventi guerriero. Una volta arrivati nella zona di operazione dove nulla più si frappone tra noi e il
nemico siamo stati allarmati per il pericolo dei partigiani. Io, poi, ho fatto il partigiano ma in quel
momento ne avevo paura perché ci avvisavano di stare lontano dai boschi: cosa che abbiamo fatto
scegliendo in una vasta distesa di un grande cerchio formato dagli autocarri con noi al centro e molte
sentinelle poste di guardia. Verso l’alba una sentinella mi chiama “Signor tenente ho notato dei
movimenti strani dietro quel cespuglio”. Prendo 3-4 militari, tra quelli meno timorosi, e circondiamo il
cespuglio senza trovare nulla. Mentre stavamo ritornando al campo sentiamo un odore, un tanfo
tremendo e ci accordiamo che era emanato dal corpo di un soldato russo morto. Nella guerra era normale
ma, per noi, era il primo impatto: la prima volta che vedevamo un corpo in decomposizione. I topi che
entravano nelle orbite degli occhi, tutto macerato, tutto….siamo rimasti tutti sconvolti: eravamo ragazzi al
massimo trentenni…poi, alla fine, alcuni si decidono e scavano una buca, lo seppelliscono e vi pongono
una croce. In quel momento suona la tromba dell’ora del rancio ma nessuno ha fatto colazione nemmeno
con un caffè. Eravamo tutti pensierosi perché forse, una sorte simile, poteva accadere anche a noi. Non
mi interessa parlare della guerra e delle battaglie bensì di un episodio che ha rappresentato per me il
colpo decisivo per la svolta perché, man mano che si andava avanti c’erano due cose che avanzavano di
pari passo: la repulsione verso la guerra, le stragi, le impiccagioni, la guerra contro i partigiani, ecc. ecc.
e, contemporaneamente, la comprensione che cosa era il nazismo e che ruolo avremmo avuto noi se
avessero vinto i tedeschi. C’è un episodio! I Russi, nella ritirata distruggevano tutto in particolare i ponti:
non trovavi un solo ponte! Ci siamo trovati su un ponte: avevano messo due barche con un
Feldmaresciallo che controllava il transito. Alla domanda sulla composizione del convoglio lo informai
che si trattava di diciannove automezzi e quattro cannoni. Ordine: ”Aspettare una ora, poi passare!”.
Mentre stavo lì, guardando in giro, noto un ufficiale tedesco. Mi avvicino. Questo qui, tra l’altro parlava
italiano, veniva in villeggiatura a Jesolo. Chiacchieriamo di Dante, di Firenze, di cose belle poi, a un certo
momento, gli chiedo cosa stesse facendo. E lui mi fa vedere che aveva un gruppo di persone che, per la
6
prima volta, che indossavano una casacca a strisce e con la Stella di Davide fissata: cosa mai vista prima.
Mi disse: “Devo rifare 1000 km. di ferrovie per renderle agibili perché con gli autocarri dovremo
ripristinare 2000 km. di strade”. Io guardo questa ventina di prigionieri e, tra queste, ne noto una sui
quarant’anni con gli occhiali forse un professore che faceva fatica a raccogliere dei sassi per fare la
massicciata. Quando l’ufficiale gli girava le spalle, questo russo, si metteva seduto. Quando il tedesco se
ne è accorto gli ha urlato “..non vuoi lavorare, ti faccio vedere io”. Così l’ha “tampinato” con lo
scudiscio. Alla fine quel pover’uomo non ce l’ha più fatta ed è caduto per terra senza riuscire più a
rialzarsi malgrado due – tre tentativi. A questo punto il tedesco estrae la pistola e lo uccide. Io gli ho
detto: ”Ma sei pazzo? Ma perché lo hai fatto ?”. E lui con molta calma mi ha fatto capire qual’era la
loro logica: “Tu non capisci proprio niente, italiano bono (Il tono era dispregiativo). Vedi lui non è più
buono per lavorare. Perché io devo dare da mangiare a lui che non può più lavorare quando il mio
bambino non ha da mangiare? Questa sera io faccio una telefonata al mio comando per farmi mandare
altri uomini buoni per il lavoro”. Non era un ufficiale delle SS ma dell’esercito. Secondo la loro logica
perversa era giusto perché se io ho 10 pagnotte e tu non lavori, il mio bambino ha fame, cosa faccio? E’ la
logica dei campi di concentramento, come ho scoperto dopo. Io ho un milione di ebrei e non ho bisogno
di loro; gli do 900 calorie al giorno e tra tre mesi saranno morti. Ho 500mila uomini che mi servono do
loro 1000 calorie e vivranno per sei mesi e così via. La guerra ha una sua logica, che non è la nostra. In
guerra tutto è lecito purché contribuisca alla vittoria. Se io non do da mangiare a quest’uomo e lo uccido,
ho del pane da dare a chi lavora. Quello che vado sostenendo, nella mia vecchiaia, è che più di parlare di
pace bisogna non fare la guerra. Per non fare la guerra occorre non avere nemici. C’è una frase
stupenda, che è un comandamento stupendo, detta da un uomo non un figlio di Dio: ama il tuo prossimo
come te stesso! Se io amo il mio prossimo, a lui, non farò la guerra. Più si allarga il confine del mio
prossimo e più persone amiche io avrò meno pericolo di guerra ci sarà. Questo è quello che dobbiamo
cercare di fare. Noi siamo poco cristiani. Io cito, sempre, come finale dei miei discorsi l’episodio autentico
che io ho avuto. Durante la ritirata di Russia, quando era sera, noi cercavamo ospitalità nelle case russe
perché, altrimenti, saresti morto. E, quella gente, ce la dava. Una sera sono arrivato congelato di primo
grado e una ragazza russa, mamma di due bambini, mi ha massaggiato la faccia e gli arti con la neve
rimettendomi a posto. Io ero andato la per uccidere i suoi fratelli e i suoi genitori e lei mi ha aiutato.
Della Russia mi sono rimasti impressi: il primo morto, quel tedesco che uccide e questa che mi cura! Ciò
che per me ha contato non sono stati i combattimenti, i carri armati, l’artiglieria o altro ; le stesse
medaglie non mi importano. Ciò che mi ha fatto cambiare è stato l’impatto con questa gente perché
bisogna distinguere tra quelli che erano gli anziani dai giovani. Gli anziani hanno accolto noi e i tedeschi
come liberatori. Hanno ripristinato il culto religioso fin dove hanno potuto poi, i tedeschi, hanno fatto
quello che non dovevano fare. Ora racconto un altro episodio . Io comandavo una batteria che stava
vicino a un villaggio. Uno del villaggio mi invita a casa sua. Mentre sto per entrare in casa, il russo mi
dice: “No, tu non puoi entrare perché porti una pistola”. Io ho lasciato la pistola all’attendente e sono
entrato. Mi hanno dato da mangiare e poi mi ha accompagnato in soffitta dove mi ha fatto vedere la
sciabola di Cosacco del Don che era di suo padre e, prima di lui, di suo nonno perché i Cosacchi del Don
avevano ripristinato le tradizioni: questo per quanta riguarda gli anziani. Parlare con i giovani era
un’altra cosa. Nel Don i padri erano minatori mentre i figli sono ingegneri minerari perché hanno avuto
la possibilità di studiare a Mosca con tanto di salario. Certo, ogni tre mesi, subivano degli esami per cui
se eri bocciato ti rimandavano a casa. La parola libertà non esisteva. I giovani parlavano degli aspetti
sociali: belli ospedali, belle scuole, cultura, possibilità di studiare e così via. Nel villaggio c’era la radio
con altoparlante comandato dal capo villaggio che diffondeva quello che volevano loro. Anche se non
c’era una radio in ogni casa essa rappresentava un simbolo del progresso. Appena rientrato in Italia
abbiamo passato una fase di transizione perché dovevamo ricostruire il reparto che io dovevo comandare,
dotato di cannoni contraerei tedeschi; motivo per cui fui inviato ad un corso della Flak Skool in
Germania. In quel periodo è capitato il 25 luglio 1943 giorno in cui cadde in fascismo. Ecco la prima
considerazione da fare , quando cadde il fascismo, è questa. Non c’è stato un solo colpo di pistola sparato.
Mussolini aveva i “Moschettieri del duce” ; in ogni Provincia c’era una Legione di camicie nere; vicino a
Roma c’era l’unica Divisione corazzata che avevamo, la “Littorio”, con cannoni e carri armati tedeschi:
bastava che quelli mettessero in moto i motori e i carabinieri che avevano arrestato Mussolini sarebbero
scappati. Eravamo, oramai, in una fase di sfiducia, di abbandono; quindi, il periodo di passaggio dal
ritorno dalla Russia e l’8 sett.’43, fu caratterizzato anche per la mancanza di una qualche direttiva.
7
Arriva l’8 settembre e qualcuno parla di “guerra civile”. In Italia non c’è stata alcuna “guerra civile”
perché in Italia si sono scontrati due eserciti: l’esercito tedesco, il quale non aveva nessuna voglia di
ritirarsi in Germania e l’esercito degli Anglo-americani il quale voleva combattere il nazismo. Allora era
in atto la guerra tra il nazismo e gli Alleati (pensiamo a quei ragazzi di vent’anni che sono partiti
dall’America per venire a combattere il nazismo e che riposano nei cimiteri di guerra per la nostra
libertà) quindi, di fronte a questo scontro, ci siamo trovati a dover fare una scelta: se andare coi tedeschi
assolutamente no, perché? Perché avevi capito che, non tanto che la guerra poteva essere più o meno
persa, ma che cosa avrebbe significato se avesse vinto il nazismo. Io, quando sono andato alla Flak Skool, ho visto una carta, (questo sarebbe utile che lo sapessero quelli della Lega) c’era una carta dove
era delimitato il grande Reich: una parte della Danimarca, una parte della Polonia, dell’Alzazia e della
Lorena; al sud c’era un provincia tedesca che si chiamava, attenzione, Lombardo Veneto! Io, i tedeschi,
li avevo conosciuti in guerra e mi ricordavo quell’episodio citato (quello di un ufficiale della Wermacht
che aveva fustigato e poi trucidato con un colpo alla nuca un ebreo sfinito dalla fatica) e avevo già deciso
di non seguire i tedeschi. Andare in Umbria c’era la linea gotica a parte che non mi lasciavano tornare a
casa e, allora, ho fatto la scelta della Resistenza. Quando si parla di “guerra civile” va detto che noi non
siamo andati a scovare i fascisti ma celi siamo visti , in un secondo momento, a fianco dei tedeschi. Che
sia una guerra brutta, sono d’accordo, ma non l’abbiamo voluta noi! Attenzione che la guerra è la cosa
più brutta che esista, la più schifosa, perché in guerra tutto è permesso purché contribuisca alla vittoria.
Oggi non possiamo ragionare sulla guerra perché non potremmo capire “perché Hiroshima” oppure
“perché Marzabotto”, perché, se si entra nella logica della guerra, la rappresaglia è giustificata. Perché
se questi “maledetti Partigiani” mi fanno saltare una volta questa ferrovia, un’altra volta un ponte allora
si va lì e si fa “piazza pulita”.
Il 10 settembre ’43, Paride BRUNETTI, entrò in contatto a Padova, con i dirigenti antifascisti (Concetto
Marchesi , Egidio Meneghetti e altri). La sorte è stata fortunata sia per l’aver dato una lunga vita a “Bruno”
che per avergli concesso di tramandare “pagine di storia” che sono legate alla Sua vicenda umana altrimenti
difficilmente reperibili. Infatti nella pubblicistica locale (a parte ricerche “militanti”), paradossalmente, non
compare alcun ruolo svolto da Brunetti nel periodo cruciale tra l’esperienza militare e il passaggio alla lotta
partigiana. Nessun accenno compare, per esempio, in testi fondamentali quali G.E. FANTELLI, La Resistenza
dei Cattolici nel padovano, - Aronne MOLINARI, La Divisione Garibaldina F. Sabatucci”, - G. TURCATO e A.
ZANON DAL BO, Venezia nella Resistenza 1943-45, - a cura di Tiziano MERLIN, Giuseppe SCHIAVON
Autobiografia di un Sindaco, - ecc. . Una spiegazione c’è e cioè che, in una situazione di clandestinità e
“guerra per bande”, solo se esiste una memorialistica locale essa può essere tramandata. La testimonianza
televisiva qui riportata, integrata con quella inviata a Triangolo Rosso ( v. Allegato A), sono perciò più che
mai utili a integrare detti “vuoti di storia-memoria”. Di fatto si tratta di una conferma di quanto già
ricordato nel Convegno dell’Associazione “Concetto Marchesi” in Gallarate il 25 ottobre 1957: “Nell’aprile
del 1943, al ritorno dalla Russia con questa nuova consapevolezza, presi contatti con un ufficiale di
complemento di Verona, Pio Magi, che aveva legami con antifascisti organizzati grazie ai quali, tornato a
Padova, potei conoscere Marchesi e Meneghetti. Dopo l’8 settembre 1943 rimasi a Padova come
rappresentante militare del Pci fino a quando Amerigo Clocchiatti, dirigente comunista e rappresentante
delle formazioni garibaldine nel Veneto, pensò di utilizzarmi nel bellunese, prima al comando del
Distaccamento “Boscarin” e poi della Brigata “Gramsci”. Del periodo passato a Padova il ricordo di
Marchesi é vivissimo (…) “ lo incontravo al caffé dove lo avvicinavano anche i suoi studenti o “scolari”
come lui amava chiamarli. Era molto amato e rispettato a Padova. Era stato nominato Rettore
dell’Università dopo il 25 luglio dal ministro Severi del governo guidato da Badoglio. Ma dopo l’otto
settembre era stato confermato dal Ministro della repubblica sociale Biggini, che abitava a Padova nello
stesso palazzo di Marchesi”. (…)“ L’appello alla rivolta di Marchesi irritò moltissimo i tedeschi, già
adirati per la mancata concessione di alcuni locali dell’Università, chiesti inutilmente per impiantarvi una
stazione radio. Verso la fine di novembre Marchesi, dopo richieste di dimissioni intimategli da Clocchiatti
e dopo un colloquio con Ezio Franceschini, decise di abbandonare il rettorato, anche perché sembrava
imminente un suo arresto da parte dei tedeschi . Il 23 novembre, dopo alcune ore passate nella farmacia
8
di Oreste Bareggi, in via del Santo, andò in casa del prof. Lanfranco Zancan, in via C. Battisti, 98. La
casa del prof. Zancan non era per niente sicura, dato che questi era uno dei più attivi rappresentanti del
Movimento di Liberazione a Padova fin dalle origini. Pertanto, dopo una visita di Felice Platone, si stabilì
che egli si recasse in casa di Leone Turra, responsabile del P.C.I. nella provincia di Padova, che era più
appartata e meno sospetta, in viale Codalunga. Toccò a me accompagnare, insieme alla sig.ra Turra,
Marchesi in quella casa, nella quale rimase nascosto fino al 29 novembre, giorno in cui scrisse il famoso
proclama agli studenti, che poi fu stampato e diffuso in migliaia di copie nella tipografia di Remo Turra,
fratello di Leone, con la data del 1° dicembre 1944, per motivi di sicurezza. Lo stesso giorno 29 Marchesi
partì in treno per Milano, praticamente senza bagagli, che gli furono recapitati in seguito dal prof.
Franceschini. Toccò ancora a me accompagnare in treno da Padova a Milano Concetto Marchesi, che
assunse il nome di avv. Antonio Martinelli e fu dotato delle relative carte. Il viaggio fu fatto in silenzio.
Marchesi, che aveva quasi sessantasei anni di età, era teso ma energico. L’unica sua preoccupazione era
per le sue donne, la moglie e la figlia, che si trovavano sfollate in provincia di Lucca. A Milano passammo
la notte in un albergo nel quale, malgrado tutto, si danzava al suono di una orchestrina. Marchesi non
seppe resistere dall’invitare qualche signora a fare un ballo. In albergo non stette molto, Fu subito
prelevato dal rappresentante del suo editore, Alberto Violi Zuccoli, che gli trovò un alloggio a Camnago
Lentate presso il parroco Vittorio Branca. Ma il soggiorno dal parroco fu breve e Marchesi preferì andare
a stare a Milano, fino a quando motivi di cautela non imposero che egli passasse in Svizzera. Io ritornai
in treno a Padova e continuai la lotta partigiana. Furono tempi duri e sofferti, ma vissuti con la certezza
della vittoria”. Ritorniamo, ora, alla intervista a Radiosaronno del 05 novembre 2005.
3.
L' 8 settembre 1943 in Padova
Tornando al 8 di settembre ’43 io ero a Padova con tutti i miei soldati che erano in caserma con me e
l’ordine era :”State tranquilli perché i tedeschi chiedono di passare perché stanno ripiegando”. Ma chi lo
diceva era un Colonnello che aveva sposato una tedesca. Noi non avevamo alcun ordine se non quello
impartito che i tedeschi si stavano ritirando e che la guerra era finita. A Padova ci sono due caserme: a
destra c’eravamo noi e a sinistra c’era il campo di concentramento per Slavi. Ad un certo momento
notiamo una colonna di autoblinde correre precipitosamente verso il campo di concentramento dove
c’erano gli Slavi. (*) Dissi: “Guardate che i tedeschi ci stanno prendendo tutti!”. Ma i soldati sono
rimasti fermi in caserma e si sono sciolti solo quando si sono resi conto che stavano per essere arrestati
dai tedeschi. La prima notte ho dormito da un prete anche se avevo già preso contatto con l’ambiente
Universitario così da essere, poi, ospitato da un medico che era il figlio della mia padrona di casa. Poi i
contatti con la Resistenza tanto che, ai primi di dicembre ’43, fui inviato nel Bellunese (4 dic.’43-ndr).
(*)- E’ solo in questa intervista che Brunetti cita il Campo di Concentramento per Slavi sito nella Caserma-Sud di
artiglieria in Chiesanuova. Nell’agosto ’42 vi giunsero i primi 1429 internati civili da Monigo (TV) saliti a 3410 nel
luglio ’43. Su un totale di internati civili di 32200 unità per Chiesanuova ne passarono circa 10500. Nel solo inverno
1942/43 gli internati civili pressoché Sloveni deceduti per denutrizione e epidemie ammontarono a 72: il primo fu
Anton Troha anni 42 di Goraca morì il 21/10/’42 e l’ultimo Egra Milenko di anni 28 fu ucciso da una sentinella nazista
l’11 sett. 1943. Nel 1973 solo 17 resti furono traslati nel Memorial del Cimitero di Gonars (UD); dei rimanenti non si
conosce il luogo di sepoltura. v. CECCHINATO Silvio, Un Campo di Concentramento fascista in Padova
Chiesanuova luglio ’71-8 set. 1943, Premio Negrello IX° edizione 12 maggio 2007 / La ricerca è stata integrata e
portata a termine dal dott. BIASIA Franco, Il Campo di Concentramento per Internati Civili di Chiesanuova, in “La
Lampada” n.3/aprile 2009 pp. 14-17 / v. Commemorazione Pubblica nella caserma “Romagnoli” del 07.3.2009 / v.
DVD di Franco BIASIA con regia del prof. Antonio BONADONNA / v. Convegno al Centro S. Gaetano di Padova del
24. 01.2011 con Anton Vratusa, Alessandra Kersevan e Ivo Jevnikar. Il dottor Franco BIASIA è improvvisamente
scomparso il 22.7.2011 in procinto di completare il libro sul tema. Nel nov. 2011, lo storico Davide GOBBO ha
dedicato alla memoria del dott. Franco BIASIA il suo libro, L’OCCUPAZIONE FASCISTA DELLA JUGOSLAVIA E I
CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER CIVILI JUGOSLAVI IN VENETO – CHIESANUOVA E MONIGO (1942-43),
a cura del Centro Studi “Ettore Luccini”, ed. CIERRE. Al dott. GOBBO vanno le mie congratulazioni.
9
25 maggio 2010: onore a Paride Brunetti.
A mezzogiorno il sindaco Flavio Zanonato
ha conferito il sigillo della città a “Bruno”
il comandante della Brigata “Gramsci” e insieme hanno scoperto la lapide che ricorda
il primo convegno di carattere militare della
Resistenza in Padova. Così Adolfo Zamboni
ricordava, nel 1947, quel giorno: “Alla fine
di settembre del ’43, mentre il terrore nazifascista s’industriava di paralizzare i nostri
movimenti, nella mia abitazione in Strada
Sanmicheli ebbe luogo il primo convegno di
carattere militare. Alcuni di quegli uomini
sono ora fra le schiere dei nostri martiri più
puri: Mario e Vico Todesco, il primo
trucidato dai briganti neri in Piazza Spalato
la notte del 28 giugno ’44; il secondo caduto
sul Grappa poche settimane dopo alla testa
dei suoi compagni della formazione di
“Giustizia e Libertà”; Flavio Busonera,
impiccato in via S. Lucia nel mese di agosto;
vi erano ancora il comunista Paride
Brunetti, che per oltre un anno e mezzo
comandò una divisione di partigiani sulle
montagne bellunesi; il democristiano
Adriano Trevisan ; il colonnello Luigi
Marziano, che raccolse le formazioni del
Piovese, e che mi fu più tardi compagno nelle
carceri di palazzo Giusti donde uscì per
prendere il comando dei suoi vecchi soldati
nei giorni della riscossa; l’ing. Antonio
Frasson, instancabile raccoglitore di armi,
attività che scontò colla prigione ai Paolotti;
e c’era anche, purtroppo, colui che per
oltre un anno mi fu a fianco collaboratore
militare per la provincia, che venne a
conoscenza di troppi segreti e che poi
vigliaccamente
tradì“.*
(da
Adolfo
ZAMBONI, Il Comitato di Liberazione
Nazionale della Provincia di Padova, p. 23/4
Ed. Zanocco, Milano, 1947). (*) Si tratta di
Mario Santoro un ufficiale del Partito
d’Azione divenuto strettissimo collaboratore
di Meneghetti nel Comando Militare
Provinciale. Tradì nel gennaio ’45.
10
Dal racconto che, qui sotto è riprodotto, sulla esperienza partigiana nel Feltrino e nel Bellunese emerge un
“vuoto” rappresentato dai rapporti tra “Bruno” e la delegazione inglese guidata dal maggiore Tilmann.
Brunetti, ha scelto di limitarsi ai seguenti commenti : “Prima le missioni erano rare dopo ho avuto con me
una missione inglese con comando di Brigata e alla fine anche una missione americana , quella che mi ha
fatto avere la onorificenza, che ci ha fornito di ogni ben di dio. Mentre gli inglesi non davano molte armi
ma solo un po’ di esplosivo perché non volevano formazioni partigiane forti ma solo informazioni,
sabotatori e basta; gli americani mi hanno dotato persino di un “bazooka” il primo, forse, dato in
dotazione ai partigiani. Infatti, nel febbraio 1945, l’ho usato contro una caserma fascista. Il rapporto era
ottimo con gli americani e pessimo con gli inglesi che privilegiavano ai garibaldini i monarchici e le
“fiamme verdi” perché “…Voi cantate troppo bandiera rossa”. Tenuto conto che, tra le sei formazioni
partigiane sotto riportate ce n’era una denominata Compagnia Churchill, credo sia utile approfondire una
tale tematica. Per collocare in un contesto più esaustivo i rapporti con la “Missione SIMIA” del maggiore
Tilman. (v. Allegato B) - Riprendiamo la lettura della intervista di Radiosaronno del 5.XI. 2005-
4.
Partigiano nel Feltrino e nel Bellunese
Quando si parla di movimento partigiano di montagna precisato che, alla fine del ’43 in tutto il Veneto, si
contavano solo tre formazioni: una in Friuli, una seconda nel Bellunese e una terza sull’Altopiano di
Asiago. Quella del Bellunese era formata da una quindicina di persone che avevano subito un trauma
perché, nel tentativo di liberare un Partigiano che era stato preso dai carabinieri, avevano dovuto ritirarsi
sconfitti. Quindi la formazione si era disfatta . A Padova io ero in contatto con Concetto Marchesi , con
l’Università, con il movimento partigiano che hanno ritenuto di inviarmi per ricompaginare questo primo
nucleo di partigiani nel Bellunese che era oramai allo sbando senza un comandante. (**) Siamo andati in
tre, eravamo una dozzina, poi siamo diventati quindici ai quali si sono aggiunti dei bolognesi; alla fine
dell’inverno eravamo già in 120. Questi partigiani erano, come nucleo fondamentale, formati da dei
quadri: gente che aveva fatto la Guerra di Spagna. Infatti, nella mia formazione, c’era uno che aveva
raggiunto il grado di capitano con altri due o tre che erano stati in Spagna. Poi c’erano ex-prigionieri
soprattutto jugoslavi e russi. In un primo momento non si parlava di fare guerra ma di stare tranquilli per
passare l’inverno limitandosi a piccole azioni di sabotaggio. In un primo momento ci siamo insediati nella
Valle del Mis poi siamo andati a finire nel Friuli proprio dove c’è stata la inondazione sopra Longarone
nel monte Toc, infine ci siamo distribuiti in tutto il Bellunese. I nostri ordini erano un po’ relativi per il
fatto che, in ogni Provincia, c’erano dei Comitati di Liberazione Nazionali (C.L.N.) costituiti dai
rappresentanti dei vari partiti politici che non stavano in montagna i quali si riunivano, ci fornivano
mezzi, denari ecc. per cui gli ordini erano relativi perché, se avessimo ascoltato i loro ordini, azioni non ne
avremmo fatte. Dicevano:”Ragazzi, state buoni sennò fanno le rappresaglie e così via”. Il tema delle
rappresaglie è un discorso molto, molto serio perché la rappresaglia è un’arma di guerra e non c’è niente
da fare. La guerra partigiana non fa prigionieri. Io ricordo la prima azione che abbiamo fatto, eravamo
nel marzo 1944, contro una sede di una Gendarmeria perché la zona nord da Trento-Bolzano-Belluno era
già annessa al III° Reich la AlpenVolkland con un governatore tedesco e c’era la Feld-Gendarmeria
c’erano i reggimenti tipo Bozen quelli che poi sono andati alla CERDE di Bolzano e di Trento che
fungevano da polizia perché, a Belluno, non sono riusciti a reclutarne. In una piccola scuola di
campagna c’erano quattro gendarmi di Bolzano e un sergente tedesco che aveva un mitragliatore e altri
armi; allora abbiamo deciso di andarsele a prendere. Adesso potrei descrivere anche l’azione, in ogni
caso, abbiamo chiesto la resa. Siccome si opposero un partigiano ha gettato una bomba incendiaria ed
essendo la scuola di legno se ne sono usciti con le mani alzate. Se ci fosse Pansa lo direi a lui questo.
Prendiamo questi quattro prigionieri e discutiamo su cosa farne: morale della favola abbiamo tolto loro le
scarpe e ce li siamo portati dietro finché se ne sono scappati . In una seconda azione, molto brutta, in cui
noi abbiamo attaccato una centrale elettrica con venti tedeschi di guardia, una centrale molto importante,
alle Moline nella zona di Belluno. Le sentinelle hanno aperto il fuoco e non c’era verso di costringerli
alla resa sino a che non abbiamo provocato una esplosione e, alla fine, si sono arresi. Su venti 12 erano
riusciti a scappare e gli altri 8 si arrendono: peggio per loro abbiamo pensato. Dopo averceli portati dietro
facciamo il processo senza essere convinti di doverli uccidere sino a che, i tedeschi, compiono un atto
11
insignificante che ha provocato la loro morte. Furono sorpresi che, con una lametta da barba, si stavano
tagliando le scarpe. E’ bastato quell’atto e la minoranza di noi si è trasformata in maggioranza e vengono
uccisi. Anche quando si parla di foibe e non foibe lì c’è una buca dove sono stati buttati là. Da quel giorno
non abbiamo più fatto prigionieri. Siamo andati a Fonzano in pieno giorno dove abbiamo preso venti
gendarmi, li abbiamo disarmati , ce li siamo portati fuori dall’abitato e li abbiamo lasciati in mutande.
Dopo la esecuzione delle Moline non abbiamo più fatto prigionieri da passare per le armi. Come nel caso
del Tombion.
I cinque battaglioni della “Gramsci”
Paride Brunetti partecipò alla organizzazione del primo Nucleo partigiano "Luigi Boscarin"/"Tino Ferdiani"e
si trasferì il 4 dicembre 1943 nella valle del fiume Mis tra le montagne di Belluno, per assumerne il comando
dello stesso. Giuseppe GADDI in, Ogni giorno tutti i giorni, Vangelista ed., MI 1974 pp.103 e segg.così
ricordava quei giorni: “ Il 10 ott.1943 in una casara detta “La Spasema”, sopra Lentiai (BL), si radunò un
gruppo di resistenti comunisti composto da tre ex-combattenti delle Brigate Internazionali in Spagna
(Rizzieri Roveane di Feltre, Manlio Silvestri e Beniamino Rossetto di Padova)” e da Giuseppe Gaddi che
potevano appoggiarsi su Ernesto Ferrazza, Pietro Tagliapietra e altri del posto. Manlio Silvetri (Monteforte)
proveniva dalla formazione sul “Foral” che abbandonò solo quando si convinse dell’impossibilità di farne un
nucleo combattente. “Alla fine di ottobre al gruppo si unirono anche alcuni stranieri, fra i quali tre exsoldati sovietici, Bortnikov, Kuznietzov e Orlov, giunti lì per caso, e rimasti fino alla fine della guerra ad
eccezione di Kuznietzov che fu ucciso dai nazisti in combattimento. Il 7 nov.’43, in omaggio a un feltrino
caduto in Spagna, veniva inaugurato il “Battaglione Garibaldi Buscarin” (Boscarin – nda) come è ricordato
da una lapide apposta in una casa di Lentiai nell’immediato dopoguerra. Comandante fu eletto Raveane,
commissario politico Manlio Silvestri. A loro insaputa, alla fine di novembre ’43 nella foresta del Cansiglio,
“Amedeo”, un altro Garibaldino di Spagna dava vita ad un gruppo che confluirà nella “G. Mazzini”.
Un’altra formazione era sorta a Vittorio Veneto e a Longarone. Ricorderà Giuseppe Gaddi:“Ma al
momento della costituzione del nostro reparto eravamo convinti di essere soli”. (*) (…) “Alla fine di
novembre ’43 i carabinieri avevano teso un imboscata per arrestare il colonnello Bortolotti, diretto a
Lentiai. Arrestarono invece uno dei partigiani, il vice segretario della federazione comunista Eliseo Dal
Pont, che si era recato al di là del Piave a ritirare dell'esplosivo prelevato qualche giorno prima da un
deposito. Lo portarono alla caserma dei carabinieri di Mel, comandata da un altoatesino di origine tedesca
certamente poco ben disposto nei nostri confronti. Una parte del reparto, la notte seguente, attaccò la
caserma nel tentativo di liberare Dal Pont, la cui vita era in pericolo. Ma l'attacco fu respinto, e poco dopo
furono i carabinieri, con rinforzi giunti da Feltre, a tentarne uno alla « Spasema », dove eravamo accampati
molto all'interno dei boschi di Lentiai. Avvertiti in tempo da Diego Tagliapietra, allora ancora ragazzino, ci
ritirammo dietro delle siepi poco distanti da dove, con le armi in posizione di sparo, avremmo potuto far
fuori agevolmente tutti i carabinieri che avevamo visti infilarsi a uno a uno nella casera, per uscirne paco
dopo quasi di corsa. Non sparammo invece neanche un colpo e, rientrati nella casera, vi trovammo tutto
intatto, compreso un enorme calderone nel quale stava cuocendo della trippa, che nessuno di noi sperava
più di poter gustare. Ma ormai il luogo scottava e la sera stessa, attraversando a guado le acque ghiacciate
del Piave, ci trasferimmo nella valle del Mis, dove trovavamo un ricovero di fortuna a Landrina in una
casera abbandonata. Nell'occasione fummo costretti a liberare il «comandante» del gruppo dei
neozelandesi, fatto prigioniero perché con le sue smargiassate, e soprattutto con le sue vessazioni nei
confronti dei contadini, metteva in pericolo il nostro reparto e comunque gli causava grosse difficoltà.
Scampato fortunosamente a conseguenze che potevano essere gravi, egli riparava subito dopo all'estero,
dove si costruiva la fortuna alla quale abbiamo accennato.(**) La casera nella quale ci eravamo rifugiati
era aperta a tutti i venti, situata in una posizione difficilmente difendibile, ancor più lontana di Lentiai da
ogni obiettivo militare e troppo piccola per ospitare un reparto come il nostra, che si ingrossava di giorno in
12
giorno per l'afflusso di elementi provenienti dall'Emilia. Fummo costretti a spostarci nuovamente e questa
volta, ripassato il Piave, ci inoltrammo nella Val Cellina, sopra Longarone, sistemandoci sul Toc, la stessa
altura che vent'anni dopo doveva precipitare nel bacino artificiale del Vajont, provocando la distruzione
della sottostante cittadina e duemila morti. Qui la formazione cambiò nome per assumere quello di Tino
Ferdiani, il primo combattente emiliano caduto in seguito a un'azione del reparto: Tino cadde in un
incidente il 7 gennaio 1944, mentre rientrava da una spedizione contro un agente del nemico”.
(*) - Nella realtà la zona pedemontana e montana brulicava di soldati sbandati e di prigionieri fuggiti dai
campi di internamento che erano raggiunti da antifascisti reduci dalla prigionia o dal confino e davano vita a
nuclei a se stanti gli uni, quasi sempre, all’insaputa degli altri. Per esempio, il 7 ottobre ’43, si tenne a
Nervesa nel trevigiano una riunione tra militari, politici e civili per dare vita ad un nucleo di esercito
clandestino ma situazioni analoghe avvenivano nell’altra sponda del Piave nel bellunese e a Pieve di Soligo,
Conegliano, nell’Asolano, nel Montello e così via. Un ruolo fondamentale di riorganizzazione lo svolsero
Antonio BIETOLINI e la sorella Rosa che erano in contatto con Massola e il Centro del PCI grazie a una
radio clandestina. Bietolini fu fucilato, con altri sei antifascisti, in Valdagno il 3 luglio 1944.
v. CECCHINATO Silvio, Frammenti di vita di Antonio Bietolini, premio NEGRELLO “Due Sorgenti – Oliero” –
Valbrenta, VII° Edizione Bassano 28 maggio 2005
(**) – Sulla operazione fallita contro i carabinieri, Giuseppe GADDI, aveva precedentemente scritto: (…)
“ Due giovani portavano a Manlio Silvestri “Monteforte” due casse di dinamite quando, sulla piazza di
Lentiai, incapparono in un’imboscata tesa dai carabinieri. Uno di essi fuggì ma l’altro, uno degli
organizzatori del reparto e dirigente comunista della Provincia, “Eliseo”, fu arrestato e condotto alla
caserma dei carabinieri di Mel per essere consegnato ai tedeschi. All’alba del 30 nov. ’43, gli uomini
guidati da “Monteforte” (malgrado una febbre alta), chiesero ai Carabinieri di Mel di liberare “Eliseo”.
Non si riuscì a parlamentare. Un graduato aprì il fuoco gettando delle bombe a mano da una finestra.
Monteforte diede ordine di rispondere e per vari minuti si sparò all’impazzata da una parte e dall’altra. Alla
fine, quasi esaurite le scarse munizioni, i nostri dovettero ritirarsi sulla montagna. Erano appena arrivati
alla “casera” stanchi, sfiniti, che i carabinieri, avuti dei rinforzi freschi, attaccarono. Non conoscendo
l’entità degli attaccanti e con una posizione che si prestava poco alla resistenza, si ripiegò. Sempre con la
febbre alta, Monteforte portò in salvo tutti gli uomini e le armi”. Così finiva la prima azione di quella
formazione. Da Giuseppe GADDI (Sandrinelli), Eroi dimenticati MANLIO SILVESTRI “Monteforte”, ed.
Fed. PCI Padova 1948 pp.18-19
Il primo gruppo garibaldino era dotato solo di un mitragliatore e di sei fucili modello 91 e poche munizioni.
Quando si parla della Brigata, certamente enfatizzando, come della più “grande formazione partigiana
d’Italia” (perché raggiunse il massimo, nel settembre 1944, con 996 persone e contò fino a ben 89 staffette
partigiane) bisogna tenere conto di quanto affermava Paride Brunetti, nella intervista, che… L’inverno 194445 è stato particolarmente duro perché in montagna non ci puoi stare se non rintanato nei rifugi. Eppoi
una formazione di 1000 uomini si riduceva a 70-80 unità. La zona operazioni della Brigata “Gramsci” in
data 02.8.’44 era stata fissata dal Comando della Divisione “Nannetti”: - a Nord - Predazzo Passo Rolle / a
Ovest – Valsugana fino a Borgo/ a Est – Passo Cereda – Monte Pizzocco – S. Gregorio Alpi – fiume Piave /
a Sud – fiume Piave da S. Giustina a Fener – Monte Tomba – Cismon del Grappa.
13
Dal primo nucleo la brigata andò crescendo fino a formare i seguenti cinque battaglioni di circa duecento
militari ciascuno:
Battaglione “De Min” Il battaglione “De Min” era dislocato a Pietena e operava nei territori di Busche,
frazione di Cesiomaggiore, Santa Giustina e nella sua frazione Formegan. La prima sede della Brigata a
Pietena si trovava sopra Feltre nella frazione di Vignui, a 533 m s.l.m. Per raggiungerla necessita salire in
località Sass Sbregà (630 m) seguendo i sentieri per Pian dei Violini e Rifugio Dal Piaz. Il Passo Pietena è a
2094 m s.l.m..
Battaglione “Zancanaro” Il battaglione “Zancanaro” era dislocato in "Busa delle Vette" e operava
nei territori di Feltre, Pedavena, Fonzaso, Moline di Sovramonte. Il battaglione era nato per la decisione dei
partigiani cattolici feltrini che si erano aggregati alla Brigata, dopo che a Feltre il 19 giugno ’44 era stato
assassinato il loro comandante, il tenente colonnello degli Alpini Angelo Giuseppe Zancanaro. Era composto
da circa 400 uomini in parte mobilitati in montagna e in parte alle loro case. La "Busa delle Vette", base del
Btg "Zancanaro", è raggiungibile dal passo Pietena.Battaglione “Cesare Battisti” .
Battaglione “Cesare Battisti” era dislocato ed operò nei territori di Val Canzoi, Busche, Villabruna.
La valle Canzoi segue il torrente Caorame, dalla località Preton fino al Pian del Goso, a Nord del Lago della
Stua. Preton è raggiungibile da Soranzén, frazione di Cesiomaggiore.Battaglione “Monte Grappa”.
Il battaglione “Monte Grappa” operò nei territori del Monte Grappa (Seren del Grappa, Cismon del Grappa,
Carpanè, Campo Solagna, Montebelluna).
due Squadre (SAP): la “Marmolada” (Feltre, Quero), la “Civetta” (Cesiomaggiore, Santa Giustina, Belluno
e dintorni di Feltre).
Battaglione “Gherlenda” operò nei territori di Fiera di Primiero, Castel Tesino, Borgo Valsugana,
Strigno. Il primo comandante fu Isidoro Giacomin ”Fumo”, da Fonzaso. Egli era stato ufficiale degli alpini e
aveva combattuto nel Montenegro. Fu ucciso con altri partigiani il 15 settembre 1944, in un scontro a fuoco
con i fascisti e i nazisti vicino al lago di Costabrunella.
Battaglione “Bolzano”. Nell'agosto '44 si formò la compagnia "Gherlenda" e nell'ottobre, dopo i
rastrellamenti del Grappa e delle Vette Feltrine, si andò organizzando una quinta formazione della
"Gramsci", alla Lancia di Bolzano, inizialmente con partigiani sfuggiti ai vari rastrellamenti del Bellunese e
del Vicentino. Fu denominata battaglione "Bolzano" e fu operativamente autonoma, anche per la quasi
impossibilità di collegamenti. Il battaglione “Bolzano”, quasi completamente autonomo, con una decina di
squadre SAP e un comando Piazza (Zona Industriale), operò presso gli stabilimenti della “Lancia” a
Bolzano.
Compagnia “Churchill” La compagnia “Churchill” era formata da una decina di ex prigionieri.
Tra le tante azioni che “Bruno” organizzò viene qui ricordata una tra le più spettacolari e clamorose. Tra il 6
e il 7 giugno 1944 organizzò ed attuò con altri 5 partigiani il sabotaggio della linea ferroviaria Bassano del
Grappa - Trento, in prossimità del Forte Tombion, posto nella strettoia del Canale di Brenta tra Cismon del
Grappa e Primolano. Il “sabotaggio del Tombion” fu un’azione partigiana che ebbe un risalto a livello
europeo con i ringraziamenti di Radio Londra. L'azione fu ideata presso la casa di Oreste Gris (che da allora
assunse il nome di battaglia di "Tombion") e compiuta con altri partigiani ("Tanicio", "Alessio" e "Kutnizoff",
"Montegrappa"). L'attacco, guidato dal Brunetti, consistette nell'assalto al deposito tedesco, al disarmo dei
militi della RSI, al sequestro e al trasporto di 23 quintali di esplosivo all'interno della galleria ferroviaria.
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Lo svuotamento del deposito e il trasporto dell'esplosivo avvenne, in cambio della libertà, con l'aiuto di otto
militi della RSI presi prigionieri nell'assalto (tre di essi comunque si aggregarono ai partigiani). Sulla via del
ritorno, "Bruno" ed i suoi compagni distrussero con mine la cabina elettrica dello stabilimento della
"Metallurgica" di Feltre (che produceva pezzi per aerei militari) interrompendo per circa tre mesi la
produzione bellica della fabbrica. Si imbatterono poi in una pattuglia tedesca e dopo un'ora di lotta, ormai a
corto di munizioni, "Bruno" riuscì ad avvicinarsi da solo agli avversari e a determinarne la resa con il lancio
di cariche esplosive. Ancora nell'inverno 1944-45 altre azioni di guerriglia portarono al deragliamento di
alcune locomotive ferme presso il Tombion, che vennero fatte precipitare nel Brenta. Per i fatti di quei
giorni fu insignito nel 1947 della Medaglia d'argento al Valor Militare dall'allora Presidente del Consiglio dei
Ministri on. Alcide Degasperi.
5.
Operazione “Forte Tombion” in Valbrenta
Quella del Tombion è stata una operazione molto interessante poiché è la più grande operazione di
sabotaggio compiuta in Europa. Nella Valsugana a un certo punto a Primolano c’era un forte della prima
guerra mondiale. Questo forte era stato adibito a deposito di esplosivi per i lavori di fortificazione che i
tedeschi stavano facendo per la “linea veneta”. Una linea che partiva dal Garda e giungeva fino alla zona
di Mestre dove, i tedeschi, avevano in programma di ritirarsi ordinatamente dalla linea Gotica in attesa
che, nella fortificazione della Baviera e del Sud Tiroler, portassero a termine la ricerca dell’arma atomica
(che era andata avanti). Avevano intenzione di ritirarsi dalla Prussia sino alla Baviera e la linea veneta.
Nel forte Tombion c’era un deposito con 26-27 quintali di esplosivo. Qui viene fuori il ruolo di appoggio
della popolazione perché la Resistenza può andare avanti solo con la informazione e la complicità delle
popolazioni. Da loro abbiamo saputo che dentro al Forte c’erano 10 italiani di guardia con due sentinelle
notturne. Dagli Alleati avevamo avuto l’ordine di agire perché siccome la via del Brennero era sottoposta
a puntuali interventi aerei, i tedeschi usavano la Valsugana per i loro trasporti militari sia attraverso la
strada che la linea ferroviaria che correva in galleria e tra valli strette. Dalla nostra azione emergono due
elementi fondamentali: il contatto con gli Alleati ma soprattutto con la popolazione locale. Prima di
partire (siamo partiti in sei) un vecchio minatore del luogo ci chiama e ci da l’istruzione logistica, mi da la
miccia con il detonatore e i fiammiferi antivento. Dopo esserci avvicinati abbiamo imposto il mani in alto
alle sentinelle che ci hanno portato nella camerata dove dormivano i militari, abbiamo esploso una raffica
per aria, presi dalla paura di essere uccisi li abbiamo calmati e fatto il patto di consegnarci e di portarli
dentro alla galleria in cambio della liberazione seppure ridotti in mutande. Era pericoloso perché c’era la
strada e se davano l’allarme eravamo persi perché solo in sei . Tre dei militi hanno chiesto di rimanere
con noi perché stufi di stare coi tedeschi. All’invito di darci una mano per fare brillare l’esplosivo si sono
rifiutati per paura. Conclusione sono andato dentro da solo. (*) Sono entrato in questa galleria dove ci
sono delle nicchie una delle quali fu riempita di esplosivo. In possesso di 10 metri di miccia conteggiando
un centimetro per ogni secondo dopo un quarto d’ora dall’accensione è saltata la galleria. Prima cosa i
tedeschi hanno perso 23 quintali di esplosivo, poi hanno perso la faccia, da allora non hanno più
costruito gallerie “cielo aperto”, la strada è rimasta per sei giorni intransitabile e la risonanza è stata
mondiale. Prima le missioni erano rare dopo ho avuto con me una missione inglese con comando di
Brigata e alla fine anche una missione americana , quella che mi ha fatto avere la onorificenza, che ci ha
fornito di ogni ben di dio. Mentre gli inglesi non davano molte armi ma solo un po’ di esplosivo perché
non volevano formazioni partigiane forti ma solo informazioni, sabotatori e basta; gli americani mi
hanno dotato persino di un “bazooka” il primo, forse, dato in dotazione ai partigiani. Infatti, nel
febbraio 1945, l’ho usato contro una caserma fascista. Il rapporto era ottimo con gli americani e pessimo
con gli inglesi che privilegiavano ai garibaldini i monarchici e le “fiamme verdi” perché “…Voi cantate
troppo bandiera rossa”. I rapporti con le popolazioni non potevano che essere ottimi perché bastava una
spia o una delazione e non era più possibile operare. Il battaglione “Gherlenda” non è riuscito ad agire
perché si trovava tra una popolazione mista con quella di lingua tedesca. (**) Nel caso delle spie eravamo
particolarmente crudeli per ammonire a non collaborare.
15
(*) - Nella intervista Paride Brunetti, correggendo quanto scritto in altre sedi tra cui Giuseppe Sittoni
“Cismon del Grappa 1944” dove, in una intervista a firma Paride Brunetti “Bruno”, riporta: - “Rimangono
nella galleria “Bruno”, “Tanicio” ed un elemento locale che eseguono le istruzioni ricevute da “Oreste” e
danno finalmente fuoco alla lunga miccia (10 mt. circa), ripiegando a loro volta rapidamente” - per la prima
volta cita la presenza di un minatore locale oltre a quello in forza alla formazione partigiana e dichiara di
essere entrato da solo nella galleria per innescare l'esplosivo.
- (**) - SITTONI Giuseppe, Uomini e
fatti del Gherlenda , ed. Croxarie - Strigno 2005 , edizione on line -
Sin dal 5 settembre ’44 l’alto comando tedesco aveva messo in moto “ l’Operazione Hannover” alla quale
aveva fatto seguire la “Operazione Piave”. Dopo avere rastrellato il veronese e il vicentino a ovest e il
trevigiano e bellunese a est l’ultimo obiettivo, al centro della cerniera, era costituito dal massiccio del
Grappa. Sul Grappa, dove a fine agosto era giunta la “missione Tilmann” che vi lascerà il capitano
sudafricano Bridge come ufficiale di collegamento, la situazione era quella descritta da “Bruno”
nell’intervista che segue: tanti giovani disarmati e sprovvisti persino di vestiario adeguato confluiti in
formazioni con diverse posizioni politiche. Per tentare di dare un minimo di organizzazione, il 7 settembre
– Lanfranco Zancan, Giovani Tonetti, Giuseppe Calore e Attilio Gombia del comando militare regionale –
riuniscono i comandanti che convengono per un unico comando del Grappa affidato a Paride Brunetti.
L’iniziativa seppure importante giunge troppo tardi perché già il 19 sett. ’44 il massiccio era stato
circondato dalle truppe nazifasciste. Dalla “Relazione del comando Divisione “Nannetti”, sin dal 12 .8.’44
emergevano “non proprio cordiali rapporti” tra alcuni reparti della “Gramsci” e il battaglione “Monte
Grappa”; motivo per cui si proponeva il passaggio alle dipendenze dirette del del Comando “Nannetti”. Che
la situazione non si potesse ancora ritenere “posta sotto controllo” lo conferma il dispaccio in data 18 sett.
’44 ( vigilia dell’ attacco nazifascista) con il quale Il C.M.R.V con firma Gianni Lanza ordinava “Questo
Comando dispone che il Btg. “Monte Grappa” della Brigata Garibaldi “Gramsci” si stacchi dalla
“Gramsci” e passi a far parte delle forze della zona operativa del “Massiccio del Grappa”. “ (*) Di fronte
ai 1500-2000 partigiani male armati furono concentrati dai 7000 ai 10000 nazifascisti. La tattica usata era
quella di risalire i contrafforti del Grappa attraverso le valli per spingere in basso i partigiani, una volta
formata una sacca, dove venivano annientati o imprigionati. Constatata la impossibilità di un
coordinamento delle formazioni e preso atto della tattica usata, la formazione di “Bruno” con il
combattimento ha impedito che si completasse l’accerchiamento quindi, durante la notte, è “filtrata”
attraverso i posti di blocco. La manovra di sganciamento è riuscita perché tempestiva in quanto attuata tre
giorni dopo l’attacco: solo così, “Bruno”, riuscì a spostare il comando integro in Val Canzoi. Per ridurre la
dimensione della tragedia sembra che, l’unica soluzione, sarebbe stata quella di rompere insieme
l’accerchiamento concentrando le diverse formazioni e, poi, sganciarsi in modo programmato. (**) (v.
Allegato C) - (*) – v. a cura di A.M. Preziosi, Politica e Organizzazione della Resistenza Armata, vol. 1° pp.
90-91 e 221
(**) - Scrive Ernesto Brunetta: “ (…) se il comando unico del Grappa fosse stato operante prima di settembre
– l’accordo fra le formazioni venne siglato il 7 settembre dal Comando Militare Regionale composto da
Giuseppe Calore, Attilio Gombia, Giovanni Tonetti e Lanfranco Zancan – è pensabile avrebbe forse evitato
almeno le più disastrose conseguenze del rastrellamento sul Grappa. L'iniziativa è importante, ma giunge
troppo tardi. Il 19 sett. '44 i nazifascisti schierano ai piedi del massiccio una fitta rete di posti di blocco ai
quali vengono adibiti i fascisti delle “Brigate Nere” di Vicenza e di Treviso e i legionari della “Tagliamento”
fatti affluire apposta dal Piemonte,mentre le truppe tedesche specializzate nella repressione antipartigiana
sostituiscono le colonne mobili d'assalto. Il 20 si scatena l'assalto, destinato a durare fino al 28. (…) Crudeli
furono le perdite: 307 i partigiani caduti, ; tra i civili vittime della feroce rappresaglia 171 impiccati , 603
fucilati, 800 deportati in Germania. Agli alberi dei viali di Bassano furono impiccati 32 partigiani, destinati a
diventare l'emblema della Resistenza Veneta e del suo sacrificio ”. (in E. Brunetta, Dal fascismo alla
liberazione, Ist. Storia Tre Venezia, 1977 p. 219.) – n.b. Tra i “legionari” della “Tagliamento”, dopo essere
stato scoperto, si è vantato di esserci anche l’attore Giorgio Albertazzi. (Allegato D)
16
6.
Il proclama Alexander e il rastrellamento sul Grappa
Il nostro dramma nasce con il “proclama Alexander”. Se avrò vita voglio divulgare dei documenti, che ho
rinvenuto a Vicenza, che provano che gli Alleati , nell’agosto ’44, avevano impartito disposizioni per
scendere in pianura per occupare le città. Si tratta di riportare alla luce una pagina tragica tra le più
brutte che esistano! Ci avevano dato per certo che la guerra sarebbe finita nel 1944. E, invece, si sono
fermati senza dirci nulla perché avevano distolto un intero Corpo d'Armata Americano e un secondo
francese (costituita dalla maledetta divisione marocchina) per attuare lo sbarco nella Provenza (sbarco del
15 agosto '44 - n.d.r.) . Alexander, a noialtri, ce l’ha comunicato nel novembre ’44 quando doveva
avvisarci in agosto. (*) A settembre, con la prospettiva dell’avanzata alleata giungevano giovani a frotte
pensando che la guerra stesse oramai per finire. In questo contesto si colloca anche la tragedia del
Grappa. Sul Grappa è giunta gente disarmata senza nemmeno le scarpe adatte. Ma la guerra ha
continuato è questa è stata la tragedia perché i tedeschi, attestandosi sulla linea gotica, hanno potuto
distogliere divisioni per passare a rastrellare le formazioni partigiane. Va premesso che i rastrellamenti
massicci dei nazisti, al mio comando di brigata, sono mai arrivati solo perché in 7000 uomini in gran
parte costituiti da ex-prigionieri russi, kalmuchi, usbeki, turkisi reclutati nei campi di concentramento per
fare la guerra antipartigiana ( si tratta di parte della “Armata Mongola” composta da circa 12000 militari
per lo più calmucchi, uzbechi, azerbaigiani, tartari, ucraini, kirghisi, georgiani e turkmeni che ricostituirono
la 162° divisione tedesca utilizzata nei rastrellamenti nei colli piacentini e nell’Oltrepò Pavese e da dove
furono distolti alcuni reparti per la “Operazione Piave” –ndr.). Rimango, forse, l’unico comandante il quale,
ad un certo momento, ha deciso di non dare il “si salvi chi può” scegliendo di combattere. Mi sono messo
dietro a una mitragliatrice sparando fino all’imbrunire senza subire alcuna perdita . Sul Grappa ci sono
stati, circa, 170 impiccati e 500 morti: lo ripeto, io non ho avuto nessun caduto perché ho combattuto,
tenendoli a bada, sparando! Loro avevano bloccato i sentieri principali sulla montagna dove, di notte,
avevano acceso dei fuochi e piazzato delle mitragliatrici: noi siamo filtrati in mezzo! Credo, anzi, che ci
abbiano anche sentito mentre stavamo uscendo dall’accerchiamento ma, al buio, per loro era rischioso
entrare nel bosco perché ci temevano. Per dare un’idea , nella mia zona, ho fatto fuori 17-18 presidi .
L’ultima brigata che hanno attaccato è stata la mia, ma hanno avuto paura di morire anche loro.(**)
L’inverno 1944-45 è stato particolarmente duro perché in montagna non ci puoi stare se non rintanato
nei rifugi. Eppoi una formazione di 1000 uomini si riduceva a 70-80 unità. Per quanto mi riguarda i
tedeschi non hanno infierito molto nella caccia ai partigiani tanto che ne hanno arruolati molti
nell’organizzazione Todt che faceva lavori di fortificazione. IL Grappa è stata la pagina più nera ma,
nelle altre zone, non è che i tedeschi abbiano infierito molto. Certo, nel Bellunese, hanno deportato della
gente ma, per esempio, hanno infierito molto di più contro gli scioperi , contro i Consigli di Fabbrica per
temevano il blocco delle produzioni. Specie contro gli scioperi del 1944 doveva avevano preso paura. I
due morti di Saronno, Bastanzetti e Coralli, era gente che lavorava in fabbrica e che erano stati arrestati
perché avevano scioperato ed , essendo politicizzati, li hanno uccisi. L’inverno 1944-45 è stato duro, duro,
duro, duro!
(*) - Proclama ALEXANDER : 13 novembre 1944 - Il 13 novembre 1944, il generale Alexander, nella sua qualità di
comandante di tutte le forze alleate in Italia, fece diffondere per radio le sue “nuove istruzioni ai patrioti italiani”, nelle
quali, dopo avere detto che le piogge e il fango avevano rallentato l’avanzata alleata, avvertiva che l’inverno sarebbe
stato molto duro per i patrioti e impartiva queste disposizioni: “cessare le operazioni organizzate su vasta scala;
conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini; attendere nuove istruzioni che verranno date o a
mezzo radio “Italia che combatte” o con mezzi speciali o con manifestini; sarà cosa saggia non esporsi in azioni
troppo arrischiate. La parola d’ordine è: stare in guardia, stare in difesa; approfittare, però delle occasioni
favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti; continuare nella raccolta di notizie di carattere militare concernenti il
nemico. Studiarne le intenzioni, gli spostamenti e comunicare con chi di dovere”.
Il generale concludeva raccomandando ai patrioti di tenersi pronti per una ripresa, anche improvvisa, delle operazioni e
congratulandosi per la collaborazione offerta alle sue truppe durante la campagna estiva.
17
(**) – Scrive Ernesto BRUNETTA: “Un altro riuscito esperimento di “pianurizzazione” è operato dalle formazioni
del Grappa, sia pur in diverse e drammatiche circostanze, tali da rendere necessario l'abbandono del massiccio. Lo
stesso battaglione “Buozzi”, che pur rimane sulla montagna fino a metà ottobre, preferisce poi pianurizzare ed il 19
ottobre, attorno ad esso, si ricostituisce in pianura la brigata “Matteotti” con Livio Morello Comandante e Giovanni
Giavi Commissario. I resti delle altre formazioni si riorganizzano ai piedi del Grappa confluendo su nuclei e strutture
preesistenti. Morto Todesco durante il rastrellamento e catturato Pierotti, i resti delle due “Italia Libera” filtrano in
pianura a gruppetti e sono raccolti dalle formazioni contermini con le quali, d'altronde, i rapporti erano sempre stati
di reciproca osmosi: cosí parte sono raccolti dai gruppi che agiscono nella zona di Caerano S. Marco i quali, cosí
rafforzati ed assunta una piú stretta dipendenza politica dalla DC - dopo ripetuti incontri con Giuseppe Caron ed
Italo Romagnoli che rappresentano il quel momento il partito rispettivamente nel CLNP e nel CMP – danno vita in
novembre alla brigata “Nuova Italia”, di cui assume il comando Publio Corradi con Mario Rossetto commissario
politico”. V. E. BRUNETTA, Dal fascismo alla liberazione, I.S.R.T.V. 1977 p. 224. Correttamente, Paride Brunetti,
pone un “forse” nell’affermare -“Rimango, forse, l’unico comandante il quale, ad un certo momento, ha deciso di
non dare il “si salvi chi può” scegliendo di combattere. Mi sono messo dietro a una mitragliatrice sparando fino
all’imbrunire senza subire alcuna perdita” – perché dai diversi rastrellamenti dell’autunno 1944 centinaia di partigiani
riuscirono a “filtrare” verso la pianura dando vitalità alle formazioni che ivi si trovavano.
18
Paride Brunetti, nelle sue interviste, non accenna mai dell’effetto devastante che subì allorché venne a
sapere della decapitazione improvvisa e violenta del Comitato di Liberazione Nazionale Veneto e del
Comando Regionale Militare Veneto avvenuta la sera del 7 gennaio 1945, a Padova, da parte della “banda
Carità”. Ma è facile intuirlo sia dai nomi degli arrestati ( che avevano portato il militare Brunetti a divenire il
“Bruno” comandante della Brigata “Gramsci”) che dall’ultima Sua visita a Padova il 25 maggio 2010 che
lo vide scoprire una lapide in quella casa di Adolfo Zamboni in via M. Sanmicheli n. 53 dove partecipò alla
prima riunione della organizzazione militare della Resistenza con Flavio Busonera, Antonio Frasson,
Lionello Geremia, Luigi Marziano, Lodovico e Mario Todesco, Adriano Trevisan (v. sopra a pag. 8).
La “retata” fascista del 27 nov. ’44, sempre in Padova, aveva già portato all’arresto di Attilio Gombia
“Ascanio” e di Rino Gruppioni “Spartaco”. Per sostituire “Ascanio” venne chiamato Franco Sabatucci
“Cirillo” ma anch’ Egli venne ucciso in una imboscata a Padova il 19 dicembre 1944. Il dramma del Grappa e
i rastrellamenti successivi in tutto l’arco alpino, uniti alla scomparsa dei suoi referenti politici, portò anche
Bruno ad una riorganizzazione delle file e a un stasi generalizzata dell’attività partigiana. Nel Bellunese
questo comportò una nuova composizione dei comandi:
Comando Zona
Comandante “Abba” (Partito d’Azione) Comm. Politico “Ludovico” ( P. C.)
Vice
“
“Bruno” (Partito Comunista) Vice “
“
“Rudy”
(P. S.)
Capo di Stato Maggiore “Azeglio” (Democrazia Cristiana)
Divisione Belluno
“
Nannetti
Comandante “Franco” ( Partito Comunista) Comm. Politico “Carducci” (D.C.)
“
“Milo” (
“
“
)
“
“
“Coledi” (P. di Az.)
Zona Prealpi Bellunesi
“
“Paolo” ( “
“
)
“
“
“Stefano” ( “
“
“
“
formata dalle brigate Garibaldi “Tollot” ( S. Ubaldo – Piave) e Mazzini.
)
Dopo l’assassinio del comandante della “Mazzini” Marino ZANELLA “Amedeo”, di Segusino, il 26 gennaio
’45 in Pieve di Soligo; l’arresto di PASI Mario “Montagna”, di Ravenna, (impiccato a Belluno nel Bosco dei
Castagni il 12.3.’45) e l’arresto anche del Comandante di Stato Maggiore SERRANTONI Marcello “Marco”, di
Bologna, (poi fucilato a Padova il 02.01’45); il CLN Regionale Veneto, funzionante solo dal 23 marzo ’45,
inviava come Comandante delle brigata “Mazzini” Paride BRUNETTI “Bruno” e Commissario Politico Eliseo
DA PONT “Bianchi”. La decapitazione del comando partigiano della “Mazzini”, alla quale si sopperì con il
succitato cambio della guardia, avveniva dopo che la formazione e le popolazioni avevano subito ripetuti
rastrellamenti nazifascisti. Scrive Ernesto Brunetta: L’11 agosto ’44…”sono i fascisti della brigata nera di
Treviso che tentano di penetrare nella zona di occupazione della brigata Mazzini. I partigiani li aspettano
sulle colline di Collalto e i fascisti sono volti in fuga. (…) IL 16.8.’44 il nemico torna all’attacco e per
rappresaglia dà alle fiamme Solighetto; e mentre il 21 i tedeschi attaccano le propagini estreme dello
schieramento della Nannetti (rastrellamento di Caviola con 16 morti tra la popolazione civile), alla fine del
mese il cerchio si tringe attorno al grosso della divisione. Le formazioni tentano dapprima la difesa rigida,
poi, mentre per rappresaglia i tedeschi incendiano Pieve di Soligo, viene impartito l’ordine di sganciamento
verso il Cansiglio. (…) il 6.9.’44 comincia il rastrellamento del Cansiglio (…) e nella notte del 9 viene dato
l’ordine di sganciamento. Nella stessa zona (…)è la brigata “Piave”, che subisce l’offensiva(…)fino al
rastrellamento del Montello del 4 novembre ‘44”. Questo è quanto avveniva alla vigilia e dopo l’attacco
nazifascista al massiccio del Grappa. L’esperienza maturata anche in quel frangente sarà preziosa al
momento del passaggio al comando della brigata Mazzini.
19
Per comprendere il dramma vissuto dai partigiani e dalle popolazioni residenti in quella sponda del fiume
va ricordato che, dei 12 ministeri “fantoccio” della R.S.I. localizzati al nord, a Possagno si collocava quello
della Guerra e a Valdobbiadene quello dell’Agricoltura. Oltre ai dipendenti (una sessantina di romani con
famiglie solo in quest’ultimo ministero) si trovavano concentrati collaborazionisti della X° Mas, della
Wermacht, delle diverse polizie naziste e reparti della Guardia Confinaria (in divisa da alpini).
7.
Liberazione e Guerra Fredda
Nella primavera del ’45 c’è la svolta soprattutto da parte degli americani con abbondanza di armi, la
ritirata da parte dei tedeschi e il finale è caratterizzato dal fatto, nelle città, i partigiani crescevano come i
funghi. Prima che arrivassimo noi c’era chi aveva già fatto quasi tutto. In una città che, per amore di
patria non cito, si era costituita una intera divisione con tanto di comandante e ripartiti in squadre che
avevano posto quasi tutto sotto controllo. Il “dopo” è stato molto pericoloso e triste perché sono
subentrati i fattori politici condizionati dal Patto di Yalta che ha diviso l’Europa in due sfere di influenza.
L’Italia era al di qua di una linea mentre l’Ungheria e la Cecoslovacchia sono rimaste al di là: quando
Praga è insorta col cavolo che l’hanno aiutata. Quando i partigiani greci hanno preso il potere gli
inglesi li hanno fatti fuori. Nel popolo italiano si è creata una frattura, la famosa “guerra fredda”.
Io non guardo più al passato; non mi interessa più. Voglio pensare all’avvenire perché non ci siano più
guerre. Voglio che la gente vada d’accordo. Io domando: tu sei stato fascista? Non mi interessa bensì
chiedo che questo mondo sia diverso , migliore. E’ questo che io spero. Il passato lasciamolo stare! La
storia è scritta nel bronzo e non la puoi cancellare, non si può fare del revisionismo storico. A è A e B è B!
Voltiamo pagina ; prendiamone una bianca e scriviamola insieme per i nostri figli e nipoti dove la parola
guerra non esista. Perché dire Pace non vuole dire niente, bisogna dire NO alla guerra! Quando c’è la
guerra te l’ho detto cosa succede: la rappresaglia! Cito un solo dato! Nella seconda guerra mondiale ,
almeno sino ad ora, pare che le vittime siano state 53 milioni di persone delle quali 35 milioni sono civili.
Quelle di Marzabotto, di Hiroshima, delle Fosse Ardeatine; quelle dei bombardamenti di Milano, di
Dresda e di tutti gli altri bombardamenti indiscriminati, non mi verrai a dire che quei bombardamenti
servivano : erano solo per rappresaglia. E perché? E’ questo che non vogliamo più . E’ questo che auguro
a chi mi ascolta perché cerchi di capirlo: la guerra non produce nulla
solo distruzione.
(Fine Trascrizione da http://www.pierodasaronno.eu/released/programma.aspx?ID_Programma=123# a cura di Cecchinato Silvio)
Paride BRUNETTI, dopo il '45, proseguì nella carriera militare con il grado di Maggiore fino al 1958 quando,
dopo aver incontrato ostacoli sempre crescenti nell'esercito a causa delle sue posizioni politiche (l'allora
Ministro della Difesa, a suo insindacabile giudizio, bocciò la promozione da maggiore a tenente colonnello)
tornò alla vita civile. Proseguì gli studi laureandosi in ingegneria ed entrando alla Montedison dove lavorò
fino alla pensione. Si trasferì a Saronno dove ricoprì il ruolo di Consigliere Comunale per il Partito
Comunista Italiano. È stato Presidente della locale sede dell’ ANPI. IL 26 maggio 2010 il Sindaco di Padova
Flavio Zanonato gli ha consegnato il Sigillo della Città quale Cittadino Onorario. E’ scomparso il 9 gennaio
2011 all’età di 94 anni.
20

ATTIVITA’ del partigiano BRUNO (Brunetti Paride)
Il 10 ottobre 1943 nella casera “La Spasema” sopra Lentiai-Mel nel Feltrino tre garibaldini
delle ex-Brigate Internazionali di Spagna, con altri, danno vita alla prima formazione
partigiana. Il 7 nov. ’43 nasce il Btg. Garibaldi dedicato a “Boscarin”. Alla fine di nov. 43
assalto fallito alla caserma dei carabinieri di Mel. Per rimediare allo sbandamento il CLN
invia Paride BRUNETTI.
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-
-
4 dicembre 1943 – Trasferitosi nel bellunese (Valle del Mis) prende il comando del primo
nucleo partigiano di montagna della provincia (Buscarin- Boscarin) inaugurato 07 nov. ’43.
Gennaio 1944 – Il nucleo “Buscarin” era composto per lo più da comunisti e si trasferì da
Lentiai fino in Valle del Mis (sulla destra orografica del Piave) e poi ancora in Val Cellina (sulla
sponda sinistra) e da qui in Val Mesazzo dove, 07 genn. ’44, si trasforma in distaccamento
d’assalto “Tino Ferdiani”. Verso la metà di febbraio ’44 il CLN provinciale gli consegno la
bandiera di combattimento che era tricolore. “Bruno” ne assumerà il comando.
Aprile 1944 – Il distaccamento “Tino Ferdiani” si trasforma in Brigata Garibaldi e, Brunetti , ne
assume il comando.
Maggio 1944 – Viene chiamato presso la delegazione triveneta delle brigate Garibaldi e si reca
come ispettore nelle formazioni partigiane del vicentino.
Fine Maggio 1944 – la Brigata Garibaldi Veneto si trasforma in Gruppo Brigate “Nino Nanetti”,
di cui Brunetti viene nominato Vice-Comandante.
Giugno –Dicembre 1944 – Costituisce nel feltrino la brigata “Gramsci” e se ne tiene il Comando.
16 giugno ’44 prende vita la “Nannetti” Comandante “Filippo”, C.S.M. “Milo”.
2 agosto ’44 la “Nannetti” diventa Divisione.
7 Settembre 1944 – Comandante Gruppo Brigate Zona “Grappa”.
01 nov. Costituita la Div. “Belluno” con comando operante dal 27 ottobre (C.te “Franco”,
Comm. “Carducci”).
19 dicembre 1944 – Viene costituito il Comando Zona Piave con due divisioni Garibaldi distinte
(ripartire in 17 brigate): la nuova “Nannetti” per la sinistra del fiume e il Vittoriese e la
“Belluno” per la destra. Esse dovevano agire con le altre due brigate autonome “7° Alpini” e
“Val Cordevole” che facevano parte del “Comando Zona”. Comandante Lucio Manzin (“Abba”)
vice-Comandante, Paride Brunetti “Bruno”, Commissario Giuseppe Landi che sostituì Pasi
arrestato e poi impiccato, Vicecommissario Decimo Granzotto, Capo di Stato Maggiore
Pasquale De Toffol sostituito poi da Costantino Cavarzerani, Ufficio Informazioni Enzo Da Val.
26 febbraio ‘45 – “Bruno” comanda la brigata “Mazzini” dopo l’assassinio dell’ex-comandante
Marino Zanella a Pieve di Soligo, l’arresto di PASI Mario “Montagna”, di Ravenna, ( impiccato nel
Bellunese) e l’arresto di Marcello Serrantoni di Bologna, Capo di S.M. ( fucilato a Padova).
Maggio 1945 – Ritorna al comando zona “Piave” quale Vice-Comandante alla cui testa
partecipa alla Liberazione. Terminò quale Comandante della Piazza di Belluno.
Alcuni comandanti della Brigata “Gramsci”
Brunetti Paride “Bruno” Comandante dal 7 giugno al 10 dicembre 1944
“Cimatti” Commissario politico dal 7 giugno al 15 agosto 1944
Dalla Sega Aldo “Robespierre” - Commissario politico dal 10 dicembre 1944 al 10 gennaio 1945
Parini Giovanni “Barenidi” Commissario politico dal 1º ottobre al 15 gennaio 1945
Stefani Natale “Anto” Comandante dal gennaio 1945
21
Azioni militari
Dai due volumi, Politica e Organizzazione della Resistenza Armata – Atti del Comando Militare Regionale
Veneto – Carteggi di esponenti azionisti (1943-44), a cura di Anna Maria PREZIOS I e Chiara SAONARA, Neri
Pozza editore dic. 1992 pp. 91-96 e 103-6 vol. I° e pp. 196-210 vol. 2° - riporto un elenco delle azioni della
“Gramsci”.
30. «Relazione azioni» delle formazioni dipendenti dalla Divisione "Nannetti". 13 agosto
1944 - IVSR, b. 51, fasc. "Divis. Nannetti". Le firme sono autografe.
6-7.6.44 – Distaccamento “ Ferdiani”: una pattuglia di 6 uomini dopo 15 giorni di marcia , si porta in
Valsugana , attacca e cattura il presidio del Forte Tombion. Usa gli stessi prigionieri per trasportare q.li 30 di
esplosivo nel fornello della galleria ferroviaria della linea Valsugana e la fa saltare interrompendo il
traffico per 5 giorni ostruendo altresì la strada statale. Al rientro la pattuglia porta al suo seguito uomini
reclutati sul posto e in uno scontro elimina due tedeschi.
9.7.44 - Brigata "Gramsci":
Un nucleo di garibaldini disarma il presidio repubblicano composto di sette alpini. Lo stesso nucleo fa saltare
la linea Val Sugana in 4 punti.
12.7.44 – Br. “Gramsci”: Una formazione di 18 garibaldini parte per attaccare il presidio tedesco dislocato
a «le Moline», la marcia di avvicinamento si svolge regolarmente. Giunti nei pressi della località viene
assunta la prestabilita formazione di combattimento. Precedono due compagni con il compito di eliminare le
sentinelle; segue un nucleo con il compito di fare irruzione nel dormitorio; i rimanenti provvedono al blocco
delle strade.Viene intimato alle sentinelle di arrendersi; ma rispondono aprendo il fuoco e ritirandosi verso la
casa dove si trovano i rimanenti soldati. Una sentinella viene uccisa e una ferita. Tutto il presidio si mette in
allarme. I garibaldini prendono posizione e s'inizia da ambo le parti una violenta azione di fuoco. Ad un certo
momento due compagni che erano postati in cima al tetto di una casa scorgono un tedesco che tenta di
eclissarsi. Gli viene sparato contro e rimane ucciso. Visto che la situazione non presentava altra via di
soluzione, il comandante Bruno prepara una carica di dinamite e con la miccia già accesa attraversa la strada
e si dirige verso la caserma, mentre i compagni tengono sotto il loro controllo tutte le finestre. Giunto a pochi
metri dalla porta viene fatto segno da quattro colpi sparati a bruciapelo da un mano uscita dalla porta.
Fortunatamente resta illeso, riesce a ripiegare ed ordina di preparare un'altra carica. I tedeschi però decidono
di arrendersi. Vengono fatti otto prigionieri. Vengono recuperati: un fucile mitragliatore con 1.880 colpi,
undici fucili con 700 colpi e numerose coperte e numerosi zaini.Verso le sei del mattino la formazione, con i
prigionieri carichi del bottino, attraversa la località di Aune in pieno assetto di guerra cantando gli inni
partigiani. La popolazione assiste entusiasta. I prigionieri perché hanno resistito vengono giustiziati.
13.7.44 - Br. "Gramsci": Una pattuglia di quattro garibaldini, di ritorno dall'azione delle "Moline" sostava sul
monte Avena. Minava il pilone più alto della linea ad alta tensione che dalle centrali dell'Isarco va a Velsi.
Alle ore 16 detto pilone veniva fatto saltare. Poi la pattuglia proseguiva indisturbata verso l'accampamento.
16.7.44 - Br. "Gramsci": Viene minato il pilone più alto dell'importante linea ad alta tensione che porta
l'energia elettrica da Vellai a Porto Marghera. Una formazione del Btg. "Zancanaro" parte per attaccare il
presidio tedesco di Ponte Serra, con un colpo di fucile viene fatta precipitare la sentinella dal ponte e
circondata la casa. I tedeschi rispondono con le armi alle raffiche dei partigiani: nella lotta muore
gloriosamente il garibaldino “Cervo”, spintosi avanti per lanciare una bomba. Sopravvenuta una pausa i
22
garibaldini si lanciano decisamente verso la casa, ma la trovano deserta. Vengono recuperati: un fucile
mitragliatore, sei fucili e capi di vestiario.
17.7.44- Br. "Gramsci": Azione contro la casa del fascio di Cismon. Asportazione di tutto il materiale
necessario e distruzione del rimanente. - Cattura del Berardin e del famigerato D'Andrea, fondatori del fascio
di Cismon.
18.7.44- Br. "Gramsci": Una formazione di nove garibaldini del btg. "Zancanaro" compie un'azione di
sabotaggio sulle linee di comunicazione telefoniche telegrafiche che da Feltre vanno a Treviso, i fili sono
stati in gran parte asportati. – Fermato un treno passeggeri sulla linea Belluno-Feltre i partigiani staccano la
macchina che viene fatta deragliare. Interruzione del traffico per 72 ore.
19.7.44- Br. "Gramscí": Una formazione di garibaldini del Btg. "Zancanaro" si dirige verso l'accantonamento
del corpo di guardia della centrale di Pedesalto. Vengono recisi tutti i fili e viene circondato
l'accantonamento. Dopo una sparatoria che rimane senza reazione, viene intimata la resa e nessuno risponde.
I tedeschi si erano eclissati. I garibaldini entrano, asportano tutto il possibile e distruggono il rimanente.
Quattro garibaldini precedendo la formazione, si avviano verso le condutture d'acqua. Viene accesa la
miccia, dopo pochi minuti la tubatura salta e la centrale viene così inutilizzata. La formazione sosta a Faller,
prendendo le dovute precauzioni entra in chiesa dove il parroco rivolge brevi parole e benedice le armi. La
popolazione acclama i garibaldini. La Centrale di Pedesalto alimentava la “Metallurgica di Feltre”. Il lavoro
sarà ripreso solo dopo due mesi. La fabbrica occupava circa 400 operai e operava per i tedeschi.
20.7:44 - Br. "Gramsci": Tre garibaldini si portano nella zona di Busche per sabotare la linea ferroviaria e
danneggiare la locomotiva di un treno di passaggio. Pongono sui binari due cariche di dinamite nel punto
della linea dove passa un viadotto. Appena il treno si ferma, due garibaldini si portano ai lati della
locomotiva e il terzo sale sopra imponendo al fuochista di scendere e di sganciare la locomotiva. Avute le
indicazioni la macchina viene messa in moto dopo avere, previ i tre fischi convenzionali, dato l'avviso a due
elementi del luogo che si trovavano sul viadotto e che avevano il compito di accendere la miccia. La
locomotiva parte, mentre le cariche di dinamite esplodono interrompendo un tratto di binari. La locomotiva
esce così dal binario, corre per una settantina di metri strisciando lungo il parapetto e inclinandosi rimane in
bilico. La linea rimane interrotta, per tre giorni.
22.7.44 - Br. "Gramsci": Una squadra del Btg. "Zancanaro" cattura sulla strada Fonzaso-Feltre un gendarme
tedesco che viene giustiziato. – Una formazione del btg. “Monte Grappa”, venuta a conoscenza che nella
notte dovevano transitare tradotte tedesche, fa saltare la linea della Valsugana in 4 punti. Il traffico è stato
interrotto per 7 ore.
23.7.44 – Br. “Gramsci” : vengono poste 4 mine su di un tratto di binario della linea ferroviaria BellunoFeltre. Prima dell’esplosione sono interrotte le linee telegrafiche e telefoniche del luogo asportandone i fili.
– Viene liberato un garibaldino degente all’ospedale di Feltre in seguito a ferite riportate durante l’azione
contro il famigerato Gasparri.
24.7.44 – Br. “Gramsci”: reparti fanno saltare 150 metri di rotaia della linea Belluno-Feltre. – Viene
giustiziato Zanin Giovanni che, spacciandosi per partigiano, effettuava azioni di banditismo a mano armata.
25.7.44 – Br. “Gramsci”: viene giustiziato Scariot Guerrino il quale, spacciandosi per partigiano, estorceva
denaro dai cittadini.
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26.7.44 – Br. “Gramsci”: viene giustiziato Lorenzi Terzo appartenente alla polizia germanica di Belluno.
- Viene giustiziato il repubblicano Berardin colpevole di spionaggio. 28.7.44- Br. "Gramsci": Una formazione attacca la caserma di carabinieri di S. Silvestro disarmandoli tutti.
Bottino: 14 fucili, 11 caricatori, 14 pistole, coperte e vestiario. Vengono sabotate due linee ad alta tensione
che convogliano la corrente dalla centrale di S. Silvestro a Porto Marghera. Di ritorno dalla zona del
Tomatico sono interrotte anche tutte le linee di comunicazione telefoniche e telegrafiche che da Feltre
portano a Padova con la asportazione di circa 600 metri di filo telefonico.
29.7.44- Br. “Gramsci”: Un nucleo del Btg. “Zancanaro” assale e svaligia nella zona di Primiero una caserma
della milizia forestale. Una altro nucleo del “Zancanaro” mitraglia , presso S. Nicolò d’Arten, un’autocarretta
uccidendo un tedesco e ferendone un altro. 1.8.44 - Br. "Gramsci": Verso le due del pomeriggio, un autocarro pesante carico di tedeschi giunge a Croce
d'Aune. I tedeschi scendono, piazzano le loro armi e in gran parte si dirigono verso la località dove si trovava
la costituenda compagnia "Cairoli". Nella stessa mattinata il Comandante di Brigata Bruno era giunto per
fare un'ispezione. Il Comandante la "Cairoli" era assente. Bruno diede immediatamente ordine al reparto di
trasferirsi in un'altra zona e di trasportare in bosco tutto il materiale. Si forma una squadra di venti uomini
della "Cairoli" e del "Zancanaro" che parte per attaccare da vicino la macchina. Giunge un elemento locale
che comunica di aver visto venire un'altra macchina tedesca dalla parte opposta. Si constata però che l'ultima
informazione era priva di fondamento. Viene aperto il fuoco e i tedeschi ripiegano precipitosamente verso la
macchina. Il fuoco dei partigiani viene allora diretto contro la macchina e i tedeschi si rifugiano in case
civili. Piazzate le loro armi incominciano a rispondere e dopo un paio d'ore ripiegano fino a porsi in zona
sicura. La macchina protetta dal tiro delle mitragliatrici pesanti riesce a portarsi in zona sicura e poi a partire.
Caricati gli uomini fa ritorno, ma lungo la strada viene mitragliata da un'altra nostra squadra che ritornava da
una azione. I garibaldíni non hanno subìto nessuna perdita. I tedeschi parecchi feriti e non si conosce il
numero dei morti. I tedeschi nella fuga hanno abbandonato a Croce d'Aune parecchie munizioni e una canna
di ricambio. Il tutto venne recuperato.
2.8.44 - Br. "Gramsci": Una formazione del Btg. "Zancanaro" e di alcuni elementi della "Cairoli" attacca la
caserma dei gendarmi di Fonzaso. Bottino un fucile mitragliatore con due cassette di munizioni, tre mitra, 25
fucili con alcune migliaia di colpi, 15 pistole, 45 bombe a mano, e numeroso materiale di vestiario ed
equipaggiamento.
3.8.44 - Br. "Gramsci": Una formazione del Distaccamento “De Min” attacca una colonna di tre automezzi
tedeschi. Numerose le perdite avversarie.
31. «Centro Informazioni Provinciale - C.IN.PRO. - Bollettino informazioni settimanale n. 7».
14 agosto 1944
IVSR, b. 51, fasc. «CIMPRO». È siglato G[ianni] e A[scanio].
24
37. «Comando Divisione d'Assalto Garibaldi "Nino Nannetti". Relazione azioni». 20 ago. ‘44
IVSR, b. 51, fasc. "Divis. Nannetti". Le firme sono autografe.
2.7.44 – Brg. "Gramsci" - Elementi del distaccamento "A. Garibaldi" sopprimono nel bar della stazione di
Primolano un maresciallo tedesco.
3.7.44 – Brg. "Gramsci" - Una formazione della compagnia "C. Battisti" assalta la stazione dei CC. di Feltre,
asportando armi, munizioni e altro materiale che in parte viene poi perso dato il pronto inseguimento tedesco
e successivo rastrellamento.
15.7.44 – Brg. "Gramsci" - Una formazione del Btg. "Zancanaro" interrompe tutte le comunicazioni
telefoniche e telegrafiche lungo la strada Feltre - Arten.
16.7.44- Br. "Gramsci" - Una formazione del Btg. "Monte Grappa" interrompe in 13 punti la linea ferroviaria
della Valsugana danneggiandola per circa 13 km e interrompendo il traffico per 2 giorni.
20.7.44 – Br. "Gramsci" - Un nucleo della GAP sopprime il nazifascista Gasparri Commissario del fascio di
Feltre.
4.8.44 - Br. "Gramsci" - I garibaldini Piuma, Cristallo e Nazzari vengono arrestati mentre a bordo di una
autovettura, provenienti da Primiero, si recavano a Croce d'Aune. La notte Nazzari riesce ad evadere. Piuma
e Cristallo vengono fucilati sul ponte di Cesana e poi gettati in acqua.
5.8.44 – Br. "Gramsci" - Viene giustiziato il brigadiere Laudadio Gaetano che era al servizio dei tedeschi.
9.8.44 – Br. "Gramsci" Viene giustiziata Lisetta Sartor, spia a servizio dei tedeschi. In combattimento contro
formazioni tedesche ammontanti a 600-700 uomini in azione di rastrellamento contro le nostre posizioni, il
battaglione "Zancanaro" e il Btg. "De Min" tengono validamente testa per un giorno; infliggono al nemico
numerosissime perdite (circa 100 tra morti e feriti) e ripiegano dopo aver avuto un solo morto ed un ferito
leggero.
10.8.44 – Br. "Gramsci" - Una formazione del Btg. "Monte Grappa" attacca il presidio repubblicano di
Carpené riuscendo a disarmarlo e catturando 8 prigionieri. Bottino: 13 moschetti con 192 colpi, 2 fucili
mitragliatori con 1.100 colpi, 50 bombe a mano, 20 coperte, 4 zaini completi di corredo.
13.8.44 – Br. "Gramsci" - Una formazione del dist. "C. Battisti" attacca vicino alla galleria di Feltre un treno.
9 tedeschi rimangono uccisi nel conflitto che segue. Inoltre viene messa fuori uso una locomotiva e fatti
saltare 20 m di binario.
Morte ai fascisti e all'invasore tedesco! Libertà ai popoli!
Il Commissario di Divisione UGO
p. Il Comandante di Divisione
NIEVO
87. “ Il Comando militare zona Piave al Comando regionale veneto, alle missioni militari alleate e, p.c.,
alle formazioni dipendenti e alla sezione stampa e propaganda - Relazione azioni militari”. 20.4. 1945
4.3.45 – Br. "Gramsci": Il comandante della Brigata e il commissario del gruppo btg. "Feltre", mentre si
trovavano in Feltre per servizio, venivano riconosciuti dal famigerato Scarton, SS al soldo del nemico, che
davanti alla caserma delle SS intimava loro l'alt a pistola spianata. Anto rispondeva con cinque colpi che
25
freddavano la spia, rimanendo però ferito al ventre da alcuni colpi che essa era riuscita a sparare. I due
garibaldini riuscivano a sfuggire ai tedeschi sopraggiunti, fingendo di essere stati aggrediti, urlando "Aiuto!
Sparare là!". Anto perdeva le forze e Gracco caricatoselo sulle spalle attraversava tutta la città portandolo in
salvo.
7.3.45 - Br. "Gramsci": Cattura ed eliminazione di 3 polacchi appartenenti alle FF.AA. germaniche ed
elementi di controbande antipartigiane.
10.3.45 - Btg. "Zancanaro" - Durante una azione di prelevamento ostaggi nei pressi di Pedavena in una
sparatoria tra nostri garibaldini e tedeschi rimaneva ucciso un militare germanico e ferito un altro.
13.3.45 - Btg. "Zancanaro" - Interruzione, mediante brillamento di piloni, delle linee elettriche ad alta
tensione nelle vicinanze di Vellai di Feltre e sul Tomatico.
23.3.45 - Btg. "De Min" - Garibaldíni delle SAP del Btg. attaccavano a distanza di tiro il presidio tedesco di
Villabruna provocando una forte reazione di fuoco avversaria prolungatasi per alcune ore.
Morte al fascismo! Libertà ai popoli!
Il Comando Militare Zona Piave
Il Capo di S.M.
Come sopra ricordato nel febbraio ’45 il Comando Militare Regionale Veneto aveva posto, quale
Comandante della brigata “Mazzini”, Paride BRUNETTI “Bruno” e Commissario Politico Eliseo DA
PONT “Bianchi”. Siccome il passaggio dalla “Gramsci”, al Comando Zona e da questa alla Mazzini
ha avuto delle dinamiche non precisamente datate ho scelto di riprodurre le Relazione Azioni
Militari di ambedue le formazioni. Dopo quella della “Gramsci” ecco quelle della “Mazzini” e
“Tollot”. Nel rapporto non sono citati i nomi del comandante, del commissario politico e di altri
combattenti nel frattempo caduti o prigionieri: questa precauzione serviva a impedire che i
nazifascisti venissero a conoscenza dei ruoli svolti e di quelli in essere tra le file partigiane. Negli
atti del CMRV se ne può trovare una conferma nelle pp. 109-11 dove si comunica “Ecco quanto,
cosa e come sanno le autorità politiche e di polizia in riguardo ai problemi di cui sotto”(…) cioè sugli
assetti e consistenza delle formazioni partigiane e dai quali emergono lacune opportune e
necessarie per la sopravvivenza delle stesse.
DOCUMENTI Comando Militare Regionale Veneto - POLITICA E ORGANIZZAZIONE DELLA
RESISTENZA ARMATA ( da - Politica e Org. della Resistenza Armata vol. II° - Atti – pp. 205/209)
87. “Il Comando militare zona Piave al Comando regionale veneto, alle missioni militari
alleate e, p.c., alle formazioni dipendenti e alla sezione stampa e propaganda – Relazione
azioni militari”.
Brigata "Mazzini":
26.2.45 - Un nostro reparto al comando del Comandante di Brigata, attaccava in località Cison di Valmarino
il presidio repubblicano della forza di circa 120 uomini, dotato di 3 mitragliatrici pesanti, alcuni
mitragliatori, un mortaio da 81 e uno da 45 MM. Dopo una violenta azione di fuoco i nostri si sganciavano
26
ordinatamente. Perdite inflitte al nemico: 3 morti - 15 feriti gravi; una mitragliatrice pesante messa fuori uso
e probabilmente qualche mitragliatore. La caserma è provvisoriamente inabitabile. In seguito all'azione si
verificavano alcuni casi di diserzione. Da parte nostra cadeva garibaldino “Bose” ( trattasi del partigiano
slavo Bozidar MARTINOVIC, ndr.)
27.2.45 - Il 28 mattina formazioni fasciste ammontanti a circa 500 uomini si portavano nella zona del passo
S. Ubaldo per effettuare un rastrellamento. Il combattimento ingaggiatosi con le nostre formazioni del Btg.
"Fulmine" e del Btg. "Danton" si sviluppava in due settori: 1° settore: Nella notte dal 27 al 28 i garibaldini
del Btg. "Fulmine", già in stato di preallarme, occupavano le postazioni precedentemente stabilite. Verso le
ore 6 del giorno 28 un reparto di circa 200 alpini, provenienti dalla Scaletta, si era portato fin sotto le nostre
postazioni. Veniva subito aperto il fuoco da parte nostra con una mitraglia pesante, un mortaio leggero e
alcuni Bren. Il nemico, sorpreso, cominciò a vacillare e, senza reagire, iniziò il ripiegamento, costantemente
inseguito dal fuoco delle nostre armi. Nel passaggio obbligato della Scaletta, il nemico si dava in preda al
panico, abbandonando sul terreno morti, feriti e armi. Il recupero di detto materiale veniva ostacolato dal tiro
di mortai pesanti iniziatosi subito dopo da parte nemica. Un'altra colonna nemica, verso le ore 7, riusciva a
superare il passo di S. Ubaldo; anche contro questa veniva aperto il fuoco delle nostre armi. Il nemico si
rifugiava dentro a delle case, da cui incominciava la reazione. Il Btg. "Fulmine" schierava in linea altre armi.
Il nemico veniva inchiodato sulle posizioni raggiunte e aveva inizio una vera caccia all'uomo. I garibaldíni
alternavano le raffiche con grida di scherno contro il nemico terrorizzato. Verso le ore 11 una colonna di
fascisti, che ripiegava dopo aver combattuto contro le formazioni del Btg. "Danton" e della Brigata "Tollot",
veniva investita dal fuoco preciso delle nostre armi e si sbandava. La schermaglia continuava fino a sera
quando il nemico, con il favore dell'oscurità, riusciva a ripiegare. Ottimo il comportamento di tutti i
garibaldini. La missione americana, ospite di detto Btg., ha partecipato a tutte le fasi dell'azione,
distinguendosi. Perdite nostre: nessuna.
2° settore: Nella notte dal 27 al 28 febbraio le formazioni del Btg. "Danton" (12 uomini) venivano messe in
stato di allarme e occupavano insieme alla Brigata "Tollot" le postazioni prestabilite, con due Bren e una
pesante. Verso le sei del mattino la postazione di un Bren individuava il nemico che, col favore dell'oscurità,
era riuscito a portarsi a distanza ravvicinata. Il garibaldino Gianni apriva subito il fuoco col suo
mitragliatore, infliggendo le prime perdite al nemico. Anche l'altro mitragliatore, dopo essersi spostato,
entrava in azione. Si iniziava così un serrato combattimento fra i nostri 8 garibaldini e le formazioni nemiche
che tentavano invano di avanzare. In questo periodo viene colpito a morte il garibaldino Libero della
"Tollot", mentre portava delle munizioni, che cominciavano a scarseggiare. Verso le ore 8 di giocoforza
iniziare il ripiegamento perché il nemico era riuscito a portare la minaccia sui fianchi. I garibaldini Angelo e
Asia, vista l'impossibilità di ripiegare, combattevano eroicamente, fino a quando cadevano sopra alla propria
arma. Il garibaldino Gianni, protetto dal tiro della pesante, riusciva invece a ripiegare, mentre altri fascisti
cadevano sotto il tiro della stessa. In seguito tutti gli elementi del Btg. "Danton" si affiancavano alle
formazioni della "Tollot", continuando l'azione. Verso le ore 11 il nemico ripiegava. Eroico il
comportamento dei garibaldini Asia e Angelo. Degno del più alto elogio quello del garibaldino Gianni e di
tutti i componenti del Btg. "Danton". Perdite nemiche: 50 morti - 150 feriti. Numerosissime diserzioni. Le
formazioni fasciste del Trevigiano hanno ricevuto un colpo gravissimo dal quale non si sono più riavute. Il
prestigio delle formazioni garibaldine si è enormemente accresciuto.
5.3.45 - Tre garibaldini del Btg. "Amedeo" prelevavano la spia Copparin. In seguito alla sua resistenza
opposta a seguire i garibaldini e data la vicinanza di presidi nemici, veniva giustiziato sul posto.
12.3.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" si portava nella zona del Fadalto per effettuare un'azione di
mitragliamento stradale. A1 sopraggiungere di un automezzo tedesco veniva aperto il fuoco con una bezuca
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(sic) e sten. Nessuna reazione da parte avversaria; la macchina veniva posta fuori uso. Perdite nemiche:
alcuni morti e feriti.
16.3.45 - Due garibaldini appostatisi in agguato catturavano una spia al servizio dei tedeschi, che veniva
giustiziata dopo regolare processo.
18.3.45 - Il Btg. "Fulmine" minava una casera da lui occupata, prima di abbandonarla. Formazioni tedesche,
durante un'azione di rastrellamento, facevano esplodere detta mina mentre si accingevano ad effettuare una
ricognizione in detta casera. Perdite nemiche: 1 ufficiale e due soldati morti, alcuni feriti.
24.3.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" si portava nella zona del Fadalto per effettuare un'azione di
mitraglíamento stradale. A1 giungere di due macchine tedesche, apriva il fuoco con una bezuca e sten.
Nessuna reazione da parte avversaria. Le due vetture sono state messe fuori uso. Perdite nemiche: un
maggiore tedesco morto, 7 soldati feriti gravi, 4 leggeri.
26.3.45 - Una nostra pattuglia del Btg. "Danton" si scontrava con una pattuglia avversaria e apriva
immediatamente il fuoco. Perdite nemiche: 1 morto. Nessuna perdita da parte nostra.
28.3.45 - Una squadra del Btg. "Danton" si portava nei pressi di Pieve di Soligo per effettuare un'azione di
mitragliamento stradale. A1 giungere di una macchina tedesca con rimorchio, apriva il fuoco con un
mitragliatore, sten, bombe a mano. La macchina e il rimorchio rimanevano danneggiati. 1 morto e un ferito
tedeschi. 28.3.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" interrompeva la linea telefonica V. Veneto-Belluno,
asportando 25 metri di filo.
28.3.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" attaccava sulla rotabile del Fadalto una macchina tedesca,
mettendola fuori uso e causando al nemico le seguenti perdite: 5 morti.
1.4.45 - Due garibaldini del Btg. "Danton" catturano nel paese di Miane un sergente della gendarmeria
tedesca, che viene giustiziato, dopo regolare processo. 1.4.45 - Una pattuglia del Btg. "Fulmine" arresta nei
pressi di Valmarino la spia nazifascista Simeoni Italo, che veniva giustiziato dopo regolare processo.
1.4.45 - Una squadra del Btg. "Amedeo" partita con il compito di sabotare le linee di comunicazione
telefoniche al servizio del nemico, si portava sulla stretta di Quero e abbatteva 5 pali di una linea permanente
telefonica. Asportava inoltre circa 20 metri di una linea volante tedesca.
2.4.45 - Il garibaldino Noris del Btg. "Fulmine" mentre si recava in missione speciale, disarmato, veniva
aggredito da un soldato tedesco che gli toglieva l'orologio, il portafogli e altri oggetti. Compiuto l'atto di
brigantaggio, il tedesco veniva assalito dal nostro garibaldino che riusciva a disarmarlo. Con l'intervento di
due compagni territoriali, veniva fatto prigioniero e quindi giustiziato.
2.4.45 - Una squadra di garibaldini del Btg. "Danton", appostatisi nei pressi di Pieve di Soligo, catturavano
due tedeschi armati di Mauser. Tradotti al Comando di Btg. venivano giustiziati dopo regolare processo.
2.4.45 - Una pattuglia del Btg. "Amedeo" partita con il compito di sabotare le linee di comunicazione
telefoniche partenti dai comandi tedeschi dislocati in Valdobbiadene, si recavano in località S. Giovanni e
interrompevano una linea tedesca a 4 cavi, asportandone circa 1500 m..
3.4.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" postasi in agguato nei pressi di Sterk, mitragliava sulla strada due
macchine tedesche colà di passaggio. Nessuna reazione da parte avversaria. Perdite nemiche accertate: morti
5, feriti gravi 8. Le due macchine fuori uso.
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3.4.45 - Una squadra del Btg. "Amedeo" arrestava e giustiziava dopo regolare processo le spie nazifasciste
Malacort Antonio e Bortolin Maria.
3.4.45 - Una squadra del Btg. "Amedeo" portatasi in località Col S. Martino per azione economica, si
imbatteva in una pattuglia tedesca di tre elementi che venivano fatti prigionieri. Successivamente venivano
giustiziati dopo regolare processo.
4.4.45 - Una squadra del Btg. "Amedeo" constatato il passaggio frequente di uomini e mezzi nemici, minava
il ponte di Vas, facendolo crollare. Crollavano due arcate per la lunghezza di m. 30.
5.4.45 - Una pattuglia del Btg. "Fulmine", mentre effettuava una ricognizione sul terreno sulla strada
Lentiai-Mel, per una azione progettata, si imbatteva in un maresciallo tedesco accompagnato da una sua
collaboratrice. Il maresciallo veniva catturato insieme alla collaboratrice e soppresso sul posto, avendo
tentato la fuga. La donna, accompagnata al Comando di Btg. e constatata la sua collaborazione con il
nemico, veniva giustiziata.
Brigata "Tollot":
14.3.45 - Due garibaldini sulla strada Longhere-Revine uccidevano un ufficiale tedesco e ferivano un
soldato.
15.3.45 - Tre garibaldini con due mitragliatori compivano una azione di mitragliamento sulla strada V.
Veneto-Fadalto, provocando l'interruzione dei lavori notturni di ríattamento della strada.
16.3.45 - Durante il rastrellamento massivo dei giorni 16-20 marzo una puntata di forze tedesche tentava
sorprendere il Btg. "Gandin". I garibaldini atteso che il nemico si portasse ad una cinquantina di metri, lo
attaccava a bombe a mano e a raffiche di Sten. In seguito, data la superiorità numerica nemica, il Btg. si
sganciava. Imprecisato il numero delle perdite nemiche. Nessuna perdita da parte nostra. 18.3.45 - Un
garíbaldino del Btg. "Gandin" scontratosi con due elementi della Mas, li uccideva ambedue con una raffica di
sten.
20.3.45 - Due garibaldini del Btg. "Gandin" prelevavano una spia in località Marziai di Quero-Vas e la
consegnano alla Brigata "Mazzini".
21.3.45 - Viene giustiziata la spia Toffoli Bruno che lavorava al servizio del capitano Pillon.
3.4.45 - Quattro garibaldini catturano due soldati tedeschi sopra Longhere. Ricuperati un fucile
semiautomatico e un Mauser.
3.4.45 - Due garibaldini del Btg. "Gandín" impediscono il passaggio di macchine nella strada comunale V.
Veneto-Revine, facendo azione di disturbo con un mitragliatore.
4.4.45 - Una squadra di sabotatori fa saltare il ponte di Savassa sulla strada nazionale V. Veneto-Fadalto.
L'azione è stata completata da un mitragliamento notturno. Risultati: il ponte saltato completamente. Non si
conosce l'esito del mitragliamento.
5.4.45 - All'alba una squadra di territoriali mitraglia con un bren e una mitraglia pesante un gruppo di 20
macchine che si era accumulato in prossimità dell'interruzione del ponte di Savassa. Qualche macchina
danneggiata. Durante il giorno, per impedire il lavoro di riattivazione del ponte, garibaldini isolati hanno
compiuto azione di disturbo, ottenendo lo scopo. L'interruzione ha perdurato per 60 ore. 13.4.45 - Venuti a
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conoscenza che a Trichiana si stavano concentrando forze tedesche, con il compito di presidiare il passo di S.
Ubaldo veniva deciso di operare immediatamente una interruzione di detto passo, allo scopo anche di precisare l'interesse che i nostri nemici hanno per questa via di comunicazione. Alle ore 13.30 il Btg. "Piol" al
completo faceva brillare la mina nella seconda galleria, dopo aver lavorato dall'alba per il trasporto e la
sistemazione dell'esplosivo, nonché per le misure di sicurezza. Il risultato è stato soddisfacente. Si presume
che la strada non sia riattivabile per almeno una settimana.
ONORIFICENZE
Medaglia d'argento al valor militare
Medaglia di bronzo al valor militare
Croce di guerra al valor militare
Bronze Star Medal
Il generale Mark Wayne Clark gli conferì la “Bronze Star Medal”.
Cittadino onorario di Feltre .
Sigillo della Città di Padova 2010.
Civica benemerenza "La Ciocchina" del Comune di Saronno nel 2003
Per la sua attività partigiana fu decorato dal generale Mark W. Clark , della 5ª Armata USA, della “Bronze
Star Medal”, una prestigiosa e limitata decorazione assegnata a soli altri 52 italiani tra i quali a Ferruccio
Parri e a Raffaele Cadorna Jr , comandante del Corpo volontari della libertà (CVL) e nel 1947 dal Presidente
del Consiglio Alcide De Gasperi della Medaglia d'argento al Valor Militare. L'annessa motivazione così, tra
l'altro, recitava: "Partigiano attivo, coraggioso ed instancabile, (...) raggiungeva a tappe forzate una lontana
località e, dopo aver disarmato il presidio nazifascista di guardia ad un forte, impiegava l'ingente
quantitativo di esplosivo trovato per minare la galleria del Tombion e, fatto brillare la poderosa mina,
provocava l'interruzione della linea ferroviaria Bassano-Trento. Di ritorno dalla audace impresa (...)
distruggeva con altre mine (la cabina elettrica di uno stabilimento metallurgico (...) attaccava un presidio
tedesco e (...) ne determinava la resa. (...) (Belluno, Val Sugana, giugno-luglio 1944). "
Una seconda medaglia d’Argento al Valore Militare fu conferita a Paride Brunetti “Bruno” quale
Comandante della Brigata “Mazzini”.
30
Bibliografia di alcune delle Fonti consultate
Intervista video su http://www.pierodasaronno.eu/released/programma.aspxID_Programma=123#
(A) – Ernesto BRUNETTA, Dal fascismo alla Liberazione, Ist. Storia Resistenza Tre Venezie 1977
(B) - Daniele CESCHIN, La lunga estate del 1944-Civili e partigiani a Farra di Soligo e nel Quartier
del Piave Comune di Farra, ed. ISTRESCO marzo 2006 p. 84
(C) – GADDI Giuseppe, Ogni giorno tutti i giorni, pp. 103/12 ed. Vangelista - 197
(D) - GIROTTO Luca, FORTE TOMBION la sentinella del Canale di Brenta, ed. Litodelta (TN)-2008
(E) – IL GRUPPO “FRAMA” - in TRIANGOLO ROSSO n. 1 – 2 gennaio/marzo 2008, pp. 30 – 41
(F) – MASIN Lino, La Lotta di Liberazione nel Quartier del Piave e la Brigata MAZZINI, ANPI-TV 1989
(G) - SAONARA Chiara , EGIDIO MENEGHETTI Scienziato e Patriota Combattente per la Libertà, Ist.
Veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea – pp. 115/6/7 CLEUP Padova 2000 – a cura di
Anna Maria PREZIOSI e Chiara SAONARA v. Politica e Organizzazione della Resistenza Armata – Atti del
Comando Militare Regionale Veneto – Carteggi di esponenti azionisti (1943-44), Neri Pozza editore dic.
1992
(H)- SITTONI Giuseppe, Uomini e fatti del Gherlenda , ed. Croxarie - Strigno 2005, edizione on line.
E’ grazie alla ricerca - testimonianza di SITTONI che è emerso, anche, l’assassinio di due militari inglesi per mano delle SS
perpetrato in Borgo Valsugana il 20 dic. 1944. Dobbiamo, però, ad altri l’avere ricostruito la storia di un altro caduto “di colore” che,
nell’immediato dopoguerra, venne confuso con un “ufficiale medico sudafricano”, con un “negro americano caduto combattendo a
fianco dei fratelli bianchi” o un “americano di origine africana”. Oggi quel caduto ha un nome e una storia: si trattava di Giorgio
MARINCOLA, un italiano di madre somala, trucidato a Stramentizzo (TN) in Val di Fiemme. Alla Sua vicenda umana e militanza è
stato dedicato un libro e una recensione in La Repubblica. Giorgio Marincola fu sia l’unico figlio delle colonie italiane partigiano che
uno tra gli ultimi caduti nella guerra di Liberazione. Egli era nato in Somalia a pochi chilometri da Mogadiscio da padre calabrese e
madre somala: una donna bellissima che non poté seguire il militare in Italia. La vita italiana di Giorgio e della sorella Isabella
iniziò prima a Pizzo Calabro e poi a Roma dove, al Liceo, ebbe come docente Pilo Albertelli uno dei promotori del Partito d’Azione
poi vittima nelle Fosse Ardeatine. Come partigiano, Giorgio, partecipò ad attacchi ai mezzi tedeschi, a sabotaggi e a scontri armati
nel Viterbese. Liberata Roma si arruolò nei Corpi Speciali inglesi con il pseudonimo di “Mercurio”. Inviato nel Biellese partecipò al
sabotaggio di una linea ferroviaria e a scontri a fuoco sino all’arresto in un rastrellamento nel gennaio del ’45. Costretto a fare
propaganda dalla radio nazifascista si rifiutò subendo torture. Internato nel Lager di Bolzano sopravisse fino alla Liberazione per
riprendere le armi contro le colonne naziste che compivano stragi durante la ritirata. Ingannato dai nazisti, che si erano avvicinati a
Stramentizzo alzando una bandiera bianca, cadde colpito alle spalle a tradimento: erano passati 10 giorni dal 25 aprile 1945!
COSTA - L. TEODONIO, Storia di Giorgio Marincola (1923-45), ed. Iacobelli 2008 –
- Carlo
(H) - H.W. TILMAN, MISSIONE “SIMIA” un maggiore inglese tra i Partigiani, pp. 25-36, BL1981
(I) - VENDRAMINI Ferruccio, Il Mov. di Liberazione in Provincia Belluno, Ist. Stor. Bell.R.,BL’86
(J) - ZACCARIA Giuseppe , Concetto Marchesi e l’Università di Padova, Ed. CLEUP - PD – 2007
(L) - ZAMBONI Adolfo, Il Comitato di Liberazione Nazionale della Provincia di Padova, pp. 23/24-33/34
- Zanocco Editore - Milano 1° edizione 1947 – 2° edizione 1972
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Allegati
(A)
Con Marchesi da Padova a Milano
Nell’aprile del 1943, al ritorno dalla Russia con questa nuova consapevolezza, presi
contatti con un ufficiale di complemento di Verona, Pio Magi, che aveva legami con
antifascisti organizzati grazie ai quali, tornato a Padova, potei conoscere Marchesi e
Meneghetti. Dopo l’8 settembre 1943 rimasi a Padova come rappresentante militare del
Pci fino a quando Amerigo Clocchiatti, dirigente comunista e rappresentante delle
formazioni garibaldine nel Veneto, pensò di utilizzarmi nel bellunese, prima al comando
del Distaccamento “Boscarin” e poi della Brigata “Gramsci”.
Il commissario Manlio Silvestri (“Monteforte”), che aveva combattuto in Spagna nelle
file repubblicane, alla sera, alla luce di una lampada ad acetilene, ci leggeva brani del
Manifesto di Marx da fogli ciclostilati unti e bisunti. Nel periodo passato a Padova il mio
ricordo di Marchesi è vivissimo: lo incontravo al Liviano, sede della facoltà di Lettere e
filosofia, dove aveva un ufficio e dove lo avvicinavano anche i suoi studenti, o “scolari”,
come lui amava chiamarli. Marchesi era molto amato e rispettato a Padova. Era stato
nominato rettore dell’Università dopo il 25 luglio dal ministro Severi del governo
guidato da Badoglio. Ma dopo l’8 settembre era stato confermato dal ministro della
Repubblica sociale Biggini, che abitava a Padova nello stesso palazzo di Marchesi.
Concetto Marchesi nel suo famoso proclama agli studenti spiegò: “Sono rimasto a capo
della vostra Università finché speravo di mantenerla immune dalla offesa fascista e dalla
minaccia tedesca; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di
proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio e
al segreto…”. La sua permanenza come rettore gli consentì di aprire il nuovo anno
accademico pronunciando il 9 novembre 1943 un memorabile discorso con il quale
dichiarava aperto l’anno accademico 711° dell’Università padovana “in nome di questa
Italia dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati”. Esso irritò moltissimo i tedeschi, già
adirati per la mancata concessione di alcuni locali dell’Università, chiesti inutilmente
per impiantarvi una stazione radio. Il partito comunista dal canto suo non vedeva di
buon occhio la permanenza di Marchesi al rettorato, dal momento che appariva chiaro
che i fascisti strumentalizzavano a fini propagandistici la sua permanenza nell’incarico.
Verso la fine di novembre Marchesi, a cui Amerigo Clocchiatti per conto del Pci aveva
intimato inutilmente di dimettersi, avendo saputo (probabilmente dallo stesso ministro
Biggini) che i tedeschi erano intenzionati ad arrestarlo, decise di abbandonare il
rettorato.
Furono giorni duri e sofferti, vissuti con la fede nella vittoria
Il 23 novembre, dopo alcune ore passate nella farmacia di Oreste Bareggi, in via del
Santo, si recò in casa del prof. Lanfranco Zancan, in via C. Battisti, 98. La casa del prof.
Zancan non era per niente sicura, dato che questi era uno dei più attivi rappresentanti
del Movimento di Liberazione a Padova fin dalle origini. Pertanto, dopo una visita di
Felice Platone, si stabilì che egli si recasse in casa di Leone Turra, responsabile del Pci
nella provincia di Padova, in viale Codalunga, 6, che era più appartata e meno sospetta.
32
Marchesi in quella casa rimase nascosto fino al 29 novembre, data in cui per
disposizione di Amerigo Clocchiatti mi ci recai anch’io con l’incarico di accompagnarlo
a Milano. Quel giorno stesso egli scrisse il famoso proclama agli studenti, che poi fu
stampato e diffuso in migliaia di copie nella tipografia di Remo Turra, fratello di Leone,
con la data del 1° dicembre 1944, per motivi di sicurezza. Dunque il giorno 29 novembre
Marchesi partì accompagnato da me in treno per Milano, praticamente senza bagagli,
che gli furono recapitati in seguito dal prof. Franceschini. Per ovvie ragioni di sicurezza,
egli da allora assunse il nome di avv. Antonio Martinelli e fu dotato delle relative carte
(probabilmente confezionate dall’ing. Antonio Frasson, che operava nascosto nel
monastero di Santa Giustina). Per farlo abituare alla sua nuova identità lo mettemmo
svariate volte alla prova: alla domanda sulla sua professione, sbagliò più volte
rispondendo “professore”, dimenticando che ormai egli era “avvocato”, l’avvocato
Antonio Martinelli. Prima di partire a tarda sera, mangiammo le ottime tagliatelle
preparateci dalla sig.ra Turra. Il viaggio, pieno di pericolose incognite, si svolse senza
intoppi. Marchesi, che aveva quasi sessantasei anni di età, era teso ma energico e
determinato. A Milano arrivammo a notte avanzata. Il nostro appuntamento con il prof.
Franceschini era fissato per la mattina successiva in piazza S. Ambrogio, davanti
all’Università Cattolica, dove egli insegnava. C’era dunque il problema del
pernottamento. Dopo una breve ricerca sempre vicino alla Stazione Centrale, trovammo
posto in un albergo semidiroccato. Marchesi si sistemò in uno stanzino con un letto, io
mi adattai alla meno peggio su un materassino sistemato nella vasca da bagno. Anche se
molto malandato, l’albergo ospitava una compagnia di avanspettacolo con numerose
ragazze. Marchesi non perse tempo a familiarizzare con loro e instaurò una
conversazione che si protrasse amabilmente fino alle ore piccole. Al mattino ci recammo
all’appuntamento stabilito dove il prof. Franceschini era già ad attenderci. Egli, per così
dire, “prese in consegna” Marchesi per accompagnarlo dal suo editore Principato.
Seppi poi che, tramite il rappresentante del suo editore, Alberto Violi Zuccoli, trovò un
alloggio a Camnago Lentate, presso il parroco Vittorio Branca. Ma quel soggiorno fu
breve e tempestoso, e si concluse con una arrabbiatura di Marchesi, che preferì andare a
stare a Milano, fino a quando, essendo ricercato dai repubblichini, cautela non impose
che egli passasse in Svizzera. Io feci ritorno a Padova in treno e pochi giorni dopo fui
assegnato alle nascenti formazioni partigiane del Bellunese, nelle quali, con la mia
esperienza militare, assunsi funzioni di comandante. Furono tempi duri e sofferti, ma
vissuti con la fede nella vittoria. Per me ci fu anche qualcosa di più, che mi avrebbe
allietato tutta la vita. Un giorno, nel maggio del 1945, mentre mi trovavo alla Trattoria
“La Scarpetta” in attesa di Marchesi, che vi si recava di consueto per la colazione,
venne a cercare “il professore” una biondina, sua ex allieva da poco laureata, per
chiedergli consigli. Marchesi me la presentò, elogiandola come una sua diligente
scolara. Ebbene, quella presentazione ebbe un seguito felice, che dura tutt’oggi. Infatti,
la biondina è divenuta mia moglie e con me ha condiviso le gioie e le difficoltà della vita.
Concetto Marchesi, ormai divenuto deputato all’Assemblea Costituente, ci inviò per le
nostre nozze questa lettera beneaugurante che porto sempre con me, come una reliquia
preziosa.
Da Triangolo Rosso n. 1-2 gennaio-marzo 2008 pagg. 34-36
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Ho scelto, al fine di non ridurre la ricerca ad una celebrazione acritica dell'operato di Paride Brunetti, di
riportare dei rilievi dal punto di vista militare del maggiore Tilmann dove, accanto alla esaltazione della
combattività di Brunetti Bruno, ne vengono anche sottolineati alcuni limiti.
LA OPINIONE DEL MAGGIORE TILMAN
La Brigata ospitò per un lungo periodo una missione ”SIMIA”, nome di una radio del SOE (“Special
Operation Executive”) britannico con la collaborazione del SIM (Servizio Informazioni Militari del Regio
Esercito). La missione era composta per il SOE dal Maggiore britannico Harold William Tilman e il
tenente John H. Ross; per il SIM il tenente Vittorio Gozzer “Gatti” (fratello del capitano Giuseppe
Gozzer) quale interprete, e il radiotelegrafista Antonio Carrisi “Marino Marini” . Brunetti fu coinvolto
nella organizzazione della difesa delle formazioni partigiane durante il drammatico rastrellamento
nazifascista del Monte Grappa, avvenuto tra il 20 e il 29 settembre 1944. Giustamente Egli cita con
orgoglio il ruolo svolto, che qui riporto: “Rimango, forse, l’unico comandante il quale, ad un certo
momento, ha deciso di non dare il “si salvi chi può” scegliendo di combattere. Mi sono messo dietro a
una mitragliatrice sparando fino all’imbrunire senza subire alcuna perdita . Sul Grappa ci sono stati,
circa, 170 impiccati e 500 morti: lo ripeto, io non ho avuto nessun caduto perché ho combattuto,
tenendoli a bada, sparando! Loro avevano bloccato i sentieri principali sulla montagna dove, di notte,
avevano acceso dei fuochi e piazzato delle mitragliatrici: noi siamo filtrati in mezzo! Credo, anzi, che
ci abbiano anche sentito mentre stavamo uscendo dall’accerchiamento ma, al buio, per loro era
rischioso entrare nel bosco perché ci temevano. Per dare un’idea , nella mia zona, ho fatto fuori 17-18
presidi . L’ultima brigata che hanno attaccato è stata la mia, ma hanno avuto paura di morire anche
loro”. Va precisato, come già scritto nel testo, che lo “sganciamento” di Brunetti avvenne tre giorni dopo
l’attacco (si presume il 23 settembre ’44). Per ricostruire il contesto ritengo utile rileggere quanto il
maggiore inglese H.W. Tilman aveva scritto nel 1946 nel suo, Quando gli omini e le montagne si
incontrano; dove esalta lo spirito combattivo di “Bruno” e le sue virtù umane e militari… “Bruno, il
comandante della brigata, era un uomo di forte personalità, rispettato e amato dai suoi uomini. Era un
ex ufficiale di artiglieria ma, essendo stato utilizzato solo in unità contraeree, non aveva alcuna
esperienza di tattiche di fanteria e di combattimento. La sua brigata era ben organizzata e disciplinata
e le armi, per quel che erano, tenute con molta cura”. (…) Dopo lo sganciamento dall’accerchiamento
sul Grappa, scrive Tilman …Era in gioco l’onore della Brigata Gramsci; la disfatta dei partigiani sul
Monte Grappa doveva essere vendicata.. e questo spinse “Bruno” a privilegiare lo scontro diretto in
prima persona in occasione dell’assalto alla malga del comando ( “L’unica validità di Pietena era quella
di essere un terreno di lancio”) anziché sganciarsi per una ennesima volta… “Bruno, con la luce della
battaglia negli occhi, prestò poca attenzione alla mia domanda su cosa si proponesse di fare. Il
suggerimento che gli diedi, che in quel momento non era il caso di trastullarsi con una mitragliatrice
(…) cadde inascoltato”. Il giudizio che Tilman esprime (a pag. 31) è severo: “Bruno, che era come un
mangiatore di fuoco, aveva un unico pensiero e piano in testa: “combattere fino all’ultimo uomo e
all’ultimo colpo”. (Quelle parole)… ”Le avevo sentite ancora in precedenza, ma mai in connessione con
la guerra partigiana, poiché in tal caso espressioni come “la perdita di terreno e di posizioni” non
dovrebbero significare nulla. La funzione dei partigiani era di rimanere intatti, come una forza di
combattimento costituita semplicemente dal loro stesso esistere e fatta di puntate occasionali a mò di
minaccia costante, contro cui il nemico fosse costretto a mantenere sempre occupate delle truppe, che
avrebbe potuto invece impiegare altrove con maggiore frutto”.
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Ma leggiamo l’Allegato che segue.
( Allegato B)
CON LA BRIGATA GRAMSCI
Le Vette è un altipiano alto ed erboso (circa 7000 piedi). A nord esso si presenta con una facciata alta e
dirupata di roccia marcia, su cui si può salire solo per un difficile sentiero, mentre dalle altre parti ci
sono solo quattro possibili vie di accesso. La cima è un'ampia depressione simile ad un catino, divisa in
due parti da un crinale alto ed erboso che corre da nord a sud. Ad eccezione di pochi massi erratici essa
è completamente spoglia di alberi, cespugli o qualsiasi cosa che possa dare una copertura. A prima vista
i suoi accessi scarsi e facilmente difendibili sembrano farne una postazione partigiana ideale. In realtà
essi danno un senso di sicurezza piacevole ma interamente fasulla. Le vie di entrata sono
necessariamente anche le vie d'uscita e, se queste sono bloccate, ogni libertà di manovra, il sine qua non
della guerra partigiana, è finita. Mentre salivamo lentamente con passo pesante gli ultimi ripidi zig-zag
della mulattiera, ci fu improvvisamente intimato l'«Alt» da un inglese inconfondibile, vestito da
partigiano con abiti frusti e del tutto comuni. Egli risultò essere un prigioniero di guerra riuscito a
fuggire, e questo era il posto di blocco che difendeva l'accesso principale alle Vette. Sotto una tettoia di
lamiera c'erano altri dieci Inglesi, tutti prigionieri di guerra fuggiti, che erano rifluiti in blocco nella
Brigata Gramsci. Formavano un piccolo distaccamento a sé con l'illustre nome di «Churchill Company».
Dei molti prigionieri inglesi che erano scappati al tempo dell'armistizio italiano, alcuni erano stati
ricatturati, molti vivevano presso famiglie italiane, pochi erano fuggiti attraverso la Jugoslavia, e alcuni
si erano uniti ai partigiani. Naturalmente furono sorpresi e felici di vederci e ci interrogarono con
grande interesse ed attenzione soprattutto sulla probabile durata della guerra, perché erano indecisi se
tentare o meno di passare nelle nostre linee. Il nostro consiglio fu di rimanere. Pensavamo che anche nel
caso che l'atteso sfondamento da parte alleata non avesse luogo e che quindi non ci fosse nessuna ritirata
tedesca, quasi sicuramente l'andamento della lotta sarebbe diventato più fluido e sarebbe quindi stata
un'impresa più semplice passare allora attraverso le linee. Il posto di blocco era collegato con una linea
telefonica all'H. Q, della brigata, alla distanza di circa 10 minuti di strada. Fu riferito che eravamo
arrivati e ottenemmo il permesso di passare. Gli arrivi sospetti e molto improbabili, come nel nostro
caso, venivano sempre fermati al posto di blocco finché non si era accertata la bona res dei nuovi venuti.
Spie ed informatori abbondavano, infatti, e, quando venivano scoperti, non gli si dava grazia. Era
impressionante sapere quanti ce n'erano. Se ne scoprì perfino tra le file partigiane e non ci si poteva
fidare di nessuno, che non fosse conosciuto personalmente. L'eliminazione sistematica delle spie e degli
informatori in città e paesi continuò per tutto il periodo della lotta partigiana e si strappavano loro le
informazioni a forza, prima di fucilarli. C'erano circa 300 partigiani sopra Le Vette. Un H.Q. molto
numeroso viveva a Pietena in una lunga costruzione di sassi, coperta di lamiera, ricovero per le mucche
(una malga, com' essa era chiamata). Il Battaglione di nome Zancanaro viveva in un'altra malga,
nell'altra metà del catino montuoso al di là del crinale; e il Battaglione Battisti stava a due-tre miglia di
distanza ad est, per controllare l'accesso da quella parte. La stessa Divisione Nannetti, e le sue brigate e
i suoi battaglioni, erano tutti denominati con nomi di eroi del Risorgimento, come Mazzini, Bixio,
Pisacane, Cairoli; o di patrioti, per lo più comunisti, che si erano opposti accanitamente al fascismo
negli anni '20, e che avevano combattuto ed erano morti nella guerra civile di Spagna, dalla parte
perdente. Nino Nannetti e Gramsci, per esempio, erano due patrioti di questo tipo. Più avanti,
battaglioni, o perfino brigate, presero il nome da partigiani di fama, che erano stati uccisi in azione o che
erano stati giustiziati in tempi recenti.
La Divisione Nannetti era quel che si diceva una formazione Garibaldi. Le unità Garibaldi furono
composte ed organizzate innanzitutto dai comunisti, che, in Italia, Iugoslavia, Albania e forse in Grecia,
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erano la spina dorsale del movimento di resistenza. Non c'era alcun dubbio, secondo me, che le
formazioni Garibaldi fossero le più efficienti. Erano le meglio organizzate e meglio guidate e attiravano
un tipo di recluta più appassionata e decisa delle brigate cosiddette indipendenti, e delle brigate con altre
tendenze politiche. Il metodo di formare brigate su di una base politica era, naturalmente, deplorevole.
Ma fin che si trovava qualcuno sufficientemente forte da guidare e controllare l'intero movimento di
resistenza, e fin che il Partito Comunista non rinunciò al controllo delle formazioni Garibaldi, un tale
metodo era probabilmente inevitabile. In seguito, tutte le formazioni, senza tener conto del colore
politico, furono incorporate nel Corpo Volontario della Libertà o C.V.L., sotto il controllo dell'ufficio
militare della Commissione Centrale di Milano del C.L.N. o Comitato di Liberazione Nazionale. Per la
maggior parte, i capi delle formazioni Garibaldi erano comunisti; alcuni da lunga data e saldamente
convinti, altri di conversione recente, i cui interessi erano opportunistici più che di natura politica, e che
avevano abbracciato quella fede per amore della pace e della tranquillità e per evitare l'ostacolo di
interrogatori politici, ai quali sarebbero stati altrimenti soggetti. La truppa, o garibaldini, com'erano
chiamati, era più eterogenea. 'Fra loro si poteva trovare il fanatico, l'entusiasta, il tiepido, l'indifferente,
e i politicamente indipendenti; erano tutti divenuti garibaldini solo perché questi erano i più numerosi e
meglio organizzati. In quel momento l'intera nostra zona, con una sola piccola eccezione, era formazione
Garibaldi. Più tardi si formarono anche due brigate indipendenti, ma di non molta importanza. I
garibaldini amavano portare fazzoletti rossi al collo, si presume a testimonianza delle camicie rosse de I
Mille di Garibaldi, così come ogni altra organizzazione comunista, e, quando possibile, un berretto
grigio con la punta lunga, simile ad un kepi francese, ma più morbido, con una stella rossa in fronte. A1
di sotto di questo, tutto era permesso, anzi ben accolto: rimasugli di uniformi tedesche, italiane ed
inglesi, uniformi italiane di poliziotti, pompieri, marinai, guardie doganali, guardie forestali, o
carabinieri; e naturalmente ogni concepibile genere di tenuta civile. Molti erano ex Alpini e portavano
con ostentazione il cappello degli Alpini del loro reggimento. Le barbe da Alpini erano sempre alla
moda, fin che esse non divennero troppo pericolose, perché un uomo con la barba diventava ipso facto un
partigiano o un brigante, a seconda dei punti di vista. Non vidi mai tra i partigiani della montagna il
tipico saluto a pugno chiuso, anche se credo sia abbastanza comune in pianura. Si usava salutare con un
gesto normale, e l'immancabile esclamazione di saluto nell'entrare in una stanza o nell'uscirvi era Mort e
ai Fascisti (o al Fascismo), cui si replicava Libertà ai Popoli. Ogni H. Q. giù fino a quello di un
battaglione aveva il suo commissario politico, che era responsabile in particolare delle relazioni tra
partigiani e popolazione civile, del mantenimento di un buon morale tra i partigiani e della loro
istruzione politica. Egli lavorava in strettissimo contatto con il comandante e tutti gli ordini venivano
invariabilmente firmati da entrambi. Nella Brigata Gramsci l'ora politica era strettamente osservata.
Questa era un intervallo di tempo stabilito giornalmente, in cui il comandante o il commissario
rivolgevano agli uomini discorsi su problemi di disciplina, organizzazione, economia interna o politica, e
in cui ogni uomo poteva alzarsi e porre qualsiasi domanda, non escluso sul comportamento dei propri
capi. Successivamente la cosa venne sospesa sia a causa della riduzione di uomini, sia a causa
dell'allentarsi dell'interesse politico di fronte alla situazione sempre più critica dell'inverno. Alcuni Russi,
prigionieri di guerra fuggiti, che erano sulle Vette con la brigata (uno era un comandante di compagnia),
si preoccupavano in modo particolare che non ci fossero assenze durante l'ora politica. Sembravano
soldati in piena efficienza, questi Russi, che prendevano la vita seriamente. Non c'era nulla di ridicolo o
scherzoso in loro, tranne i loro nomi Borlikoff, Orloff, Shuvoff, ecc. ( trattasi di Bortnikov, Orloff e
Kuznietzov- nda). (*) La disciplina era abbastanza buona, ma niente a che vedere con quella
rigorosamente seguita nelle analoghe formazioni in Albania, dove piccoli furti, ubriachezza e immoralità
erano tutti puniti con la morte. La disciplina in un corpo di uomini liberi, formatosi spontaneamente,
rappresenta un problema delicato e difficile. Se gli uomini hanno inculcato in loro un alto senso di
dedizione ad una cosa sacra, allora si possono stabilire regole estremamente severe, senza troppa paura
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che possano essere infrante e senza dover usare pene corrispondentemente severe; ma nel caso di un
gruppo più eterogeneo e con principi meno elevati, gli occhi di coloro che hanno autorità devono spesso
fingere di non vedere, eccezion fatta per serie infrazioni militari. Molto, in questo caso, dipende dalla
forza e dalla personalità del comandante. C'era certamente più rilassatezza in Italia. Perfino il controllo
dei rifornimenti ricevuti sull'area di lancio, una questione elementare e fondamentale, era spesso
insoddisfacente. Ho saputo solo di due casi di partigiani fucilati, l'uno per ubriachezza, quando era di
guardia, e l'altro perché aveva rípetutamente strappato del cibo ai civili con la forza, per il suo interesse
personale. Per disobbedienza o negligenza nel dovere, un uomo poteva essere legato ad un albero per
alcune ore, e, in casi più gravi, poteva essere bandito. Bruno, il comandante della brigata, era uomo di
forte personalità, rispettato ed amato dai suoi uomini. Era un ex ufficiale di artiglieria ma, essendo stato
impiegato solo in unità contraeree, non aveva alcuna esperienza di tattiche di fanteria e di
combattimento. La sua brigata era ben organizzata e disciplinata e le armi, per quel che erano, tenute
con molta cura. Gli uomini erano estremamente abili a combattere. «Dacci armi e munizioni» era il
ritornello quotidiano della loro canzone. Questo ritornello divenne più insistente quando a una notte in
bianco cominciò a seguirne un'altra, e quando le notizie di un rastrellamento divennero più chiare. Ma, a
dispetto delle nostre continue richieste, espresse in un linguaggio che diventava sempre più rude, man
mano che il tempo passava, niente ci arrivò all'infuori dei nostri bagagli e viveri, che alla fine furono
sganciati sul Monte Grappa, dove furono rubati o andarono persi. Pietena non era impossibile da
trovare; lo si capì quando un aereo americano giunse proprio sopra di noi, per paracadutare due agenti
italiani. Il terreno era assolutamente inadatto all'atterraggio di uomini, ma avendo ricevuto l'ordine di
accoglierli, accendemmo i fuochi di segnalazione. Verso mezzanotte un Liberator volò alto sopra di noi,
fece il giro una volta, e scomparve. Non vedemmo cader giù assolutamente nulla. Ma, all'alba, comparve
uno sconosciuto, piuttosto stravolto nell'aspetto, che vestiva una tuta Sidcot, e domandò se avevamo visto
il suo compagno. Furono subito inviati dei gruppi di ricerca. E trovarono lo sfortunato uomo appeso ad
un dirupo a testa in giù. Non rimase seriamente infortunato, ma non ce ne attribuimmo il merito.
Nonostante che i partigiani fossero sorpresi e disgustati per la nostra incapacità di aiutarli, restavamo
egualmente buoni amici. Penso che attribuissero il nostro fallimento ad incompetenza più che a cattiva
volontà, ed in questo naturalmente avevano proprio ragione. I più ardenti comunisti tra loro amavano
pensare che noi ci tirassimo indietro per una presa di posizione predeterminata a causa delle loro idee
politiche; e se non fosse stato per un carico di fucili Bren, caduto ai loro piedi, o meglio sulle loro dure
teste, la loro teoria sarebbe stata difficile a morire; non importava quanto aspramente noi protestassimo
che, pur che restassero entusiasti di combattere, avrebbero potuto essere anche anarchici, per quel che
interessava a noi e ai nostri comandanti. Nonostante i nostri difetti, però, ci accettarono come uno di
loro. Ci rifornirono di tutto quanto serve per dormire, poiché noi non avevamo ancora null'altro che gli
abiti che vestivamo, il necessario da toletta, una scodella e un cucchiaio; fecero sì che ricevessimo la
nostra razione di sigarette e tabacco, e incaricarono perfino un fascista «addomesticato», che non
avevano ancora eliminato, di portarci i pasti dalla cucina, dove si cucinava il cibo per tutti in un enorme
calderone di rame. Ci nutrivamo molto bene. Si cominciava la giornata con una tazza di surrogato di
caffè e un panino, la tipica pagnottina italiana di circa 100 grammi di buona farina integrale, non
raffinata; a mezzogiorno una scodella di minestrone, che consiste in una zuppa densa di verdure e
fagioli, un'altra pagnotta e a volte un pezzo di formaggio, inequivocabilmente italiano, ma soddisfacente.
Oltre che cifrare e decifrare messaggi, visitare i battaglioni, e studiare a fondo la geografia de Le Vette,
non c'era molto altro da fare per noi. I1 17 settembre, approfittando della presenza da noi del
commissario della Brigata Pisacane, che stava per tornare indietro, io e Gatti facemmo una gita rapida
fino a Forno, a sud del Monte Marmolada, dove era appostata questa brigata. Fu un viaggio interessante
per la varietà di mezzi di trasporto impiegati, e vai la pena di descriverlo brevemente, per dimostrare con
quale facilità si poteva muoversi allora, rispetto alle difficoltà che incontrammo più tardi. Per
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raggiungere la cima della valle sotto la postazione del Battaglione Battisti, prendemmo un carretto tirato
da mulo, che ci portò fino al termine della strada, dove c'era un ponte, che era stato fatto saltare. Qui
salimmo in una macchina nera, lunga, sottile, guidata da un partigiano, che diceva di saper guidare auto
da corsa. Due occhi piccoli e lucenti, che spuntavano fuori da una massa di barba e capelli castano
rossicci, era tutto quel che si poteva vedere della sua faccia. Nell'oscurità incipiente del crepuscolo, senza fari, senza freni, andavamo alla velocità per lo meno di 40 miglia all'ora, per strade secondarie strette
e piene di curve. Per un centinaio di iarde circa, dovemmo percorrere la via principale di Belluno, prima
di poter girare in un'altra strada secondaria, e, non appena i fari di un autocarro tedesco apparirono
proprio dietro di noi, con mio grande spavento vidi l'ago del tachimetro andare a fondo scala. La nostra
folle andatura fu interrotta, fortunatamente, dalla necessità di osservare le regole del coprifuoco, imposte
a partire dalle otto di sera, dopo di che nessuna macchina civile poteva trovarsi per la strada. Ci
fermammo in un fienile, con due gomme a terra, per passare la notte. Un furgone chiuso della Todt ci
aspettava per il mattino seguente. L'organizzazione Todt consisteva in gruppi di lavoro di civili, i quali
ufficialmente lavoravano per i Tedeschi, ma col minimo zelo che bastasse a salvargli la pelle. In
piacevole contrasto con l'esperienza da Grand Prix della sera precedente, risalimmo molto
tranquillamente il Canal dell Miss, fermandoci a qualche miglio prima di Agordo, sulla strada
principale, dove c'era un presidio tedesco. Qui gli altri avevano progettato di trovare il capo locale della
Todt, un alleato dei partigiani, la cui presenza al fianco del guidatore avrebbe potuto assicurarci il
passaggio attraverso il posto di blocco tedesco senza problemi; il commissario, Gatti ed io avremmo
dovuto sedere dietro, presumibilmente fermi immobili con le dita incrociate. Anche se questo piano ci
avrebbe risparmiato una lunga camminata, non era proprio di mio gradimento. Infatti raramente mi
sentii più sollevato in vita mia, di quando seppi che questo utilissimo ufficiale della Todt non si riusciva a
trovare. Era l'una di notte, ormai, per cui, nascosto il furgone nel bosco, ci muovemmo a piedi. Evitammo
di passare per Agordo, con le sue strade piene di Tedeschi, che potevamo veder passeggiare intorno, e
attraversammo un passo, la Forcella Cesurette (6000 piedi). Da lì vidi di sfuggita un ghiacciaio
minuscolo, in alto sulla Pala di S. Martino, che mi diede un'emozione sproporzionata alle sue piccole
dimensioni. Otto ore più tardi entravamo zoppicando a Forno. Il comandante della Brigata Pisacane
venne la mattina successiva a discutere sulle disposizioni da dare per le zone di lancio e io gli consegnai
una considerevole somma di lire come garanzia delle nostre intenzioni. Alto, agile, bruno e di
bell'aspetto, le pistole che sporgevano dalle tasche, egli faceva pensare ad un bravo napoletano. Carlo
era difatti un napoletano; il che era davvero strano, poiché non c'è molta simpatia tra gli Italiani del
nord e quelli del sud; ma per le sue numerose azioni di coraggio egli si era guadagnato il comando della
brigata ed il rispetto di tutti. Uno di questi atti fu un'irruzione alla luce del giorno nelle carceri di
Belluno, dove, per lo più con un bluff, aveva liberato un certo numero di partigiani. In seguito egli fu a
capo del G.A.P. di Belluno e portò a termine un bel po' di lavoro tranquillo ma efficace, con una pistola
col silenziatore che gli avevamo procurato. Era un esponente della scuola di «cappa e spada», vestiva in
modo strano, cambiando foggia ogni giorno, e non dormiva mai due volte nello stesso posto. La
situazione a Pietena, quando ritornammo il 20, era rimasta immutata, tranne che per il tempo che stava
diventando più freddo. Lo stagno in cui ci si lavava al mattino era coperto da tino strato sottile di
ghiaccio e i1 28 cadde la neve per tutto il giorno. Pietena non sì sarebbe potuta tenere durante l'inverno,
ma Bruno, desiderando rimanervi attaccato il più a lungo possibile, fece in modo che la malga piena di
correnti d'aria fosse foderata per bene col fieno. La sua decisione era dovuta alla mancanza di armi e al
loro ancor possibile arrivo. Ma ci si stava ponendo l'interrogativo su chi sarebbe arrivato prima, se le
armi, l'inverno o i Tedeschi; e la bilancia pendeva pesantemente su questi ultimi. Era evidente
l'intenzione del nemico di ripulire l'intera valle del Piave. Avevano già avuto a che fare con la zona del
Cansiglio e il Monte Grappa e il 29 venne il nostro turno. Nel frattempo avemmo il nostro primo contatto
con la Divisione Nannetti mediante una breve visita di Filippo, il suo comandante. Egli promise che
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sarebbe tornato entro pochi giorni per portarci nel nuovo Quartier Generale della Nannetti, ma sulla via
del ritorno, il 29, si imbatté nei Tedeschi, che venivano ad attaccarci: fu ucciso sul colpo, andò persa
tutta la raccolta di documenti “segreti” della divisione, comprese le posizioni e le segnalazioni di tutte le
zone di lancio; ed egli scomparve dalla storia.(**) Verso le cinque della sera del 29 settembre fummo
scossi dallo scoppio lontano di una mitragliatrice. Il posto di blocco della Compagnia Churchill riferì
che una pattuglia tedesca aveva attaccato la postazione e il deposito nella valle, circa 2000 piedi più
sotto. Il deposito era in fiamme. I1 rastrellamento atteso così a lungo stava evidentemente per
cominciare. I comandanti dei Battaglioni Zancanaro e Battisti arrivarono per partecipare ad un
consiglio di guerra, portando con loro notizie sui movimenti dei Tedeschi sotto le loro postazioni. Bruno,
che era qualcosa come un mangiatore di fuoco, aveva un unico pensiero e piano in testa: combattere fino
all'ultimo uomo e all'ultimo colpo. «I1 conduttore di cammello ha i suoi pensieri e il cammello, anch'esso
ha i suoi», fu la riflessione che mi venne in mente nel sentire le minacciose parole riferite. Le avevo
sentite ancora in precedenza, ma mai in connessione con la guerra partigiana, poiché in tal caso
espressioni come «la perdita di terreno e di posizioni» non dovrebbero significare nulla. La funzione dei
partigiani era di rimanere intatti, come una forza di combattimento costituita semplicemente dal loro
stesso esistere e fatta di puntate occasionali, a mo' di minaccia costante, contro cui il nemico fosse
costretto a mantenere sempre occupate delle truppe, che avrebbe potuto invece impiegare altrove con
maggior frutto. L'unica validità di Pietena era quella di essere un terreno di lancio. Ma esso non era né
un buon terreno, né l'unico esistente allo scopo, e l'inverno ci avrebbe presto costretti ad abbandonarlo.
Inoltre niente era stato ancora lanciato giù a Pietena e noi non potevamo dare nessuna garanzia che
qualcosa vi sarebbe arrivato nel futuro. Esponemmo chiaramente queste osservazioni, ma senza
risultato. Era in gioco l'onore della Brigata Gramsci; la disfatta dei partigiani sul Monte Grappa doveva
essere vendicata: discorsi che vennero accolti con acclamazioni da un uditorio facilmente trascinabile e
non istruito. Avrei potuto andare avanti e spiegare che anche i partigiani più abili non avrebbero potuto
sperare di mantenere a lungo la più forte posizione, contro truppe fornite di mortai, mitragliatrici e
munizioni illimitate, intercomunicanti tra loro e colla possibilità di ulteriori rinforzi in caso di bisogno;
che le munizioni disponibili erano 300 salve per L.M.G. e 30 per fucile; che c'era cibo solo per pochi
giorni, con nessuna speranza di ottenerne di più; e che il morale dei partigiani si sarebbe rinforzato con
l'infliggere colpi al nemico e non col subirne. Questi avvertimenti rimasero inascoltati. Forse essi
persero la loro forza nella traduzione, o forse furono attribuiti a mancanza di coraggio. In realtà Bruno
suggerì che la missione si ritirasse quella notte stessa, prima che fosse troppo tardi, ma questo progetto
veramente sensato fu rifiutato. Avrebbero seguito il punto di vista militare più comune e cioè che la
salvezza della missione, con il suo apparecchio radio e tutte le possibilità di rifornimenti futuri che esso
permetteva, non poteva essere messa in pericolo inutilmente, o avrebbero pensato che stavamo fuggendo
via? Non che questo interessasse molto a me, personalmente, perché io avevo passato buona parte della
guerra a scappar via, per poi combattere di nuovo, insieme al resto dell'Armata Britannica; ma ciò
avrebbe potuto nuocere al futuro, indebolendo la già piccola influenza che avevamo. Su assicurazione di
Bruno, che egli desiderava non solo che la missione andasse via, ma che l'intera brigata uscisse dall'impasse del tutto intatta, decidemmo di aspettare gli eventi. Di fronte al fatto, però, che le quattro uscite
conosciute stavano ormai per essere bloccate, il suo piano per ottenere questo non ci era del tutto chiaro.
Comunque, pieni di speranza, supponemmo che ci fossero altre vie di uscita a noi sconosciute e con ciò
andammo a letto. Il mattino seguente gli sviluppi della situazione furono lenti. Le uniche notizie di
combattimento provenivano dal Battaglione Zancanaro ad ovest, ed entro mezzogiorno fu chiaro che
questo era il punto in cui l'attacco incalzava veramente e che negli altri accessi il nemico creava
semplicemente dei punti di arresto, per impedire che la situazione gli sfuggisse di mano. La maggior
parte del Battaglione Battisti fu portata su a Pietena, per rinforzare il bordo settentrionale del catino ed
il crinale che lo divide in due, sul quale erano state preparate in precedenza delle postazioni con
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mitragliatrice. Alcuni visitatori ufficiali provenienti da sotto, che erano stati tagliati fuori dalla rapidità
con cui le uscite erano state bloccate, tentarono la fuga attraverso l'arduo sentiero che scende giù per la
parete nord. Ritornarono indietro più tardi per avvertirci che anche quello era bloccato da pattuglie
insediate nella valle più sotto. C'era almeno una cinquantina di partigiani che giravano intorno alla
malga dell' H.Q.: ufficiali di stato maggiore, impiegati, cuochi, messaggeri, intendenti, e gli altri oziosi
che generalmente si raccolgono attorno ad un H. Q., quelli che l'Esercito chiama poco gentilmente i
«disoccupati». C'erano anche combattenti del Battaglione Battisti, che erano scesi per cercar di capire
cosa stava succedendo. Non erano i soli a cercare delucidazioni. Le notizie infatti erano scarse, e, in una
disposizione d'animo tutt'altro che felice, noi non potevamo far altro che aspettare, nella condizione
tipicamente deprimente di coloro che sono stati lasciati fuori dalla battaglia. Bruno irradiava ancora
fiducia, ma nel primo pomeriggio egli salì sul crinale, da dove si sentivano già provenire degli spari. E
subito mandò l'ordine di portare via tutto e che tutti andassero sulla cima del Duodieci, una punta
rocciosa e frastagliata, posta sull'orlo del catino, proprio sopra l'estremità settentrionale della catena
spartiacque. Gambe di bue, sacchi di pane e fagioli, pentole, macchine da scrivere, furono caricati sulle
spalle degli uomini e portate via in una maniera, che non si poteva far a meno di pensare che fosse
sfiduciata, a dir poco. I1 prepararsi per un'ultima resistenza sul Duodieci a questo stadio ancora iniziale,
era sicuramente frutto della disperazione, e ciò significava che la battaglia non stava andando bene.
Lasciando Ross e Pallino a Pietena con l'ordine di tener pronta per il trasferimento la nostra poca roba,
io e Gatti andammo su a trovare Bruno. Per salire circa 500 piedi fino al crinale impiegammo intorno ai
20 minuti. Dalla nostra parte, la parte sottovento del crinale, era stata scaricata la maggior parte della
roba portata via da Pietena e solo un gruppo dei partigiani più obbedienti si sforzava ancora di salire i
pendii rocciosi del Duodieci con i propri carichi. La cresta del crinale era sotto tiro del mortaio.
Aspettammo il momento adatto per correre su fino alla cima e trovammo Bruno entro una buca coperta
per mitragliatrici, sul pendio anteriore, molto indaffarato con una vecchia mitragliatrice francese che
avrebbe potuto sparare al massimo un paio di raffiche prima di bloccarsi. Attraverso la fenditura vidi che
la malga Zancanaro era già nelle mani dei Tedeschi. Là dove la mulattiera attraversava l'orlo
occidentale del catino a 2500 iarde di distanza, si poteva ora vedere il mortaio impegnato contro la
nostra posizione. Altri Tedeschi stavano avanzando con aria indifferente attraverso il bacino, verso di
noi, mentre un altro gruppo di un centinaio e più aveva appena iniziato a spostarsi lungo la cresta
dell'orlo verso il Duodieci. Tutti i partigiani si erano ritirati sul crinale.
Bruno, con la luce della
battaglia negli occhi, prestò poca attenzione alla mia domanda su che cosa si proponesse di fare. I1
suggerimento che gli diedi, che in quel momento non era il caso di trastullarsi con una mitragliatrice e
che in ogni caso far fuoco, con quell'arma vecchia e ostinata, contro uomini a 2000 iarde di distanza, era
uno spreco di energia, cadde inascoltato. Durante i momenti ch'egli sottraeva malvolentieri alla lotta con
quel pezzo miserabile d'arma, discutevamo aspramente, ma senza alcuna utilità, mentre le bombe del
mortaio scoppiavano in modo più o meno innocuo intorno alla posizione. Tre partigiani erano stati feriti
fino a quel momento. I Tedeschi suppongo invece che fossero tutti illesi.
I partigiani d'intorno, eccetto
Bruno, apparivano per la maggior parte decisamente e, io penso, a ragione, spaventati. Alla fine Bruno
acconsentì a ritirarsi all'imbrunire e promise di inviare ordini in questo senso. Se questa fosse stata la
sua intenzione reale, per tutto il tempo, oppure no, non lo saprei dire. Forse la rapidità con cui i Tedeschi
avevano raggiunto la malga Zancanaro lo aveva sorpreso, ma, dato che avevamo aspettato così a lungo,
era saggio aspettare fino all'imbrunire prima di ritirarsi. Lasciammo Bruno con la sua mitragliatrice e
tornammo a Pietena per informare gli altri del nuovo piano. Erano circa le 7 pomeridiane, proprio verso
il tramonto. Se «le nostre sopracciglia, come il titolo di un libro, predicessero il carattere tragico del
volume» o se fossero le poche parole scambiate assieme, non saprei dire. Comunque l'effetto del nostro
arrivo fu immediatamente dannoso. Un fragore di grida risuonò tra la compagnia dell' H. Q. e tra quei
partigiani del Battaglione Battisti, che erano scesi giù dalle loro postazioni fino all'orlo del catino,
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vagando senza meta; e un «si salvi chi può» sembrava imminente. Contemporaneamente si videro degli
uomini riversarsi via, lungo l'orlo settentrionale in direzione del Duodieci. Questo fu decisivo. Era venuto
il momento di provvedere a noi stessi.
Ci prendemmo una coperta per uno, caricammo la
batteria a 6 volt su di un mulo, e Ross si mise in spalla la valigia contenente la radio. Mi spostai per
vedere se la Compagnia Churchill aveva ricevuto l'ordine della ritirata - poiché era probabile che
sarebbero stati dimenticati nella confusione - mentre la folla dei partigiani cercava di districarsi fuori
dirigendosi verso il sentiero Battisti. Non erano andati lontano che già delle figure si profilavano contro
il cielo della sera sull'orlo meridionale. Con scatti fulminei si buttarono di corsa lungo il crinale e
proiettili traccianti cominciarono a fischiare sopra le teste dei fuggitivi e a conficcarsi contro le rocce
con un rumore sordo. Sebbene i Tedeschi fossero lontani almeno 1500 iarde, diedero prova di abilità
nella luce cadente della sera e ci spaventarono i muli al punto che noi perdemmo la batteria. Quando fu
buio, ci fermammo e Bruno ci raggiunse. Egli passò la direzione della ritirata, compito tutt'altro che
invidiabile, al suo vicecomandante, dicendo che avrebbe aspettato per vedere cosa facevano i Tedeschi. Il
sentiero che portava alla malga Battisti seguiva l'orlo settentrionale proprio sotto la cresta, e verso le
undici di sera, quando eravamo circa ad un miglio dalla malga, fu mandata avanti una pattuglia per
valutare la possibilità di passare il posto di blocco inosservati, oppure di attaccarlo. C'era molta neve
d'intorno, e per un'ora la folla fuggitiva, dato che non eravamo molto di più di questo, rimase seduta sui
sassi ad aspettare il verdetto con aria scoraggiata. Quando questo arrivò, era il previsto «nessuna delle
due». Scoppiarono discussioni ancor maggiori di prima, ma questa volta sotto forma di bisbigli
impauriti. Il piano appoggiato dalla maggioranza era di tentar di attraversare una valle a sud,
nonostante si sapesse che era circondata da picchetti nemici. Caricati com'eravamo di un apparecchio
radio che non potevamo permetterci di perdere, non sopportavo l'idea di cadere in tale trappola in quella
valle, per cui suggerii agli altri un piano alternativo, cioè di restare bassi nel fianco nord delle Vette,
finché il nemico non si fosse stancato di cercare i partigiani. Avremmo potuto anche trovare una via per
scendere, ma, alla peggio, i Tedeschi non sarebbero stati lassù per più di un paio di giorni. Questo piano
fu accettato. La Compagnia Churchill, in blocco, ci chiese di venire con noi e il cuoco italiano di Pietena,
che era un nostro amico, si offrì di portare l'apparecchio radio. Si formò quindi un gruppo di sedici (e
altri si sarebbero uniti se gli fosse stato permesso) al posto dei quattro 0 cinque auspicabili.
Abbandonammo il sentiero, ci liberammo di altri partigiani che volevano venir con noi, e ci avviammo
direttamente verso la cresta, incuranti di lasciare le nostre tracce su una chiazza di neve vicino al
sentiero. Appena raggiungemmo la cresta, vedemmo sotto di noi i fuochi dei picchetti nemici proprio
nella valle che i partigiani speravano di attraversare. Cominciammo la discesa della prima parte, che
rassomigliava ad una gola nella zona più fonda, e le prime poche centinaia di piedi consistevano in un
ghiaione ripido e ghiacciato con varie chiazze di neve. Presto fummo costretti ad arrestarci, perché la
gola cadeva a picco improvvisamente, e allora scrostammo e ripulimmo un certo spiazzo e andammo a
letto, per così dire, cioè ci sdraiammo. Avevamo una sola coperta a testa e niente cibo; in più eravamo ad
un'altitudine di 7000 piedi ed era settembre avanzato. Io accarezzavo una debole speranza di riuscire ad
aprire un passaggio per la discesa, ma le ricerche del giorno dopo mi dimostrarono che questo era già
difficile per un piccolo e forte gruppo di scalatori, e del tutto impossibile per un gruppo come il nostro.
Eravamo una squadra molto impreparata per scalare, sia pure su una montagna come Le Vette. Andando
in avanscoperta sulla cima del burrone, all'alba, vidi gruppi di Tedeschi sul sentiero appena sotto,
evidentemente impegnati nella ricerca dei Brer Rabbits, (***) senza dubbio numerosi, che, come noi,
«stavano distesi e del tutto silenziosi». Erano distanti 3-400 iarde e, secondo la mia immaginazione,
eccitati da una notte di digiuno, sembravano discutere sulle impronte che noi avevamo lasciato sulla
neve, appena fuori del sentiero. Ridiscesi in punta di piedi e molto attentamente giù per la gola ed
avvertii gli altri. Il peggio fu senz'altro la prima ora in quel giorno di apprensione continua. Dopo
divenne chiaro che la pattuglia che avevamo visto non veniva ad ispezionare la facciata nord, ma
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nonostante ciò cominciammo a respirare più liberamente solo quando cadde il crepuscolo. Si alzò il
vento quella notte. All'alba una bufera di neve soffiava da nord e da una parte noi non avevamo nessuna
protezione. Continuò a soffiare tutto il giorno, ma, per quanto pesante fosse la nostra situazione, bastò il
rumore lontano di un'arma automatica che arrivò alle nostre orecchie nonostante la tormenta, a farci
resistere fino in fondo per un'altra notte ancora. Entro la fine del terzo giorno dovevamo muoverci,
volenti o no. Nessuno di noi aveva mangiato per settantadue ore, alcuni avevano le dita gelate. e tutti
eravamo irrigiditi dal freddo. L'inizio non fu di buon auspicio. Ero appena salito in perlustrazione sulla
cima della gola, all'imbrunire, quando fui richiamato da grida selvagge, che provenivano dal basso. Dal
momento che per tre giorni nessuno aveva osato alzare la voce al di sopra del semplice sussurro, doveva
essere accaduto qualcosa di importante, forse avevano trovato del cibo. Infatti era successo che uno degli
ex prigionieri di guerra era scivolato giù. Lo trovai con lo sguardo fisso ed una ferita importante alla
testa, disteso su una prominenza, 60 piedi sotto il nostro covo, proprio sull'orlo di una frana di un'altezza
simile. Anche le sue mani erano lacerate, ma, assicurandolo all'estremità della mia giacca, alla fine lo
tirai su fin sulla cima della gola, dove gli altri stavano ora aspettando. Avevamo perso molto tempo, e,
tra le dita gelate e gli arti irrigiditi al punto che per molti camminare era diventato un problema, il mio
piano di cercare una via di uscita sicura, lungo la cresta dell'orlo del catino, dovette essere abbandonato
e seguimmo il sentiero. Ad ogni passo la fiducia aumentava. Non incontrammo nessuno ed entro lo
spuntar del giorno eravamo già distesi in un bosco, con lo sguardo fisso ad una casa colonica
sottostante. Uno degli Inglesi che conosceva il posto scese, fu dato il segnale di via libera e di lì a poco
stavamo già godendoci il primo pasto dal giorno dell'attacco. I Tedeschi erano partiti il giorno prima,
dopo aver bruciato tutte le malgas ed alcune case di contadini nella valle, sospettati di simpatia verso i
partigiani.
(*) - Kuznietzov era un ex-prigioniero russo originario di Podolsk nel circondario di Mosca fuggito da
un lager nazista che verrà fucilato a Cesiomaggiore il 22 febbraio 1945 dai nazifascisti. Un cippo in sua
memoria è tutt’ora presente nel luogo della morte.
(**) – v. pag. 30 - Tilman commette un errore: Filippo non fu ucciso, né preso dai Tedeschi. Moglie e
figli saranno invece catturati al posto suo. Si tratta di Albertelli Luigi, ora generale dell'Artiglieria Alpina.
(***) - Letter. «Compagni conigli».
N.B. – Ho scelto di lasciare errori sia sui nomi (per es. dei partigiani sovietici) che di alcuni particolari
per non toccare il testo originale del maggiore Harold William TILMAN della “Missione SIMIA”.
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Tra le diverse letture del dramma consumato nel massiccio del Grappa, fra gli storici della Resistenza,
due emergono con evidenza: quella di Ernesto BRUNETTA e l’altra della Sonia RESIDORI. Brunetta
scrive : “ Colpite Verona e Vicenza ad ovest e Treviso e Belluno ad est, al nemico non resta che un ultimo
obiettivo, il centro della cerniera, costituito dal massiccio del Grappa. Sul Grappa, ove a fine agosto è
giunta la missione Tilmann che vi lascerà il capitano sudafricano Bridge come ufficiale di collegamento,
il movimento partigiano si è notevolmente rafforzato dal punto di vista quantitativo, ma appare
abbastanza disorganico per la presenza di formazioni che si ispirano a diverse posizioni politiche. Per
sopperire alla manchevolezza, il 7 settembre - alla presenza di Lanfranco Zancan, Giovanni Tonetti,
Giuseppe Calore ed Attilio Gombia del comando militare regionale - si tiene una riunione di comandanti
dalla quale esce il progetto di un unico comando del Grappa. L'iniziativa è importante, ma giunge troppo
tardi. Il 19 settembre i nazifascisti si schierano ai piedi del massiccio predisponendo una fitta rete di
posti di blocco ai quali vengono adibiti i fascisti delle « Brigate nere » di Vicenza e di Treviso ed i
legionari della « Tagliamento » fatti affluire apposta dal Piemonte, mentre truppe tedesche specializzate
nella repressione antipartigiana costituiscono le colonne mobili d'assalto. Il 20 si scatena l'attacco,
destinato a durare fino al 28. La tattica partigiana - suggerita anche dalla convinzione d'un prossimo
arrivo degli alleati e sollecitata, a quanto pare, dallo stesso capitano Bridge - è errata perché impone
alle formazioni una impossibile difesa rigida. Episodi di eroismo si mescolano, com'è fatale, ad altri di
cedimento e di panico. Quella che matura in quei giorni è una vera tragedia dalla quale emerge e va
ricordato - esempio non solo di coraggio, ma anche di calzante applicazione delle regole auree della
guerriglia - il comportamento del battaglione « Buozzi » della brigata « Matteotti » e del suo comandante
Livio Morello - una delle due medaglie d'oro a vivente della resistenza veneta - che è l'unico reparto ad
opporre al nemico la tecnica della difesa manovrata e dello sganciamento tattico, sicché è il «Buozzi»
l'unico reparto che riesce a superare la prova sia pure a prezzo di gravi sacrifici. Crudeli furono le
perdite: 307 i partigiani caduti; tra i civili vittime della feroce rappresaglia 171 impiccati, 603 fucilati,
800 deportati in Germania. Agli alberi dei viali di Bassano furono impiccati 32 partigiani, destinati a
diventare il tragico emblema della resistenza veneta e del suo sacrificio. Il movimento partigiano veneto
viene ora a trovarsi in una situazione critica, considerato che la repressione nemica infuria anche in
pianura e nelle città, ove d'altronde non è mai venuta meno”. Dove emerge, anche per la maggioranza
delle formazioni partigiane del Grappa, lo stesso limite registrato sia sull’altopiano di Asiago che nel
Cansiglio che consisteva nella resistenza “rigida” e “frontale” alle truppe nazifasciste anziché nello
scontro seguito dallo sganciamento propri della guerriglia. Scrive il Brunetta “l’applicazione delle regole
auree della guerriglia – il comportamento del battaglione “Buozzi” delle brigata “Mazzini” e del suo
comandante Livio Morello (…) che è l’unico reparto ad opporre al nemico la tecnica della difesa
manovrata e dello sganciamento tattico, sicché è il “Buozzi” l’unico reparto che riesce a superare la
prova sia pure a prezzo di gravi sacrifici”. Teniamo conto che, mentre lo sganciamento del reparto di
Brunetti è avvenuto il terzo giorno dopo l’inizio del rastrellamento e in alta quota, il “Buozzi” ha dovuto
sopportare l’intera offensiva nei salienti da qui le gravi perdite. Secondo il Brunetta gli scontri sarebbero
stati prolungati e diffusi mentre la tesi, che la ricercatrice Sonia Residori sostiene in modo documentato,
è quella di uno scontro impari tanto che “Al termine si conteranno 264 morti dei quali solo 30 in
combattimento”. Insomma, per lo più, una strage di giovani renitenti alla leva pressoché disarmati. Una
tale tesi trova una conferma anche da quanto affermato (e sopra riportato) da Paride Brunetti. Con questa
avvertenza può essere utile leggere o ri-leggere gli allegati che seguono.
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( Allegato C ) - IL RASTRELLAMENTO DEL GRAPPA
Dopo averlo pianificato nei centri di Roncegno e Levico (coordinati dal Comando Strategico di Recoaro
Terme ),(*) all’alba del 20 settembre ’44, comincia il rastrellamento del bastione del Grappa: in codice
“Operazione Piave”. L’ordine, arrivato dall’alto comando nazista in Italia, è di uccidere trenta persone
per ogni paese intorno al massiccio montano. Per otto giorni, con operazioni concentriche di
accerchiamento, si scatena la rappresaglia nazifascista con violenti combattimenti pressoché ininterrotti
durante i quali le Brigate Garibaldi e “Matteotti” riescono, solo in parte, a sganciarsi mentre la formazione
“Libera Italia” viene quasi annientata. Messi in allarme sia i civili che i partigiani, alle prime avvisaglie,
si danno alla fuga. Al termine si conteranno 264 morti dei quali solo 30 in combattimento. E allora, come
consuetudine i nazifascisti usano l’inganno. E’ il tenente delle SS di stanza a Roncegno in Valsugana
Herbert Andorfer comandante dell’omonimo “Kommando”(**) a escogitarlo: fa affiggere manifesti sui
muri dei paesi, promettendo che chi si presenterà spontaneamente avrà salva la vita e sarà occupato
nell’Organizzazione Todt ( lavoratori addetti alla costruzione della “linea veneta” fortificata) o entrerà
nella Flak (la contraerea). Ignare in che cosa consistesse la “lealtà germanica” tra i primi a cadere nella
trappola saranno le persone più influenti dei paesi come maestri, sindaci e sacerdoti che convinceranno le
madri a invitare i propri mariti e figli a presentarsi. Quasi tutti i sacrificati si erano presentati
spontaneamente alla caserma “Reatto” che si trovava adiacente agli uffici del boia Tausch. Fra gli
impiccati c’è un uomo con problemi mentali; un ragazzo Cesare, di 17 anni che trovava nel Grappa per
curarsi della broncopolmonite; un altro, Giovan Battista , ha appena compiuto 16 anni, mentre il fratello,
Giuseppe di 18, era fucilato due giorni prima; e un maestro elementare di Mirandola. Un ragazzo di 15
ani venne invece fucilato poco prima nella stessa caserma Reatto , dove erano stati fatti confluire i
prigionieri. Si dice che i carnefici abbiano poi festeggiato all’albergo “Al Cardellino” e al “Caffè
Centrale”. Dopo la carneficina sarà eterno lo strazio di padri e madri che hanno chiesto ai loro figli si
presentarsi spontaneamente ai nazisti: pari a quello dei corpi appesi. E non tutti i corpi verranno ritrovati,
alcuni pare siano finiti in fosse comuni e mai trovati. La storica Sonia Residori documenta che il
massacro fu “studiato a tavolino, arricchito poi dalla fantasia dei carnefici . Ci furono anche uccisioni
clandestine e occultamento dei cadaveri o la loro “sparizione” mediante i lanciafiamme. Un testimone
oculare denunciò al Procuratore Generale della Corte d’Assise l’uccisione di 15 partigiani (ma
potrebbero essere solo civili) avvenuta nella notte tra il 28 e il 29 settembre “44“ in un prato subito
dietro al quadrivio di Caselle d’Asolo”. Come già scritto uno dei carnefici era il ventiduenne Karl Franz
Tausch, vicebrigadiere SS del “Kommando Andorfer” distaccato a Bassano: sarà lui il boia che, il 26
settembre ’44, fece impiccare 31 giovani agli alberi di tre vie di Bassano usando, come cappi, dei pezzi
di cavi telefonici le cui cime erano collegate a una lunga fune legata al camion. Tausch coordinava
l’esecuzione, dicendo come mettere il cappio e poi dava l’ordine al camion di accelerare. Il camion
partiva e il cappio si stringeva attorno al collo dei trentuno condannati. Chi non moriva subito veniva
preso e strattonato con colpi verso il basso dai giovani fascisti. Ricorda un testimone che all’epoca dei
fatti aveva 13 anni, l’avv. Mario Della Palma: (Il 26 settembre ’44)…”andavo come sempre a pattinare
davanti alla chiesa Delle Grazie di Bassano. Ho visto arrivare il camion con questi ragazzi con le mani
legate dietro , con loro due soldati tedeschi. IL camion si ferma, ho visto il primo buttato giù, cioè appeso
e impiccato e me ne sono andato”. Chi infilava le teste nei cappi erano ragazzini fascisti fra i 16 e 17 anni
delle ex-Fiamme Bianche, inquadrati nei reparti della Flak contraerea. Il macabro “auto da fè” si
concluse quasi a mezzanotte di quel giorno di morte.
(*) - "Roncegno con il palazzo delle Terme e gli altri alberghi, tutti requisiti, era un centro di smistamento. Ci deve
essere stato anche un incontro, nei saloni delle Terme, tra il maresciallo Kesselring e vari alti comandi", ricorda il
professor Riccardo Montibeller, allora occupato in ufficio presso la Todt. Il paese divenne centro operativo per la
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lotta antipartigiana in Valsugana e in gran parte del Veneto. Nel settembre 1944 partì da lì un'autocolonna per il
rastrellamento del Grappa con ampio uso di plotoni del CST. A Villa Kofler (ex de Giovanni), detta "Villa triste"
per le torture cui venivano sottoposti i malcapitati durante gli interrogatori, erano alloggiate le SS, sei-sette uomini,
con Hegenbart, SS-Haupsturmführer (capitano), dal quale dipendeva tutto l'apparato poliziesco e militare. Gli
ufficiali degli altri corpi dipendevano dagli ufficiali delle SS, anche se di grado inferiore. Hegenbart, reduce dalla
Russia, dove si vantava di aver ucciso duecento bambini, aveva per collaboratori diretti il tenente Joseph
Feuchtinger e il maresciallo altoatesino Friedrich Pelikan. In Russia e in Francia, dove l'occupazione avvenne prima,
vennero massacrate o fatte sparire migliaia di persone. Molte finirono nei Lager senza essere neppure immatricolate
e di esse gli aguzzini potevano disporre come meglio credevano. Feuchtinger aveva il compito di reprimere la
resistenza nella valle del Brenta fino a Bassano per impedire, o quanto meno contenere, i continui sabotaggi dei
partigiani del Feltrino e dell'Altopiano di Asiago. (Secondo Ermanno Pasqualini, Feuchtinger "...fu condannato
all'ergastolo come criminale di guerra per questo e altri crimini commessi in Russia. Feuchtinger fu poi amnistiato,
dopo 25 anni di carcere". In: E. PASQUALINI, I racconti di Casteltesino, Borgo Valsugana, Gaiardo, 1988, p. 279,
nota n. 12). A Levico i comandi, sia italiani che tedeschi, e le relative strutture burocratiche, erano concentrati
all'albergo Regina. Vi era stata trasferita l'emittente radio della Marina militare tedesca da Lipsia, che stava per
essere occupata dall'Armata Rossa. Dei partigiani scesero dall'Altopiano per studiare il modo di sabotarla ma era
inabbordabile perché circondata da reti di filo spinato. Il 15 marzo 1945 l'albergo fu raso al suolo da un
bombardamento aereo e non fu più ricostruito. Morirono militari e anche civili del posto. La società Anonima
Esercizio Regie Terme poteva però stare tranquilla: il pieno era assicurato anche per la stagione invernale anche se il
pagamento non avveniva mai in marchi del Reich, ma in lire italiane anticipate dai comuni. In quel grande e capace
nonché lussuoso complesso erano alloggiati la Gestapo (Geheime-Staatspolizei, polizia segreta di Stato), il CST, il
SOD, la Gendarmeria, gli Alpenjäger e la Hitlerjugend (giovani dai dieci ai diciotto anni, solo di passaggio), le SA
(Sturmabteilungen - reparti d'assalto) e lo SD (Sicherheitsdienst - servizio speciale addetto allo spionaggio politico).
Alle Terme c'erano anche il comando della Wehrmacht, quello della Todt e l'ufficio progettazione delle
fortificazioni che si stavano costruendo a Grigno, Cismon del Grappa, Romano d'Ezzelino, Thiene, Asiago, Lusiana
ed Enego. Gli uffici tecnico-amministrativi erano distribuiti tra le ville Waiz, Flora e Baito. Fortificazioni, con
gallerie per ospitare fabbriche e depositi vari, stavano sorgendo lungo la linea che andava dalla Svizzera fino a
Lubiana, per assicurare un estremo fronte di difesa in caso di arretramento della "Linea gotica", dai tedeschi detta
"grüne Linie" (linea verde). A villa Gerlach (chiamata anche villa Gordon o Bellaria) c'era la Speer. Albert Speer,
l'architetto di Hitler, era subentrato a Fritz Todt, ministro degli armamenti e delle munizioni quando questi morì nel
1942. Al processo di Norimberga del 1946 fu condannato a vent'anni di carcere per aver reclutato nei vari campi di
prigionia quattordici milioni di persone sottoponendole a lavori forzati. Il 30 gennaio 1945 nel salone delle Terme ci
fu una gran festa per celebrare l'anniversario dell'ascesa al potere del Führer. Alle Terme c'erano gli uffici
dell'Intendenza di Finanza. Tutti gli operai e gli impiegati, i collaboratori e i militari erano pagati puntualmente con
carta moneta italiana nuova fiammante, tagliata da rotoli ancora intatti. Oltre al migliaio di operai della Organisation
Todt (O.T.) della zona di Grigno, anche i duemilacinquecento che lavoravano alle fortificazioni di Cismon del
Grappa erano pagati da Roncegno con moneta del Re d'Italia. Per quanto riguarda l'Italia bisognava "indurre la
Banca di Stato a cedere valuta nazionale locale contro ricevuta". Montibeller suppone che ci fosse una zecca in quel
di Roncegno, ma è più probabile che prima di ritirarsi da Roma gli invasori avessero provveduto a stampare quanto
occorreva e anche più: il trasporto dei macchinari sarebbe stata un'ardua impresa. Stessa sorte degli alberghi di
Roncegno e Levico toccò a quelli di San Martino di Castrozza. L'albergo Rosetta fu requisito il 10 dicembre 1943
per essere usato quale convalescenziario della divisione corazzata Hermann Göring. Anche l'albergo Dolomiti ebbe
la stessa destinazione. In seguito gli alberghi Cimone, Regina, Jolanda, Savoia, Belvedere e Miramonti ospitarono
reparti di SS che frequentavano corsi di sci: una vera fortuna per proprietari e dipendenti che, pur in tempo di guerra,
potevano esporre il cartello "tutto esaurito”. Durante l'estate una corsa giornaliera della ditta Bordato - Cappello
collegava Trento con Fiera di Primiero e San Martino di Castrozza attraverso il Passo del Brocon. Non di rado se ne
- Giuseppe SITTONI, Uomini e fatti del Gherlenda , ed. Croxarie Strigno 2005 , edizione on line –
servivano anche i partigiani.
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(**) - Il “Kommando Andorfer” - Herbert Andorfer, austriaco di Linz, nato nel 1911, di professione segretario
d’albergo. Si iscrive al partito nazista nell’ottobre 1931 ed è membro delle SS dal settembre 1939. Nel ’41 è in
Serbia come sottotenente. Nel ’42 comanda il lager di Semin a Belgrado dove vengono sterminati , tra gli altri, 5.238
ebrei compresi donne e bambini con camere a gas mobili. Trasferito al comando di Salisburgo come tenente
nell’autunno ’43 comanda in Italia l’unità antipartigiana “Kommando Andorfer” famigerata per stragi e omicidi.
Opera in Lombardia, Liguria e a Macerata. Poi sull’Appennino emiliano, quindi a a Roncegno e Rovereto nel
Trentino e, infine, a Novara. A guerra finita fugge in Sud America, salvo tornare negli anni ’60 quando verrà
processato a Colonia. Così viene descritto da un testimone “..35 anni, alto 1,68, colorito pallido, corporatura snella,
sbarbato. Guance incavate , non cammina dritto ma torto da un lato. Disposizione molto cattiva”. Nel 2008 lo si
dava per morto in Austria ( avrebbe avuto 97 anni). Nel suo Kommando c’era anche un altoatesino, Wilhelm
Niedermayer di Cronaiano, maresciallo SS.
26 SETTEMBRE 2008: Il boia nazista di Bassano del Grappa si è giustiziato
suicidandosi con un colpo di pistola
La notizia del suicidio è stata diffusa solo nella tarda serata del 26 settembre ’08 dalla striscia di un
programma della RAI-TV: nessun altro cenno sia in TV che sui quotidiani, nemmeno su quelli mandati
on line e sulle più note Agenzie d’informazione quali l’ANSA, Reuters, Adnkronos, ecc.. Il Corriere
della Sera ha dato la notizia, che annunciava il suicidio del vicebrigadiere SS Karl Franz Tausch
l’organizzatore delle impiccagioni di massa in tre strade di Bassano il 26 settembre 1944, solo in data 28
settembre 2008.
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(Allegato D) ALBERTAZZI: un nazifascista (tra i tanti) IMPUNITO !
Nel 2004-06, lavorando sulle carte dell' Istituto per la storia della Resistenza e della società
contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, una studiosa vicentina - Sonia Residori, laureata in
lettere, ricercatrice dell’Istituto sulla storia della Resistenza (del cui direttivo è membro) della stessa città,
autrice di saggi e libri sulla storia delle donne e sulla demografia storica, (*) , ha ultimato un' ampia
ricerca sulla violenza fascista nel Veneto centrale. Insieme con Monica Lanfranco, si è soffermata anche
sul ruolo svolto dalla legione “Tagliamento” sul Grappa nell’utima guerra, unitamente a quello delle
Brigate Nere e dei battaglioni “M”, responsabili del terribile rastrellamento che dal 20 al 29 settembre
1944 ha avuto luogo in quella zona. Nel documentarsi su “quanto gli italiani si sono sporcate le mani qui
sul Grappa », quasi per caso, è uscito il nome di Albertazzi Giorgio, che comandava il 2° plotone della
3° compagnia.(**) I documenti erano lì, infilati in una busta “Tagliamento”, insieme alle carte di un
processo intentato dal tribunale di Milano a 13 legionari dopo la Liberazione e sono stati resi noti ieri da
una anticipazione della rivista MicroMega al Corriere della Sera. Giorgio Albertazzi c’era. Era lui,
infatti - il sottotenente Giorgio Albertazzi, insieme al sottotenente Prezioso e al comandante tenente
Giorgio Pucci, responsabile della terza compagnia, 63° battaglione “M”: i cosiddetti
“battaglioni del Duce siamo noi, l’elite guerriera della Rsi con la emme (M) rossa”. A guidare
l’“operazione Piave”; il grande rastrellamento antipartigiano del settembre 1944 sul Grappa fu appunto
uno di questi battaglioni, il 63°, che collaborò coi nazisti, entusiasticamente, dal 20 al 29 settembre 1944,
ad una vasta operazione di rastrellamento che causò gravi perdite alle formazioni partigiane. Come si è
detto il battaglione, appartenente alla Legione “Tagliamento”, era formato da varie compagnie e una di
queste, il 2° plotone della terza, aveva per ufficiale proprio il sottotenente Giorgio Albertazzi. Tra il
“bottino” di guerra, tre soldati inglesi fucilati e cinque “banditi” uccisi (tra essi il leggendario capitano
“Giorgi”, cioè il comandante della brigata partigiana Italia Libera “Campocroce”, Ludovico Todesco).
Albertazzi c’era, ha visto e fatto. Un incontro coi partigiani molto ravvicinato, cruento. I documenti sono
autentici, di prima mano. Inconfutabili. Vengono direttamente dal “Diario” militare dello stesso 63°
battaglione, Manoscritto firmato di pugno dal medesimo tenente Giorgio Pucci e conservato negli archivi
militari, oggi il “Diario” è reperibile su Internet. «8 lunedì, dopo mezz’ora di ostinata e violentissima
sparatoria la resistenza viene domata e i banditi lasciano sul terreno 11 morti. 9 martedì. Dopo una
ostinata lotta durata circa mezz’ora veniva ucciso un bandito e catturati 8. Venivano pure catturate due
donne, una delle quali moglie di un bandito, ed un renitente alla leva. Gli 8 banditi catturati vengono
passati per le armi. 17 mercoledì. Alle 4,30 la 3a compagnia attacca in località Mottalciata le cascina
Mondova e Caprera nelle quali risultavano asseragliati elementi ribelli»... Su internet il “Diario” si
arresta all’agosto 1944. Il seguito, gli ultimi sette giorni del sanguinoso settembre ’44, è stato appunto
rinvenuto nella busta “Tagliamento” con gli atti processuali di Milano Il documento d' archivio è
contenuto nella busta Tagliamento, che contiene copia degli atti del processo contro una quindicina di
legionari celebrato dopo la Liberazione dal Tribunale militare territoriale di Milano, e giunto a sentenza
nel 1952. Datato da Staro (presso Recoaro) il 28 settembre 1944, consiste nel diario delle operazioni
compiute dalla terza compagnia del 63° battaglione M durante gli otto giorni compresi fra il 20 e il 27 del
mese. Più esattamente, si tratta di una Relazione sull' azione «Piave» firmata dal responsabile della
compagnia, il tenente Giorgio Pucci, e da lui inoltrata al comando di battaglione. Appena due pagine
dattiloscritte, che permettono tuttavia di ricostruire con precisione - giorno per giorno, e quasi ora per ora
- i movimenti degli ottantanove legionari agli ordini di tre ufficiali: lo stesso tenente Pucci e i sottotenenti
Prezioso e Albertazzi, rispettivamente a capo del primo e del secondo plotone fucilieri. Da Solagna, gli
uomini della terza compagnia avevano risalito i contrafforti del Grappa attraverso la valle di santa
Felicita, attestandosi al limite del bosco di Monte Oro. Nel secondo giorno di operazioni, avevano fatto
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prigionieri «n. 3 inglesi e n. 3 italiani». Il primo scontro a fuoco era avvenuto il 22 settembre: intercettata
una «pattuglia di banditi», i legionari avevano prontamente reagito, «uccide(ndo) un bandito e
costringe(ndo) la pattuglia nemica a scendere precipitosamente in basso». Ore dopo, un secondo scontro
a fuoco si era facilmente concluso a loro vantaggio («poche raffiche bastarono per uccidere n. 4
banditi»). Alla fine dell' intensa giornata, la compagnia si era disposta a sbarramento della valle delle
Foglie: ma non prima di avere fatto altri prigionieri, «n. 5 individui nascosti nel bosco». La marcia di
ritorno verso Solagna era cominciata il 24, «su tre direttrici per il rastrellamento di uomini e degli
armenti». Cinque i «renitenti alla leva» catturati quel giorno, in cui fra l' altro si era provveduto a fucilare
i tre prigionieri inglesi; sette gli ostaggi dell' indomani («n. 6 renitenti alla leva ed un disertore dell'
esercito repubblicano»). La terza compagnia era rientrata a Solagna nella mattinata del 26, mentre già il
tenente Pucci si preparava ad accompagnare la sua Relazione sull' «azione Piave» con un fiero «riepilogo
dei banditi messi fuori combattimento». Dal 20 al 29 settembre 1944, un reparto fra i più sperimentati e
agguerriti della Guardia nazionale repubblicana, il 63° battaglione M, collaborò con l' esercito tedesco a
una gigantesca operazione di rastrellamento, che per le formazioni partigiane si risolse in una gravissima
disfatta. Il battaglione era composto di varie compagnie, una delle quali, la terza, aveva per ufficiale il
sottotenente Giorgio Albertazzi. Senza riuscire straordinario, il bottino militare conseguito dalla sola terza
compagnia nel breve volgere di una settimana fu comunque degno di nota: oltre ai tre soldati inglesi
passati per le armi, cinque i «banditi» italiani uccisi negli scontri a fuoco (tra cui il comandante Ludovico
Todesco della brigata Italia Libera-Val Brenta” Comando con sede a Campo Croce – settore BassanoValle S. Felicita-Canaloni di Crespano ), venti quelli catturati (in gran parte deportati a Dachau, e mai più
ritornati). Albertazzi farebbe bene a raccontare la realtà nuda e cruda: sono stato un fucilatore (o
tra coloro che comandavano i fucilatori). E lui che non ha cercato e, quindi, avuto nemmeno la
“bella morte” - quella che, si dice, in nome del duce andavano vantandosi i “Battaglioni del duce
siamo noi” - ha preferito darsela a gambe: «Dopo il 25 aprile, riparai ad Ancona..., dove misi in
scena pièce sul Primo Maggio e sui repubblicani spagnoli, sotto il falso nome di Glauco G. Albe,
per sfuggire alle reti dell’epurazione». A un fascista come lui non va richiesto alcun pentimento:
va solo preso atto di quello che è stato e rimane!
(*) - (nel 2004 è uscito il volume della Sonia RESIDORI, “Il coraggio dell’altruismo”, edizioni Cierre di Verona,
nell’ambito della collaborazione con l’Istituto storico della Resistenza) – L’altra ricerca ricerca, corredata di allegati
e documenti sulle gesta della 3° compagnia Battaglione M del sottotenente Albertazzi, uscirà sotto forma di libro in
ottobre con il titolo “L’aristocrazia vicentina di tutte le guerre”, sempre per le edizioni Cierre di Verona. Dalla
stessa autrice e dalla medesima casa editrice , nel 2007, è uscito il libro “Il Massacro del Grappa”.
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Nel concludere la ricerca propongo una testimonianza del parroco di Crespano del Grappa raccolta da
Pierantonio GIOS. E’ quasi un “fuori tema” rispetto alla ricerca ma rappresenta un tassello utile per
impedire dei revisionismi “pacificatori” che tendono a ridurre quando non a escludere un
coinvolgimento diretto dei repubblichini nell’eccidio del Grappa. E’ l’opinione di un prete e, come tale,
una visione particolare che non deve cercare un qualche consenso o dissenso bensì colta come una delle
voci che servono a rappresentare il clima di quei momenti.
Un pastore nel vortice della guerra. L'arciprete di Crespano del Grappa don
Ferdinando Galzignan
- 1944 Non è la mano che trema nel vergare queste righe, è il cuore stretto da una morsa di ferro che trema,
terrorizzato dall’avvenire fosco, fosco, che ci attende. Sperare sì…ma…su chi? Sugli uomini? Povere
nazioni martoriate, ora per ora, popoli sotto l’incubo delle stragi, fatti bersaglio del cannone e della
mitraglia, levate capita vestra Deo. Non negli uomini superbi e ambiziosi che ci hanno trascinato a queste
condizioni vergognose ed umilianti; non nel valore degli alleati, ma nel cuore amabilissimo di Gesù e di
Maria deponiamo tutte le nostre speranze, gridando il Salva nos perimus. La voce, trapelata nell'autunno
scorso, si fa oggi realtà: sono arrivati i comandi delle forze armate ad Asolo ed a Paderno. Anche qui
vediamo ufficiali superiori, alloggiati alla meno peggio; i più alti di grado in qualche villa. Anch'io devo
adattarmi ad accogliere due sottotenenti veterinari, uno molto per bene, all'opposto l'altro. La presenza di
tanti ufficiali ha sollevato subito i prezzi dei generi, introducendovi o aumentando così il mercato nero in
pieno, specie nelle uova, latte, frutta e polli; qualche ufficiale è di modi distinti e condotta esemplare; i
più noncuranti della religione; qualcuno si dimostra ateo volgare e viene obbligato a lasciare la sua
mantenuta. Nel collegio femminile risiede lo stato maggiore. Vi è anche il generale. Hanno tutti paura dei
partigiani che si ritrovano in Grappa e sono persuasi di essere in un paese con i partigiani. Quindi verso di
noi vi è una diffidenza a tutta prova. A noi muovono per lo meno compassione questi signori ufficiali:
non ne comprendiamo la loro missione; non hanno truppa, non armi, perciò sono giudicati inutili a questo
lembo di patria, utili solo al tedesco imperante dovunque. Vediamo pubblicati i bandi perché gli sbandati
si presentino alle armi. Anzi siamo chiamati in municipio, io, don Pio, don Andrea e don Giovanni.
Davanti al colonnello comandante del presidio e circondato dal capitano dei carabinieri, dal segretario
politico, dalla segretaria dei fasci e da Sante Piva. Incomincia elogiando l'attività del clero e arriva a dire
che la patria è nelle nostre mani e confida nella nostra opera. Desidera che domenica prossima ventura a
tutte le messe si legga il bando che commina la pena di morte agli sbandati che non si presentano entro
pochi giorni. Si discute un po' e quindi mi permetto di dirgli: "Voi, signor colonnello, siete come quel
medico che ordina agli infermieri di dare un purgante all'ammalato; questi non lo vuole ricevere, ma
pressato ubbidisce. Appena ingoiato il purgante, lo rigetta tutto. Così - concludo - toccherà anche a noi
sacerdoti; il popolo, da voi giudicato ammalato, prenderà il purgante, ma poi lo rigetterà e lo spruzzo
andrà contro di noi preti, non contro di voi e l'ammalato rimarrà come prima, anzi peggio di prima e se la
prenderà a petto con noi". Congedatici da quei signori ci raduniamo in sacrestia: senz'altro decidiamo di
non leggere il bando, ma solo di parlare della protezione della Madonna che avrà per la nostra gioventù.
Ho proibito nel modo più assoluto di dire dall'altare: presentatevi. E il popolo comprese bene la nostra
tattica, tant'è vero che la notte seguente venne attaccato alle porte della canonica uno scritto che diceva:
"Gli antifascisti di Crespano rendono omaggio al loro clero per la sua abilità dimostrata anche oggi
dall'altare". E, quasi fosse poca l'umiliazione vedere la condotta di questi signori, ci piomba addosso la
quinta compagnia del secondo battaglione del primo reggimento Cacciatori delle Alpi, formato da circa
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150 guardie repubblicane. La maggior parte di questi militi si comportano come avanzi da galera. Ogni
giorno ci fanno tracannare il calice di amarezze più raffinate, con quel linguaggio da veri galeotti che avea
per ritornello obbligatorio: "Ammazzare, bruciare, arrestare". Quasi che fossero stati pochi tre anni di
guerra con tante distruzioni e vittime, vengono a mettere l'ordine proprio questi famigerati, armati come
briganti fino ai denti. Sempre di notte e mai di giorno, circondano case, ove si riposa tranquillamente,
perché non abbiamo rimorsi da scontare. Entrano a viva forza in cerca di armi, buttano tutto sossopra, si
bestemmia, si minaccia e si arresta qualcuno che, provocato, non potè tacere. Si sparano fucilate, bombe
all'impazzata. Guai sentir rumore, fanno centro di bersaglio quel posto, forse per finire di uccidere
qualche gatto randagio o un somarello di un contadino che di buon mattino si preparava a salir la
montagna per far legna. Ci domandiamo tutti dove si andrà a finire di questo passo. A chi ci dovremo
rivolgere per avere un po' di protezione, e siano salvaguardate persone e cose. Ma è voce ormai generale
che anche i tedeschi mettano in pratica quanto di loro disse il Manzoni: se ne sentono continuamente dei
fatti così gravi ed eccezionali da far rabbrividire: paiono cose impossibili eppure sono realtà e "voce di
popolo, voce di Dio". Nella primavera gli ufficiali che abitano il collegio, pieni di paura, vogliono
fortificare le adiacenze con filo spinato, sacchi di sabbia; mettono sentinelle ovunque, di giorno e di notte
ed anche postano una mitragliatrice. Una notte ci svegliano con una sparatoria di bombe, fucileria. Viene
dal collegio. Il coprifuoco non permette ad alcuno di uscire; si viene poi a sapere che le camicie nere
sparavano contro i loro compagni che si trovavano dal versante opposto: ora si potrebbe ridere di quelle
buffonate, ma allora si piangevano amare lacrime. Al 5 o 6 di giugno alcuni partigiani di notte entrano
nell'albergo Socal di Possagno e contro il tenente colonnello Dell'Uva sparano alcuni colpi di rivoltella
riducendolo in fin di vita. Viene trasportato in questo ospedale agonizzante. Il 10 giugno hanno luogo i
funerali. Pochi soldati, molte camicie nere vi prendono parte; tutti con i fucili spianati. Per le strade dove
passa il corteo vi sono gruppi di soldati, pure loro armati di tutto punto. Non un borghese prende parte al
pio rito. Il giovane Bortolazzo Gino di Giovanni muratore, sta conducendo il carrettino di mattoni e gli
sfugge la frase: "Non sarà questo il primo funerale". Subito viene preso da questurino in borghese,
ammanettato, guardato da due militi e una serata viene condotto a Treviso. La mamma sua è disperata, il
papà impreca, si fa ressa di gente. La mamma viene ad implorare il mio intervento. Non mi azzardo
affrontare quelle belve umane. Solo quando vedo entrare nella casa del fascio il capitano dei carabinieri
Testi, prendo coraggio e mi faccio audace. Il commissario di pubblica sicurezza e peggio ancora il
maresciallo delle camicie nere non volevano ascoltare raccomandazioni; ma, fatto forte della presenza del
capitano Silvio Zardo in rappresentanza del segretario politico, parla in favore dell'arrestato. Poi io pure
sono ascoltato ed infine il capitano fa togliere le manette al caro Gino e lo mandano a casa libero. Quella
famiglia viene presa di mira, perseguitata, più volte visitata di notte, si vuole incendiare la casa, si arresta
il padre; viene battuto, insultato, fino a tanto che i tre figli sono costretti a darsi alla montagna, veri ribelli,
alle barbare violenze dei soldati del duce. Pochi giorni dopo nell'istituto Filippin, sede del comando delle
forze armate, una notte si spara dai carabinieri di guardia, pare contro qualche partigiano. Viene ferito il
maresciallo Carola Biagio e, trasportato nel nostro ospedale, muore. I126 giugno gli si fanno i funerali,
come quelli del signor colonnello. Senza nessun incidente. Le camicie nere si mordono dalla rabbia, ogni
notte si sparano bombe a mano, si vuole vendicarsi di Crespano. La domenica 6 agosto, dopo la messa
delle 11, un bel numero di camicie nere a mia insaputa entra nella chiesa parrocchiale, sono tutte armate;
salgono in organo, nelle adiacenze, ovunque e con poco rispetto per la casa del Signore. La piazza è
bloccata: circa 200 persone vengono fermate e condotte in caserma, controllate, e poi quasi tutte
rilasciate. Appena conosciuta la profanazione della chiesa, scrivo una lettera al comandante, invitandolo
nel mio ufficio. Lo ricevo alle ore 11,30 del giorno seguente. Faccio la mia protesta solenne in formis, egli
si scusa, lo invito a mettere in scritto ogni cosa e dopo mezz'ora ricevo questa lettera.
Guardia nazionale repubblicana - Secondo reggimento Cacciatori degli Appennini -Secondo battaglione 50
Comando quinta compagnia Posto di comando 717 - 7 agosto 1944
Al molto reverendo don Ferdinando Galzignan, Arciprete vicario foraneo Crespano del Grappa
Sono venuto a conoscenza stamane che durante l'operazione di verifica dei documenti da me ordinata ed
effettuata ieri nella piazza di Crespano, alcuni legionari, contrariamente alle mie precise disposizioni,
sono penetrati in chiesa allo scopo di controllare se vi si fosse rifugiato qualche elemento sospetto,
usando parole e modi non intonati all'ambiente sacro. Mentre deploro vivamente quanto è avvenuto a
mia insaputa e contro il mio ordine, comunico di aver provveduto disciplinarmente a carico dei responsabili e vi prego di accettare le mie scuse. Devotamente. firmato: il comandante la compagnia
(Capitano Pompeo Pompei)
Nella sera del 18 agosto alle ore 8 pomeridiane due camicie nere arrivano a San Vittore, entrano in una
casa, vedono due pacifici giovanotti alla radio e senza nulla dire ne ammazzano uno, Colombara Antonio,
e feriscono a morte l'altro, Pietro Bosa di Sebastiano. Il volgare assassino certo Pistore, siciliano, il giorno
dopo viene da me per i funerali che permette vengano fatti con certe limitazioni. Gli rispondo: "Queste
cose doveva venirle a trattare da me un ufficiale, e non un semplice soldato". Quando vuole dare
disposizioni gli dico subito: "Sappi che la salma di un cristiano morto, appartiene alla chiesa e io farò
quanto è in mio dovere. Verrò all'ospedale, accompagnerò la salma in chiesa, celebrerò la santa messa
con le esequie". Egli soggiunge che non potranno intervenire più di 12 persone e senza corone. Gli
rispondo che io non accetto questi ordini. Si rivolga altrove a darli, perché io farò il funerale alla presenza
di nessuno, come di mille intervenuti. Il numero di questi e delle corone non mi riguarda. La sera del 19
agosto abbandona il posto di telefonista ad Asolo, il soldato Rizzardo Nereo di Antonio; viene subito
arrestato. Il papà suo corre a cercarmi. Mi trova in confessionale. Piange come un bambino. Mi prega di
liberare presto il diletto figlio suo. E' domenica. Celebro alle 9; alle 10.30 sono in caserma della Guardia
repubblicana. Il tenente Nardi, da Siena, mi dice che nulla si può fare: comanda la compagnia il tenente
Verutti (Berruti ndr.) da Torino. Vengo presentato a questo ufficiale e dopo i convenevoli: "Voi mancate
ai patti -gli dico-; siamo d'accordo che lascerete sempre liberi i giovani che sono a casa perché la loro
presenza vi assicura che non sono tra i ribelli. E perché allora trattenete il Rizzardo?". Egli vuole
dichiararlo disertore; lo persuado che è un provvedimento sbagliato e provocante; finisce a mandar- mi
con Nardi a liberare il carcerato che alle ore 11.30 conduco fra i suoi genitori, che ci accolgono con
lacrime di gioia. Da giorni avevo liberato dal carcere la Nini Mantovani. Ma ecco un nuovo arresto di
questa ottima figliola insieme alla Lucia Danieli. La prima, perché ha il fratello in montagna arruolato alla
brigata "Italia libera"; la seconda, per relazioni con i ribelli. Faccio conoscenza con il maggiore Zajotti
Emanuele: autorizzato dal sottosegretario della guerra Basile, esplica qui le più ampie facoltà sulla
Guardia repubblicana. Di carattere violento, perfettamente sordo, odia cordialmente i sacerdoti; permette
però che lo si avvicini. Io non gli riesco così antipatico e lo trovo un burbero benefico. Le carceri ormai
vanno sempre più popolandosi; è arrestato Capovilla Mosé e la figlia Fanny perché il figlio Dino ha
abbandonato il suo posto di carabiniere ad Ampezzo e si è dato alla macchia. Vado subito in caserma. Si
conviene che se io ricondurrò Dino, papà e la figlia saranno subito rilasciati. Il giorno dopo 27 agosto il
ricercato viene da me. Siamo davanti al tenente. Vi è anche il capitano della Guardia repubblicana. Mosè
e la Fanny vengono scarcerati e Dino dichiarato in arresto per ordine del comando della legione dei
carabinieri. Fu come bomba in pacifica tenda, ma l'ordine è preciso. Il capitano vuole metterlo in carcere
di sicurezza. Lo prego di desistere; discuto con due ufficiali e, partito il capitano, il tenente mette in
libertà tutti e tre, purché io mi assuma la responsabilità di riportargli la rivoltella del carabiniere. Il giorno
dopo consegno un bel tipo nuovo di rivoltella "Beretta" e un po' di munizioni. Soddisfatto di questo buon
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esito domando di visitare le due suddette signorine. Mi accolgono con lacrime cocenti. Assicuro il mio
vivo interessamento e dopo mezz'ora le lascio con cuore sanguinante. Il 30 agosto la figlia del maggiore
Zajotti, a nome Rosa, doveva celebrare il matrimonio col signor Mario Maurich. Gli invitati erano tutti in
primo piano. Già fioccano i regali, telegrammi, fiori in casa Zajotti, quando proprio alle 21 del giorno 29
due partigiani bendati rapiscono la figlia del maggiore, Luciana e non si sa dove sia stata trascinata. Alle
22.30 la moglie di Zajotti, Emmina, viene in canonica, vuole parlarmi. La ricevo: è disfatta. Non riesco a
consolarla affatto. Alla mattina 30 agosto alle 8 sono dal maggiore: mi riceve in carabina a tracolla. E'
truce: desta spavento. Ha girato tutta la notte. E' fuori di sé. Minaccia di bruciare le case vicine, Più di 30
guardie repubblicane sono con lui. Girano dovunque. Il non trovare né tracce né indizi li rende più feroci.
Se non tornerà la rapita, sento che la Mantovani a mezzanotte verrà messa al muro. Provvidenza volle che
alle 11 l'infelice Luciana tornasse in famiglia. Aveva promesso ai suoi rapitori di non parlare e si
mantenne al fedele al giuramento. Corro verso sera in carcere. Attendo il maggiore. M'investe come non
mai. Gli scrivo la supplica di lasciare in libertà i due ostaggi. La legge, la stringe tra le mani e, battendo i
pugni sul tavolo, indispettito parte. A1 mattino dopo, alle 6, il suo attendente mi porta questa lettera.
Crespano 30 agosto 1944 XXII
Caro arciprete,
sono assai dolente che nell'esasperazione dell'anima mia dovuta all'accaduto di ieri sera, abbia rivolta a
te parole assai dure. Ma ben sai come esse, anche se dette a te, fossero dirette a quella masnada di
traditori, delinquenti che, non paghi di aver tradito la patria a suo tempo e di tradirla ancora, persistono
nel voler a tutti i costi colpire coloro che alla patria tutto danno e sono ancora pronti a donare! Avrei
accolto ben volentieri la tua preghiera nei riguardi delle signorine fermate dalla Guardia nazionale
repubblicana, ma al riguardo è bene che tu sappia che, se anche per una non creata combinazione il loro
fermo è coinciso con l'accaduto di ieri sera, ciò è avvenuto soprattutto per motivi assai gravi e che non
hanno nulla a che vedere con la mia persona né quelle dei miei familiari. Inoltre non si può né si deve
dimenticare che la Mantovani ha un fratello coi ribelli di Italia Libera che trovasi a monte Croce. Ed
allora? Possibile che, mentre nessuna lacrima viene sparsa per le migliaia di vittime innocenti uccise
dall'idra rossa, proprio mezzo mondo si muova sol perché la Mantovani è in guardina? Ed è possibile che
ci si debba commuovere alla disperazione della nonna della Mantovani che almeno sa di avere la nipote
in guardina, mentre nessuno si è preoccupato della disperazione di una madre malata che per sedici ore
è vissuta con l'angosciosa disperazione di non rivedere la figlia? Per tali motivi, a meno che non mi si
diano formali e concrete garanzie sulla incolumità mia e della mia famiglia, considero la Mantovani
come ostaggio fino a quando la mia famiglia non avrà lasciato il paese. Il dottor Mantovani ha curato
mia moglie e mi conosce assai bene. Quindi, se ci tiene a sua nipote, venga in tua compagnia da me per
la chiarificazione della situazione. Con affettuosa amicizia.
firmato: maggiore Manuel Zajotti
Alle ore 7 son dal dottor Mantovani per accordarmi sul modo di sottrarre la povera Nini. Esco
dall'ospedale alle 8. Zajotti mi attende da un pezzo all'entrata. Ritorna a scusarsi della scenaccia fattami
ieri sera e mi riaccompagna a casa. Alle 10.30 celebro il matrimonio della sua figliola. La chiesa è circondata dalle camicie nere. Però tutto procede con ordine. Terminato il sacro rito, appena in sacrestia, il
maggiore viene a baciarmi. Mi ringrazia commosso. Io mi metto a piangere. Vuole sapere il perché, e gli
rispondo: "Lasciami libera la Mantovani". Un no secco mi trapassa il cuore. Raddoppio il pianto. Egli
esce, poi rientra, mi vuole al rinfresco. Accetto, nascondo a tutti la mia commozione; invitato, brindo agli
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sposi beneaugurando e, aiutato dalla moglie, prima di partire, rinnovo la mia supplica; ed egli finalmente
mi risponde: "Stasera forse ti accontenterò". Alle 11.45 sono in canonica. Mi attende il dottor Mantovani.
Ci accordiamo che si porti subito in montagna a parlamentare con Giorgi (capitano Todesco), comandante
della brigata Italia Libera, perché non permetta più rapine o altri gesti inconsulti: ne andrebbe di mezzo
tutto il paese che senz'altro da questi pazzi verrebbe bruciato. E il caro dottore con quel caldo soffocante,
che vien dalle rocce brulle, sale a piedi. Lo seguo con il pensiero e con l'affetto e con la preghiera. Alle 15
mi porto ad imbucare una lettera. Il maggiore mi vede dall'albergo, mi vuole a prendere il caffè con gli
sposi. L'accontento e tutto felice esclama: "Vi avverto che ho dato ordini di scarcerare la Mantovani".
Rispondo: "Deo gratias"! Sono più che lieto e corro ad accertarmi. La Nini è accanto alla nonna,
tranquilla: tutti mi ringraziano. "E' sempre poco - rispondo - ciò che facciamo noi per ricompensare
l'opera generosa del dottor Mantovani, vero padre putativo di Crespano". Se il settembre scorso fu un
vero calvario per l'Italia, quello di quest'anno è un rinnovato calvario per Crespano e i paesi pedemontani.
Ogni giorno e parecchie volte al giorno sono chiamato in carcere. Riesco a liberare la Petronia
Manganello, il figlio suo; il 15 il maresciallo dei carabinieri Sguario, da due settimane detenuto con due
suoi figli; il 20 la Bortolazzo Maria fu Sebastiano che aveva già il verbale pronto per venire trasportata in
Germania; il 21 Torresan Giuseppe; due giovani da Borso, uno da Fietta. Il mio cuore soffre più che mai.
Poche volte ho sentito così straziante il peso del mio ministero pastorale. Ho dovuto mettermi a letto e
anche là ho ricevuto persone ricercate e poi liberate. Ma la tazza non era ancora colma. La Provvidenza
aveva un'altra croce da addossarci. Ristabilitomi alla meno peggio, il 22 mi alzo e circa alle 9 si
presentano nel mio studio due graduati tedeschi. Il capo, un omone volgare, comandante del plotone di
esecuzione della S.S., con un portamento triviale, sfacciato, mi dice: "Voi preti tutti in prigione".
Domando perché e mi risponde: "Voi prestate vesti ai ribelli. Raus". Mostro la carta d'identità. Sentono
che sono arciprete di 66 anni. Mi impongono di dire quanti preti ho e dove si trovano. Se non sono
svenuto, lo devo alla Madonna. Non mi sento di dire in quale strazio sono piombato con la mia diletta
parrocchia, lascio perciò alla penna più forbita di un padre dei scalabrini descrivere come ci è venuto
addosso il rastrellamento, vero uragano che tutto abbatte, distrugge, annienta.
Ricordi del rastrellamento del Grappa (22-28 settembre 1944)
Un movimento straordinario di macchine, di truppe; l'agitazione, il timore di cui la popolazione è preda ci
fanno comprendere che qualche cosa di brutto sta per avvicinarsi. L'enigma non tarda ad avverarsi. Fin
dalle prime ore del 21 il cannone ci sveglia. Si parla di rastrellamento. Nessuno può uscire fino alle ore 9.
Le campane sono mute, la montagna coperta da una fitta nebbia, propria del settembre che fa maturare le
castagne, ma questa volta ben altre castagne si bacchiano. Un doppio cordone di truppe circonda il
massiccio del Grappa, mentre i soldati tedeschi e della Brigata Nera di Vicenza fanno la scalata. In
montagna si combatte forte. Dapprima si resiste; poi dinanzi a forze maggiori, si comincia a cedere. Qui
vengono rastrellati tutti gli uomini ed i giovani, che incolonnati sono rinchiusi nelle scuole della sala
Canova, senza permettere di portare con sé né cibo, né coperte, mentre le case sono perquisite col terrore
delle mamme e dei bambini. Ogni movimento è proibito per le strade, eccettuate due ore, una al mattino,
l'altra alla sera, appena sufficienti per dar tempo alle donne di portare un po' da mangiare ai rinchiusi.
Almeno ai sacerdoti si sperava venisse permesso di esercitare il proprio ministero a favore dei poveri
condannati: al contrario il 22 settembre vengono emessi ordini speciali, si trama un piano speciale per
prendere tutti in gabbia. Alle 9 era cessato il coprifuoco. I sacerdoti ed i chierici si affrettano alla chiesa
per la santa messa. In chiesa non c'era anima viva. E' prigioniero anche il sagrestano. Durante la santa
messa una cosa straordinaria si nota: dei soldati sembrano voler ascoltare la santa messa, ma entrano ed
escono con un atteggiamento poco devoto. Tutto finito, i sacerdoti ed i tre chierici del seminario un po'
intimoriti escono, ma appena fuori dalla porta un piantone li attende e senza tanti complimenti li costringe
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a seguire la sorte che già a qualche altro prima di loro era avvenuta. Li rinchiudono all'albergo Campana.
Io sono tra costoro. Col pallore in viso, vedo arrivar altri: sembrano condannati a morte. Il mio cuore si
dilata: mal comune mezzo gaudio; chissà che non ci facciano tutti martiri? Eravamo in dodici: due
scalabriniani quattro sacerdoti della parrocchia di Crespano, quattro chierici e i parroci di Fietta e di
Scorzè. Qualcuno si esamina la coscienza per scrutare se nulla poteva rimproverargli troppo coraggio di
fronte ai nuovi interrogatori. In mezzo alle più disparate supposizioni, qualcuno si fa portare le scarpe, il
soprabito e qualche coperta, rassegnati di accettare la cattiva sorte di quel giorno e sperando non dovesse
essere così a lungo. La sera scendeva triste e buia: già arrivavano i primi prigionieri. Si entra nella via
purgativa, si recita il santo ufficio, poi il santo rosario per i caduti per i condannati per ottenere l'aiuto e la
forza della Madre della misericordia per quanti sono nell'angoscia e nel dolore. Sotto il nostro salone è
tutto un via vai di soldati tedeschi nelle cui mani sono le nostre sorti. Dalla strada ci giungono un po'
coperte dal rullo delle macchine le grida strazianti dei condannati che presto si dileguano lasciando in tutti
le più tristi impressioni. La notte arriva in qualche maniera. Come i polli si cerca un cantuccino, una
seggiola, un divano; chi è più fortunato, una poltrona e si fa il possibile per riposare e dimenticare la triste
realtà. Le ore passano lente. Le spalle stentano ad adattarsi al nuovo letto, mentre intanto ci giunge l'eco
delle raffiche di mitraglia e delle bombe a mano. Allora ci adattiamo alla nostra sorte rassegnati a non
celebrare la santa messa, privazione che più di tutto ci addolorò. Le condanne si susseguono anche per
semplici sospetti senza dare il conforto dell'assistenza religiosa, più volte richiesta dall'arciprete e dal
cappellano del collegio. Sono a Bassano il coraggioso padre Nicolini dei camilliani. Sfidando la morte
senza farsi a scorgere, sale sul carro dei condannati conforta, assolve e benedice. Le perquisizioni, i
rastrellamenti di uomini, animali e di quanto può interessare, gli incendi di case e fienili continuano per
una settimana, gettando nella miseria tante povere famiglie. Nella sola parrocchia di Borso, abbiamo 47
cascine bruciate in montagna e 18 case di abitazione in paese. Finalmente il lunedì il rumore cessa. Sui
volti di tutti si nota un senso di gioia; e infatti le truppe tedesche partono. Quella faccia truce, dai vocaboli
indecifrabili sempre con la mitra puntata in avanti sparisce. Ora i bocconi scendono più volentieri ed il
vino dell'arciprete è più gustoso. Ognuno può riposare sul letto offerto dai buoni albergatori senza dei
quali in quei giorni noi saremmo morti di fame, più che di paura. Per mezzo di loro e con le donne di
servizio si potevano far aver da mangiare ed arrivare fino a noi per metterci al corrente di tutto. Ancora
però non si respirava del tutto. La Brigata Nera di Passuello voleva sfogarsi? Per fortuna fu cosa da poco
e di poche ore. Veniamo a sapere che in piazza venne impiccato il giovane croato che col nodo alla gola
domandava il sacerdote, e nel 24 il tenente dei carabinieri Giarnieri Luigi che implorava anch'egli un
confessore. Si dice che gli assassini gli abbiano risposto: "Te lo daremo noi il confessore ". E' semplicemente enorme. A mezzogiorno ci conforta la presenza del signor arciprete, che ci ha fatto preparare
un vistoso pranzetto con vino di bottiglie offerto da persona generosa.
Come dopo una terribile grandinata si esce sul campo a controllare i danni, così, partita la Brigata nera
copertasi d'infamia, si corre verso la montagna per domandare ai superstiti che avevano gridato guerra
alla guerra, se vi fossero vittime. Veniamo a sapere che caddero fulminati Torresan Aldo di Giuseppe;
Guadagnini Ilario fu Girolamo; Melchiori Adolfo di Francesco; Tonin Aldo di Giacomo, tutti giovani di
belle speranze. Durante il rastrellamento, ogni giorno, circa 200 giovani e più, caricati su camion, guardati
da tedeschi o camicie nere, partivano con destinazione ignota, dopo aver sentito in piazza la voce del
comandante Passuello che li rimproverava di esser stati vittime della propaganda dei preti e del Vaticano.
Nella sola contrada Gherla 8 giovani dai 18, 20 anni dei migliori del paese, di elette virtù cristiane, vennero presi come ostaggi e, nonostante le nostre premure per liberarli a Bassano, vennero mandati in
Germania come feroci ribelli. Poveri agnelli condotti al macello. Padre Biondi, benedettino e don Ugo
Orso, cappellani della brigata Muti di Padova, a nome di Sua Eccellenza vengono a visitarci. Mi trovano
indisposto a letto. Li ringrazio molto pregandoli di umiliare i nostri omaggi all'amatissimo nostro padre e
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maestro monsignor vescovo. Ristabilitomi alla meno peggio, incomincio di nuovo la via verso il carcere.
Vi è la Ina Sguario: si vuole farla cantare, è percossa brutalmente, ma essa tutto affronta, sopporta e tace,
non un nome dei partigiani esce da quella bocca. Arrestata il 25 settembre, rincasa il 5 ottobre. Riesco
pure a togliere da quelle barbarie Favero Mario di Borso con altri 4 di colà, la Lucia di Damiano Danieli,
Pontin Pietro, più volte carcerato, una insegnante di Borso col fratello suo, ed altri dei quali mi sfugge il
nome; lo studente in medicina Ferrarese Tarcisio di Paderno, partigiano della prima ora: ferito a morte da
queste camicie nere, rimase più mesi all'ospedale piantonato. Prendo accordi col capitano Zilio di
Bassano e riusciamo a sottrarlo alla sentinella e portarlo ai suoi parenti di Bassano. Padre Biondi mi
aveva assicurato che a Bassano poteva aiutarci molto il tenente Perillo, comandante di illimitati poteri. II
3 ottobre sono ad intervistarlo. Mi accoglie bene. Mi accorgo che è di una astuzia da vero poliziotto.
Metto i patti per condurgli Nino Mantovani che scenderà da Campocroce. Lo farà arruolare nel corpo
della sanità. I14, alle ore 15 prendo un'auto; davanti si mette un mio amico capitano, funziona così da
salvacondotto. Andiamo a levare Nino nascosto in una casa: con lui vi è il sottotenente degli alpini Nello
Prevedello, pur egli dell'Italia Libera. Salgono in fretta e via a Bassano. Alla caserma Monte Grappa,
prima il capitano Zilio e poi Perillo accolgono i due giovani fieri con molta deferenza e mi assicurano che
li tratteranno bene, dimenticando il loro passato. Due giorni dopo, sono qui a salutarci, ripartono. E la
domenica 8 Nino a mezzogiorno sta per entrare in paese e viene arrestato dalle camicie nere. La sorella
Nini corre a Bassano, ottiene da Perillo un ordine di scarcerazione; parla con il capitano delle camicie
nere: anche questi ordina la scarcerazione di questo caro giovane, ma in caserma si sta macchinando il
tradimento. Deve esser fucilato ad ogni costo ed in barba a tutti. Lo si mette in libertà, ma quando sono
già calate le tenebre. E' pedinato, gli si impedisce di entrare all'ospedale per salutare lo zio. E' in piazza,
quasi vicino a casa sua: ecco una scarica di mitra su quell'innocente che cade, viene portato in ospedale,
medicato dallo zio, si confessa, riceve il santissimo viatico e poi muore. La canaglia aveva vinto.
Il dottore nostro era stato colpito nell'intimo dei suoi affetti. Tutto il popolo come una siepe di cuori era
attorno a lui. Per ben 4 volte era stato arrestato, ma aveva tenuto testa a volgari interrogatori e a stupide
insinuazioni; conobbe il carcere, ma la sua fede incrollabile non piegò. Si cercarono accusatori con
generose promesse o forti minacce; non uno si addossò la maschera del calunniatore. Nemici il dottore
non ne aveva mai avuto tra i suoi concittadini; rivali nell'arte sua, uno solo che io mi sappia che tentava di
minarlo, ma da lontano e sempre nascostamente, mai a visiera alzata. Mentre la sua delicata professione
esigeva in lui la massima tranquillità di spirito, più volte di notte nella sua abitazione entrarono le camicie
nere a frugare ogni angolo remoto, tra lo spavento della veneranda mamma sua, della gentile sua sposa e
del suo Giancarlo. Il libro dei suoi atti operatori, controllati con occhio di lince per vedere se erano notate
operazioni a partigiani, tutto testimoniava il grande chirurgo di coscienza illibata. Però dopo l'assassinio
così volgare del nipote, il dottore non si sentì più sicuro della vita: domandò un mese di licenza e
scomparve per due mesi. L'ospedale se ne accorse subito: meno della metà dell'ordinario si ridussero gli
ammalati e ormai si temeva di dover chiudere il pio luogo. Il nostro amato dottore ritornò al posto di
lavoro, rassegnato, ma vigile. Portò la vita, la prosperità e la serenità nel cuore del suo cuore e a tutta la
popolazione. A colmare la tazza del nostro dolore venne il rastrellamento degli uomini per assegnarli ai
lavori della T.O.D.T. Il maggiore Tramer, sebbene si mostrasse cattolico, non conosceva eccezioni per
alcuno: potei con grande fatica liberare qualche capo famiglia dalla chiamata e qualche altro. E così dopo
tante amare vicende, pieno di incendi, di delitti, di morti, di quei 90 impiccati tra la Brenta ed il Piave,
tramontava il 1944, mentre nell'ultima sera dell'anno le camicie nere si abbandonavano alle orge e il
popolo crespanese pregava nel silenzio la Madonna del Covolo che ci avesse a portare la sospirata pace.
ANNO 1945
In una seduta indetta dal maggiore Zajotti, alla presenza del podestà e dei parroci di Cavaso, Possagno,
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Paderno, Fonte, San Zenone e Borso, il maggiore Zajotti raccomandò a tutti vivamente di arruolare tutti i
giovani che erano a casa nella Flak. Ebbe verso di me parole troppo generose perché pubblicamente
assicurò i presenti che, se non fu incendiato Crespano dai tedeschi, lo si deve unicamente all'arciprete.
Altrettanto disse il tenente Perilo al padre Biondi, benedettino, nei primi giorni di ottobre 1944. A rimpiazzare il posto delle camicie nere fuggite venne un plotone di 20 soldati, comandati da un sottotenente
dei bersaglieri, napoletano, ma sempre sotto la giurisdizione di Zajotti. Il 18 febbraio armati entrarono
nella chiesa parrocchiale di Borso diversi militi, insultando con basse parole il benemerito arciprete che
venne straziato a riferirmi la cosa. Nel 19 febbraio col numero 394 di protocollo scrissi questa lettera.
Gentile signor comandante "Presidio"
È mio stretto dovere segnalare all'eccellentissimo mio vescovo che ieri soldati dipendenti da voi si sono
permessi di entrare armati in chiesa ed in canonica di Borso per cercare ribelli e renitenti. Il loro atto mi
ha assai amareggiato assieme a quei venerandi sacerdoti, mentre quel buon popolo si è abbandonato a
giudizi molto severi. Che ciò possa accadere tra bolscevichi, lo si comprende; ma ciò si faccia nel Veneto
cattolico e da soldati che portano il nome grande di italiani è semplicemente enorme. Pensate, signor
comandante, se domani lo venissero a sapere i nostri nemici, come la radio Londra lo comunicherebbe a
tutto il mondo con parole altisonanti e quali conseguenze ne avrebbe il vostro nome. Prima di addossare
a voi la responsabilità, gradirei sapere da chi è partito l'ordine. Vi prego di accettare il mio deferente
ossequio. Sempre devotissimo. Arciprete
Subito alla sera vennero a presentarmi le loro scuse l'ufficiale ed un sergente maggiore e, nella parola di
non ripetere più tali atti, si chiude il disgustoso incidente. Il 9 marzo il maggiore Zajotti mi scrive:
Mio caro arciprete, il presidio militare tedesco di Possagno, chiede gentilmente l'uso del locale del
cinema di Crespano di cui al manifesto che allega. Ti sarò molto grato se vorrai cortesemente aderire a
tale richiesta. Con affettuosa devozione Zajotti
Concedo l'uso della sala Canova e dopo il concerto, chiuse le porte, si danzò allegramente fino all'una.
Subito mandai questa lettera:
Gentile signor maggior Zajotti Emanuele, comandante del presidio.
Voi con l'abituale vostra signorilità mi avete pregato di concedere la sala Canova per un concerto
musicale che alcuni soldati tedeschi offrirono sabato prossimo passato ai Crespanesi. Ho controllato il
programma e ho detto: "A tanto intercessor, nulla si nega". Mi venne riferito che dopo si danzò molto
allegramente. Non si pensò che la sala cattolica è di proprietà della chiesa e nessuno mai si azzardò a
profanare quel luogo, che merita riguardo speciale. Si passò sopra al coprifuoco, alle disposizioni che
vietano le danze, non ricordando che siamo in tempo di Quaresima. Si sono fatti piccanti giudizi del
popolo contro di me, perché non si sa e non si vuole sapere che io ho dato il mio consenso per il
programma di musica e non al ballo, e ciò mi addolora alquanto. Sta bene che voi, comandante, sappiate
queste cose per regolarvi nell'avvenire. Con deferenti ossequi.
firmato: l'Arciprete.
Nel 27 marzo tornò il capomusica tedesco a chiedermi nuovamente la sala, accompagnato dal sottotenente
Soranzo: con molto garbo, ma con altrettanta fermezza gliela negai. Si tentò di farmi piegare, ma
inutilmente. La sala rimase e rimarrà sempre chiusa. Iniziai la pratica dei 5 primi sabati del mese come
aveva proposto ai veggenti la Madonna di Fatima. Fu un vero trionfo della grazia di Dio. Intanto un vero
collasso si notava tra i soldati e le poche camicie nere. La radio Londra narrava quanto i giornali tacevano
o negavano. Voci di persone autorevoli mi confortavano assicurando vicino il crollo della Germania. Con
maggior lena abbiamo continuato il nostro segreto lavoro, di giorno per ascoltare Zajotti e compagni, e
alle ore 18 di giorni alternati, riferendo al dottor Mantovani (capo partigiani) quanto ci interessava. Ci fu
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di valido aiuto la signora Giulia Fuga col marito Attilio, la giovane di servizio Brion Cristina, e la
staffetta che faceva servizio per Bassano, Panizzon Tecla. Il giorno 8 maggio ho spedito alla veneranda
curia vescovile di Padova questa relazione:Nella soave speranza di fare opera gradita ai miei amati
superiori e più ancora per sentito dovere, farò un po' di cronaca degli ultimi avvenimenti di questi giorni
di profonda preoccupazione (dal 26 aprile al 6 maggio 1945). In questa parrocchia fortunata fra tutte
perché vero giardino di Maria santissima, non una granata, non un ferito, non un morto, fino all'alba del
30 aprile.
26 aprile 1945: giovedì
Alle ore 16 l'ex maggiore veterinario dottor Cataldo siciliano, mi viene a pregare di portarmi dalla Brigata
Nera e convincerla a deporre le armi. Pochi momenti dopo, per il medesimo scopo, mi si presentano il
capo dei patrioti di qui, Dario Costa, e quello di Paderno, ragionier Mario Sartor. Il loro portamento
austero, fiero, mi fa capire che sono decisi a tutto. "Lei ci farà molto piacere - mi dicono - di andare a
nome nostro dal comandante della caserma Silvio Zardo a dirgli che entro mezz'ora vogliamo la consegna
immediata delle armi, se vogliono i suoi militi salva la vita, tergiversare sarebbe troppo tardi. Abbiamo
già bloccato le strade e siamo oltre 300". Raccomandandomi alla Madonna, parto. La caserma è
sottosopra. Tratto col solo Zardo. Già persuaso di arrendersi, riunisco tutti i militi, manifesto lo scopo
della mia missione. I più giovani non vorrebbero piegare; ma, garantendo io stesso la loro incolumità,
cedono. Per assicurarli a rimaner tranquilli conduco con me Zardo a parlamentare con i capi che mi
attendono in canonica. Messi i patti e accettati partono soddisfatti. Un quarto d'ora dopo arriva da Treviso
il tenente della Brigata Nera, accompagnato da quel Pistone che con un colpo di mitra nell'agosto scorso,
uccise un caro giovane di qui Colombara Antonio, e ferì gravemente Bosa Pietro, poi guarito, Vi è anche
Zardo. Il tenente Nardi Carlo vuole assicurarsi di quanto mi incaricarono i capi dei patrioti poi senza dire
parola mi strinsero tutti la mano, ringraziandomi e via. Eccomi a contatto con il bravo brigadiere delle
finanze Pintus Giorgio, sardo: ha ordine di sparare contro i militi se non cedono le armi. Alle 8
pomeridiane, con le sue guardie, farà l'azione che gli venne comandata. Corro allora subito al telefono. Il
brigadiere va in caserma: si fa vivacissima discussione col tenente Nardi ma i patrioti assediano ormai la
piazza, la caserma, ogni contrada. Sono già qui Fietta, Paderno, Sant'Eulalia, Borso, Semonzo, tutti armati
di moschetto, mitra, bombe ecc. La resa diviene totale. Padroni ormai dell'ambiente, arrestano tutti i militi
più per precauzione e i pochi iscritti al partito fascista dopo l'8 settembre 1943. Nella notte pattuglie di
giovanotti fanno da sentinella. Così trascorse il sessantaseiesimo mio natalizio.
27 aprile 1945: venerdì
A ovest di Crespano spunta una colonna di automezzi tedesca: nasce uno scontro pericolosissimo con i
patrioti che disarmano alcuni nemici. Gli altri sparano. I nostri fuggono. Entrano gli assaliti nelle case,
prendono 15 persone come ostaggi le mettono sul parafango e non smettono di sparare per avere via
libera. Sono le 8 e dalla chiesa sta per uscire un funerale; in piazza, sei sette e più soldati tedeschi
sparano. Fischiano le palle ovunque e rientrano le persone che portavano la bara con il cappellano
dell'ospedale. Tutti chiudono le porte e le finestre. Viene lanciata una bomba dal signor Ellero, sfollato di
Padova, nella sala da pranzo letteralmente distrutta. Piove. Passa la colonna di soldati, auto, cavalli ecc.
Crespano sembra un cimitero. Il signor maggiore, perfetto gentiluomo austriaco e ottimo cristiano,
direttore dell'ospedale tedesco in collegio femminile: vuole osservati i diritti di zona ospitaliera. Nelle
strade che arrivano da Bassano a San Zenone mette soldati della Croce Rossa che avvertono i loro
compagni in fuga di passare tranquillamente per Crespano, senza paura di venire assaliti. Fu quest'ordine
la nostra salvezza. Passano colonne e colonne di soldati, cavalli di eccezionale bellezza, fieri anche sotto
la pioggia; verso sera corre voce che sono alla Gherla 150 della S.S. tedesca. Lo spavento, anzi il terrore,
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assale tutti, e verso le 19 si sente una mitraglia che spara a tratti. Poi l'esplosione di grandi bombe che
assordano. Un carro mitragliatore sosta in piazza e spara, Da una finestra semichiusa vediamo passare
quasi 40 autoambulanze di feriti che sono trasportati nel collegio femminile e 60 in questo ospedale. Si
dice fossero più di mille. Non ho poi ricordato che alle 4 pomeridiane si era sparsa la voce che la
Germania aveva domandato la pace. Al molto reverendo don Zago e don Roncaglia che mi recarono tale
notizia, risposi che era un nuovo 8 settembre badogliano; ma, siccome il comandante la piazza
confermava la notizia, permisi il suono delle campane che dopo mezz'ora feci sospendere, perché non mi
risultò vera la voce sparsa.
28 aprile: sabato
Durante la notte continuo passaggio di automezzi, carri armati; così al mattino verso mezzogiorno
veniamo invitati a tapparci in casa. E' prossimo l'arrivo di altri 100 militi della S.S. tedesca, armati fino ai
denti che vogliono mettere a ferro e fuoco il paese. Il maggiore dell'ospedale tenta di persuaderli alla
calma; piazzano quattro mitragliatrici pesanti verso il collegio. Corrono a cercare i patrioti che per i fitti
avvenuti stavano rincasati. Scende la notte; da lontano tuona il cannone e ci raccomandiamo, come ogni
sera, l'anima a Dio. Intanto 6 feriti tedeschi sono morti nel collegio; un buon cattolico, nell'ospedale,
baciando il crocifisso.
29 aprile: domenica
Verso le 5.45 la chiesa è quasi deserta. Alle 6.15 celebro la santa messa, raccomando di tornare e di
rimanere tutti in casa recitando il santo rosario. Così alla messa delle 9 e delle 11. Fin dal mattino vi è un
continuo passaggio di colonne. Gruppi isolati in parte disarmati camminano alla rinfusa, stanchi e
finalmente noti più fieri. Verso mezzogiorno caccia -mitragliatori girano dovunque, il cannone spara dalle
parti di Bassano, Rosà e Rossano: si dice che sono presi di mira i patrioti di colà. Da ieri siamo tagliati
fuori dal mondo. Manca la forza elettrica. Tace la radio, il telefono. Parla solo il cannone e la mitraglia,
ma parla anche il popolo nostro col linguaggio della preghiera e della pietà. Durante la notte più di 900
feriti vengono trasportati a Feltre. La S.S. pure è partita. Fanno servizio le autoambulanze della Croce
Rossa. Con una auto è qui trasportato Dei Rossi Vittorio, patriota, ferito da mitra nel basso ventre a
Fellette. Ricevette l'olio santo a Mussolente, e qui don Benvegnù gli amministrò il santo viatico. Verrà
operato dal bravo ed infaticabile nostro medico dottor Mantovani Orsetti. L'ospedale è un vero porto di
mare. Apre le sue porte a tutti i feriti, vero Hotel de Dieu, che non conosce partiti, nazionalità,
delinquenti, assassini, ma tutti accoglie con paterna soavità e premura. Un ferito della vicina Borso
racconta che in uno scontro i patrioti di colà piangono due morti ed altri feriti non gravemente.
30 aprile: lunedì
Verso le 12 di ieri sera il cannone ha rallentato i suoi boati, così vicini e strazianti. Comparisce Pippo
dopo tante sere di consolante assenza, ed il suo rumore che si perde lontano, ci invita al riposo. Sono le 7
antimeridiane. Il segretario comunale mi viene ad avvertire che sono arrivati circa tremila tedeschi, laceri,
sfiniti che domandano da mangiare e da riposare, e partiranno stasera. Mi assicura che sono disarmati in
buona parte. Mi meraviglia e mi addolora la notizia perché era in me entrata la dolce speranza che la
prova fosse finita. Assicuro il messaggero che dopo celebrata la messa mi interesserò volentieri e mi
permetto di dirgli: "Ma perché si fermano qui se io so che gli inglesi sono già a Romano?" Riportò questa
mia notizia al comandante tedesco che, accertatosi che era il pastore che l'avea pronunciata, ordinò a tutti
di fuggire. La maggioranza sale il Grappa con 10 ostaggi in testa, abbandonando biciclette, qualche
carretta e viveri rubati nel negozio di Morosin Aurora e in alcune case della contrada Gherla. Arrivati
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sulla cima gli ostaggi vennero rilasciati, ma due cari e buoni giovani della vicina Fietta, violentate guide
di altri soldati fuggiaschi, mentre tentavano la fuga, vennero freddati da una scarica di mitra. Sono Basso
Onorio, fratello di Beato, ex cameriere di monsignor vescovo ed un certo Fornasier Silvio. Però circa 200
dei tremila, preferirono scendere in pianura verso San Zenone, entrando nelle case in via Perli che segna il
confine di questa parrocchia. Il comando locale dei patrioti ne manda 20 di questi ad inseguirli. Si
comincia la lotta: mitragliatrici da una parte e dall'altra; rimane ferito un mio cantore, Torresan Antonio,
che verso mezzogiorno viene medicato per una ferita al piede destro. Colpiti invece nella testa, restano
fulminati due miei cari giovani: Panizzon Agostino e Minore Pasqualino e un certo Follador da Fietta. I
compagni di questi diventano pericolosi: sparano all'impazzata, però rispettano le persone.
1° maggio 1945: martedì
Continua il rastrellamento degli iscritti dopo l'8 settembre 1943 al Partito Fascista Repubblicano e si
inizia la tosatura delle signorine che amarono la compagnia dei militi della Brigata Nera, tra lo
schiamazzo dei curiosi e i fischi generali. Verso le 17 arrivano un croato ed un americano. Vogliono
ammazzare subito e in piazza, 5 tedeschi e 5 fascisti. Il commissario del comune, signor ingegnere
Antonio Zardo, si oppone, spalleggiato dall'arciprete e i due se ne partono.
2 maggio: mercoledì
Molti si portano nella camera mortuaria a visitare le salme dei due patrioti. Nessun incidente notevole. Si
piange, si medita e si prega.
3 maggio: giovedì
Alle ore 10 funerale delle due vittime. Rimasero a casa solo i vecchi impotenti e le donne di cucina.
Riuscì molto devoto e di eccezionale imponenza. Prima delle esequie l'arciprete tenne il discorso. Alle 14,
ben legati in camion, vengono trasportati a Castelfranco circa 36 persone fra militi e iscritti al Partito
Fascista Repubblicano.
4, 5, 6 maggio 1945: venerdì, sabato, domenica. Tutti e tutto tranquillo.
Chiudiamo questo stelloncino di cronaca rivolgendo il nostro pensiero riconoscente alla Madonna che con
tanta fede abbiamo invocato e che in devoto pellegrinaggio andremo a ringraziare domenica 13 maggio
anche per ricordare il 13 maggio 1917 che comparve a Fatima e il 13 maggio 1944 che comparve a
Bonate di Bergamo. Ci continui la mamma celeste nella sua materna protezione, sempre. E, se ora ci ha
salvati dagli orrori della guerra, tutti ci salvi da quelli dell'inferno.
17 gennaio 1946
don Ferdinando Galzignan
v. GIOS Pierantonio, La “cronaca parrocchiale” di don Ferdinando Galzignan Crespano del Grappa 1940-45, ed-.
Comune di Crespano del Grappa e Parrocchia dei SS. Marco e Pancrazio, ISTRESCO 2001 pp. 35-53
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