Comments
Description
Transcript
Ricerca dedicata a Paride BRUNETTI
RICERCA DEDICATA ALL’AMICO SCOMPARSO Dott. BIASIA Franco …la strada della vita ci ha fatto incontrare uniti nell’impegno di riabilitare e dare un nome ai Sommersi evocando i rumori della storia e i valori della Resistenza al sonno della Ragione per impedire il ritorno dei Mostri… IMPOSTAZIONE DATA ALLA RICERCA SU PARIDE BRUNETTI “Bruno” Ho scelto di strutturare la ricerca usando, come “traccia”, la base del sito internet con il solo fine di “sommare”, a quanto è stato pubblicato, elementi assenti o non aggiornati. Come ulteriore elemento strutturato ho proceduto a “sbobinare” quanto Paride Brunetti ha detto nell’intervista a Radiosaronno in data 25 ottobre 2005. Dalla trascrizione fedele di detta intervista sono emersi dei capitoli tematici specifici. Gli stessi si sono evoluti in sette paragrafi preceduti da un “cappello” introduttivo e seguiti da note segnalate con uno e più asterischi. Il lavoro si completa con foto, una cartografia, dei documenti e si conclude con cinque Allegati ( A, B, C, D, E). Pur essendo a conoscenza della esistenza di autori e testi che hanno trattato le stesse tematiche, al fine di tentare di comprendere sia la militanza che la vita di Paride Brunetti “Bruno” nel modo più umano e “oggettivo” possibile, ho scelto un percorso di conoscenza personale. CECCHINATO Silvio CADONEGHE, 8 gennaio 2012 1 INDICE DEDICA al dottor BIASIA Franco + Impostazione della Ricerca su PARDE BRUNETTI “Bruno” PREMESSA pag. 1 PRESENTAZIONE 1) Prgf. – Dall’Infanzia al Liceo “Pigafetta” di Vicenza 2) “ 3) “ - 4) “ - Dall’Accademia Militare di Torino all’ A.R.M.I.R. in Russia L’ 8 settembre 1943 a Padova “ 2 “ 3 “ 4 “ 7 “ - Partigiano nel Feltrino e Bellunese 9 5) “ - Operazione “Forte Tombion” in Valsugana “ 13 6) “ - Il “Proclama Alexander” e il Rastrellamento del Grappa “ 7) “ Liberazione e “Guerra Fredda” - 15 “ 17 ALLEGATI ( A ) - Con Concetto Marchesi da Padova a Milano pag. 24 (B)- “ Il maggiore Tilman con la Brigata “Gramsci” ( C ) – Il 27 “ 36 ( D ) – ALBERTAZZI: un nazifascista (tra i tanti) impunito! “ 38 ( E ) – Dalla “Cronaca Parrocchiale” di don “ 40-51 Rastrellamento del Monte Grappa F. Galzignan – Crespano d. G. (1944-45) 2 PREMESSA ALLA RICERCA SU PARIDE BRUNETTI Presentare una ricerca su un Comandante Partigiano come Paride BRUNETTI - in sede di una Giuria che mira a valorizzare la storia delle Comunità della ValBrenta senza ricordare il “prezzo della vita” pagato dalle popolazioni che qui sono nate ma sono andate a lavorare, lottare e morire per la democrazia e la giustizia sociale – non può rispondere al suo fine se prima non vanno ricordati gli emigranti che sono partiti per difendere la democrazia in Spagna perché, è oramai riconosciuto, che se le democrazie si fossero mobilitate contro l’aggressione nazifascista a quella Repubblica la stessa 2° Guerra Mondiale sarebbe potuta essere scongiurata. Dal Veneto partirono oltre 250 combattenti dei quali 42 morirono. Dei 53 combattenti partiti dalla provincia di Vicenza nove sono i caduti: AMBROSINI Vittorio nato a Canove (Roana) nel 1904. Proveniente dal Belgio. Caduto sul fronte del Guadarrama nel luglio 1937. BARTOLOMEI Sante nato a Vicenza nel 1906. Proveniente dalla Francia. Caduto sul fronte dell’Ebro nel settembre 1938. CLEMENTI Pietro nato a Cismon del Grappa il 10/7/1914. Proveniente dalla Francia. Caduto sul fronte dell’Ebro nel settembre 1938. DALLA COSTA Giuseppe n. a S. Giacomo di Lusiana e caduto sul fronte dell’Ebro nel settembre 1938. DE ROSSI Valentino nato a Carrè il 16/02/1907. Operaio proveniente dal Belgio. Ferito gravemente sul Jarama e deceduto nel febbraio 1937. LAZZAROTTO Andrea nato a Valsugana il 21/7/1915. Operaio proveniente dalla Francia. Caduto sul fronte dell’Ebro nel settembre 1938. MUTTON Giacomo nato ad Arzignano il 03/6/1906. Minatore proveniente dalla Mosella volontario della compagnia Italiana “Dimitrov” disperso sul Jarama nel febbraio 1937. SELLA Antonio nato a Valli dei Signori il 09/11/1903. Venissero dall’estero o dall’Italia i garibaldini della provincia di Vicenza avevano una comune origine dalle zone socialiste e comuniste: Altopiano di Asiago, Valle del Brenta, Vicenza città e, soprattutto, Schio. Ho scelto di rendere omaggio ai nostri/vostri Martiri per ricordare Giovanni PESCE, medaglia d’Oro al Valore Militare scomparso a Milano il 27 luglio 2007. Il 13 agosto 2005, come Assessore alla Cultura del Comune di Cadoneghe (PD), gli telefonai per invitarlo ad una Conferenza quale relatore. Nel mezzo della stessa, mentre reclinava al mio invito a causa dei dolori che lo affliggevano a causa di una ferita subita nel fronte dell’Ebro nel 1938 in Spagna, quasi scusandosi mi disse:”Io nel Veneto ci torno sempre volentieri perché mia madre, BIANCHIN Maria, era di Solagna”. Era la madre piangente al momento della sua entrata in miniera “Grand-Combe” nelle Cévennes nel 1931 unitamente al padre: ambedue “spinti in giù” dalla miseria a 13 anni di età. Nel 1936 a 18 anni Giovanni Pesce, ingannata la madre Maria con il pretesto di recarsi al confine belga per incontrare una ragazza, si arruolò e si recò in Spagna insieme a numerosi altri giovani antifascisti d'origine italiana che aderirono alla Brigata Garibaldi alla parola d'ordine "Oggi in Spagna, domani in Italia" dei fratelli ROSSELLI, assassinati nel 1937 da sicari fascisti inviati da Mussolini e coordinati dal gen. Roatta del Servizio Informazioni Militari (SIM). Il dolore delle donne rimane la pagina mancante di ogni nostra ricerca. Mi fermo qui per ricordare che nei rimanenti 44 volontari per la difesa della Democrazia Spagnola troviamo i nomi di chi organizzerà la Resistenza in Italia. Tra questi un martire padovano Manlio SILVESTRI “ Monteforte” di Saccolongo (PD) che, coi compagni PERUZZO Angelo da Enego e BORTOLOTTI Armando da Castel di Fiemme, fu impiccato il 29 luglio 1944 davanti alla Chiesa Parrocchiale di Sappada. A loro unisco LONGON Mario, padovano, morto nel lager di Bolzano il 1° gennaio 1945 con il grado di Maggiore Partigiano, promotore della “Divisione CLN Zona Bolzano”. Solo, con quanto sin qui premesso, mi sento di passare a Paride BRUNETTI “Bruno” che venne inviato per continuare la loro lotta. 3 PRESENTAZIONE Purtroppo è diventata una consuetudine presentare, come proprie, ricerche pubblicate su quella preziosa fonte di documentazione qual’é Wikipedia pur essendo limitata per legge e costituendo un atto infedele. Nel mio caso mi sono limitato a usare la impostazione grafica di detta enciclopedia mediatica al fine di “sommare” e aggiornare quanto è stato già pubblicato sulla figura e militanza di Paride Brunetti. Infatti, pur basandomi sul testo video di “pierodasaronno” del 05 novembre 2005, è stata mia cura “sbobinarlo” e commentarlo con date e dati mancanti. L’aggiunta di testimonianze, in parte reperibili via internet, sia da testimonianze sottoscritte da Paride Brunetti che da testi e rilievi nel territorio hanno finito con il dare alla ricerca una originalità che si conferma con l’apprendimento che io stesso ne ho tratto. Certo il giudizio spetta ad altri ma, intanto, il primo usufruttuario ne è il redattore che, dal lavoro, ne esce ancor più acculturato. Il messaggio che l’insieme intende tramandare è che, in ogni occasione sia pubblica che privata, Paride Brunetti ha sostenuto che “Non basta dire vogliamo la Pace, bisogna dire di no e ripudiare la guerra”. Questo è quanto ha ripetuto nella intervista del 2005 che ho trascritto, così ha riaffermato anche in occasione della sua ultima visita a Padova il 25 maggio 2010 in occasione del recepimento del Sigillo della Città di Padova quale Cittadino Onorario: onorificenza che si aggiunge a quelle già riconosciutegli dalle città di Feltre (BL) e di Vittorio Veneto (TV). Dal sito ANPI che accompagna l'estremo saluto a Paride Brunetti, si può ascoltare altri concetti che Egli intendeva fossero recepiti: “ Se si deve parlare di democrazia devo fare riferimento alla vita della banda partigiana dove tutti eravamo uguali. Il comandante era l'ultimo a prendere da mangiare, per tradizione, perché se ce n'è vabbene sennò ti arrangi; l'importante è di non essere il primo a mangiare e non in modo appartato separato dagli altri ma insieme a tutti. Il comandante partigiano era quello che doveva essere sempre il primo nell'azione e l'ultimo nel ripiegamento. Il comandante partigiano veniva democraticamente scelto e, se sbagliava, saltava: noi non avevamo gradi. Quando alla sera si faceva l'ora politica si leggeva Marx e si recitava il Rosario o le Lettere di San Paolo: perché anche questa era democrazia. Chi erano i partigiani? Era gente che, magari, andava a mitragliare un pezzo di strada anche se lì vicino c'era la sua casa; così poteva accadere che arrivassero i tedeschi e gliela bruciassero. I partigiani nella resistenza sono stati dei bravi combattenti ma, i veri protagonisti, vanno ricercati nella popolazione. E' questa che ha dato delle cose che non potete nemmeno immaginare. Pensate che, se uno dava ospitalità o peggio ancora curava un ferito e i tedeschi ne fossero venuti a conoscenza; per prima cosa gli bruciavano la casa e poi deportavano gli uomini nei campi di concentramento. Chi è più eroico: il partigiano che si mette dietro il cespuglio e spara sul nemico e se ne va o una donna che ospita un partigiano sapendo che una spia o una amica che indica che là dentro c'è un partigiano?”. Nessuna retorica o mito ma una riflessione sul “prezzo della vita” che si è dovuto pagare a causa di chi aveva imposto una dittatura e una guerra. Eppure anche Brunetti, parafrasando padre Camillo Torres, ebbe a scegliere come coniugare “Il Vangelo e il fucile”. Tutte le testimonianze confermano che, nelle formazioni della “Gramsci” (…) “si leggeva Marx ma alla sera si recitava anche il rosario” come ebbero a confermare sia il giornalista Giovanni Castiglioni in una intervista a Saronno che Giuseppe Tittoni in una conversazione telefonica con Brunetti del 29 nov. 2004: “ La brigata Gramsci fu l’antesignana del Cristianesimo di sinistra, non ci fu spazio per il comunismo stalinista. Le due componenti, la cattolica e la comunista, agivano in così perfetto accordo che due responsabili dell’Azione Cattolica, “Momi”, Gigi Doriguzzi di Feltre e “Carducci”, Edoardo de Bortoli di Aune ( Sovramonte) ricoprirono alti incarichi nella brigata il primo fu vice commissario politico, mentre Edoardo de Bortoli fu il Capo di stato maggiore”. Che Paride Brunetti possa definirsi un esempio di “catto-comunista combattente”, é una mia opinione, che si basa però su dati di fatto. Come ritengo doveroso qui riportare le poche parole che profferì a Padova il 25 maggio 2010 in occasione della inaugurazione della lapide apposta sulla casa di Adolfo Zamboni in via Sanmicheli n.53: “ Il nostro obbiettivo di allora era che i tedeschi e i fascisti fossero sconfitti e, soprattutto, che la gente avesse un avvenire socialmente migliore. Non basta dire vogliamo la Pace, bisogna ripudiare la guerra. Ricordate che la Costituzione è stata scritta con il sangue e il sudore: cercate di attuarla e godetevela”. 4 Paride Brunetti Paride BRUNETTI partigiano a. 1944 - Paride Brunetti nell'intervista WEB TV 05 nov. 2005 Paride Brunetti detto Bruno (Gubbio, 15 maggio 1916 – Saronno, 9 gennaio 2011) è stato un partigiano, ingegnere nella Montedison e ex-ufficiale di carriera. Da giovane frequentò il seminario diocesano di Gubbio e dal 1934 al 1936 si trasferì a Vicenza, al seguito del padre, capo delle Guardie carcerarie, dove frequentò il liceo Antonio Pigafetta. Nel 1937 entrò all'Accademia Militare a Torino e ne uscì nel 1941 con il grado di tenente di artiglieria. (In carattere corsivo–grossetto viene qui trascritto il testo della intervista Web TV del 05.XI.2005) 1. Dall'infanzia al Liceo “Pigafetta” di Vicenza Io sono umbro di origine contadina. Ricordo la mia infanzia, i miei nonni, la vita dei contadini e quella della corte quando avevo dieci anni. E il senso di amicizia e solidarietà che c’era. Ma penso che, a voi, interessi di più l’età in cui mi sono formato cioè al Liceo. lI liceo l’ho fatto per 3 anni al “Pigafetta” di Vicenza perché mio padre, dopo avere provato tutti i mestieri possibili e immaginabili; alla fine si è arruolata nelle guardie carcerarie come agente di custodia . Poi riuscì a diventare sottoufficiale, facendo carriera, sì da diventare Capoguardie nel Carcere di Vicenza. Io seguivo mio padre nel suo peregrinare. Al liceo, nell’età della cultura, leggevano e discutevamo moltissimo sopratutto di ideali. In quel momento appartenevo alle organizzazioni fasciste nello stesso tempo che ero vicepresidente del Circolo di Azione Cattolica di Vicenza. Sembrerà strano ma era il periodo in cui ci insegnavano che eravamo discendenti di Roma e dell’Impero Romano. Quando a scuola dibattevamo le “Guerre del Pelopponeso” tra Sparta e Atene; noi facevamo il tifo per Sparta, per il popolo guerriero spartano. Mentre gli Ateniesi pensavano a chiacchierare: ventimila persone che chiacchieravano e quarantamila schiavi che li servivano. Poi abbiamo saputo cos’era la Grecia! Dal 1934 al ’37 c’era stata la conquista dell’Africa Orientale e la nascita dell’Impero con le manifestazioni. Mi ricordo che facemmo una manifestazione per gli Alpini che partivano per l’Africa. A un certo momento c’era stata una specie di tafferuglio (di cui nessuno ne ha parlato) con gli Alpini che ci dicevano: “Andate voi in Africa. Io a chi lascio le mie bestie e i miei campi?”. Però silenzio su tutto questo. Mi ricordo le imprese di allora del fascismo: due campionati mondiali di calcio vinti. Insomma una continua esaltazione del nazionalismo sicché, quando mi sono trovato a scegliere, ho deciso per la carriera militare. 5 Il 13 giugno 1942 partì da Padova con l’ARMIR in Russia dove venne decorato al valor militare per la battaglia di Kantermirowka (19 dicembre 1942), vicino al fiume Don. Con le tradotte fino in Polonia, quindi procedendo su automezzi, si addentrò nell'immensa e gelida steppa russa. Nella battaglia di Kantermirowka (19 dicembre, vicino al Don) si meritò una medaglia di bronzo. Dalla Bielorussia (Russia Bianca), dopo varie vicissitudini ma con tutti i soldati della sua batteria antiaerea, e questo lo rammenta con orgoglio, ritornò a Padova nell'aprile del '43. 2. Dall'Accademia Militare di Torino all' ARMIR in Russia Alla fine del liceo affrontai un concorso durissimo: 5000 concorrenti per 56 posti . Lo superai per il “rotto della cuffia” qualificandomi 53°. Nel bel mezzo dell’Accademia di Artiglieria e Genio di Torino, tra il 3° e 4° anno, si sospesero le lezioni per l’avvento della guerra. Alla domanda su dove avrei preferito essere destinato io scelsi l’Africa. Quando arrivai a Tripoli, malgrado le mie proteste perché volevo essere inviato al fronte per combattere, venni destinato alla Divisione “Pavia” schierata sul confine tunisino. Passato qualche mese fui richiamato a Torino per completare l’Accademia. Lasciai l’Africa con molta nostalgia . Al termine della Scuola di applicazione, malgrado il mio desiderio di ritornare in Africa, il mio gruppo di artiglieria contraerea fu destinato al Fronte Russo. Così a 27 anni partii al comando di una batteria di 150 uomini e incominciai la tragica esperienza di Russia. Avevamo in dotazione dei cannoni modernissimi i 75/46. Si pensi che, in tutto il fronte russo, di quei cannoni ce n’erano solo 52! L’esercito era dotato ancora dei vecchi 75/13 con pochissime munizioni e un equipaggiamento inadatto. Il nostro gruppo, per esempio, eravamo destinati all’Africa e siamo partiti per la Russia con lo stesso equipaggiamento. Io avevo una 1100 “decappottabile” a 40° sottozero di temperatura e, grazie a un falegname friulano che me l’ha ricoperta tutta in legno, potevo muovermi. Quando dovevo andare al Comando di Gruppo mi davano delle taniche di acqua per riscaldarmi. Eravamo partiti convinti che la guerra era già pressoché finita perché ci avevano detto: “…rimarrete lì 2/3 anni come truppe di occupazione”. Una volta arrivati al fronte, nel giugno 1942 (sono partito da Padova il giorno di Sant’Antonio-13 giugno) , abbiamo seguito i tedeschi nell’avanzata fino a che il fronte si è stabilizzato sul Don mentre i Tedeschi puntavano su Mosca e sul Caucaso. Però, prima di dicembre ’42, iniziò l’impatto con la guerra .Noi, la guerra, l’avevamo studiata sui libri di scuola con i miti e tutte quelle cose che servono alla propaganda a far si che l’uomo diventi guerriero. Una volta arrivati nella zona di operazione dove nulla più si frappone tra noi e il nemico siamo stati allarmati per il pericolo dei partigiani. Io, poi, ho fatto il partigiano ma in quel momento ne avevo paura perché ci avvisavano di stare lontano dai boschi: cosa che abbiamo fatto scegliendo in una vasta distesa di un grande cerchio formato dagli autocarri con noi al centro e molte sentinelle poste di guardia. Verso l’alba una sentinella mi chiama “Signor tenente ho notato dei movimenti strani dietro quel cespuglio”. Prendo 3-4 militari, tra quelli meno timorosi, e circondiamo il cespuglio senza trovare nulla. Mentre stavamo ritornando al campo sentiamo un odore, un tanfo tremendo e ci accordiamo che era emanato dal corpo di un soldato russo morto. Nella guerra era normale ma, per noi, era il primo impatto: la prima volta che vedevamo un corpo in decomposizione. I topi che entravano nelle orbite degli occhi, tutto macerato, tutto….siamo rimasti tutti sconvolti: eravamo ragazzi al massimo trentenni…poi, alla fine, alcuni si decidono e scavano una buca, lo seppelliscono e vi pongono una croce. In quel momento suona la tromba dell’ora del rancio ma nessuno ha fatto colazione nemmeno con un caffè. Eravamo tutti pensierosi perché forse, una sorte simile, poteva accadere anche a noi. Non mi interessa parlare della guerra e delle battaglie bensì di un episodio che ha rappresentato per me il colpo decisivo per la svolta perché, man mano che si andava avanti c’erano due cose che avanzavano di pari passo: la repulsione verso la guerra, le stragi, le impiccagioni, la guerra contro i partigiani, ecc. ecc. e, contemporaneamente, la comprensione che cosa era il nazismo e che ruolo avremmo avuto noi se avessero vinto i tedeschi. C’è un episodio! I Russi, nella ritirata distruggevano tutto in particolare i ponti: non trovavi un solo ponte! Ci siamo trovati su un ponte: avevano messo due barche con un Feldmaresciallo che controllava il transito. Alla domanda sulla composizione del convoglio lo informai che si trattava di diciannove automezzi e quattro cannoni. Ordine: ”Aspettare una ora, poi passare!”. Mentre stavo lì, guardando in giro, noto un ufficiale tedesco. Mi avvicino. Questo qui, tra l’altro parlava italiano, veniva in villeggiatura a Jesolo. Chiacchieriamo di Dante, di Firenze, di cose belle poi, a un certo momento, gli chiedo cosa stesse facendo. E lui mi fa vedere che aveva un gruppo di persone che, per la 6 prima volta, che indossavano una casacca a strisce e con la Stella di Davide fissata: cosa mai vista prima. Mi disse: “Devo rifare 1000 km. di ferrovie per renderle agibili perché con gli autocarri dovremo ripristinare 2000 km. di strade”. Io guardo questa ventina di prigionieri e, tra queste, ne noto una sui quarant’anni con gli occhiali forse un professore che faceva fatica a raccogliere dei sassi per fare la massicciata. Quando l’ufficiale gli girava le spalle, questo russo, si metteva seduto. Quando il tedesco se ne è accorto gli ha urlato “..non vuoi lavorare, ti faccio vedere io”. Così l’ha “tampinato” con lo scudiscio. Alla fine quel pover’uomo non ce l’ha più fatta ed è caduto per terra senza riuscire più a rialzarsi malgrado due – tre tentativi. A questo punto il tedesco estrae la pistola e lo uccide. Io gli ho detto: ”Ma sei pazzo? Ma perché lo hai fatto ?”. E lui con molta calma mi ha fatto capire qual’era la loro logica: “Tu non capisci proprio niente, italiano bono (Il tono era dispregiativo). Vedi lui non è più buono per lavorare. Perché io devo dare da mangiare a lui che non può più lavorare quando il mio bambino non ha da mangiare? Questa sera io faccio una telefonata al mio comando per farmi mandare altri uomini buoni per il lavoro”. Non era un ufficiale delle SS ma dell’esercito. Secondo la loro logica perversa era giusto perché se io ho 10 pagnotte e tu non lavori, il mio bambino ha fame, cosa faccio? E’ la logica dei campi di concentramento, come ho scoperto dopo. Io ho un milione di ebrei e non ho bisogno di loro; gli do 900 calorie al giorno e tra tre mesi saranno morti. Ho 500mila uomini che mi servono do loro 1000 calorie e vivranno per sei mesi e così via. La guerra ha una sua logica, che non è la nostra. In guerra tutto è lecito purché contribuisca alla vittoria. Se io non do da mangiare a quest’uomo e lo uccido, ho del pane da dare a chi lavora. Quello che vado sostenendo, nella mia vecchiaia, è che più di parlare di pace bisogna non fare la guerra. Per non fare la guerra occorre non avere nemici. C’è una frase stupenda, che è un comandamento stupendo, detta da un uomo non un figlio di Dio: ama il tuo prossimo come te stesso! Se io amo il mio prossimo, a lui, non farò la guerra. Più si allarga il confine del mio prossimo e più persone amiche io avrò meno pericolo di guerra ci sarà. Questo è quello che dobbiamo cercare di fare. Noi siamo poco cristiani. Io cito, sempre, come finale dei miei discorsi l’episodio autentico che io ho avuto. Durante la ritirata di Russia, quando era sera, noi cercavamo ospitalità nelle case russe perché, altrimenti, saresti morto. E, quella gente, ce la dava. Una sera sono arrivato congelato di primo grado e una ragazza russa, mamma di due bambini, mi ha massaggiato la faccia e gli arti con la neve rimettendomi a posto. Io ero andato la per uccidere i suoi fratelli e i suoi genitori e lei mi ha aiutato. Della Russia mi sono rimasti impressi: il primo morto, quel tedesco che uccide e questa che mi cura! Ciò che per me ha contato non sono stati i combattimenti, i carri armati, l’artiglieria o altro ; le stesse medaglie non mi importano. Ciò che mi ha fatto cambiare è stato l’impatto con questa gente perché bisogna distinguere tra quelli che erano gli anziani dai giovani. Gli anziani hanno accolto noi e i tedeschi come liberatori. Hanno ripristinato il culto religioso fin dove hanno potuto poi, i tedeschi, hanno fatto quello che non dovevano fare. Ora racconto un altro episodio . Io comandavo una batteria che stava vicino a un villaggio. Uno del villaggio mi invita a casa sua. Mentre sto per entrare in casa, il russo mi dice: “No, tu non puoi entrare perché porti una pistola”. Io ho lasciato la pistola all’attendente e sono entrato. Mi hanno dato da mangiare e poi mi ha accompagnato in soffitta dove mi ha fatto vedere la sciabola di Cosacco del Don che era di suo padre e, prima di lui, di suo nonno perché i Cosacchi del Don avevano ripristinato le tradizioni: questo per quanta riguarda gli anziani. Parlare con i giovani era un’altra cosa. Nel Don i padri erano minatori mentre i figli sono ingegneri minerari perché hanno avuto la possibilità di studiare a Mosca con tanto di salario. Certo, ogni tre mesi, subivano degli esami per cui se eri bocciato ti rimandavano a casa. La parola libertà non esisteva. I giovani parlavano degli aspetti sociali: belli ospedali, belle scuole, cultura, possibilità di studiare e così via. Nel villaggio c’era la radio con altoparlante comandato dal capo villaggio che diffondeva quello che volevano loro. Anche se non c’era una radio in ogni casa essa rappresentava un simbolo del progresso. Appena rientrato in Italia abbiamo passato una fase di transizione perché dovevamo ricostruire il reparto che io dovevo comandare, dotato di cannoni contraerei tedeschi; motivo per cui fui inviato ad un corso della Flak Skool in Germania. In quel periodo è capitato il 25 luglio 1943 giorno in cui cadde in fascismo. Ecco la prima considerazione da fare , quando cadde il fascismo, è questa. Non c’è stato un solo colpo di pistola sparato. Mussolini aveva i “Moschettieri del duce” ; in ogni Provincia c’era una Legione di camicie nere; vicino a Roma c’era l’unica Divisione corazzata che avevamo, la “Littorio”, con cannoni e carri armati tedeschi: bastava che quelli mettessero in moto i motori e i carabinieri che avevano arrestato Mussolini sarebbero scappati. Eravamo, oramai, in una fase di sfiducia, di abbandono; quindi, il periodo di passaggio dal ritorno dalla Russia e l’8 sett.’43, fu caratterizzato anche per la mancanza di una qualche direttiva. 7 Arriva l’8 settembre e qualcuno parla di “guerra civile”. In Italia non c’è stata alcuna “guerra civile” perché in Italia si sono scontrati due eserciti: l’esercito tedesco, il quale non aveva nessuna voglia di ritirarsi in Germania e l’esercito degli Anglo-americani il quale voleva combattere il nazismo. Allora era in atto la guerra tra il nazismo e gli Alleati (pensiamo a quei ragazzi di vent’anni che sono partiti dall’America per venire a combattere il nazismo e che riposano nei cimiteri di guerra per la nostra libertà) quindi, di fronte a questo scontro, ci siamo trovati a dover fare una scelta: se andare coi tedeschi assolutamente no, perché? Perché avevi capito che, non tanto che la guerra poteva essere più o meno persa, ma che cosa avrebbe significato se avesse vinto il nazismo. Io, quando sono andato alla Flak Skool, ho visto una carta, (questo sarebbe utile che lo sapessero quelli della Lega) c’era una carta dove era delimitato il grande Reich: una parte della Danimarca, una parte della Polonia, dell’Alzazia e della Lorena; al sud c’era un provincia tedesca che si chiamava, attenzione, Lombardo Veneto! Io, i tedeschi, li avevo conosciuti in guerra e mi ricordavo quell’episodio citato (quello di un ufficiale della Wermacht che aveva fustigato e poi trucidato con un colpo alla nuca un ebreo sfinito dalla fatica) e avevo già deciso di non seguire i tedeschi. Andare in Umbria c’era la linea gotica a parte che non mi lasciavano tornare a casa e, allora, ho fatto la scelta della Resistenza. Quando si parla di “guerra civile” va detto che noi non siamo andati a scovare i fascisti ma celi siamo visti , in un secondo momento, a fianco dei tedeschi. Che sia una guerra brutta, sono d’accordo, ma non l’abbiamo voluta noi! Attenzione che la guerra è la cosa più brutta che esista, la più schifosa, perché in guerra tutto è permesso purché contribuisca alla vittoria. Oggi non possiamo ragionare sulla guerra perché non potremmo capire “perché Hiroshima” oppure “perché Marzabotto”, perché, se si entra nella logica della guerra, la rappresaglia è giustificata. Perché se questi “maledetti Partigiani” mi fanno saltare una volta questa ferrovia, un’altra volta un ponte allora si va lì e si fa “piazza pulita”. Il 10 settembre ’43, Paride BRUNETTI, entrò in contatto a Padova, con i dirigenti antifascisti (Concetto Marchesi , Egidio Meneghetti e altri). La sorte è stata fortunata sia per l’aver dato una lunga vita a “Bruno” che per avergli concesso di tramandare “pagine di storia” che sono legate alla Sua vicenda umana altrimenti difficilmente reperibili. Infatti nella pubblicistica locale (a parte ricerche “militanti”), paradossalmente, non compare alcun ruolo svolto da Brunetti nel periodo cruciale tra l’esperienza militare e il passaggio alla lotta partigiana. Nessun accenno compare, per esempio, in testi fondamentali quali G.E. FANTELLI, La Resistenza dei Cattolici nel padovano, - Aronne MOLINARI, La Divisione Garibaldina F. Sabatucci”, - G. TURCATO e A. ZANON DAL BO, Venezia nella Resistenza 1943-45, - a cura di Tiziano MERLIN, Giuseppe SCHIAVON Autobiografia di un Sindaco, - ecc. . Una spiegazione c’è e cioè che, in una situazione di clandestinità e “guerra per bande”, solo se esiste una memorialistica locale essa può essere tramandata. La testimonianza televisiva qui riportata, integrata con quella inviata a Triangolo Rosso ( v. Allegato A), sono perciò più che mai utili a integrare detti “vuoti di storia-memoria”. Di fatto si tratta di una conferma di quanto già ricordato nel Convegno dell’Associazione “Concetto Marchesi” in Gallarate il 25 ottobre 1957: “Nell’aprile del 1943, al ritorno dalla Russia con questa nuova consapevolezza, presi contatti con un ufficiale di complemento di Verona, Pio Magi, che aveva legami con antifascisti organizzati grazie ai quali, tornato a Padova, potei conoscere Marchesi e Meneghetti. Dopo l’8 settembre 1943 rimasi a Padova come rappresentante militare del Pci fino a quando Amerigo Clocchiatti, dirigente comunista e rappresentante delle formazioni garibaldine nel Veneto, pensò di utilizzarmi nel bellunese, prima al comando del Distaccamento “Boscarin” e poi della Brigata “Gramsci”. Del periodo passato a Padova il ricordo di Marchesi é vivissimo (…) “ lo incontravo al caffé dove lo avvicinavano anche i suoi studenti o “scolari” come lui amava chiamarli. Era molto amato e rispettato a Padova. Era stato nominato Rettore dell’Università dopo il 25 luglio dal ministro Severi del governo guidato da Badoglio. Ma dopo l’otto settembre era stato confermato dal Ministro della repubblica sociale Biggini, che abitava a Padova nello stesso palazzo di Marchesi”. (…)“ L’appello alla rivolta di Marchesi irritò moltissimo i tedeschi, già adirati per la mancata concessione di alcuni locali dell’Università, chiesti inutilmente per impiantarvi una stazione radio. Verso la fine di novembre Marchesi, dopo richieste di dimissioni intimategli da Clocchiatti e dopo un colloquio con Ezio Franceschini, decise di abbandonare il rettorato, anche perché sembrava imminente un suo arresto da parte dei tedeschi . Il 23 novembre, dopo alcune ore passate nella farmacia 8 di Oreste Bareggi, in via del Santo, andò in casa del prof. Lanfranco Zancan, in via C. Battisti, 98. La casa del prof. Zancan non era per niente sicura, dato che questi era uno dei più attivi rappresentanti del Movimento di Liberazione a Padova fin dalle origini. Pertanto, dopo una visita di Felice Platone, si stabilì che egli si recasse in casa di Leone Turra, responsabile del P.C.I. nella provincia di Padova, che era più appartata e meno sospetta, in viale Codalunga. Toccò a me accompagnare, insieme alla sig.ra Turra, Marchesi in quella casa, nella quale rimase nascosto fino al 29 novembre, giorno in cui scrisse il famoso proclama agli studenti, che poi fu stampato e diffuso in migliaia di copie nella tipografia di Remo Turra, fratello di Leone, con la data del 1° dicembre 1944, per motivi di sicurezza. Lo stesso giorno 29 Marchesi partì in treno per Milano, praticamente senza bagagli, che gli furono recapitati in seguito dal prof. Franceschini. Toccò ancora a me accompagnare in treno da Padova a Milano Concetto Marchesi, che assunse il nome di avv. Antonio Martinelli e fu dotato delle relative carte. Il viaggio fu fatto in silenzio. Marchesi, che aveva quasi sessantasei anni di età, era teso ma energico. L’unica sua preoccupazione era per le sue donne, la moglie e la figlia, che si trovavano sfollate in provincia di Lucca. A Milano passammo la notte in un albergo nel quale, malgrado tutto, si danzava al suono di una orchestrina. Marchesi non seppe resistere dall’invitare qualche signora a fare un ballo. In albergo non stette molto, Fu subito prelevato dal rappresentante del suo editore, Alberto Violi Zuccoli, che gli trovò un alloggio a Camnago Lentate presso il parroco Vittorio Branca. Ma il soggiorno dal parroco fu breve e Marchesi preferì andare a stare a Milano, fino a quando motivi di cautela non imposero che egli passasse in Svizzera. Io ritornai in treno a Padova e continuai la lotta partigiana. Furono tempi duri e sofferti, ma vissuti con la certezza della vittoria”. Ritorniamo, ora, alla intervista a Radiosaronno del 05 novembre 2005. 3. L' 8 settembre 1943 in Padova Tornando al 8 di settembre ’43 io ero a Padova con tutti i miei soldati che erano in caserma con me e l’ordine era :”State tranquilli perché i tedeschi chiedono di passare perché stanno ripiegando”. Ma chi lo diceva era un Colonnello che aveva sposato una tedesca. Noi non avevamo alcun ordine se non quello impartito che i tedeschi si stavano ritirando e che la guerra era finita. A Padova ci sono due caserme: a destra c’eravamo noi e a sinistra c’era il campo di concentramento per Slavi. Ad un certo momento notiamo una colonna di autoblinde correre precipitosamente verso il campo di concentramento dove c’erano gli Slavi. (*) Dissi: “Guardate che i tedeschi ci stanno prendendo tutti!”. Ma i soldati sono rimasti fermi in caserma e si sono sciolti solo quando si sono resi conto che stavano per essere arrestati dai tedeschi. La prima notte ho dormito da un prete anche se avevo già preso contatto con l’ambiente Universitario così da essere, poi, ospitato da un medico che era il figlio della mia padrona di casa. Poi i contatti con la Resistenza tanto che, ai primi di dicembre ’43, fui inviato nel Bellunese (4 dic.’43-ndr). (*)- E’ solo in questa intervista che Brunetti cita il Campo di Concentramento per Slavi sito nella Caserma-Sud di artiglieria in Chiesanuova. Nell’agosto ’42 vi giunsero i primi 1429 internati civili da Monigo (TV) saliti a 3410 nel luglio ’43. Su un totale di internati civili di 32200 unità per Chiesanuova ne passarono circa 10500. Nel solo inverno 1942/43 gli internati civili pressoché Sloveni deceduti per denutrizione e epidemie ammontarono a 72: il primo fu Anton Troha anni 42 di Goraca morì il 21/10/’42 e l’ultimo Egra Milenko di anni 28 fu ucciso da una sentinella nazista l’11 sett. 1943. Nel 1973 solo 17 resti furono traslati nel Memorial del Cimitero di Gonars (UD); dei rimanenti non si conosce il luogo di sepoltura. v. CECCHINATO Silvio, Un Campo di Concentramento fascista in Padova Chiesanuova luglio ’71-8 set. 1943, Premio Negrello IX° edizione 12 maggio 2007 / La ricerca è stata integrata e portata a termine dal dott. BIASIA Franco, Il Campo di Concentramento per Internati Civili di Chiesanuova, in “La Lampada” n.3/aprile 2009 pp. 14-17 / v. Commemorazione Pubblica nella caserma “Romagnoli” del 07.3.2009 / v. DVD di Franco BIASIA con regia del prof. Antonio BONADONNA / v. Convegno al Centro S. Gaetano di Padova del 24. 01.2011 con Anton Vratusa, Alessandra Kersevan e Ivo Jevnikar. Il dottor Franco BIASIA è improvvisamente scomparso il 22.7.2011 in procinto di completare il libro sul tema. Nel nov. 2011, lo storico Davide GOBBO ha dedicato alla memoria del dott. Franco BIASIA il suo libro, L’OCCUPAZIONE FASCISTA DELLA JUGOSLAVIA E I CAMPI DI CONCENTRAMENTO PER CIVILI JUGOSLAVI IN VENETO – CHIESANUOVA E MONIGO (1942-43), a cura del Centro Studi “Ettore Luccini”, ed. CIERRE. Al dott. GOBBO vanno le mie congratulazioni. 9 25 maggio 2010: onore a Paride Brunetti. A mezzogiorno il sindaco Flavio Zanonato ha conferito il sigillo della città a “Bruno” il comandante della Brigata “Gramsci” e insieme hanno scoperto la lapide che ricorda il primo convegno di carattere militare della Resistenza in Padova. Così Adolfo Zamboni ricordava, nel 1947, quel giorno: “Alla fine di settembre del ’43, mentre il terrore nazifascista s’industriava di paralizzare i nostri movimenti, nella mia abitazione in Strada Sanmicheli ebbe luogo il primo convegno di carattere militare. Alcuni di quegli uomini sono ora fra le schiere dei nostri martiri più puri: Mario e Vico Todesco, il primo trucidato dai briganti neri in Piazza Spalato la notte del 28 giugno ’44; il secondo caduto sul Grappa poche settimane dopo alla testa dei suoi compagni della formazione di “Giustizia e Libertà”; Flavio Busonera, impiccato in via S. Lucia nel mese di agosto; vi erano ancora il comunista Paride Brunetti, che per oltre un anno e mezzo comandò una divisione di partigiani sulle montagne bellunesi; il democristiano Adriano Trevisan ; il colonnello Luigi Marziano, che raccolse le formazioni del Piovese, e che mi fu più tardi compagno nelle carceri di palazzo Giusti donde uscì per prendere il comando dei suoi vecchi soldati nei giorni della riscossa; l’ing. Antonio Frasson, instancabile raccoglitore di armi, attività che scontò colla prigione ai Paolotti; e c’era anche, purtroppo, colui che per oltre un anno mi fu a fianco collaboratore militare per la provincia, che venne a conoscenza di troppi segreti e che poi vigliaccamente tradì“.* (da Adolfo ZAMBONI, Il Comitato di Liberazione Nazionale della Provincia di Padova, p. 23/4 Ed. Zanocco, Milano, 1947). (*) Si tratta di Mario Santoro un ufficiale del Partito d’Azione divenuto strettissimo collaboratore di Meneghetti nel Comando Militare Provinciale. Tradì nel gennaio ’45. 10 Dal racconto che, qui sotto è riprodotto, sulla esperienza partigiana nel Feltrino e nel Bellunese emerge un “vuoto” rappresentato dai rapporti tra “Bruno” e la delegazione inglese guidata dal maggiore Tilmann. Brunetti, ha scelto di limitarsi ai seguenti commenti : “Prima le missioni erano rare dopo ho avuto con me una missione inglese con comando di Brigata e alla fine anche una missione americana , quella che mi ha fatto avere la onorificenza, che ci ha fornito di ogni ben di dio. Mentre gli inglesi non davano molte armi ma solo un po’ di esplosivo perché non volevano formazioni partigiane forti ma solo informazioni, sabotatori e basta; gli americani mi hanno dotato persino di un “bazooka” il primo, forse, dato in dotazione ai partigiani. Infatti, nel febbraio 1945, l’ho usato contro una caserma fascista. Il rapporto era ottimo con gli americani e pessimo con gli inglesi che privilegiavano ai garibaldini i monarchici e le “fiamme verdi” perché “…Voi cantate troppo bandiera rossa”. Tenuto conto che, tra le sei formazioni partigiane sotto riportate ce n’era una denominata Compagnia Churchill, credo sia utile approfondire una tale tematica. Per collocare in un contesto più esaustivo i rapporti con la “Missione SIMIA” del maggiore Tilman. (v. Allegato B) - Riprendiamo la lettura della intervista di Radiosaronno del 5.XI. 2005- 4. Partigiano nel Feltrino e nel Bellunese Quando si parla di movimento partigiano di montagna precisato che, alla fine del ’43 in tutto il Veneto, si contavano solo tre formazioni: una in Friuli, una seconda nel Bellunese e una terza sull’Altopiano di Asiago. Quella del Bellunese era formata da una quindicina di persone che avevano subito un trauma perché, nel tentativo di liberare un Partigiano che era stato preso dai carabinieri, avevano dovuto ritirarsi sconfitti. Quindi la formazione si era disfatta . A Padova io ero in contatto con Concetto Marchesi , con l’Università, con il movimento partigiano che hanno ritenuto di inviarmi per ricompaginare questo primo nucleo di partigiani nel Bellunese che era oramai allo sbando senza un comandante. (**) Siamo andati in tre, eravamo una dozzina, poi siamo diventati quindici ai quali si sono aggiunti dei bolognesi; alla fine dell’inverno eravamo già in 120. Questi partigiani erano, come nucleo fondamentale, formati da dei quadri: gente che aveva fatto la Guerra di Spagna. Infatti, nella mia formazione, c’era uno che aveva raggiunto il grado di capitano con altri due o tre che erano stati in Spagna. Poi c’erano ex-prigionieri soprattutto jugoslavi e russi. In un primo momento non si parlava di fare guerra ma di stare tranquilli per passare l’inverno limitandosi a piccole azioni di sabotaggio. In un primo momento ci siamo insediati nella Valle del Mis poi siamo andati a finire nel Friuli proprio dove c’è stata la inondazione sopra Longarone nel monte Toc, infine ci siamo distribuiti in tutto il Bellunese. I nostri ordini erano un po’ relativi per il fatto che, in ogni Provincia, c’erano dei Comitati di Liberazione Nazionali (C.L.N.) costituiti dai rappresentanti dei vari partiti politici che non stavano in montagna i quali si riunivano, ci fornivano mezzi, denari ecc. per cui gli ordini erano relativi perché, se avessimo ascoltato i loro ordini, azioni non ne avremmo fatte. Dicevano:”Ragazzi, state buoni sennò fanno le rappresaglie e così via”. Il tema delle rappresaglie è un discorso molto, molto serio perché la rappresaglia è un’arma di guerra e non c’è niente da fare. La guerra partigiana non fa prigionieri. Io ricordo la prima azione che abbiamo fatto, eravamo nel marzo 1944, contro una sede di una Gendarmeria perché la zona nord da Trento-Bolzano-Belluno era già annessa al III° Reich la AlpenVolkland con un governatore tedesco e c’era la Feld-Gendarmeria c’erano i reggimenti tipo Bozen quelli che poi sono andati alla CERDE di Bolzano e di Trento che fungevano da polizia perché, a Belluno, non sono riusciti a reclutarne. In una piccola scuola di campagna c’erano quattro gendarmi di Bolzano e un sergente tedesco che aveva un mitragliatore e altri armi; allora abbiamo deciso di andarsele a prendere. Adesso potrei descrivere anche l’azione, in ogni caso, abbiamo chiesto la resa. Siccome si opposero un partigiano ha gettato una bomba incendiaria ed essendo la scuola di legno se ne sono usciti con le mani alzate. Se ci fosse Pansa lo direi a lui questo. Prendiamo questi quattro prigionieri e discutiamo su cosa farne: morale della favola abbiamo tolto loro le scarpe e ce li siamo portati dietro finché se ne sono scappati . In una seconda azione, molto brutta, in cui noi abbiamo attaccato una centrale elettrica con venti tedeschi di guardia, una centrale molto importante, alle Moline nella zona di Belluno. Le sentinelle hanno aperto il fuoco e non c’era verso di costringerli alla resa sino a che non abbiamo provocato una esplosione e, alla fine, si sono arresi. Su venti 12 erano riusciti a scappare e gli altri 8 si arrendono: peggio per loro abbiamo pensato. Dopo averceli portati dietro facciamo il processo senza essere convinti di doverli uccidere sino a che, i tedeschi, compiono un atto 11 insignificante che ha provocato la loro morte. Furono sorpresi che, con una lametta da barba, si stavano tagliando le scarpe. E’ bastato quell’atto e la minoranza di noi si è trasformata in maggioranza e vengono uccisi. Anche quando si parla di foibe e non foibe lì c’è una buca dove sono stati buttati là. Da quel giorno non abbiamo più fatto prigionieri. Siamo andati a Fonzano in pieno giorno dove abbiamo preso venti gendarmi, li abbiamo disarmati , ce li siamo portati fuori dall’abitato e li abbiamo lasciati in mutande. Dopo la esecuzione delle Moline non abbiamo più fatto prigionieri da passare per le armi. Come nel caso del Tombion. I cinque battaglioni della “Gramsci” Paride Brunetti partecipò alla organizzazione del primo Nucleo partigiano "Luigi Boscarin"/"Tino Ferdiani"e si trasferì il 4 dicembre 1943 nella valle del fiume Mis tra le montagne di Belluno, per assumerne il comando dello stesso. Giuseppe GADDI in, Ogni giorno tutti i giorni, Vangelista ed., MI 1974 pp.103 e segg.così ricordava quei giorni: “ Il 10 ott.1943 in una casara detta “La Spasema”, sopra Lentiai (BL), si radunò un gruppo di resistenti comunisti composto da tre ex-combattenti delle Brigate Internazionali in Spagna (Rizzieri Roveane di Feltre, Manlio Silvestri e Beniamino Rossetto di Padova)” e da Giuseppe Gaddi che potevano appoggiarsi su Ernesto Ferrazza, Pietro Tagliapietra e altri del posto. Manlio Silvetri (Monteforte) proveniva dalla formazione sul “Foral” che abbandonò solo quando si convinse dell’impossibilità di farne un nucleo combattente. “Alla fine di ottobre al gruppo si unirono anche alcuni stranieri, fra i quali tre exsoldati sovietici, Bortnikov, Kuznietzov e Orlov, giunti lì per caso, e rimasti fino alla fine della guerra ad eccezione di Kuznietzov che fu ucciso dai nazisti in combattimento. Il 7 nov.’43, in omaggio a un feltrino caduto in Spagna, veniva inaugurato il “Battaglione Garibaldi Buscarin” (Boscarin – nda) come è ricordato da una lapide apposta in una casa di Lentiai nell’immediato dopoguerra. Comandante fu eletto Raveane, commissario politico Manlio Silvestri. A loro insaputa, alla fine di novembre ’43 nella foresta del Cansiglio, “Amedeo”, un altro Garibaldino di Spagna dava vita ad un gruppo che confluirà nella “G. Mazzini”. Un’altra formazione era sorta a Vittorio Veneto e a Longarone. Ricorderà Giuseppe Gaddi:“Ma al momento della costituzione del nostro reparto eravamo convinti di essere soli”. (*) (…) “Alla fine di novembre ’43 i carabinieri avevano teso un imboscata per arrestare il colonnello Bortolotti, diretto a Lentiai. Arrestarono invece uno dei partigiani, il vice segretario della federazione comunista Eliseo Dal Pont, che si era recato al di là del Piave a ritirare dell'esplosivo prelevato qualche giorno prima da un deposito. Lo portarono alla caserma dei carabinieri di Mel, comandata da un altoatesino di origine tedesca certamente poco ben disposto nei nostri confronti. Una parte del reparto, la notte seguente, attaccò la caserma nel tentativo di liberare Dal Pont, la cui vita era in pericolo. Ma l'attacco fu respinto, e poco dopo furono i carabinieri, con rinforzi giunti da Feltre, a tentarne uno alla « Spasema », dove eravamo accampati molto all'interno dei boschi di Lentiai. Avvertiti in tempo da Diego Tagliapietra, allora ancora ragazzino, ci ritirammo dietro delle siepi poco distanti da dove, con le armi in posizione di sparo, avremmo potuto far fuori agevolmente tutti i carabinieri che avevamo visti infilarsi a uno a uno nella casera, per uscirne paco dopo quasi di corsa. Non sparammo invece neanche un colpo e, rientrati nella casera, vi trovammo tutto intatto, compreso un enorme calderone nel quale stava cuocendo della trippa, che nessuno di noi sperava più di poter gustare. Ma ormai il luogo scottava e la sera stessa, attraversando a guado le acque ghiacciate del Piave, ci trasferimmo nella valle del Mis, dove trovavamo un ricovero di fortuna a Landrina in una casera abbandonata. Nell'occasione fummo costretti a liberare il «comandante» del gruppo dei neozelandesi, fatto prigioniero perché con le sue smargiassate, e soprattutto con le sue vessazioni nei confronti dei contadini, metteva in pericolo il nostro reparto e comunque gli causava grosse difficoltà. Scampato fortunosamente a conseguenze che potevano essere gravi, egli riparava subito dopo all'estero, dove si costruiva la fortuna alla quale abbiamo accennato.(**) La casera nella quale ci eravamo rifugiati era aperta a tutti i venti, situata in una posizione difficilmente difendibile, ancor più lontana di Lentiai da ogni obiettivo militare e troppo piccola per ospitare un reparto come il nostra, che si ingrossava di giorno in 12 giorno per l'afflusso di elementi provenienti dall'Emilia. Fummo costretti a spostarci nuovamente e questa volta, ripassato il Piave, ci inoltrammo nella Val Cellina, sopra Longarone, sistemandoci sul Toc, la stessa altura che vent'anni dopo doveva precipitare nel bacino artificiale del Vajont, provocando la distruzione della sottostante cittadina e duemila morti. Qui la formazione cambiò nome per assumere quello di Tino Ferdiani, il primo combattente emiliano caduto in seguito a un'azione del reparto: Tino cadde in un incidente il 7 gennaio 1944, mentre rientrava da una spedizione contro un agente del nemico”. (*) - Nella realtà la zona pedemontana e montana brulicava di soldati sbandati e di prigionieri fuggiti dai campi di internamento che erano raggiunti da antifascisti reduci dalla prigionia o dal confino e davano vita a nuclei a se stanti gli uni, quasi sempre, all’insaputa degli altri. Per esempio, il 7 ottobre ’43, si tenne a Nervesa nel trevigiano una riunione tra militari, politici e civili per dare vita ad un nucleo di esercito clandestino ma situazioni analoghe avvenivano nell’altra sponda del Piave nel bellunese e a Pieve di Soligo, Conegliano, nell’Asolano, nel Montello e così via. Un ruolo fondamentale di riorganizzazione lo svolsero Antonio BIETOLINI e la sorella Rosa che erano in contatto con Massola e il Centro del PCI grazie a una radio clandestina. Bietolini fu fucilato, con altri sei antifascisti, in Valdagno il 3 luglio 1944. v. CECCHINATO Silvio, Frammenti di vita di Antonio Bietolini, premio NEGRELLO “Due Sorgenti – Oliero” – Valbrenta, VII° Edizione Bassano 28 maggio 2005 (**) – Sulla operazione fallita contro i carabinieri, Giuseppe GADDI, aveva precedentemente scritto: (…) “ Due giovani portavano a Manlio Silvestri “Monteforte” due casse di dinamite quando, sulla piazza di Lentiai, incapparono in un’imboscata tesa dai carabinieri. Uno di essi fuggì ma l’altro, uno degli organizzatori del reparto e dirigente comunista della Provincia, “Eliseo”, fu arrestato e condotto alla caserma dei carabinieri di Mel per essere consegnato ai tedeschi. All’alba del 30 nov. ’43, gli uomini guidati da “Monteforte” (malgrado una febbre alta), chiesero ai Carabinieri di Mel di liberare “Eliseo”. Non si riuscì a parlamentare. Un graduato aprì il fuoco gettando delle bombe a mano da una finestra. Monteforte diede ordine di rispondere e per vari minuti si sparò all’impazzata da una parte e dall’altra. Alla fine, quasi esaurite le scarse munizioni, i nostri dovettero ritirarsi sulla montagna. Erano appena arrivati alla “casera” stanchi, sfiniti, che i carabinieri, avuti dei rinforzi freschi, attaccarono. Non conoscendo l’entità degli attaccanti e con una posizione che si prestava poco alla resistenza, si ripiegò. Sempre con la febbre alta, Monteforte portò in salvo tutti gli uomini e le armi”. Così finiva la prima azione di quella formazione. Da Giuseppe GADDI (Sandrinelli), Eroi dimenticati MANLIO SILVESTRI “Monteforte”, ed. Fed. PCI Padova 1948 pp.18-19 Il primo gruppo garibaldino era dotato solo di un mitragliatore e di sei fucili modello 91 e poche munizioni. Quando si parla della Brigata, certamente enfatizzando, come della più “grande formazione partigiana d’Italia” (perché raggiunse il massimo, nel settembre 1944, con 996 persone e contò fino a ben 89 staffette partigiane) bisogna tenere conto di quanto affermava Paride Brunetti, nella intervista, che… L’inverno 194445 è stato particolarmente duro perché in montagna non ci puoi stare se non rintanato nei rifugi. Eppoi una formazione di 1000 uomini si riduceva a 70-80 unità. La zona operazioni della Brigata “Gramsci” in data 02.8.’44 era stata fissata dal Comando della Divisione “Nannetti”: - a Nord - Predazzo Passo Rolle / a Ovest – Valsugana fino a Borgo/ a Est – Passo Cereda – Monte Pizzocco – S. Gregorio Alpi – fiume Piave / a Sud – fiume Piave da S. Giustina a Fener – Monte Tomba – Cismon del Grappa. 13 Dal primo nucleo la brigata andò crescendo fino a formare i seguenti cinque battaglioni di circa duecento militari ciascuno: Battaglione “De Min” Il battaglione “De Min” era dislocato a Pietena e operava nei territori di Busche, frazione di Cesiomaggiore, Santa Giustina e nella sua frazione Formegan. La prima sede della Brigata a Pietena si trovava sopra Feltre nella frazione di Vignui, a 533 m s.l.m. Per raggiungerla necessita salire in località Sass Sbregà (630 m) seguendo i sentieri per Pian dei Violini e Rifugio Dal Piaz. Il Passo Pietena è a 2094 m s.l.m.. Battaglione “Zancanaro” Il battaglione “Zancanaro” era dislocato in "Busa delle Vette" e operava nei territori di Feltre, Pedavena, Fonzaso, Moline di Sovramonte. Il battaglione era nato per la decisione dei partigiani cattolici feltrini che si erano aggregati alla Brigata, dopo che a Feltre il 19 giugno ’44 era stato assassinato il loro comandante, il tenente colonnello degli Alpini Angelo Giuseppe Zancanaro. Era composto da circa 400 uomini in parte mobilitati in montagna e in parte alle loro case. La "Busa delle Vette", base del Btg "Zancanaro", è raggiungibile dal passo Pietena.Battaglione “Cesare Battisti” . Battaglione “Cesare Battisti” era dislocato ed operò nei territori di Val Canzoi, Busche, Villabruna. La valle Canzoi segue il torrente Caorame, dalla località Preton fino al Pian del Goso, a Nord del Lago della Stua. Preton è raggiungibile da Soranzén, frazione di Cesiomaggiore.Battaglione “Monte Grappa”. Il battaglione “Monte Grappa” operò nei territori del Monte Grappa (Seren del Grappa, Cismon del Grappa, Carpanè, Campo Solagna, Montebelluna). due Squadre (SAP): la “Marmolada” (Feltre, Quero), la “Civetta” (Cesiomaggiore, Santa Giustina, Belluno e dintorni di Feltre). Battaglione “Gherlenda” operò nei territori di Fiera di Primiero, Castel Tesino, Borgo Valsugana, Strigno. Il primo comandante fu Isidoro Giacomin ”Fumo”, da Fonzaso. Egli era stato ufficiale degli alpini e aveva combattuto nel Montenegro. Fu ucciso con altri partigiani il 15 settembre 1944, in un scontro a fuoco con i fascisti e i nazisti vicino al lago di Costabrunella. Battaglione “Bolzano”. Nell'agosto '44 si formò la compagnia "Gherlenda" e nell'ottobre, dopo i rastrellamenti del Grappa e delle Vette Feltrine, si andò organizzando una quinta formazione della "Gramsci", alla Lancia di Bolzano, inizialmente con partigiani sfuggiti ai vari rastrellamenti del Bellunese e del Vicentino. Fu denominata battaglione "Bolzano" e fu operativamente autonoma, anche per la quasi impossibilità di collegamenti. Il battaglione “Bolzano”, quasi completamente autonomo, con una decina di squadre SAP e un comando Piazza (Zona Industriale), operò presso gli stabilimenti della “Lancia” a Bolzano. Compagnia “Churchill” La compagnia “Churchill” era formata da una decina di ex prigionieri. Tra le tante azioni che “Bruno” organizzò viene qui ricordata una tra le più spettacolari e clamorose. Tra il 6 e il 7 giugno 1944 organizzò ed attuò con altri 5 partigiani il sabotaggio della linea ferroviaria Bassano del Grappa - Trento, in prossimità del Forte Tombion, posto nella strettoia del Canale di Brenta tra Cismon del Grappa e Primolano. Il “sabotaggio del Tombion” fu un’azione partigiana che ebbe un risalto a livello europeo con i ringraziamenti di Radio Londra. L'azione fu ideata presso la casa di Oreste Gris (che da allora assunse il nome di battaglia di "Tombion") e compiuta con altri partigiani ("Tanicio", "Alessio" e "Kutnizoff", "Montegrappa"). L'attacco, guidato dal Brunetti, consistette nell'assalto al deposito tedesco, al disarmo dei militi della RSI, al sequestro e al trasporto di 23 quintali di esplosivo all'interno della galleria ferroviaria. 14 Lo svuotamento del deposito e il trasporto dell'esplosivo avvenne, in cambio della libertà, con l'aiuto di otto militi della RSI presi prigionieri nell'assalto (tre di essi comunque si aggregarono ai partigiani). Sulla via del ritorno, "Bruno" ed i suoi compagni distrussero con mine la cabina elettrica dello stabilimento della "Metallurgica" di Feltre (che produceva pezzi per aerei militari) interrompendo per circa tre mesi la produzione bellica della fabbrica. Si imbatterono poi in una pattuglia tedesca e dopo un'ora di lotta, ormai a corto di munizioni, "Bruno" riuscì ad avvicinarsi da solo agli avversari e a determinarne la resa con il lancio di cariche esplosive. Ancora nell'inverno 1944-45 altre azioni di guerriglia portarono al deragliamento di alcune locomotive ferme presso il Tombion, che vennero fatte precipitare nel Brenta. Per i fatti di quei giorni fu insignito nel 1947 della Medaglia d'argento al Valor Militare dall'allora Presidente del Consiglio dei Ministri on. Alcide Degasperi. 5. Operazione “Forte Tombion” in Valbrenta Quella del Tombion è stata una operazione molto interessante poiché è la più grande operazione di sabotaggio compiuta in Europa. Nella Valsugana a un certo punto a Primolano c’era un forte della prima guerra mondiale. Questo forte era stato adibito a deposito di esplosivi per i lavori di fortificazione che i tedeschi stavano facendo per la “linea veneta”. Una linea che partiva dal Garda e giungeva fino alla zona di Mestre dove, i tedeschi, avevano in programma di ritirarsi ordinatamente dalla linea Gotica in attesa che, nella fortificazione della Baviera e del Sud Tiroler, portassero a termine la ricerca dell’arma atomica (che era andata avanti). Avevano intenzione di ritirarsi dalla Prussia sino alla Baviera e la linea veneta. Nel forte Tombion c’era un deposito con 26-27 quintali di esplosivo. Qui viene fuori il ruolo di appoggio della popolazione perché la Resistenza può andare avanti solo con la informazione e la complicità delle popolazioni. Da loro abbiamo saputo che dentro al Forte c’erano 10 italiani di guardia con due sentinelle notturne. Dagli Alleati avevamo avuto l’ordine di agire perché siccome la via del Brennero era sottoposta a puntuali interventi aerei, i tedeschi usavano la Valsugana per i loro trasporti militari sia attraverso la strada che la linea ferroviaria che correva in galleria e tra valli strette. Dalla nostra azione emergono due elementi fondamentali: il contatto con gli Alleati ma soprattutto con la popolazione locale. Prima di partire (siamo partiti in sei) un vecchio minatore del luogo ci chiama e ci da l’istruzione logistica, mi da la miccia con il detonatore e i fiammiferi antivento. Dopo esserci avvicinati abbiamo imposto il mani in alto alle sentinelle che ci hanno portato nella camerata dove dormivano i militari, abbiamo esploso una raffica per aria, presi dalla paura di essere uccisi li abbiamo calmati e fatto il patto di consegnarci e di portarli dentro alla galleria in cambio della liberazione seppure ridotti in mutande. Era pericoloso perché c’era la strada e se davano l’allarme eravamo persi perché solo in sei . Tre dei militi hanno chiesto di rimanere con noi perché stufi di stare coi tedeschi. All’invito di darci una mano per fare brillare l’esplosivo si sono rifiutati per paura. Conclusione sono andato dentro da solo. (*) Sono entrato in questa galleria dove ci sono delle nicchie una delle quali fu riempita di esplosivo. In possesso di 10 metri di miccia conteggiando un centimetro per ogni secondo dopo un quarto d’ora dall’accensione è saltata la galleria. Prima cosa i tedeschi hanno perso 23 quintali di esplosivo, poi hanno perso la faccia, da allora non hanno più costruito gallerie “cielo aperto”, la strada è rimasta per sei giorni intransitabile e la risonanza è stata mondiale. Prima le missioni erano rare dopo ho avuto con me una missione inglese con comando di Brigata e alla fine anche una missione americana , quella che mi ha fatto avere la onorificenza, che ci ha fornito di ogni ben di dio. Mentre gli inglesi non davano molte armi ma solo un po’ di esplosivo perché non volevano formazioni partigiane forti ma solo informazioni, sabotatori e basta; gli americani mi hanno dotato persino di un “bazooka” il primo, forse, dato in dotazione ai partigiani. Infatti, nel febbraio 1945, l’ho usato contro una caserma fascista. Il rapporto era ottimo con gli americani e pessimo con gli inglesi che privilegiavano ai garibaldini i monarchici e le “fiamme verdi” perché “…Voi cantate troppo bandiera rossa”. I rapporti con le popolazioni non potevano che essere ottimi perché bastava una spia o una delazione e non era più possibile operare. Il battaglione “Gherlenda” non è riuscito ad agire perché si trovava tra una popolazione mista con quella di lingua tedesca. (**) Nel caso delle spie eravamo particolarmente crudeli per ammonire a non collaborare. 15 (*) - Nella intervista Paride Brunetti, correggendo quanto scritto in altre sedi tra cui Giuseppe Sittoni “Cismon del Grappa 1944” dove, in una intervista a firma Paride Brunetti “Bruno”, riporta: - “Rimangono nella galleria “Bruno”, “Tanicio” ed un elemento locale che eseguono le istruzioni ricevute da “Oreste” e danno finalmente fuoco alla lunga miccia (10 mt. circa), ripiegando a loro volta rapidamente” - per la prima volta cita la presenza di un minatore locale oltre a quello in forza alla formazione partigiana e dichiara di essere entrato da solo nella galleria per innescare l'esplosivo. - (**) - SITTONI Giuseppe, Uomini e fatti del Gherlenda , ed. Croxarie - Strigno 2005 , edizione on line - Sin dal 5 settembre ’44 l’alto comando tedesco aveva messo in moto “ l’Operazione Hannover” alla quale aveva fatto seguire la “Operazione Piave”. Dopo avere rastrellato il veronese e il vicentino a ovest e il trevigiano e bellunese a est l’ultimo obiettivo, al centro della cerniera, era costituito dal massiccio del Grappa. Sul Grappa, dove a fine agosto era giunta la “missione Tilmann” che vi lascerà il capitano sudafricano Bridge come ufficiale di collegamento, la situazione era quella descritta da “Bruno” nell’intervista che segue: tanti giovani disarmati e sprovvisti persino di vestiario adeguato confluiti in formazioni con diverse posizioni politiche. Per tentare di dare un minimo di organizzazione, il 7 settembre – Lanfranco Zancan, Giovani Tonetti, Giuseppe Calore e Attilio Gombia del comando militare regionale – riuniscono i comandanti che convengono per un unico comando del Grappa affidato a Paride Brunetti. L’iniziativa seppure importante giunge troppo tardi perché già il 19 sett. ’44 il massiccio era stato circondato dalle truppe nazifasciste. Dalla “Relazione del comando Divisione “Nannetti”, sin dal 12 .8.’44 emergevano “non proprio cordiali rapporti” tra alcuni reparti della “Gramsci” e il battaglione “Monte Grappa”; motivo per cui si proponeva il passaggio alle dipendenze dirette del del Comando “Nannetti”. Che la situazione non si potesse ancora ritenere “posta sotto controllo” lo conferma il dispaccio in data 18 sett. ’44 ( vigilia dell’ attacco nazifascista) con il quale Il C.M.R.V con firma Gianni Lanza ordinava “Questo Comando dispone che il Btg. “Monte Grappa” della Brigata Garibaldi “Gramsci” si stacchi dalla “Gramsci” e passi a far parte delle forze della zona operativa del “Massiccio del Grappa”. “ (*) Di fronte ai 1500-2000 partigiani male armati furono concentrati dai 7000 ai 10000 nazifascisti. La tattica usata era quella di risalire i contrafforti del Grappa attraverso le valli per spingere in basso i partigiani, una volta formata una sacca, dove venivano annientati o imprigionati. Constatata la impossibilità di un coordinamento delle formazioni e preso atto della tattica usata, la formazione di “Bruno” con il combattimento ha impedito che si completasse l’accerchiamento quindi, durante la notte, è “filtrata” attraverso i posti di blocco. La manovra di sganciamento è riuscita perché tempestiva in quanto attuata tre giorni dopo l’attacco: solo così, “Bruno”, riuscì a spostare il comando integro in Val Canzoi. Per ridurre la dimensione della tragedia sembra che, l’unica soluzione, sarebbe stata quella di rompere insieme l’accerchiamento concentrando le diverse formazioni e, poi, sganciarsi in modo programmato. (**) (v. Allegato C) - (*) – v. a cura di A.M. Preziosi, Politica e Organizzazione della Resistenza Armata, vol. 1° pp. 90-91 e 221 (**) - Scrive Ernesto Brunetta: “ (…) se il comando unico del Grappa fosse stato operante prima di settembre – l’accordo fra le formazioni venne siglato il 7 settembre dal Comando Militare Regionale composto da Giuseppe Calore, Attilio Gombia, Giovanni Tonetti e Lanfranco Zancan – è pensabile avrebbe forse evitato almeno le più disastrose conseguenze del rastrellamento sul Grappa. L'iniziativa è importante, ma giunge troppo tardi. Il 19 sett. '44 i nazifascisti schierano ai piedi del massiccio una fitta rete di posti di blocco ai quali vengono adibiti i fascisti delle “Brigate Nere” di Vicenza e di Treviso e i legionari della “Tagliamento” fatti affluire apposta dal Piemonte,mentre le truppe tedesche specializzate nella repressione antipartigiana sostituiscono le colonne mobili d'assalto. Il 20 si scatena l'assalto, destinato a durare fino al 28. (…) Crudeli furono le perdite: 307 i partigiani caduti, ; tra i civili vittime della feroce rappresaglia 171 impiccati , 603 fucilati, 800 deportati in Germania. Agli alberi dei viali di Bassano furono impiccati 32 partigiani, destinati a diventare l'emblema della Resistenza Veneta e del suo sacrificio ”. (in E. Brunetta, Dal fascismo alla liberazione, Ist. Storia Tre Venezia, 1977 p. 219.) – n.b. Tra i “legionari” della “Tagliamento”, dopo essere stato scoperto, si è vantato di esserci anche l’attore Giorgio Albertazzi. (Allegato D) 16 6. Il proclama Alexander e il rastrellamento sul Grappa Il nostro dramma nasce con il “proclama Alexander”. Se avrò vita voglio divulgare dei documenti, che ho rinvenuto a Vicenza, che provano che gli Alleati , nell’agosto ’44, avevano impartito disposizioni per scendere in pianura per occupare le città. Si tratta di riportare alla luce una pagina tragica tra le più brutte che esistano! Ci avevano dato per certo che la guerra sarebbe finita nel 1944. E, invece, si sono fermati senza dirci nulla perché avevano distolto un intero Corpo d'Armata Americano e un secondo francese (costituita dalla maledetta divisione marocchina) per attuare lo sbarco nella Provenza (sbarco del 15 agosto '44 - n.d.r.) . Alexander, a noialtri, ce l’ha comunicato nel novembre ’44 quando doveva avvisarci in agosto. (*) A settembre, con la prospettiva dell’avanzata alleata giungevano giovani a frotte pensando che la guerra stesse oramai per finire. In questo contesto si colloca anche la tragedia del Grappa. Sul Grappa è giunta gente disarmata senza nemmeno le scarpe adatte. Ma la guerra ha continuato è questa è stata la tragedia perché i tedeschi, attestandosi sulla linea gotica, hanno potuto distogliere divisioni per passare a rastrellare le formazioni partigiane. Va premesso che i rastrellamenti massicci dei nazisti, al mio comando di brigata, sono mai arrivati solo perché in 7000 uomini in gran parte costituiti da ex-prigionieri russi, kalmuchi, usbeki, turkisi reclutati nei campi di concentramento per fare la guerra antipartigiana ( si tratta di parte della “Armata Mongola” composta da circa 12000 militari per lo più calmucchi, uzbechi, azerbaigiani, tartari, ucraini, kirghisi, georgiani e turkmeni che ricostituirono la 162° divisione tedesca utilizzata nei rastrellamenti nei colli piacentini e nell’Oltrepò Pavese e da dove furono distolti alcuni reparti per la “Operazione Piave” –ndr.). Rimango, forse, l’unico comandante il quale, ad un certo momento, ha deciso di non dare il “si salvi chi può” scegliendo di combattere. Mi sono messo dietro a una mitragliatrice sparando fino all’imbrunire senza subire alcuna perdita . Sul Grappa ci sono stati, circa, 170 impiccati e 500 morti: lo ripeto, io non ho avuto nessun caduto perché ho combattuto, tenendoli a bada, sparando! Loro avevano bloccato i sentieri principali sulla montagna dove, di notte, avevano acceso dei fuochi e piazzato delle mitragliatrici: noi siamo filtrati in mezzo! Credo, anzi, che ci abbiano anche sentito mentre stavamo uscendo dall’accerchiamento ma, al buio, per loro era rischioso entrare nel bosco perché ci temevano. Per dare un’idea , nella mia zona, ho fatto fuori 17-18 presidi . L’ultima brigata che hanno attaccato è stata la mia, ma hanno avuto paura di morire anche loro.(**) L’inverno 1944-45 è stato particolarmente duro perché in montagna non ci puoi stare se non rintanato nei rifugi. Eppoi una formazione di 1000 uomini si riduceva a 70-80 unità. Per quanto mi riguarda i tedeschi non hanno infierito molto nella caccia ai partigiani tanto che ne hanno arruolati molti nell’organizzazione Todt che faceva lavori di fortificazione. IL Grappa è stata la pagina più nera ma, nelle altre zone, non è che i tedeschi abbiano infierito molto. Certo, nel Bellunese, hanno deportato della gente ma, per esempio, hanno infierito molto di più contro gli scioperi , contro i Consigli di Fabbrica per temevano il blocco delle produzioni. Specie contro gli scioperi del 1944 doveva avevano preso paura. I due morti di Saronno, Bastanzetti e Coralli, era gente che lavorava in fabbrica e che erano stati arrestati perché avevano scioperato ed , essendo politicizzati, li hanno uccisi. L’inverno 1944-45 è stato duro, duro, duro, duro! (*) - Proclama ALEXANDER : 13 novembre 1944 - Il 13 novembre 1944, il generale Alexander, nella sua qualità di comandante di tutte le forze alleate in Italia, fece diffondere per radio le sue “nuove istruzioni ai patrioti italiani”, nelle quali, dopo avere detto che le piogge e il fango avevano rallentato l’avanzata alleata, avvertiva che l’inverno sarebbe stato molto duro per i patrioti e impartiva queste disposizioni: “cessare le operazioni organizzate su vasta scala; conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini; attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio “Italia che combatte” o con mezzi speciali o con manifestini; sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate. La parola d’ordine è: stare in guardia, stare in difesa; approfittare, però delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti; continuare nella raccolta di notizie di carattere militare concernenti il nemico. Studiarne le intenzioni, gli spostamenti e comunicare con chi di dovere”. Il generale concludeva raccomandando ai patrioti di tenersi pronti per una ripresa, anche improvvisa, delle operazioni e congratulandosi per la collaborazione offerta alle sue truppe durante la campagna estiva. 17 (**) – Scrive Ernesto BRUNETTA: “Un altro riuscito esperimento di “pianurizzazione” è operato dalle formazioni del Grappa, sia pur in diverse e drammatiche circostanze, tali da rendere necessario l'abbandono del massiccio. Lo stesso battaglione “Buozzi”, che pur rimane sulla montagna fino a metà ottobre, preferisce poi pianurizzare ed il 19 ottobre, attorno ad esso, si ricostituisce in pianura la brigata “Matteotti” con Livio Morello Comandante e Giovanni Giavi Commissario. I resti delle altre formazioni si riorganizzano ai piedi del Grappa confluendo su nuclei e strutture preesistenti. Morto Todesco durante il rastrellamento e catturato Pierotti, i resti delle due “Italia Libera” filtrano in pianura a gruppetti e sono raccolti dalle formazioni contermini con le quali, d'altronde, i rapporti erano sempre stati di reciproca osmosi: cosí parte sono raccolti dai gruppi che agiscono nella zona di Caerano S. Marco i quali, cosí rafforzati ed assunta una piú stretta dipendenza politica dalla DC - dopo ripetuti incontri con Giuseppe Caron ed Italo Romagnoli che rappresentano il quel momento il partito rispettivamente nel CLNP e nel CMP – danno vita in novembre alla brigata “Nuova Italia”, di cui assume il comando Publio Corradi con Mario Rossetto commissario politico”. V. E. BRUNETTA, Dal fascismo alla liberazione, I.S.R.T.V. 1977 p. 224. Correttamente, Paride Brunetti, pone un “forse” nell’affermare -“Rimango, forse, l’unico comandante il quale, ad un certo momento, ha deciso di non dare il “si salvi chi può” scegliendo di combattere. Mi sono messo dietro a una mitragliatrice sparando fino all’imbrunire senza subire alcuna perdita” – perché dai diversi rastrellamenti dell’autunno 1944 centinaia di partigiani riuscirono a “filtrare” verso la pianura dando vitalità alle formazioni che ivi si trovavano. 18 Paride Brunetti, nelle sue interviste, non accenna mai dell’effetto devastante che subì allorché venne a sapere della decapitazione improvvisa e violenta del Comitato di Liberazione Nazionale Veneto e del Comando Regionale Militare Veneto avvenuta la sera del 7 gennaio 1945, a Padova, da parte della “banda Carità”. Ma è facile intuirlo sia dai nomi degli arrestati ( che avevano portato il militare Brunetti a divenire il “Bruno” comandante della Brigata “Gramsci”) che dall’ultima Sua visita a Padova il 25 maggio 2010 che lo vide scoprire una lapide in quella casa di Adolfo Zamboni in via M. Sanmicheli n. 53 dove partecipò alla prima riunione della organizzazione militare della Resistenza con Flavio Busonera, Antonio Frasson, Lionello Geremia, Luigi Marziano, Lodovico e Mario Todesco, Adriano Trevisan (v. sopra a pag. 8). La “retata” fascista del 27 nov. ’44, sempre in Padova, aveva già portato all’arresto di Attilio Gombia “Ascanio” e di Rino Gruppioni “Spartaco”. Per sostituire “Ascanio” venne chiamato Franco Sabatucci “Cirillo” ma anch’ Egli venne ucciso in una imboscata a Padova il 19 dicembre 1944. Il dramma del Grappa e i rastrellamenti successivi in tutto l’arco alpino, uniti alla scomparsa dei suoi referenti politici, portò anche Bruno ad una riorganizzazione delle file e a un stasi generalizzata dell’attività partigiana. Nel Bellunese questo comportò una nuova composizione dei comandi: Comando Zona Comandante “Abba” (Partito d’Azione) Comm. Politico “Ludovico” ( P. C.) Vice “ “Bruno” (Partito Comunista) Vice “ “ “Rudy” (P. S.) Capo di Stato Maggiore “Azeglio” (Democrazia Cristiana) Divisione Belluno “ Nannetti Comandante “Franco” ( Partito Comunista) Comm. Politico “Carducci” (D.C.) “ “Milo” ( “ “ ) “ “ “Coledi” (P. di Az.) Zona Prealpi Bellunesi “ “Paolo” ( “ “ ) “ “ “Stefano” ( “ “ “ “ formata dalle brigate Garibaldi “Tollot” ( S. Ubaldo – Piave) e Mazzini. ) Dopo l’assassinio del comandante della “Mazzini” Marino ZANELLA “Amedeo”, di Segusino, il 26 gennaio ’45 in Pieve di Soligo; l’arresto di PASI Mario “Montagna”, di Ravenna, (impiccato a Belluno nel Bosco dei Castagni il 12.3.’45) e l’arresto anche del Comandante di Stato Maggiore SERRANTONI Marcello “Marco”, di Bologna, (poi fucilato a Padova il 02.01’45); il CLN Regionale Veneto, funzionante solo dal 23 marzo ’45, inviava come Comandante delle brigata “Mazzini” Paride BRUNETTI “Bruno” e Commissario Politico Eliseo DA PONT “Bianchi”. La decapitazione del comando partigiano della “Mazzini”, alla quale si sopperì con il succitato cambio della guardia, avveniva dopo che la formazione e le popolazioni avevano subito ripetuti rastrellamenti nazifascisti. Scrive Ernesto Brunetta: L’11 agosto ’44…”sono i fascisti della brigata nera di Treviso che tentano di penetrare nella zona di occupazione della brigata Mazzini. I partigiani li aspettano sulle colline di Collalto e i fascisti sono volti in fuga. (…) IL 16.8.’44 il nemico torna all’attacco e per rappresaglia dà alle fiamme Solighetto; e mentre il 21 i tedeschi attaccano le propagini estreme dello schieramento della Nannetti (rastrellamento di Caviola con 16 morti tra la popolazione civile), alla fine del mese il cerchio si tringe attorno al grosso della divisione. Le formazioni tentano dapprima la difesa rigida, poi, mentre per rappresaglia i tedeschi incendiano Pieve di Soligo, viene impartito l’ordine di sganciamento verso il Cansiglio. (…) il 6.9.’44 comincia il rastrellamento del Cansiglio (…) e nella notte del 9 viene dato l’ordine di sganciamento. Nella stessa zona (…)è la brigata “Piave”, che subisce l’offensiva(…)fino al rastrellamento del Montello del 4 novembre ‘44”. Questo è quanto avveniva alla vigilia e dopo l’attacco nazifascista al massiccio del Grappa. L’esperienza maturata anche in quel frangente sarà preziosa al momento del passaggio al comando della brigata Mazzini. 19 Per comprendere il dramma vissuto dai partigiani e dalle popolazioni residenti in quella sponda del fiume va ricordato che, dei 12 ministeri “fantoccio” della R.S.I. localizzati al nord, a Possagno si collocava quello della Guerra e a Valdobbiadene quello dell’Agricoltura. Oltre ai dipendenti (una sessantina di romani con famiglie solo in quest’ultimo ministero) si trovavano concentrati collaborazionisti della X° Mas, della Wermacht, delle diverse polizie naziste e reparti della Guardia Confinaria (in divisa da alpini). 7. Liberazione e Guerra Fredda Nella primavera del ’45 c’è la svolta soprattutto da parte degli americani con abbondanza di armi, la ritirata da parte dei tedeschi e il finale è caratterizzato dal fatto, nelle città, i partigiani crescevano come i funghi. Prima che arrivassimo noi c’era chi aveva già fatto quasi tutto. In una città che, per amore di patria non cito, si era costituita una intera divisione con tanto di comandante e ripartiti in squadre che avevano posto quasi tutto sotto controllo. Il “dopo” è stato molto pericoloso e triste perché sono subentrati i fattori politici condizionati dal Patto di Yalta che ha diviso l’Europa in due sfere di influenza. L’Italia era al di qua di una linea mentre l’Ungheria e la Cecoslovacchia sono rimaste al di là: quando Praga è insorta col cavolo che l’hanno aiutata. Quando i partigiani greci hanno preso il potere gli inglesi li hanno fatti fuori. Nel popolo italiano si è creata una frattura, la famosa “guerra fredda”. Io non guardo più al passato; non mi interessa più. Voglio pensare all’avvenire perché non ci siano più guerre. Voglio che la gente vada d’accordo. Io domando: tu sei stato fascista? Non mi interessa bensì chiedo che questo mondo sia diverso , migliore. E’ questo che io spero. Il passato lasciamolo stare! La storia è scritta nel bronzo e non la puoi cancellare, non si può fare del revisionismo storico. A è A e B è B! Voltiamo pagina ; prendiamone una bianca e scriviamola insieme per i nostri figli e nipoti dove la parola guerra non esista. Perché dire Pace non vuole dire niente, bisogna dire NO alla guerra! Quando c’è la guerra te l’ho detto cosa succede: la rappresaglia! Cito un solo dato! Nella seconda guerra mondiale , almeno sino ad ora, pare che le vittime siano state 53 milioni di persone delle quali 35 milioni sono civili. Quelle di Marzabotto, di Hiroshima, delle Fosse Ardeatine; quelle dei bombardamenti di Milano, di Dresda e di tutti gli altri bombardamenti indiscriminati, non mi verrai a dire che quei bombardamenti servivano : erano solo per rappresaglia. E perché? E’ questo che non vogliamo più . E’ questo che auguro a chi mi ascolta perché cerchi di capirlo: la guerra non produce nulla solo distruzione. (Fine Trascrizione da http://www.pierodasaronno.eu/released/programma.aspx?ID_Programma=123# a cura di Cecchinato Silvio) Paride BRUNETTI, dopo il '45, proseguì nella carriera militare con il grado di Maggiore fino al 1958 quando, dopo aver incontrato ostacoli sempre crescenti nell'esercito a causa delle sue posizioni politiche (l'allora Ministro della Difesa, a suo insindacabile giudizio, bocciò la promozione da maggiore a tenente colonnello) tornò alla vita civile. Proseguì gli studi laureandosi in ingegneria ed entrando alla Montedison dove lavorò fino alla pensione. Si trasferì a Saronno dove ricoprì il ruolo di Consigliere Comunale per il Partito Comunista Italiano. È stato Presidente della locale sede dell’ ANPI. IL 26 maggio 2010 il Sindaco di Padova Flavio Zanonato gli ha consegnato il Sigillo della Città quale Cittadino Onorario. E’ scomparso il 9 gennaio 2011 all’età di 94 anni. 20 ATTIVITA’ del partigiano BRUNO (Brunetti Paride) Il 10 ottobre 1943 nella casera “La Spasema” sopra Lentiai-Mel nel Feltrino tre garibaldini delle ex-Brigate Internazionali di Spagna, con altri, danno vita alla prima formazione partigiana. Il 7 nov. ’43 nasce il Btg. Garibaldi dedicato a “Boscarin”. Alla fine di nov. 43 assalto fallito alla caserma dei carabinieri di Mel. Per rimediare allo sbandamento il CLN invia Paride BRUNETTI. - - - - 4 dicembre 1943 – Trasferitosi nel bellunese (Valle del Mis) prende il comando del primo nucleo partigiano di montagna della provincia (Buscarin- Boscarin) inaugurato 07 nov. ’43. Gennaio 1944 – Il nucleo “Buscarin” era composto per lo più da comunisti e si trasferì da Lentiai fino in Valle del Mis (sulla destra orografica del Piave) e poi ancora in Val Cellina (sulla sponda sinistra) e da qui in Val Mesazzo dove, 07 genn. ’44, si trasforma in distaccamento d’assalto “Tino Ferdiani”. Verso la metà di febbraio ’44 il CLN provinciale gli consegno la bandiera di combattimento che era tricolore. “Bruno” ne assumerà il comando. Aprile 1944 – Il distaccamento “Tino Ferdiani” si trasforma in Brigata Garibaldi e, Brunetti , ne assume il comando. Maggio 1944 – Viene chiamato presso la delegazione triveneta delle brigate Garibaldi e si reca come ispettore nelle formazioni partigiane del vicentino. Fine Maggio 1944 – la Brigata Garibaldi Veneto si trasforma in Gruppo Brigate “Nino Nanetti”, di cui Brunetti viene nominato Vice-Comandante. Giugno –Dicembre 1944 – Costituisce nel feltrino la brigata “Gramsci” e se ne tiene il Comando. 16 giugno ’44 prende vita la “Nannetti” Comandante “Filippo”, C.S.M. “Milo”. 2 agosto ’44 la “Nannetti” diventa Divisione. 7 Settembre 1944 – Comandante Gruppo Brigate Zona “Grappa”. 01 nov. Costituita la Div. “Belluno” con comando operante dal 27 ottobre (C.te “Franco”, Comm. “Carducci”). 19 dicembre 1944 – Viene costituito il Comando Zona Piave con due divisioni Garibaldi distinte (ripartire in 17 brigate): la nuova “Nannetti” per la sinistra del fiume e il Vittoriese e la “Belluno” per la destra. Esse dovevano agire con le altre due brigate autonome “7° Alpini” e “Val Cordevole” che facevano parte del “Comando Zona”. Comandante Lucio Manzin (“Abba”) vice-Comandante, Paride Brunetti “Bruno”, Commissario Giuseppe Landi che sostituì Pasi arrestato e poi impiccato, Vicecommissario Decimo Granzotto, Capo di Stato Maggiore Pasquale De Toffol sostituito poi da Costantino Cavarzerani, Ufficio Informazioni Enzo Da Val. 26 febbraio ‘45 – “Bruno” comanda la brigata “Mazzini” dopo l’assassinio dell’ex-comandante Marino Zanella a Pieve di Soligo, l’arresto di PASI Mario “Montagna”, di Ravenna, ( impiccato nel Bellunese) e l’arresto di Marcello Serrantoni di Bologna, Capo di S.M. ( fucilato a Padova). Maggio 1945 – Ritorna al comando zona “Piave” quale Vice-Comandante alla cui testa partecipa alla Liberazione. Terminò quale Comandante della Piazza di Belluno. Alcuni comandanti della Brigata “Gramsci” Brunetti Paride “Bruno” Comandante dal 7 giugno al 10 dicembre 1944 “Cimatti” Commissario politico dal 7 giugno al 15 agosto 1944 Dalla Sega Aldo “Robespierre” - Commissario politico dal 10 dicembre 1944 al 10 gennaio 1945 Parini Giovanni “Barenidi” Commissario politico dal 1º ottobre al 15 gennaio 1945 Stefani Natale “Anto” Comandante dal gennaio 1945 21 Azioni militari Dai due volumi, Politica e Organizzazione della Resistenza Armata – Atti del Comando Militare Regionale Veneto – Carteggi di esponenti azionisti (1943-44), a cura di Anna Maria PREZIOS I e Chiara SAONARA, Neri Pozza editore dic. 1992 pp. 91-96 e 103-6 vol. I° e pp. 196-210 vol. 2° - riporto un elenco delle azioni della “Gramsci”. 30. «Relazione azioni» delle formazioni dipendenti dalla Divisione "Nannetti". 13 agosto 1944 - IVSR, b. 51, fasc. "Divis. Nannetti". Le firme sono autografe. 6-7.6.44 – Distaccamento “ Ferdiani”: una pattuglia di 6 uomini dopo 15 giorni di marcia , si porta in Valsugana , attacca e cattura il presidio del Forte Tombion. Usa gli stessi prigionieri per trasportare q.li 30 di esplosivo nel fornello della galleria ferroviaria della linea Valsugana e la fa saltare interrompendo il traffico per 5 giorni ostruendo altresì la strada statale. Al rientro la pattuglia porta al suo seguito uomini reclutati sul posto e in uno scontro elimina due tedeschi. 9.7.44 - Brigata "Gramsci": Un nucleo di garibaldini disarma il presidio repubblicano composto di sette alpini. Lo stesso nucleo fa saltare la linea Val Sugana in 4 punti. 12.7.44 – Br. “Gramsci”: Una formazione di 18 garibaldini parte per attaccare il presidio tedesco dislocato a «le Moline», la marcia di avvicinamento si svolge regolarmente. Giunti nei pressi della località viene assunta la prestabilita formazione di combattimento. Precedono due compagni con il compito di eliminare le sentinelle; segue un nucleo con il compito di fare irruzione nel dormitorio; i rimanenti provvedono al blocco delle strade.Viene intimato alle sentinelle di arrendersi; ma rispondono aprendo il fuoco e ritirandosi verso la casa dove si trovano i rimanenti soldati. Una sentinella viene uccisa e una ferita. Tutto il presidio si mette in allarme. I garibaldini prendono posizione e s'inizia da ambo le parti una violenta azione di fuoco. Ad un certo momento due compagni che erano postati in cima al tetto di una casa scorgono un tedesco che tenta di eclissarsi. Gli viene sparato contro e rimane ucciso. Visto che la situazione non presentava altra via di soluzione, il comandante Bruno prepara una carica di dinamite e con la miccia già accesa attraversa la strada e si dirige verso la caserma, mentre i compagni tengono sotto il loro controllo tutte le finestre. Giunto a pochi metri dalla porta viene fatto segno da quattro colpi sparati a bruciapelo da un mano uscita dalla porta. Fortunatamente resta illeso, riesce a ripiegare ed ordina di preparare un'altra carica. I tedeschi però decidono di arrendersi. Vengono fatti otto prigionieri. Vengono recuperati: un fucile mitragliatore con 1.880 colpi, undici fucili con 700 colpi e numerose coperte e numerosi zaini.Verso le sei del mattino la formazione, con i prigionieri carichi del bottino, attraversa la località di Aune in pieno assetto di guerra cantando gli inni partigiani. La popolazione assiste entusiasta. I prigionieri perché hanno resistito vengono giustiziati. 13.7.44 - Br. "Gramsci": Una pattuglia di quattro garibaldini, di ritorno dall'azione delle "Moline" sostava sul monte Avena. Minava il pilone più alto della linea ad alta tensione che dalle centrali dell'Isarco va a Velsi. Alle ore 16 detto pilone veniva fatto saltare. Poi la pattuglia proseguiva indisturbata verso l'accampamento. 16.7.44 - Br. "Gramsci": Viene minato il pilone più alto dell'importante linea ad alta tensione che porta l'energia elettrica da Vellai a Porto Marghera. Una formazione del Btg. "Zancanaro" parte per attaccare il presidio tedesco di Ponte Serra, con un colpo di fucile viene fatta precipitare la sentinella dal ponte e circondata la casa. I tedeschi rispondono con le armi alle raffiche dei partigiani: nella lotta muore gloriosamente il garibaldino “Cervo”, spintosi avanti per lanciare una bomba. Sopravvenuta una pausa i 22 garibaldini si lanciano decisamente verso la casa, ma la trovano deserta. Vengono recuperati: un fucile mitragliatore, sei fucili e capi di vestiario. 17.7.44- Br. "Gramsci": Azione contro la casa del fascio di Cismon. Asportazione di tutto il materiale necessario e distruzione del rimanente. - Cattura del Berardin e del famigerato D'Andrea, fondatori del fascio di Cismon. 18.7.44- Br. "Gramsci": Una formazione di nove garibaldini del btg. "Zancanaro" compie un'azione di sabotaggio sulle linee di comunicazione telefoniche telegrafiche che da Feltre vanno a Treviso, i fili sono stati in gran parte asportati. – Fermato un treno passeggeri sulla linea Belluno-Feltre i partigiani staccano la macchina che viene fatta deragliare. Interruzione del traffico per 72 ore. 19.7.44- Br. "Gramscí": Una formazione di garibaldini del Btg. "Zancanaro" si dirige verso l'accantonamento del corpo di guardia della centrale di Pedesalto. Vengono recisi tutti i fili e viene circondato l'accantonamento. Dopo una sparatoria che rimane senza reazione, viene intimata la resa e nessuno risponde. I tedeschi si erano eclissati. I garibaldini entrano, asportano tutto il possibile e distruggono il rimanente. Quattro garibaldini precedendo la formazione, si avviano verso le condutture d'acqua. Viene accesa la miccia, dopo pochi minuti la tubatura salta e la centrale viene così inutilizzata. La formazione sosta a Faller, prendendo le dovute precauzioni entra in chiesa dove il parroco rivolge brevi parole e benedice le armi. La popolazione acclama i garibaldini. La Centrale di Pedesalto alimentava la “Metallurgica di Feltre”. Il lavoro sarà ripreso solo dopo due mesi. La fabbrica occupava circa 400 operai e operava per i tedeschi. 20.7:44 - Br. "Gramsci": Tre garibaldini si portano nella zona di Busche per sabotare la linea ferroviaria e danneggiare la locomotiva di un treno di passaggio. Pongono sui binari due cariche di dinamite nel punto della linea dove passa un viadotto. Appena il treno si ferma, due garibaldini si portano ai lati della locomotiva e il terzo sale sopra imponendo al fuochista di scendere e di sganciare la locomotiva. Avute le indicazioni la macchina viene messa in moto dopo avere, previ i tre fischi convenzionali, dato l'avviso a due elementi del luogo che si trovavano sul viadotto e che avevano il compito di accendere la miccia. La locomotiva parte, mentre le cariche di dinamite esplodono interrompendo un tratto di binari. La locomotiva esce così dal binario, corre per una settantina di metri strisciando lungo il parapetto e inclinandosi rimane in bilico. La linea rimane interrotta, per tre giorni. 22.7.44 - Br. "Gramsci": Una squadra del Btg. "Zancanaro" cattura sulla strada Fonzaso-Feltre un gendarme tedesco che viene giustiziato. – Una formazione del btg. “Monte Grappa”, venuta a conoscenza che nella notte dovevano transitare tradotte tedesche, fa saltare la linea della Valsugana in 4 punti. Il traffico è stato interrotto per 7 ore. 23.7.44 – Br. “Gramsci” : vengono poste 4 mine su di un tratto di binario della linea ferroviaria BellunoFeltre. Prima dell’esplosione sono interrotte le linee telegrafiche e telefoniche del luogo asportandone i fili. – Viene liberato un garibaldino degente all’ospedale di Feltre in seguito a ferite riportate durante l’azione contro il famigerato Gasparri. 24.7.44 – Br. “Gramsci”: reparti fanno saltare 150 metri di rotaia della linea Belluno-Feltre. – Viene giustiziato Zanin Giovanni che, spacciandosi per partigiano, effettuava azioni di banditismo a mano armata. 25.7.44 – Br. “Gramsci”: viene giustiziato Scariot Guerrino il quale, spacciandosi per partigiano, estorceva denaro dai cittadini. 23 26.7.44 – Br. “Gramsci”: viene giustiziato Lorenzi Terzo appartenente alla polizia germanica di Belluno. - Viene giustiziato il repubblicano Berardin colpevole di spionaggio. 28.7.44- Br. "Gramsci": Una formazione attacca la caserma di carabinieri di S. Silvestro disarmandoli tutti. Bottino: 14 fucili, 11 caricatori, 14 pistole, coperte e vestiario. Vengono sabotate due linee ad alta tensione che convogliano la corrente dalla centrale di S. Silvestro a Porto Marghera. Di ritorno dalla zona del Tomatico sono interrotte anche tutte le linee di comunicazione telefoniche e telegrafiche che da Feltre portano a Padova con la asportazione di circa 600 metri di filo telefonico. 29.7.44- Br. “Gramsci”: Un nucleo del Btg. “Zancanaro” assale e svaligia nella zona di Primiero una caserma della milizia forestale. Una altro nucleo del “Zancanaro” mitraglia , presso S. Nicolò d’Arten, un’autocarretta uccidendo un tedesco e ferendone un altro. 1.8.44 - Br. "Gramsci": Verso le due del pomeriggio, un autocarro pesante carico di tedeschi giunge a Croce d'Aune. I tedeschi scendono, piazzano le loro armi e in gran parte si dirigono verso la località dove si trovava la costituenda compagnia "Cairoli". Nella stessa mattinata il Comandante di Brigata Bruno era giunto per fare un'ispezione. Il Comandante la "Cairoli" era assente. Bruno diede immediatamente ordine al reparto di trasferirsi in un'altra zona e di trasportare in bosco tutto il materiale. Si forma una squadra di venti uomini della "Cairoli" e del "Zancanaro" che parte per attaccare da vicino la macchina. Giunge un elemento locale che comunica di aver visto venire un'altra macchina tedesca dalla parte opposta. Si constata però che l'ultima informazione era priva di fondamento. Viene aperto il fuoco e i tedeschi ripiegano precipitosamente verso la macchina. Il fuoco dei partigiani viene allora diretto contro la macchina e i tedeschi si rifugiano in case civili. Piazzate le loro armi incominciano a rispondere e dopo un paio d'ore ripiegano fino a porsi in zona sicura. La macchina protetta dal tiro delle mitragliatrici pesanti riesce a portarsi in zona sicura e poi a partire. Caricati gli uomini fa ritorno, ma lungo la strada viene mitragliata da un'altra nostra squadra che ritornava da una azione. I garibaldíni non hanno subìto nessuna perdita. I tedeschi parecchi feriti e non si conosce il numero dei morti. I tedeschi nella fuga hanno abbandonato a Croce d'Aune parecchie munizioni e una canna di ricambio. Il tutto venne recuperato. 2.8.44 - Br. "Gramsci": Una formazione del Btg. "Zancanaro" e di alcuni elementi della "Cairoli" attacca la caserma dei gendarmi di Fonzaso. Bottino un fucile mitragliatore con due cassette di munizioni, tre mitra, 25 fucili con alcune migliaia di colpi, 15 pistole, 45 bombe a mano, e numeroso materiale di vestiario ed equipaggiamento. 3.8.44 - Br. "Gramsci": Una formazione del Distaccamento “De Min” attacca una colonna di tre automezzi tedeschi. Numerose le perdite avversarie. 31. «Centro Informazioni Provinciale - C.IN.PRO. - Bollettino informazioni settimanale n. 7». 14 agosto 1944 IVSR, b. 51, fasc. «CIMPRO». È siglato G[ianni] e A[scanio]. 24 37. «Comando Divisione d'Assalto Garibaldi "Nino Nannetti". Relazione azioni». 20 ago. ‘44 IVSR, b. 51, fasc. "Divis. Nannetti". Le firme sono autografe. 2.7.44 – Brg. "Gramsci" - Elementi del distaccamento "A. Garibaldi" sopprimono nel bar della stazione di Primolano un maresciallo tedesco. 3.7.44 – Brg. "Gramsci" - Una formazione della compagnia "C. Battisti" assalta la stazione dei CC. di Feltre, asportando armi, munizioni e altro materiale che in parte viene poi perso dato il pronto inseguimento tedesco e successivo rastrellamento. 15.7.44 – Brg. "Gramsci" - Una formazione del Btg. "Zancanaro" interrompe tutte le comunicazioni telefoniche e telegrafiche lungo la strada Feltre - Arten. 16.7.44- Br. "Gramsci" - Una formazione del Btg. "Monte Grappa" interrompe in 13 punti la linea ferroviaria della Valsugana danneggiandola per circa 13 km e interrompendo il traffico per 2 giorni. 20.7.44 – Br. "Gramsci" - Un nucleo della GAP sopprime il nazifascista Gasparri Commissario del fascio di Feltre. 4.8.44 - Br. "Gramsci" - I garibaldini Piuma, Cristallo e Nazzari vengono arrestati mentre a bordo di una autovettura, provenienti da Primiero, si recavano a Croce d'Aune. La notte Nazzari riesce ad evadere. Piuma e Cristallo vengono fucilati sul ponte di Cesana e poi gettati in acqua. 5.8.44 – Br. "Gramsci" - Viene giustiziato il brigadiere Laudadio Gaetano che era al servizio dei tedeschi. 9.8.44 – Br. "Gramsci" Viene giustiziata Lisetta Sartor, spia a servizio dei tedeschi. In combattimento contro formazioni tedesche ammontanti a 600-700 uomini in azione di rastrellamento contro le nostre posizioni, il battaglione "Zancanaro" e il Btg. "De Min" tengono validamente testa per un giorno; infliggono al nemico numerosissime perdite (circa 100 tra morti e feriti) e ripiegano dopo aver avuto un solo morto ed un ferito leggero. 10.8.44 – Br. "Gramsci" - Una formazione del Btg. "Monte Grappa" attacca il presidio repubblicano di Carpené riuscendo a disarmarlo e catturando 8 prigionieri. Bottino: 13 moschetti con 192 colpi, 2 fucili mitragliatori con 1.100 colpi, 50 bombe a mano, 20 coperte, 4 zaini completi di corredo. 13.8.44 – Br. "Gramsci" - Una formazione del dist. "C. Battisti" attacca vicino alla galleria di Feltre un treno. 9 tedeschi rimangono uccisi nel conflitto che segue. Inoltre viene messa fuori uso una locomotiva e fatti saltare 20 m di binario. Morte ai fascisti e all'invasore tedesco! Libertà ai popoli! Il Commissario di Divisione UGO p. Il Comandante di Divisione NIEVO 87. “ Il Comando militare zona Piave al Comando regionale veneto, alle missioni militari alleate e, p.c., alle formazioni dipendenti e alla sezione stampa e propaganda - Relazione azioni militari”. 20.4. 1945 4.3.45 – Br. "Gramsci": Il comandante della Brigata e il commissario del gruppo btg. "Feltre", mentre si trovavano in Feltre per servizio, venivano riconosciuti dal famigerato Scarton, SS al soldo del nemico, che davanti alla caserma delle SS intimava loro l'alt a pistola spianata. Anto rispondeva con cinque colpi che 25 freddavano la spia, rimanendo però ferito al ventre da alcuni colpi che essa era riuscita a sparare. I due garibaldini riuscivano a sfuggire ai tedeschi sopraggiunti, fingendo di essere stati aggrediti, urlando "Aiuto! Sparare là!". Anto perdeva le forze e Gracco caricatoselo sulle spalle attraversava tutta la città portandolo in salvo. 7.3.45 - Br. "Gramsci": Cattura ed eliminazione di 3 polacchi appartenenti alle FF.AA. germaniche ed elementi di controbande antipartigiane. 10.3.45 - Btg. "Zancanaro" - Durante una azione di prelevamento ostaggi nei pressi di Pedavena in una sparatoria tra nostri garibaldini e tedeschi rimaneva ucciso un militare germanico e ferito un altro. 13.3.45 - Btg. "Zancanaro" - Interruzione, mediante brillamento di piloni, delle linee elettriche ad alta tensione nelle vicinanze di Vellai di Feltre e sul Tomatico. 23.3.45 - Btg. "De Min" - Garibaldíni delle SAP del Btg. attaccavano a distanza di tiro il presidio tedesco di Villabruna provocando una forte reazione di fuoco avversaria prolungatasi per alcune ore. Morte al fascismo! Libertà ai popoli! Il Comando Militare Zona Piave Il Capo di S.M. Come sopra ricordato nel febbraio ’45 il Comando Militare Regionale Veneto aveva posto, quale Comandante della brigata “Mazzini”, Paride BRUNETTI “Bruno” e Commissario Politico Eliseo DA PONT “Bianchi”. Siccome il passaggio dalla “Gramsci”, al Comando Zona e da questa alla Mazzini ha avuto delle dinamiche non precisamente datate ho scelto di riprodurre le Relazione Azioni Militari di ambedue le formazioni. Dopo quella della “Gramsci” ecco quelle della “Mazzini” e “Tollot”. Nel rapporto non sono citati i nomi del comandante, del commissario politico e di altri combattenti nel frattempo caduti o prigionieri: questa precauzione serviva a impedire che i nazifascisti venissero a conoscenza dei ruoli svolti e di quelli in essere tra le file partigiane. Negli atti del CMRV se ne può trovare una conferma nelle pp. 109-11 dove si comunica “Ecco quanto, cosa e come sanno le autorità politiche e di polizia in riguardo ai problemi di cui sotto”(…) cioè sugli assetti e consistenza delle formazioni partigiane e dai quali emergono lacune opportune e necessarie per la sopravvivenza delle stesse. DOCUMENTI Comando Militare Regionale Veneto - POLITICA E ORGANIZZAZIONE DELLA RESISTENZA ARMATA ( da - Politica e Org. della Resistenza Armata vol. II° - Atti – pp. 205/209) 87. “Il Comando militare zona Piave al Comando regionale veneto, alle missioni militari alleate e, p.c., alle formazioni dipendenti e alla sezione stampa e propaganda – Relazione azioni militari”. Brigata "Mazzini": 26.2.45 - Un nostro reparto al comando del Comandante di Brigata, attaccava in località Cison di Valmarino il presidio repubblicano della forza di circa 120 uomini, dotato di 3 mitragliatrici pesanti, alcuni mitragliatori, un mortaio da 81 e uno da 45 MM. Dopo una violenta azione di fuoco i nostri si sganciavano 26 ordinatamente. Perdite inflitte al nemico: 3 morti - 15 feriti gravi; una mitragliatrice pesante messa fuori uso e probabilmente qualche mitragliatore. La caserma è provvisoriamente inabitabile. In seguito all'azione si verificavano alcuni casi di diserzione. Da parte nostra cadeva garibaldino “Bose” ( trattasi del partigiano slavo Bozidar MARTINOVIC, ndr.) 27.2.45 - Il 28 mattina formazioni fasciste ammontanti a circa 500 uomini si portavano nella zona del passo S. Ubaldo per effettuare un rastrellamento. Il combattimento ingaggiatosi con le nostre formazioni del Btg. "Fulmine" e del Btg. "Danton" si sviluppava in due settori: 1° settore: Nella notte dal 27 al 28 i garibaldini del Btg. "Fulmine", già in stato di preallarme, occupavano le postazioni precedentemente stabilite. Verso le ore 6 del giorno 28 un reparto di circa 200 alpini, provenienti dalla Scaletta, si era portato fin sotto le nostre postazioni. Veniva subito aperto il fuoco da parte nostra con una mitraglia pesante, un mortaio leggero e alcuni Bren. Il nemico, sorpreso, cominciò a vacillare e, senza reagire, iniziò il ripiegamento, costantemente inseguito dal fuoco delle nostre armi. Nel passaggio obbligato della Scaletta, il nemico si dava in preda al panico, abbandonando sul terreno morti, feriti e armi. Il recupero di detto materiale veniva ostacolato dal tiro di mortai pesanti iniziatosi subito dopo da parte nemica. Un'altra colonna nemica, verso le ore 7, riusciva a superare il passo di S. Ubaldo; anche contro questa veniva aperto il fuoco delle nostre armi. Il nemico si rifugiava dentro a delle case, da cui incominciava la reazione. Il Btg. "Fulmine" schierava in linea altre armi. Il nemico veniva inchiodato sulle posizioni raggiunte e aveva inizio una vera caccia all'uomo. I garibaldíni alternavano le raffiche con grida di scherno contro il nemico terrorizzato. Verso le ore 11 una colonna di fascisti, che ripiegava dopo aver combattuto contro le formazioni del Btg. "Danton" e della Brigata "Tollot", veniva investita dal fuoco preciso delle nostre armi e si sbandava. La schermaglia continuava fino a sera quando il nemico, con il favore dell'oscurità, riusciva a ripiegare. Ottimo il comportamento di tutti i garibaldini. La missione americana, ospite di detto Btg., ha partecipato a tutte le fasi dell'azione, distinguendosi. Perdite nostre: nessuna. 2° settore: Nella notte dal 27 al 28 febbraio le formazioni del Btg. "Danton" (12 uomini) venivano messe in stato di allarme e occupavano insieme alla Brigata "Tollot" le postazioni prestabilite, con due Bren e una pesante. Verso le sei del mattino la postazione di un Bren individuava il nemico che, col favore dell'oscurità, era riuscito a portarsi a distanza ravvicinata. Il garibaldino Gianni apriva subito il fuoco col suo mitragliatore, infliggendo le prime perdite al nemico. Anche l'altro mitragliatore, dopo essersi spostato, entrava in azione. Si iniziava così un serrato combattimento fra i nostri 8 garibaldini e le formazioni nemiche che tentavano invano di avanzare. In questo periodo viene colpito a morte il garibaldino Libero della "Tollot", mentre portava delle munizioni, che cominciavano a scarseggiare. Verso le ore 8 di giocoforza iniziare il ripiegamento perché il nemico era riuscito a portare la minaccia sui fianchi. I garibaldini Angelo e Asia, vista l'impossibilità di ripiegare, combattevano eroicamente, fino a quando cadevano sopra alla propria arma. Il garibaldino Gianni, protetto dal tiro della pesante, riusciva invece a ripiegare, mentre altri fascisti cadevano sotto il tiro della stessa. In seguito tutti gli elementi del Btg. "Danton" si affiancavano alle formazioni della "Tollot", continuando l'azione. Verso le ore 11 il nemico ripiegava. Eroico il comportamento dei garibaldini Asia e Angelo. Degno del più alto elogio quello del garibaldino Gianni e di tutti i componenti del Btg. "Danton". Perdite nemiche: 50 morti - 150 feriti. Numerosissime diserzioni. Le formazioni fasciste del Trevigiano hanno ricevuto un colpo gravissimo dal quale non si sono più riavute. Il prestigio delle formazioni garibaldine si è enormemente accresciuto. 5.3.45 - Tre garibaldini del Btg. "Amedeo" prelevavano la spia Copparin. In seguito alla sua resistenza opposta a seguire i garibaldini e data la vicinanza di presidi nemici, veniva giustiziato sul posto. 12.3.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" si portava nella zona del Fadalto per effettuare un'azione di mitragliamento stradale. A1 sopraggiungere di un automezzo tedesco veniva aperto il fuoco con una bezuca 27 (sic) e sten. Nessuna reazione da parte avversaria; la macchina veniva posta fuori uso. Perdite nemiche: alcuni morti e feriti. 16.3.45 - Due garibaldini appostatisi in agguato catturavano una spia al servizio dei tedeschi, che veniva giustiziata dopo regolare processo. 18.3.45 - Il Btg. "Fulmine" minava una casera da lui occupata, prima di abbandonarla. Formazioni tedesche, durante un'azione di rastrellamento, facevano esplodere detta mina mentre si accingevano ad effettuare una ricognizione in detta casera. Perdite nemiche: 1 ufficiale e due soldati morti, alcuni feriti. 24.3.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" si portava nella zona del Fadalto per effettuare un'azione di mitraglíamento stradale. A1 giungere di due macchine tedesche, apriva il fuoco con una bezuca e sten. Nessuna reazione da parte avversaria. Le due vetture sono state messe fuori uso. Perdite nemiche: un maggiore tedesco morto, 7 soldati feriti gravi, 4 leggeri. 26.3.45 - Una nostra pattuglia del Btg. "Danton" si scontrava con una pattuglia avversaria e apriva immediatamente il fuoco. Perdite nemiche: 1 morto. Nessuna perdita da parte nostra. 28.3.45 - Una squadra del Btg. "Danton" si portava nei pressi di Pieve di Soligo per effettuare un'azione di mitragliamento stradale. A1 giungere di una macchina tedesca con rimorchio, apriva il fuoco con un mitragliatore, sten, bombe a mano. La macchina e il rimorchio rimanevano danneggiati. 1 morto e un ferito tedeschi. 28.3.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" interrompeva la linea telefonica V. Veneto-Belluno, asportando 25 metri di filo. 28.3.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" attaccava sulla rotabile del Fadalto una macchina tedesca, mettendola fuori uso e causando al nemico le seguenti perdite: 5 morti. 1.4.45 - Due garibaldini del Btg. "Danton" catturano nel paese di Miane un sergente della gendarmeria tedesca, che viene giustiziato, dopo regolare processo. 1.4.45 - Una pattuglia del Btg. "Fulmine" arresta nei pressi di Valmarino la spia nazifascista Simeoni Italo, che veniva giustiziato dopo regolare processo. 1.4.45 - Una squadra del Btg. "Amedeo" partita con il compito di sabotare le linee di comunicazione telefoniche al servizio del nemico, si portava sulla stretta di Quero e abbatteva 5 pali di una linea permanente telefonica. Asportava inoltre circa 20 metri di una linea volante tedesca. 2.4.45 - Il garibaldino Noris del Btg. "Fulmine" mentre si recava in missione speciale, disarmato, veniva aggredito da un soldato tedesco che gli toglieva l'orologio, il portafogli e altri oggetti. Compiuto l'atto di brigantaggio, il tedesco veniva assalito dal nostro garibaldino che riusciva a disarmarlo. Con l'intervento di due compagni territoriali, veniva fatto prigioniero e quindi giustiziato. 2.4.45 - Una squadra di garibaldini del Btg. "Danton", appostatisi nei pressi di Pieve di Soligo, catturavano due tedeschi armati di Mauser. Tradotti al Comando di Btg. venivano giustiziati dopo regolare processo. 2.4.45 - Una pattuglia del Btg. "Amedeo" partita con il compito di sabotare le linee di comunicazione telefoniche partenti dai comandi tedeschi dislocati in Valdobbiadene, si recavano in località S. Giovanni e interrompevano una linea tedesca a 4 cavi, asportandone circa 1500 m.. 3.4.45 - Una squadra del Btg. "Fulmine" postasi in agguato nei pressi di Sterk, mitragliava sulla strada due macchine tedesche colà di passaggio. Nessuna reazione da parte avversaria. Perdite nemiche accertate: morti 5, feriti gravi 8. Le due macchine fuori uso. 28 3.4.45 - Una squadra del Btg. "Amedeo" arrestava e giustiziava dopo regolare processo le spie nazifasciste Malacort Antonio e Bortolin Maria. 3.4.45 - Una squadra del Btg. "Amedeo" portatasi in località Col S. Martino per azione economica, si imbatteva in una pattuglia tedesca di tre elementi che venivano fatti prigionieri. Successivamente venivano giustiziati dopo regolare processo. 4.4.45 - Una squadra del Btg. "Amedeo" constatato il passaggio frequente di uomini e mezzi nemici, minava il ponte di Vas, facendolo crollare. Crollavano due arcate per la lunghezza di m. 30. 5.4.45 - Una pattuglia del Btg. "Fulmine", mentre effettuava una ricognizione sul terreno sulla strada Lentiai-Mel, per una azione progettata, si imbatteva in un maresciallo tedesco accompagnato da una sua collaboratrice. Il maresciallo veniva catturato insieme alla collaboratrice e soppresso sul posto, avendo tentato la fuga. La donna, accompagnata al Comando di Btg. e constatata la sua collaborazione con il nemico, veniva giustiziata. Brigata "Tollot": 14.3.45 - Due garibaldini sulla strada Longhere-Revine uccidevano un ufficiale tedesco e ferivano un soldato. 15.3.45 - Tre garibaldini con due mitragliatori compivano una azione di mitragliamento sulla strada V. Veneto-Fadalto, provocando l'interruzione dei lavori notturni di ríattamento della strada. 16.3.45 - Durante il rastrellamento massivo dei giorni 16-20 marzo una puntata di forze tedesche tentava sorprendere il Btg. "Gandin". I garibaldini atteso che il nemico si portasse ad una cinquantina di metri, lo attaccava a bombe a mano e a raffiche di Sten. In seguito, data la superiorità numerica nemica, il Btg. si sganciava. Imprecisato il numero delle perdite nemiche. Nessuna perdita da parte nostra. 18.3.45 - Un garíbaldino del Btg. "Gandin" scontratosi con due elementi della Mas, li uccideva ambedue con una raffica di sten. 20.3.45 - Due garibaldini del Btg. "Gandin" prelevavano una spia in località Marziai di Quero-Vas e la consegnano alla Brigata "Mazzini". 21.3.45 - Viene giustiziata la spia Toffoli Bruno che lavorava al servizio del capitano Pillon. 3.4.45 - Quattro garibaldini catturano due soldati tedeschi sopra Longhere. Ricuperati un fucile semiautomatico e un Mauser. 3.4.45 - Due garibaldini del Btg. "Gandín" impediscono il passaggio di macchine nella strada comunale V. Veneto-Revine, facendo azione di disturbo con un mitragliatore. 4.4.45 - Una squadra di sabotatori fa saltare il ponte di Savassa sulla strada nazionale V. Veneto-Fadalto. L'azione è stata completata da un mitragliamento notturno. Risultati: il ponte saltato completamente. Non si conosce l'esito del mitragliamento. 5.4.45 - All'alba una squadra di territoriali mitraglia con un bren e una mitraglia pesante un gruppo di 20 macchine che si era accumulato in prossimità dell'interruzione del ponte di Savassa. Qualche macchina danneggiata. Durante il giorno, per impedire il lavoro di riattivazione del ponte, garibaldini isolati hanno compiuto azione di disturbo, ottenendo lo scopo. L'interruzione ha perdurato per 60 ore. 13.4.45 - Venuti a 29 conoscenza che a Trichiana si stavano concentrando forze tedesche, con il compito di presidiare il passo di S. Ubaldo veniva deciso di operare immediatamente una interruzione di detto passo, allo scopo anche di precisare l'interesse che i nostri nemici hanno per questa via di comunicazione. Alle ore 13.30 il Btg. "Piol" al completo faceva brillare la mina nella seconda galleria, dopo aver lavorato dall'alba per il trasporto e la sistemazione dell'esplosivo, nonché per le misure di sicurezza. Il risultato è stato soddisfacente. Si presume che la strada non sia riattivabile per almeno una settimana. ONORIFICENZE Medaglia d'argento al valor militare Medaglia di bronzo al valor militare Croce di guerra al valor militare Bronze Star Medal Il generale Mark Wayne Clark gli conferì la “Bronze Star Medal”. Cittadino onorario di Feltre . Sigillo della Città di Padova 2010. Civica benemerenza "La Ciocchina" del Comune di Saronno nel 2003 Per la sua attività partigiana fu decorato dal generale Mark W. Clark , della 5ª Armata USA, della “Bronze Star Medal”, una prestigiosa e limitata decorazione assegnata a soli altri 52 italiani tra i quali a Ferruccio Parri e a Raffaele Cadorna Jr , comandante del Corpo volontari della libertà (CVL) e nel 1947 dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi della Medaglia d'argento al Valor Militare. L'annessa motivazione così, tra l'altro, recitava: "Partigiano attivo, coraggioso ed instancabile, (...) raggiungeva a tappe forzate una lontana località e, dopo aver disarmato il presidio nazifascista di guardia ad un forte, impiegava l'ingente quantitativo di esplosivo trovato per minare la galleria del Tombion e, fatto brillare la poderosa mina, provocava l'interruzione della linea ferroviaria Bassano-Trento. Di ritorno dalla audace impresa (...) distruggeva con altre mine (la cabina elettrica di uno stabilimento metallurgico (...) attaccava un presidio tedesco e (...) ne determinava la resa. (...) (Belluno, Val Sugana, giugno-luglio 1944). " Una seconda medaglia d’Argento al Valore Militare fu conferita a Paride Brunetti “Bruno” quale Comandante della Brigata “Mazzini”. 30 Bibliografia di alcune delle Fonti consultate Intervista video su http://www.pierodasaronno.eu/released/programma.aspxID_Programma=123# (A) – Ernesto BRUNETTA, Dal fascismo alla Liberazione, Ist. Storia Resistenza Tre Venezie 1977 (B) - Daniele CESCHIN, La lunga estate del 1944-Civili e partigiani a Farra di Soligo e nel Quartier del Piave Comune di Farra, ed. ISTRESCO marzo 2006 p. 84 (C) – GADDI Giuseppe, Ogni giorno tutti i giorni, pp. 103/12 ed. Vangelista - 197 (D) - GIROTTO Luca, FORTE TOMBION la sentinella del Canale di Brenta, ed. Litodelta (TN)-2008 (E) – IL GRUPPO “FRAMA” - in TRIANGOLO ROSSO n. 1 – 2 gennaio/marzo 2008, pp. 30 – 41 (F) – MASIN Lino, La Lotta di Liberazione nel Quartier del Piave e la Brigata MAZZINI, ANPI-TV 1989 (G) - SAONARA Chiara , EGIDIO MENEGHETTI Scienziato e Patriota Combattente per la Libertà, Ist. Veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea – pp. 115/6/7 CLEUP Padova 2000 – a cura di Anna Maria PREZIOSI e Chiara SAONARA v. Politica e Organizzazione della Resistenza Armata – Atti del Comando Militare Regionale Veneto – Carteggi di esponenti azionisti (1943-44), Neri Pozza editore dic. 1992 (H)- SITTONI Giuseppe, Uomini e fatti del Gherlenda , ed. Croxarie - Strigno 2005, edizione on line. E’ grazie alla ricerca - testimonianza di SITTONI che è emerso, anche, l’assassinio di due militari inglesi per mano delle SS perpetrato in Borgo Valsugana il 20 dic. 1944. Dobbiamo, però, ad altri l’avere ricostruito la storia di un altro caduto “di colore” che, nell’immediato dopoguerra, venne confuso con un “ufficiale medico sudafricano”, con un “negro americano caduto combattendo a fianco dei fratelli bianchi” o un “americano di origine africana”. Oggi quel caduto ha un nome e una storia: si trattava di Giorgio MARINCOLA, un italiano di madre somala, trucidato a Stramentizzo (TN) in Val di Fiemme. Alla Sua vicenda umana e militanza è stato dedicato un libro e una recensione in La Repubblica. Giorgio Marincola fu sia l’unico figlio delle colonie italiane partigiano che uno tra gli ultimi caduti nella guerra di Liberazione. Egli era nato in Somalia a pochi chilometri da Mogadiscio da padre calabrese e madre somala: una donna bellissima che non poté seguire il militare in Italia. La vita italiana di Giorgio e della sorella Isabella iniziò prima a Pizzo Calabro e poi a Roma dove, al Liceo, ebbe come docente Pilo Albertelli uno dei promotori del Partito d’Azione poi vittima nelle Fosse Ardeatine. Come partigiano, Giorgio, partecipò ad attacchi ai mezzi tedeschi, a sabotaggi e a scontri armati nel Viterbese. Liberata Roma si arruolò nei Corpi Speciali inglesi con il pseudonimo di “Mercurio”. Inviato nel Biellese partecipò al sabotaggio di una linea ferroviaria e a scontri a fuoco sino all’arresto in un rastrellamento nel gennaio del ’45. Costretto a fare propaganda dalla radio nazifascista si rifiutò subendo torture. Internato nel Lager di Bolzano sopravisse fino alla Liberazione per riprendere le armi contro le colonne naziste che compivano stragi durante la ritirata. Ingannato dai nazisti, che si erano avvicinati a Stramentizzo alzando una bandiera bianca, cadde colpito alle spalle a tradimento: erano passati 10 giorni dal 25 aprile 1945! COSTA - L. TEODONIO, Storia di Giorgio Marincola (1923-45), ed. Iacobelli 2008 – - Carlo (H) - H.W. TILMAN, MISSIONE “SIMIA” un maggiore inglese tra i Partigiani, pp. 25-36, BL1981 (I) - VENDRAMINI Ferruccio, Il Mov. di Liberazione in Provincia Belluno, Ist. Stor. Bell.R.,BL’86 (J) - ZACCARIA Giuseppe , Concetto Marchesi e l’Università di Padova, Ed. CLEUP - PD – 2007 (L) - ZAMBONI Adolfo, Il Comitato di Liberazione Nazionale della Provincia di Padova, pp. 23/24-33/34 - Zanocco Editore - Milano 1° edizione 1947 – 2° edizione 1972 31 Allegati (A) Con Marchesi da Padova a Milano Nell’aprile del 1943, al ritorno dalla Russia con questa nuova consapevolezza, presi contatti con un ufficiale di complemento di Verona, Pio Magi, che aveva legami con antifascisti organizzati grazie ai quali, tornato a Padova, potei conoscere Marchesi e Meneghetti. Dopo l’8 settembre 1943 rimasi a Padova come rappresentante militare del Pci fino a quando Amerigo Clocchiatti, dirigente comunista e rappresentante delle formazioni garibaldine nel Veneto, pensò di utilizzarmi nel bellunese, prima al comando del Distaccamento “Boscarin” e poi della Brigata “Gramsci”. Il commissario Manlio Silvestri (“Monteforte”), che aveva combattuto in Spagna nelle file repubblicane, alla sera, alla luce di una lampada ad acetilene, ci leggeva brani del Manifesto di Marx da fogli ciclostilati unti e bisunti. Nel periodo passato a Padova il mio ricordo di Marchesi è vivissimo: lo incontravo al Liviano, sede della facoltà di Lettere e filosofia, dove aveva un ufficio e dove lo avvicinavano anche i suoi studenti, o “scolari”, come lui amava chiamarli. Marchesi era molto amato e rispettato a Padova. Era stato nominato rettore dell’Università dopo il 25 luglio dal ministro Severi del governo guidato da Badoglio. Ma dopo l’8 settembre era stato confermato dal ministro della Repubblica sociale Biggini, che abitava a Padova nello stesso palazzo di Marchesi. Concetto Marchesi nel suo famoso proclama agli studenti spiegò: “Sono rimasto a capo della vostra Università finché speravo di mantenerla immune dalla offesa fascista e dalla minaccia tedesca; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio e al segreto…”. La sua permanenza come rettore gli consentì di aprire il nuovo anno accademico pronunciando il 9 novembre 1943 un memorabile discorso con il quale dichiarava aperto l’anno accademico 711° dell’Università padovana “in nome di questa Italia dei lavoratori, degli artisti, degli scienziati”. Esso irritò moltissimo i tedeschi, già adirati per la mancata concessione di alcuni locali dell’Università, chiesti inutilmente per impiantarvi una stazione radio. Il partito comunista dal canto suo non vedeva di buon occhio la permanenza di Marchesi al rettorato, dal momento che appariva chiaro che i fascisti strumentalizzavano a fini propagandistici la sua permanenza nell’incarico. Verso la fine di novembre Marchesi, a cui Amerigo Clocchiatti per conto del Pci aveva intimato inutilmente di dimettersi, avendo saputo (probabilmente dallo stesso ministro Biggini) che i tedeschi erano intenzionati ad arrestarlo, decise di abbandonare il rettorato. Furono giorni duri e sofferti, vissuti con la fede nella vittoria Il 23 novembre, dopo alcune ore passate nella farmacia di Oreste Bareggi, in via del Santo, si recò in casa del prof. Lanfranco Zancan, in via C. Battisti, 98. La casa del prof. Zancan non era per niente sicura, dato che questi era uno dei più attivi rappresentanti del Movimento di Liberazione a Padova fin dalle origini. Pertanto, dopo una visita di Felice Platone, si stabilì che egli si recasse in casa di Leone Turra, responsabile del Pci nella provincia di Padova, in viale Codalunga, 6, che era più appartata e meno sospetta. 32 Marchesi in quella casa rimase nascosto fino al 29 novembre, data in cui per disposizione di Amerigo Clocchiatti mi ci recai anch’io con l’incarico di accompagnarlo a Milano. Quel giorno stesso egli scrisse il famoso proclama agli studenti, che poi fu stampato e diffuso in migliaia di copie nella tipografia di Remo Turra, fratello di Leone, con la data del 1° dicembre 1944, per motivi di sicurezza. Dunque il giorno 29 novembre Marchesi partì accompagnato da me in treno per Milano, praticamente senza bagagli, che gli furono recapitati in seguito dal prof. Franceschini. Per ovvie ragioni di sicurezza, egli da allora assunse il nome di avv. Antonio Martinelli e fu dotato delle relative carte (probabilmente confezionate dall’ing. Antonio Frasson, che operava nascosto nel monastero di Santa Giustina). Per farlo abituare alla sua nuova identità lo mettemmo svariate volte alla prova: alla domanda sulla sua professione, sbagliò più volte rispondendo “professore”, dimenticando che ormai egli era “avvocato”, l’avvocato Antonio Martinelli. Prima di partire a tarda sera, mangiammo le ottime tagliatelle preparateci dalla sig.ra Turra. Il viaggio, pieno di pericolose incognite, si svolse senza intoppi. Marchesi, che aveva quasi sessantasei anni di età, era teso ma energico e determinato. A Milano arrivammo a notte avanzata. Il nostro appuntamento con il prof. Franceschini era fissato per la mattina successiva in piazza S. Ambrogio, davanti all’Università Cattolica, dove egli insegnava. C’era dunque il problema del pernottamento. Dopo una breve ricerca sempre vicino alla Stazione Centrale, trovammo posto in un albergo semidiroccato. Marchesi si sistemò in uno stanzino con un letto, io mi adattai alla meno peggio su un materassino sistemato nella vasca da bagno. Anche se molto malandato, l’albergo ospitava una compagnia di avanspettacolo con numerose ragazze. Marchesi non perse tempo a familiarizzare con loro e instaurò una conversazione che si protrasse amabilmente fino alle ore piccole. Al mattino ci recammo all’appuntamento stabilito dove il prof. Franceschini era già ad attenderci. Egli, per così dire, “prese in consegna” Marchesi per accompagnarlo dal suo editore Principato. Seppi poi che, tramite il rappresentante del suo editore, Alberto Violi Zuccoli, trovò un alloggio a Camnago Lentate, presso il parroco Vittorio Branca. Ma quel soggiorno fu breve e tempestoso, e si concluse con una arrabbiatura di Marchesi, che preferì andare a stare a Milano, fino a quando, essendo ricercato dai repubblichini, cautela non impose che egli passasse in Svizzera. Io feci ritorno a Padova in treno e pochi giorni dopo fui assegnato alle nascenti formazioni partigiane del Bellunese, nelle quali, con la mia esperienza militare, assunsi funzioni di comandante. Furono tempi duri e sofferti, ma vissuti con la fede nella vittoria. Per me ci fu anche qualcosa di più, che mi avrebbe allietato tutta la vita. Un giorno, nel maggio del 1945, mentre mi trovavo alla Trattoria “La Scarpetta” in attesa di Marchesi, che vi si recava di consueto per la colazione, venne a cercare “il professore” una biondina, sua ex allieva da poco laureata, per chiedergli consigli. Marchesi me la presentò, elogiandola come una sua diligente scolara. Ebbene, quella presentazione ebbe un seguito felice, che dura tutt’oggi. Infatti, la biondina è divenuta mia moglie e con me ha condiviso le gioie e le difficoltà della vita. Concetto Marchesi, ormai divenuto deputato all’Assemblea Costituente, ci inviò per le nostre nozze questa lettera beneaugurante che porto sempre con me, come una reliquia preziosa. Da Triangolo Rosso n. 1-2 gennaio-marzo 2008 pagg. 34-36 33 Ho scelto, al fine di non ridurre la ricerca ad una celebrazione acritica dell'operato di Paride Brunetti, di riportare dei rilievi dal punto di vista militare del maggiore Tilmann dove, accanto alla esaltazione della combattività di Brunetti Bruno, ne vengono anche sottolineati alcuni limiti. LA OPINIONE DEL MAGGIORE TILMAN La Brigata ospitò per un lungo periodo una missione ”SIMIA”, nome di una radio del SOE (“Special Operation Executive”) britannico con la collaborazione del SIM (Servizio Informazioni Militari del Regio Esercito). La missione era composta per il SOE dal Maggiore britannico Harold William Tilman e il tenente John H. Ross; per il SIM il tenente Vittorio Gozzer “Gatti” (fratello del capitano Giuseppe Gozzer) quale interprete, e il radiotelegrafista Antonio Carrisi “Marino Marini” . Brunetti fu coinvolto nella organizzazione della difesa delle formazioni partigiane durante il drammatico rastrellamento nazifascista del Monte Grappa, avvenuto tra il 20 e il 29 settembre 1944. Giustamente Egli cita con orgoglio il ruolo svolto, che qui riporto: “Rimango, forse, l’unico comandante il quale, ad un certo momento, ha deciso di non dare il “si salvi chi può” scegliendo di combattere. Mi sono messo dietro a una mitragliatrice sparando fino all’imbrunire senza subire alcuna perdita . Sul Grappa ci sono stati, circa, 170 impiccati e 500 morti: lo ripeto, io non ho avuto nessun caduto perché ho combattuto, tenendoli a bada, sparando! Loro avevano bloccato i sentieri principali sulla montagna dove, di notte, avevano acceso dei fuochi e piazzato delle mitragliatrici: noi siamo filtrati in mezzo! Credo, anzi, che ci abbiano anche sentito mentre stavamo uscendo dall’accerchiamento ma, al buio, per loro era rischioso entrare nel bosco perché ci temevano. Per dare un’idea , nella mia zona, ho fatto fuori 17-18 presidi . L’ultima brigata che hanno attaccato è stata la mia, ma hanno avuto paura di morire anche loro”. Va precisato, come già scritto nel testo, che lo “sganciamento” di Brunetti avvenne tre giorni dopo l’attacco (si presume il 23 settembre ’44). Per ricostruire il contesto ritengo utile rileggere quanto il maggiore inglese H.W. Tilman aveva scritto nel 1946 nel suo, Quando gli omini e le montagne si incontrano; dove esalta lo spirito combattivo di “Bruno” e le sue virtù umane e militari… “Bruno, il comandante della brigata, era un uomo di forte personalità, rispettato e amato dai suoi uomini. Era un ex ufficiale di artiglieria ma, essendo stato utilizzato solo in unità contraeree, non aveva alcuna esperienza di tattiche di fanteria e di combattimento. La sua brigata era ben organizzata e disciplinata e le armi, per quel che erano, tenute con molta cura”. (…) Dopo lo sganciamento dall’accerchiamento sul Grappa, scrive Tilman …Era in gioco l’onore della Brigata Gramsci; la disfatta dei partigiani sul Monte Grappa doveva essere vendicata.. e questo spinse “Bruno” a privilegiare lo scontro diretto in prima persona in occasione dell’assalto alla malga del comando ( “L’unica validità di Pietena era quella di essere un terreno di lancio”) anziché sganciarsi per una ennesima volta… “Bruno, con la luce della battaglia negli occhi, prestò poca attenzione alla mia domanda su cosa si proponesse di fare. Il suggerimento che gli diedi, che in quel momento non era il caso di trastullarsi con una mitragliatrice (…) cadde inascoltato”. Il giudizio che Tilman esprime (a pag. 31) è severo: “Bruno, che era come un mangiatore di fuoco, aveva un unico pensiero e piano in testa: “combattere fino all’ultimo uomo e all’ultimo colpo”. (Quelle parole)… ”Le avevo sentite ancora in precedenza, ma mai in connessione con la guerra partigiana, poiché in tal caso espressioni come “la perdita di terreno e di posizioni” non dovrebbero significare nulla. La funzione dei partigiani era di rimanere intatti, come una forza di combattimento costituita semplicemente dal loro stesso esistere e fatta di puntate occasionali a mò di minaccia costante, contro cui il nemico fosse costretto a mantenere sempre occupate delle truppe, che avrebbe potuto invece impiegare altrove con maggiore frutto”. 34 Ma leggiamo l’Allegato che segue. ( Allegato B) CON LA BRIGATA GRAMSCI Le Vette è un altipiano alto ed erboso (circa 7000 piedi). A nord esso si presenta con una facciata alta e dirupata di roccia marcia, su cui si può salire solo per un difficile sentiero, mentre dalle altre parti ci sono solo quattro possibili vie di accesso. La cima è un'ampia depressione simile ad un catino, divisa in due parti da un crinale alto ed erboso che corre da nord a sud. Ad eccezione di pochi massi erratici essa è completamente spoglia di alberi, cespugli o qualsiasi cosa che possa dare una copertura. A prima vista i suoi accessi scarsi e facilmente difendibili sembrano farne una postazione partigiana ideale. In realtà essi danno un senso di sicurezza piacevole ma interamente fasulla. Le vie di entrata sono necessariamente anche le vie d'uscita e, se queste sono bloccate, ogni libertà di manovra, il sine qua non della guerra partigiana, è finita. Mentre salivamo lentamente con passo pesante gli ultimi ripidi zig-zag della mulattiera, ci fu improvvisamente intimato l'«Alt» da un inglese inconfondibile, vestito da partigiano con abiti frusti e del tutto comuni. Egli risultò essere un prigioniero di guerra riuscito a fuggire, e questo era il posto di blocco che difendeva l'accesso principale alle Vette. Sotto una tettoia di lamiera c'erano altri dieci Inglesi, tutti prigionieri di guerra fuggiti, che erano rifluiti in blocco nella Brigata Gramsci. Formavano un piccolo distaccamento a sé con l'illustre nome di «Churchill Company». Dei molti prigionieri inglesi che erano scappati al tempo dell'armistizio italiano, alcuni erano stati ricatturati, molti vivevano presso famiglie italiane, pochi erano fuggiti attraverso la Jugoslavia, e alcuni si erano uniti ai partigiani. Naturalmente furono sorpresi e felici di vederci e ci interrogarono con grande interesse ed attenzione soprattutto sulla probabile durata della guerra, perché erano indecisi se tentare o meno di passare nelle nostre linee. Il nostro consiglio fu di rimanere. Pensavamo che anche nel caso che l'atteso sfondamento da parte alleata non avesse luogo e che quindi non ci fosse nessuna ritirata tedesca, quasi sicuramente l'andamento della lotta sarebbe diventato più fluido e sarebbe quindi stata un'impresa più semplice passare allora attraverso le linee. Il posto di blocco era collegato con una linea telefonica all'H. Q, della brigata, alla distanza di circa 10 minuti di strada. Fu riferito che eravamo arrivati e ottenemmo il permesso di passare. Gli arrivi sospetti e molto improbabili, come nel nostro caso, venivano sempre fermati al posto di blocco finché non si era accertata la bona res dei nuovi venuti. Spie ed informatori abbondavano, infatti, e, quando venivano scoperti, non gli si dava grazia. Era impressionante sapere quanti ce n'erano. Se ne scoprì perfino tra le file partigiane e non ci si poteva fidare di nessuno, che non fosse conosciuto personalmente. L'eliminazione sistematica delle spie e degli informatori in città e paesi continuò per tutto il periodo della lotta partigiana e si strappavano loro le informazioni a forza, prima di fucilarli. C'erano circa 300 partigiani sopra Le Vette. Un H.Q. molto numeroso viveva a Pietena in una lunga costruzione di sassi, coperta di lamiera, ricovero per le mucche (una malga, com' essa era chiamata). Il Battaglione di nome Zancanaro viveva in un'altra malga, nell'altra metà del catino montuoso al di là del crinale; e il Battaglione Battisti stava a due-tre miglia di distanza ad est, per controllare l'accesso da quella parte. La stessa Divisione Nannetti, e le sue brigate e i suoi battaglioni, erano tutti denominati con nomi di eroi del Risorgimento, come Mazzini, Bixio, Pisacane, Cairoli; o di patrioti, per lo più comunisti, che si erano opposti accanitamente al fascismo negli anni '20, e che avevano combattuto ed erano morti nella guerra civile di Spagna, dalla parte perdente. Nino Nannetti e Gramsci, per esempio, erano due patrioti di questo tipo. Più avanti, battaglioni, o perfino brigate, presero il nome da partigiani di fama, che erano stati uccisi in azione o che erano stati giustiziati in tempi recenti. La Divisione Nannetti era quel che si diceva una formazione Garibaldi. Le unità Garibaldi furono composte ed organizzate innanzitutto dai comunisti, che, in Italia, Iugoslavia, Albania e forse in Grecia, 35 erano la spina dorsale del movimento di resistenza. Non c'era alcun dubbio, secondo me, che le formazioni Garibaldi fossero le più efficienti. Erano le meglio organizzate e meglio guidate e attiravano un tipo di recluta più appassionata e decisa delle brigate cosiddette indipendenti, e delle brigate con altre tendenze politiche. Il metodo di formare brigate su di una base politica era, naturalmente, deplorevole. Ma fin che si trovava qualcuno sufficientemente forte da guidare e controllare l'intero movimento di resistenza, e fin che il Partito Comunista non rinunciò al controllo delle formazioni Garibaldi, un tale metodo era probabilmente inevitabile. In seguito, tutte le formazioni, senza tener conto del colore politico, furono incorporate nel Corpo Volontario della Libertà o C.V.L., sotto il controllo dell'ufficio militare della Commissione Centrale di Milano del C.L.N. o Comitato di Liberazione Nazionale. Per la maggior parte, i capi delle formazioni Garibaldi erano comunisti; alcuni da lunga data e saldamente convinti, altri di conversione recente, i cui interessi erano opportunistici più che di natura politica, e che avevano abbracciato quella fede per amore della pace e della tranquillità e per evitare l'ostacolo di interrogatori politici, ai quali sarebbero stati altrimenti soggetti. La truppa, o garibaldini, com'erano chiamati, era più eterogenea. 'Fra loro si poteva trovare il fanatico, l'entusiasta, il tiepido, l'indifferente, e i politicamente indipendenti; erano tutti divenuti garibaldini solo perché questi erano i più numerosi e meglio organizzati. In quel momento l'intera nostra zona, con una sola piccola eccezione, era formazione Garibaldi. Più tardi si formarono anche due brigate indipendenti, ma di non molta importanza. I garibaldini amavano portare fazzoletti rossi al collo, si presume a testimonianza delle camicie rosse de I Mille di Garibaldi, così come ogni altra organizzazione comunista, e, quando possibile, un berretto grigio con la punta lunga, simile ad un kepi francese, ma più morbido, con una stella rossa in fronte. A1 di sotto di questo, tutto era permesso, anzi ben accolto: rimasugli di uniformi tedesche, italiane ed inglesi, uniformi italiane di poliziotti, pompieri, marinai, guardie doganali, guardie forestali, o carabinieri; e naturalmente ogni concepibile genere di tenuta civile. Molti erano ex Alpini e portavano con ostentazione il cappello degli Alpini del loro reggimento. Le barbe da Alpini erano sempre alla moda, fin che esse non divennero troppo pericolose, perché un uomo con la barba diventava ipso facto un partigiano o un brigante, a seconda dei punti di vista. Non vidi mai tra i partigiani della montagna il tipico saluto a pugno chiuso, anche se credo sia abbastanza comune in pianura. Si usava salutare con un gesto normale, e l'immancabile esclamazione di saluto nell'entrare in una stanza o nell'uscirvi era Mort e ai Fascisti (o al Fascismo), cui si replicava Libertà ai Popoli. Ogni H. Q. giù fino a quello di un battaglione aveva il suo commissario politico, che era responsabile in particolare delle relazioni tra partigiani e popolazione civile, del mantenimento di un buon morale tra i partigiani e della loro istruzione politica. Egli lavorava in strettissimo contatto con il comandante e tutti gli ordini venivano invariabilmente firmati da entrambi. Nella Brigata Gramsci l'ora politica era strettamente osservata. Questa era un intervallo di tempo stabilito giornalmente, in cui il comandante o il commissario rivolgevano agli uomini discorsi su problemi di disciplina, organizzazione, economia interna o politica, e in cui ogni uomo poteva alzarsi e porre qualsiasi domanda, non escluso sul comportamento dei propri capi. Successivamente la cosa venne sospesa sia a causa della riduzione di uomini, sia a causa dell'allentarsi dell'interesse politico di fronte alla situazione sempre più critica dell'inverno. Alcuni Russi, prigionieri di guerra fuggiti, che erano sulle Vette con la brigata (uno era un comandante di compagnia), si preoccupavano in modo particolare che non ci fossero assenze durante l'ora politica. Sembravano soldati in piena efficienza, questi Russi, che prendevano la vita seriamente. Non c'era nulla di ridicolo o scherzoso in loro, tranne i loro nomi Borlikoff, Orloff, Shuvoff, ecc. ( trattasi di Bortnikov, Orloff e Kuznietzov- nda). (*) La disciplina era abbastanza buona, ma niente a che vedere con quella rigorosamente seguita nelle analoghe formazioni in Albania, dove piccoli furti, ubriachezza e immoralità erano tutti puniti con la morte. La disciplina in un corpo di uomini liberi, formatosi spontaneamente, rappresenta un problema delicato e difficile. Se gli uomini hanno inculcato in loro un alto senso di dedizione ad una cosa sacra, allora si possono stabilire regole estremamente severe, senza troppa paura 36 che possano essere infrante e senza dover usare pene corrispondentemente severe; ma nel caso di un gruppo più eterogeneo e con principi meno elevati, gli occhi di coloro che hanno autorità devono spesso fingere di non vedere, eccezion fatta per serie infrazioni militari. Molto, in questo caso, dipende dalla forza e dalla personalità del comandante. C'era certamente più rilassatezza in Italia. Perfino il controllo dei rifornimenti ricevuti sull'area di lancio, una questione elementare e fondamentale, era spesso insoddisfacente. Ho saputo solo di due casi di partigiani fucilati, l'uno per ubriachezza, quando era di guardia, e l'altro perché aveva rípetutamente strappato del cibo ai civili con la forza, per il suo interesse personale. Per disobbedienza o negligenza nel dovere, un uomo poteva essere legato ad un albero per alcune ore, e, in casi più gravi, poteva essere bandito. Bruno, il comandante della brigata, era uomo di forte personalità, rispettato ed amato dai suoi uomini. Era un ex ufficiale di artiglieria ma, essendo stato impiegato solo in unità contraeree, non aveva alcuna esperienza di tattiche di fanteria e di combattimento. La sua brigata era ben organizzata e disciplinata e le armi, per quel che erano, tenute con molta cura. Gli uomini erano estremamente abili a combattere. «Dacci armi e munizioni» era il ritornello quotidiano della loro canzone. Questo ritornello divenne più insistente quando a una notte in bianco cominciò a seguirne un'altra, e quando le notizie di un rastrellamento divennero più chiare. Ma, a dispetto delle nostre continue richieste, espresse in un linguaggio che diventava sempre più rude, man mano che il tempo passava, niente ci arrivò all'infuori dei nostri bagagli e viveri, che alla fine furono sganciati sul Monte Grappa, dove furono rubati o andarono persi. Pietena non era impossibile da trovare; lo si capì quando un aereo americano giunse proprio sopra di noi, per paracadutare due agenti italiani. Il terreno era assolutamente inadatto all'atterraggio di uomini, ma avendo ricevuto l'ordine di accoglierli, accendemmo i fuochi di segnalazione. Verso mezzanotte un Liberator volò alto sopra di noi, fece il giro una volta, e scomparve. Non vedemmo cader giù assolutamente nulla. Ma, all'alba, comparve uno sconosciuto, piuttosto stravolto nell'aspetto, che vestiva una tuta Sidcot, e domandò se avevamo visto il suo compagno. Furono subito inviati dei gruppi di ricerca. E trovarono lo sfortunato uomo appeso ad un dirupo a testa in giù. Non rimase seriamente infortunato, ma non ce ne attribuimmo il merito. Nonostante che i partigiani fossero sorpresi e disgustati per la nostra incapacità di aiutarli, restavamo egualmente buoni amici. Penso che attribuissero il nostro fallimento ad incompetenza più che a cattiva volontà, ed in questo naturalmente avevano proprio ragione. I più ardenti comunisti tra loro amavano pensare che noi ci tirassimo indietro per una presa di posizione predeterminata a causa delle loro idee politiche; e se non fosse stato per un carico di fucili Bren, caduto ai loro piedi, o meglio sulle loro dure teste, la loro teoria sarebbe stata difficile a morire; non importava quanto aspramente noi protestassimo che, pur che restassero entusiasti di combattere, avrebbero potuto essere anche anarchici, per quel che interessava a noi e ai nostri comandanti. Nonostante i nostri difetti, però, ci accettarono come uno di loro. Ci rifornirono di tutto quanto serve per dormire, poiché noi non avevamo ancora null'altro che gli abiti che vestivamo, il necessario da toletta, una scodella e un cucchiaio; fecero sì che ricevessimo la nostra razione di sigarette e tabacco, e incaricarono perfino un fascista «addomesticato», che non avevano ancora eliminato, di portarci i pasti dalla cucina, dove si cucinava il cibo per tutti in un enorme calderone di rame. Ci nutrivamo molto bene. Si cominciava la giornata con una tazza di surrogato di caffè e un panino, la tipica pagnottina italiana di circa 100 grammi di buona farina integrale, non raffinata; a mezzogiorno una scodella di minestrone, che consiste in una zuppa densa di verdure e fagioli, un'altra pagnotta e a volte un pezzo di formaggio, inequivocabilmente italiano, ma soddisfacente. Oltre che cifrare e decifrare messaggi, visitare i battaglioni, e studiare a fondo la geografia de Le Vette, non c'era molto altro da fare per noi. I1 17 settembre, approfittando della presenza da noi del commissario della Brigata Pisacane, che stava per tornare indietro, io e Gatti facemmo una gita rapida fino a Forno, a sud del Monte Marmolada, dove era appostata questa brigata. Fu un viaggio interessante per la varietà di mezzi di trasporto impiegati, e vai la pena di descriverlo brevemente, per dimostrare con quale facilità si poteva muoversi allora, rispetto alle difficoltà che incontrammo più tardi. Per 37 raggiungere la cima della valle sotto la postazione del Battaglione Battisti, prendemmo un carretto tirato da mulo, che ci portò fino al termine della strada, dove c'era un ponte, che era stato fatto saltare. Qui salimmo in una macchina nera, lunga, sottile, guidata da un partigiano, che diceva di saper guidare auto da corsa. Due occhi piccoli e lucenti, che spuntavano fuori da una massa di barba e capelli castano rossicci, era tutto quel che si poteva vedere della sua faccia. Nell'oscurità incipiente del crepuscolo, senza fari, senza freni, andavamo alla velocità per lo meno di 40 miglia all'ora, per strade secondarie strette e piene di curve. Per un centinaio di iarde circa, dovemmo percorrere la via principale di Belluno, prima di poter girare in un'altra strada secondaria, e, non appena i fari di un autocarro tedesco apparirono proprio dietro di noi, con mio grande spavento vidi l'ago del tachimetro andare a fondo scala. La nostra folle andatura fu interrotta, fortunatamente, dalla necessità di osservare le regole del coprifuoco, imposte a partire dalle otto di sera, dopo di che nessuna macchina civile poteva trovarsi per la strada. Ci fermammo in un fienile, con due gomme a terra, per passare la notte. Un furgone chiuso della Todt ci aspettava per il mattino seguente. L'organizzazione Todt consisteva in gruppi di lavoro di civili, i quali ufficialmente lavoravano per i Tedeschi, ma col minimo zelo che bastasse a salvargli la pelle. In piacevole contrasto con l'esperienza da Grand Prix della sera precedente, risalimmo molto tranquillamente il Canal dell Miss, fermandoci a qualche miglio prima di Agordo, sulla strada principale, dove c'era un presidio tedesco. Qui gli altri avevano progettato di trovare il capo locale della Todt, un alleato dei partigiani, la cui presenza al fianco del guidatore avrebbe potuto assicurarci il passaggio attraverso il posto di blocco tedesco senza problemi; il commissario, Gatti ed io avremmo dovuto sedere dietro, presumibilmente fermi immobili con le dita incrociate. Anche se questo piano ci avrebbe risparmiato una lunga camminata, non era proprio di mio gradimento. Infatti raramente mi sentii più sollevato in vita mia, di quando seppi che questo utilissimo ufficiale della Todt non si riusciva a trovare. Era l'una di notte, ormai, per cui, nascosto il furgone nel bosco, ci muovemmo a piedi. Evitammo di passare per Agordo, con le sue strade piene di Tedeschi, che potevamo veder passeggiare intorno, e attraversammo un passo, la Forcella Cesurette (6000 piedi). Da lì vidi di sfuggita un ghiacciaio minuscolo, in alto sulla Pala di S. Martino, che mi diede un'emozione sproporzionata alle sue piccole dimensioni. Otto ore più tardi entravamo zoppicando a Forno. Il comandante della Brigata Pisacane venne la mattina successiva a discutere sulle disposizioni da dare per le zone di lancio e io gli consegnai una considerevole somma di lire come garanzia delle nostre intenzioni. Alto, agile, bruno e di bell'aspetto, le pistole che sporgevano dalle tasche, egli faceva pensare ad un bravo napoletano. Carlo era difatti un napoletano; il che era davvero strano, poiché non c'è molta simpatia tra gli Italiani del nord e quelli del sud; ma per le sue numerose azioni di coraggio egli si era guadagnato il comando della brigata ed il rispetto di tutti. Uno di questi atti fu un'irruzione alla luce del giorno nelle carceri di Belluno, dove, per lo più con un bluff, aveva liberato un certo numero di partigiani. In seguito egli fu a capo del G.A.P. di Belluno e portò a termine un bel po' di lavoro tranquillo ma efficace, con una pistola col silenziatore che gli avevamo procurato. Era un esponente della scuola di «cappa e spada», vestiva in modo strano, cambiando foggia ogni giorno, e non dormiva mai due volte nello stesso posto. La situazione a Pietena, quando ritornammo il 20, era rimasta immutata, tranne che per il tempo che stava diventando più freddo. Lo stagno in cui ci si lavava al mattino era coperto da tino strato sottile di ghiaccio e i1 28 cadde la neve per tutto il giorno. Pietena non sì sarebbe potuta tenere durante l'inverno, ma Bruno, desiderando rimanervi attaccato il più a lungo possibile, fece in modo che la malga piena di correnti d'aria fosse foderata per bene col fieno. La sua decisione era dovuta alla mancanza di armi e al loro ancor possibile arrivo. Ma ci si stava ponendo l'interrogativo su chi sarebbe arrivato prima, se le armi, l'inverno o i Tedeschi; e la bilancia pendeva pesantemente su questi ultimi. Era evidente l'intenzione del nemico di ripulire l'intera valle del Piave. Avevano già avuto a che fare con la zona del Cansiglio e il Monte Grappa e il 29 venne il nostro turno. Nel frattempo avemmo il nostro primo contatto con la Divisione Nannetti mediante una breve visita di Filippo, il suo comandante. Egli promise che 38 sarebbe tornato entro pochi giorni per portarci nel nuovo Quartier Generale della Nannetti, ma sulla via del ritorno, il 29, si imbatté nei Tedeschi, che venivano ad attaccarci: fu ucciso sul colpo, andò persa tutta la raccolta di documenti “segreti” della divisione, comprese le posizioni e le segnalazioni di tutte le zone di lancio; ed egli scomparve dalla storia.(**) Verso le cinque della sera del 29 settembre fummo scossi dallo scoppio lontano di una mitragliatrice. Il posto di blocco della Compagnia Churchill riferì che una pattuglia tedesca aveva attaccato la postazione e il deposito nella valle, circa 2000 piedi più sotto. Il deposito era in fiamme. I1 rastrellamento atteso così a lungo stava evidentemente per cominciare. I comandanti dei Battaglioni Zancanaro e Battisti arrivarono per partecipare ad un consiglio di guerra, portando con loro notizie sui movimenti dei Tedeschi sotto le loro postazioni. Bruno, che era qualcosa come un mangiatore di fuoco, aveva un unico pensiero e piano in testa: combattere fino all'ultimo uomo e all'ultimo colpo. «I1 conduttore di cammello ha i suoi pensieri e il cammello, anch'esso ha i suoi», fu la riflessione che mi venne in mente nel sentire le minacciose parole riferite. Le avevo sentite ancora in precedenza, ma mai in connessione con la guerra partigiana, poiché in tal caso espressioni come «la perdita di terreno e di posizioni» non dovrebbero significare nulla. La funzione dei partigiani era di rimanere intatti, come una forza di combattimento costituita semplicemente dal loro stesso esistere e fatta di puntate occasionali, a mo' di minaccia costante, contro cui il nemico fosse costretto a mantenere sempre occupate delle truppe, che avrebbe potuto invece impiegare altrove con maggior frutto. L'unica validità di Pietena era quella di essere un terreno di lancio. Ma esso non era né un buon terreno, né l'unico esistente allo scopo, e l'inverno ci avrebbe presto costretti ad abbandonarlo. Inoltre niente era stato ancora lanciato giù a Pietena e noi non potevamo dare nessuna garanzia che qualcosa vi sarebbe arrivato nel futuro. Esponemmo chiaramente queste osservazioni, ma senza risultato. Era in gioco l'onore della Brigata Gramsci; la disfatta dei partigiani sul Monte Grappa doveva essere vendicata: discorsi che vennero accolti con acclamazioni da un uditorio facilmente trascinabile e non istruito. Avrei potuto andare avanti e spiegare che anche i partigiani più abili non avrebbero potuto sperare di mantenere a lungo la più forte posizione, contro truppe fornite di mortai, mitragliatrici e munizioni illimitate, intercomunicanti tra loro e colla possibilità di ulteriori rinforzi in caso di bisogno; che le munizioni disponibili erano 300 salve per L.M.G. e 30 per fucile; che c'era cibo solo per pochi giorni, con nessuna speranza di ottenerne di più; e che il morale dei partigiani si sarebbe rinforzato con l'infliggere colpi al nemico e non col subirne. Questi avvertimenti rimasero inascoltati. Forse essi persero la loro forza nella traduzione, o forse furono attribuiti a mancanza di coraggio. In realtà Bruno suggerì che la missione si ritirasse quella notte stessa, prima che fosse troppo tardi, ma questo progetto veramente sensato fu rifiutato. Avrebbero seguito il punto di vista militare più comune e cioè che la salvezza della missione, con il suo apparecchio radio e tutte le possibilità di rifornimenti futuri che esso permetteva, non poteva essere messa in pericolo inutilmente, o avrebbero pensato che stavamo fuggendo via? Non che questo interessasse molto a me, personalmente, perché io avevo passato buona parte della guerra a scappar via, per poi combattere di nuovo, insieme al resto dell'Armata Britannica; ma ciò avrebbe potuto nuocere al futuro, indebolendo la già piccola influenza che avevamo. Su assicurazione di Bruno, che egli desiderava non solo che la missione andasse via, ma che l'intera brigata uscisse dall'impasse del tutto intatta, decidemmo di aspettare gli eventi. Di fronte al fatto, però, che le quattro uscite conosciute stavano ormai per essere bloccate, il suo piano per ottenere questo non ci era del tutto chiaro. Comunque, pieni di speranza, supponemmo che ci fossero altre vie di uscita a noi sconosciute e con ciò andammo a letto. Il mattino seguente gli sviluppi della situazione furono lenti. Le uniche notizie di combattimento provenivano dal Battaglione Zancanaro ad ovest, ed entro mezzogiorno fu chiaro che questo era il punto in cui l'attacco incalzava veramente e che negli altri accessi il nemico creava semplicemente dei punti di arresto, per impedire che la situazione gli sfuggisse di mano. La maggior parte del Battaglione Battisti fu portata su a Pietena, per rinforzare il bordo settentrionale del catino ed il crinale che lo divide in due, sul quale erano state preparate in precedenza delle postazioni con 39 mitragliatrice. Alcuni visitatori ufficiali provenienti da sotto, che erano stati tagliati fuori dalla rapidità con cui le uscite erano state bloccate, tentarono la fuga attraverso l'arduo sentiero che scende giù per la parete nord. Ritornarono indietro più tardi per avvertirci che anche quello era bloccato da pattuglie insediate nella valle più sotto. C'era almeno una cinquantina di partigiani che giravano intorno alla malga dell' H.Q.: ufficiali di stato maggiore, impiegati, cuochi, messaggeri, intendenti, e gli altri oziosi che generalmente si raccolgono attorno ad un H. Q., quelli che l'Esercito chiama poco gentilmente i «disoccupati». C'erano anche combattenti del Battaglione Battisti, che erano scesi per cercar di capire cosa stava succedendo. Non erano i soli a cercare delucidazioni. Le notizie infatti erano scarse, e, in una disposizione d'animo tutt'altro che felice, noi non potevamo far altro che aspettare, nella condizione tipicamente deprimente di coloro che sono stati lasciati fuori dalla battaglia. Bruno irradiava ancora fiducia, ma nel primo pomeriggio egli salì sul crinale, da dove si sentivano già provenire degli spari. E subito mandò l'ordine di portare via tutto e che tutti andassero sulla cima del Duodieci, una punta rocciosa e frastagliata, posta sull'orlo del catino, proprio sopra l'estremità settentrionale della catena spartiacque. Gambe di bue, sacchi di pane e fagioli, pentole, macchine da scrivere, furono caricati sulle spalle degli uomini e portate via in una maniera, che non si poteva far a meno di pensare che fosse sfiduciata, a dir poco. I1 prepararsi per un'ultima resistenza sul Duodieci a questo stadio ancora iniziale, era sicuramente frutto della disperazione, e ciò significava che la battaglia non stava andando bene. Lasciando Ross e Pallino a Pietena con l'ordine di tener pronta per il trasferimento la nostra poca roba, io e Gatti andammo su a trovare Bruno. Per salire circa 500 piedi fino al crinale impiegammo intorno ai 20 minuti. Dalla nostra parte, la parte sottovento del crinale, era stata scaricata la maggior parte della roba portata via da Pietena e solo un gruppo dei partigiani più obbedienti si sforzava ancora di salire i pendii rocciosi del Duodieci con i propri carichi. La cresta del crinale era sotto tiro del mortaio. Aspettammo il momento adatto per correre su fino alla cima e trovammo Bruno entro una buca coperta per mitragliatrici, sul pendio anteriore, molto indaffarato con una vecchia mitragliatrice francese che avrebbe potuto sparare al massimo un paio di raffiche prima di bloccarsi. Attraverso la fenditura vidi che la malga Zancanaro era già nelle mani dei Tedeschi. Là dove la mulattiera attraversava l'orlo occidentale del catino a 2500 iarde di distanza, si poteva ora vedere il mortaio impegnato contro la nostra posizione. Altri Tedeschi stavano avanzando con aria indifferente attraverso il bacino, verso di noi, mentre un altro gruppo di un centinaio e più aveva appena iniziato a spostarsi lungo la cresta dell'orlo verso il Duodieci. Tutti i partigiani si erano ritirati sul crinale. Bruno, con la luce della battaglia negli occhi, prestò poca attenzione alla mia domanda su che cosa si proponesse di fare. I1 suggerimento che gli diedi, che in quel momento non era il caso di trastullarsi con una mitragliatrice e che in ogni caso far fuoco, con quell'arma vecchia e ostinata, contro uomini a 2000 iarde di distanza, era uno spreco di energia, cadde inascoltato. Durante i momenti ch'egli sottraeva malvolentieri alla lotta con quel pezzo miserabile d'arma, discutevamo aspramente, ma senza alcuna utilità, mentre le bombe del mortaio scoppiavano in modo più o meno innocuo intorno alla posizione. Tre partigiani erano stati feriti fino a quel momento. I Tedeschi suppongo invece che fossero tutti illesi. I partigiani d'intorno, eccetto Bruno, apparivano per la maggior parte decisamente e, io penso, a ragione, spaventati. Alla fine Bruno acconsentì a ritirarsi all'imbrunire e promise di inviare ordini in questo senso. Se questa fosse stata la sua intenzione reale, per tutto il tempo, oppure no, non lo saprei dire. Forse la rapidità con cui i Tedeschi avevano raggiunto la malga Zancanaro lo aveva sorpreso, ma, dato che avevamo aspettato così a lungo, era saggio aspettare fino all'imbrunire prima di ritirarsi. Lasciammo Bruno con la sua mitragliatrice e tornammo a Pietena per informare gli altri del nuovo piano. Erano circa le 7 pomeridiane, proprio verso il tramonto. Se «le nostre sopracciglia, come il titolo di un libro, predicessero il carattere tragico del volume» o se fossero le poche parole scambiate assieme, non saprei dire. Comunque l'effetto del nostro arrivo fu immediatamente dannoso. Un fragore di grida risuonò tra la compagnia dell' H. Q. e tra quei partigiani del Battaglione Battisti, che erano scesi giù dalle loro postazioni fino all'orlo del catino, 40 vagando senza meta; e un «si salvi chi può» sembrava imminente. Contemporaneamente si videro degli uomini riversarsi via, lungo l'orlo settentrionale in direzione del Duodieci. Questo fu decisivo. Era venuto il momento di provvedere a noi stessi. Ci prendemmo una coperta per uno, caricammo la batteria a 6 volt su di un mulo, e Ross si mise in spalla la valigia contenente la radio. Mi spostai per vedere se la Compagnia Churchill aveva ricevuto l'ordine della ritirata - poiché era probabile che sarebbero stati dimenticati nella confusione - mentre la folla dei partigiani cercava di districarsi fuori dirigendosi verso il sentiero Battisti. Non erano andati lontano che già delle figure si profilavano contro il cielo della sera sull'orlo meridionale. Con scatti fulminei si buttarono di corsa lungo il crinale e proiettili traccianti cominciarono a fischiare sopra le teste dei fuggitivi e a conficcarsi contro le rocce con un rumore sordo. Sebbene i Tedeschi fossero lontani almeno 1500 iarde, diedero prova di abilità nella luce cadente della sera e ci spaventarono i muli al punto che noi perdemmo la batteria. Quando fu buio, ci fermammo e Bruno ci raggiunse. Egli passò la direzione della ritirata, compito tutt'altro che invidiabile, al suo vicecomandante, dicendo che avrebbe aspettato per vedere cosa facevano i Tedeschi. Il sentiero che portava alla malga Battisti seguiva l'orlo settentrionale proprio sotto la cresta, e verso le undici di sera, quando eravamo circa ad un miglio dalla malga, fu mandata avanti una pattuglia per valutare la possibilità di passare il posto di blocco inosservati, oppure di attaccarlo. C'era molta neve d'intorno, e per un'ora la folla fuggitiva, dato che non eravamo molto di più di questo, rimase seduta sui sassi ad aspettare il verdetto con aria scoraggiata. Quando questo arrivò, era il previsto «nessuna delle due». Scoppiarono discussioni ancor maggiori di prima, ma questa volta sotto forma di bisbigli impauriti. Il piano appoggiato dalla maggioranza era di tentar di attraversare una valle a sud, nonostante si sapesse che era circondata da picchetti nemici. Caricati com'eravamo di un apparecchio radio che non potevamo permetterci di perdere, non sopportavo l'idea di cadere in tale trappola in quella valle, per cui suggerii agli altri un piano alternativo, cioè di restare bassi nel fianco nord delle Vette, finché il nemico non si fosse stancato di cercare i partigiani. Avremmo potuto anche trovare una via per scendere, ma, alla peggio, i Tedeschi non sarebbero stati lassù per più di un paio di giorni. Questo piano fu accettato. La Compagnia Churchill, in blocco, ci chiese di venire con noi e il cuoco italiano di Pietena, che era un nostro amico, si offrì di portare l'apparecchio radio. Si formò quindi un gruppo di sedici (e altri si sarebbero uniti se gli fosse stato permesso) al posto dei quattro 0 cinque auspicabili. Abbandonammo il sentiero, ci liberammo di altri partigiani che volevano venir con noi, e ci avviammo direttamente verso la cresta, incuranti di lasciare le nostre tracce su una chiazza di neve vicino al sentiero. Appena raggiungemmo la cresta, vedemmo sotto di noi i fuochi dei picchetti nemici proprio nella valle che i partigiani speravano di attraversare. Cominciammo la discesa della prima parte, che rassomigliava ad una gola nella zona più fonda, e le prime poche centinaia di piedi consistevano in un ghiaione ripido e ghiacciato con varie chiazze di neve. Presto fummo costretti ad arrestarci, perché la gola cadeva a picco improvvisamente, e allora scrostammo e ripulimmo un certo spiazzo e andammo a letto, per così dire, cioè ci sdraiammo. Avevamo una sola coperta a testa e niente cibo; in più eravamo ad un'altitudine di 7000 piedi ed era settembre avanzato. Io accarezzavo una debole speranza di riuscire ad aprire un passaggio per la discesa, ma le ricerche del giorno dopo mi dimostrarono che questo era già difficile per un piccolo e forte gruppo di scalatori, e del tutto impossibile per un gruppo come il nostro. Eravamo una squadra molto impreparata per scalare, sia pure su una montagna come Le Vette. Andando in avanscoperta sulla cima del burrone, all'alba, vidi gruppi di Tedeschi sul sentiero appena sotto, evidentemente impegnati nella ricerca dei Brer Rabbits, (***) senza dubbio numerosi, che, come noi, «stavano distesi e del tutto silenziosi». Erano distanti 3-400 iarde e, secondo la mia immaginazione, eccitati da una notte di digiuno, sembravano discutere sulle impronte che noi avevamo lasciato sulla neve, appena fuori del sentiero. Ridiscesi in punta di piedi e molto attentamente giù per la gola ed avvertii gli altri. Il peggio fu senz'altro la prima ora in quel giorno di apprensione continua. Dopo divenne chiaro che la pattuglia che avevamo visto non veniva ad ispezionare la facciata nord, ma 41 nonostante ciò cominciammo a respirare più liberamente solo quando cadde il crepuscolo. Si alzò il vento quella notte. All'alba una bufera di neve soffiava da nord e da una parte noi non avevamo nessuna protezione. Continuò a soffiare tutto il giorno, ma, per quanto pesante fosse la nostra situazione, bastò il rumore lontano di un'arma automatica che arrivò alle nostre orecchie nonostante la tormenta, a farci resistere fino in fondo per un'altra notte ancora. Entro la fine del terzo giorno dovevamo muoverci, volenti o no. Nessuno di noi aveva mangiato per settantadue ore, alcuni avevano le dita gelate. e tutti eravamo irrigiditi dal freddo. L'inizio non fu di buon auspicio. Ero appena salito in perlustrazione sulla cima della gola, all'imbrunire, quando fui richiamato da grida selvagge, che provenivano dal basso. Dal momento che per tre giorni nessuno aveva osato alzare la voce al di sopra del semplice sussurro, doveva essere accaduto qualcosa di importante, forse avevano trovato del cibo. Infatti era successo che uno degli ex prigionieri di guerra era scivolato giù. Lo trovai con lo sguardo fisso ed una ferita importante alla testa, disteso su una prominenza, 60 piedi sotto il nostro covo, proprio sull'orlo di una frana di un'altezza simile. Anche le sue mani erano lacerate, ma, assicurandolo all'estremità della mia giacca, alla fine lo tirai su fin sulla cima della gola, dove gli altri stavano ora aspettando. Avevamo perso molto tempo, e, tra le dita gelate e gli arti irrigiditi al punto che per molti camminare era diventato un problema, il mio piano di cercare una via di uscita sicura, lungo la cresta dell'orlo del catino, dovette essere abbandonato e seguimmo il sentiero. Ad ogni passo la fiducia aumentava. Non incontrammo nessuno ed entro lo spuntar del giorno eravamo già distesi in un bosco, con lo sguardo fisso ad una casa colonica sottostante. Uno degli Inglesi che conosceva il posto scese, fu dato il segnale di via libera e di lì a poco stavamo già godendoci il primo pasto dal giorno dell'attacco. I Tedeschi erano partiti il giorno prima, dopo aver bruciato tutte le malgas ed alcune case di contadini nella valle, sospettati di simpatia verso i partigiani. (*) - Kuznietzov era un ex-prigioniero russo originario di Podolsk nel circondario di Mosca fuggito da un lager nazista che verrà fucilato a Cesiomaggiore il 22 febbraio 1945 dai nazifascisti. Un cippo in sua memoria è tutt’ora presente nel luogo della morte. (**) – v. pag. 30 - Tilman commette un errore: Filippo non fu ucciso, né preso dai Tedeschi. Moglie e figli saranno invece catturati al posto suo. Si tratta di Albertelli Luigi, ora generale dell'Artiglieria Alpina. (***) - Letter. «Compagni conigli». N.B. – Ho scelto di lasciare errori sia sui nomi (per es. dei partigiani sovietici) che di alcuni particolari per non toccare il testo originale del maggiore Harold William TILMAN della “Missione SIMIA”. 42 Tra le diverse letture del dramma consumato nel massiccio del Grappa, fra gli storici della Resistenza, due emergono con evidenza: quella di Ernesto BRUNETTA e l’altra della Sonia RESIDORI. Brunetta scrive : “ Colpite Verona e Vicenza ad ovest e Treviso e Belluno ad est, al nemico non resta che un ultimo obiettivo, il centro della cerniera, costituito dal massiccio del Grappa. Sul Grappa, ove a fine agosto è giunta la missione Tilmann che vi lascerà il capitano sudafricano Bridge come ufficiale di collegamento, il movimento partigiano si è notevolmente rafforzato dal punto di vista quantitativo, ma appare abbastanza disorganico per la presenza di formazioni che si ispirano a diverse posizioni politiche. Per sopperire alla manchevolezza, il 7 settembre - alla presenza di Lanfranco Zancan, Giovanni Tonetti, Giuseppe Calore ed Attilio Gombia del comando militare regionale - si tiene una riunione di comandanti dalla quale esce il progetto di un unico comando del Grappa. L'iniziativa è importante, ma giunge troppo tardi. Il 19 settembre i nazifascisti si schierano ai piedi del massiccio predisponendo una fitta rete di posti di blocco ai quali vengono adibiti i fascisti delle « Brigate nere » di Vicenza e di Treviso ed i legionari della « Tagliamento » fatti affluire apposta dal Piemonte, mentre truppe tedesche specializzate nella repressione antipartigiana costituiscono le colonne mobili d'assalto. Il 20 si scatena l'attacco, destinato a durare fino al 28. La tattica partigiana - suggerita anche dalla convinzione d'un prossimo arrivo degli alleati e sollecitata, a quanto pare, dallo stesso capitano Bridge - è errata perché impone alle formazioni una impossibile difesa rigida. Episodi di eroismo si mescolano, com'è fatale, ad altri di cedimento e di panico. Quella che matura in quei giorni è una vera tragedia dalla quale emerge e va ricordato - esempio non solo di coraggio, ma anche di calzante applicazione delle regole auree della guerriglia - il comportamento del battaglione « Buozzi » della brigata « Matteotti » e del suo comandante Livio Morello - una delle due medaglie d'oro a vivente della resistenza veneta - che è l'unico reparto ad opporre al nemico la tecnica della difesa manovrata e dello sganciamento tattico, sicché è il «Buozzi» l'unico reparto che riesce a superare la prova sia pure a prezzo di gravi sacrifici. Crudeli furono le perdite: 307 i partigiani caduti; tra i civili vittime della feroce rappresaglia 171 impiccati, 603 fucilati, 800 deportati in Germania. Agli alberi dei viali di Bassano furono impiccati 32 partigiani, destinati a diventare il tragico emblema della resistenza veneta e del suo sacrificio. Il movimento partigiano veneto viene ora a trovarsi in una situazione critica, considerato che la repressione nemica infuria anche in pianura e nelle città, ove d'altronde non è mai venuta meno”. Dove emerge, anche per la maggioranza delle formazioni partigiane del Grappa, lo stesso limite registrato sia sull’altopiano di Asiago che nel Cansiglio che consisteva nella resistenza “rigida” e “frontale” alle truppe nazifasciste anziché nello scontro seguito dallo sganciamento propri della guerriglia. Scrive il Brunetta “l’applicazione delle regole auree della guerriglia – il comportamento del battaglione “Buozzi” delle brigata “Mazzini” e del suo comandante Livio Morello (…) che è l’unico reparto ad opporre al nemico la tecnica della difesa manovrata e dello sganciamento tattico, sicché è il “Buozzi” l’unico reparto che riesce a superare la prova sia pure a prezzo di gravi sacrifici”. Teniamo conto che, mentre lo sganciamento del reparto di Brunetti è avvenuto il terzo giorno dopo l’inizio del rastrellamento e in alta quota, il “Buozzi” ha dovuto sopportare l’intera offensiva nei salienti da qui le gravi perdite. Secondo il Brunetta gli scontri sarebbero stati prolungati e diffusi mentre la tesi, che la ricercatrice Sonia Residori sostiene in modo documentato, è quella di uno scontro impari tanto che “Al termine si conteranno 264 morti dei quali solo 30 in combattimento”. Insomma, per lo più, una strage di giovani renitenti alla leva pressoché disarmati. Una tale tesi trova una conferma anche da quanto affermato (e sopra riportato) da Paride Brunetti. Con questa avvertenza può essere utile leggere o ri-leggere gli allegati che seguono. 43 ( Allegato C ) - IL RASTRELLAMENTO DEL GRAPPA Dopo averlo pianificato nei centri di Roncegno e Levico (coordinati dal Comando Strategico di Recoaro Terme ),(*) all’alba del 20 settembre ’44, comincia il rastrellamento del bastione del Grappa: in codice “Operazione Piave”. L’ordine, arrivato dall’alto comando nazista in Italia, è di uccidere trenta persone per ogni paese intorno al massiccio montano. Per otto giorni, con operazioni concentriche di accerchiamento, si scatena la rappresaglia nazifascista con violenti combattimenti pressoché ininterrotti durante i quali le Brigate Garibaldi e “Matteotti” riescono, solo in parte, a sganciarsi mentre la formazione “Libera Italia” viene quasi annientata. Messi in allarme sia i civili che i partigiani, alle prime avvisaglie, si danno alla fuga. Al termine si conteranno 264 morti dei quali solo 30 in combattimento. E allora, come consuetudine i nazifascisti usano l’inganno. E’ il tenente delle SS di stanza a Roncegno in Valsugana Herbert Andorfer comandante dell’omonimo “Kommando”(**) a escogitarlo: fa affiggere manifesti sui muri dei paesi, promettendo che chi si presenterà spontaneamente avrà salva la vita e sarà occupato nell’Organizzazione Todt ( lavoratori addetti alla costruzione della “linea veneta” fortificata) o entrerà nella Flak (la contraerea). Ignare in che cosa consistesse la “lealtà germanica” tra i primi a cadere nella trappola saranno le persone più influenti dei paesi come maestri, sindaci e sacerdoti che convinceranno le madri a invitare i propri mariti e figli a presentarsi. Quasi tutti i sacrificati si erano presentati spontaneamente alla caserma “Reatto” che si trovava adiacente agli uffici del boia Tausch. Fra gli impiccati c’è un uomo con problemi mentali; un ragazzo Cesare, di 17 anni che trovava nel Grappa per curarsi della broncopolmonite; un altro, Giovan Battista , ha appena compiuto 16 anni, mentre il fratello, Giuseppe di 18, era fucilato due giorni prima; e un maestro elementare di Mirandola. Un ragazzo di 15 ani venne invece fucilato poco prima nella stessa caserma Reatto , dove erano stati fatti confluire i prigionieri. Si dice che i carnefici abbiano poi festeggiato all’albergo “Al Cardellino” e al “Caffè Centrale”. Dopo la carneficina sarà eterno lo strazio di padri e madri che hanno chiesto ai loro figli si presentarsi spontaneamente ai nazisti: pari a quello dei corpi appesi. E non tutti i corpi verranno ritrovati, alcuni pare siano finiti in fosse comuni e mai trovati. La storica Sonia Residori documenta che il massacro fu “studiato a tavolino, arricchito poi dalla fantasia dei carnefici . Ci furono anche uccisioni clandestine e occultamento dei cadaveri o la loro “sparizione” mediante i lanciafiamme. Un testimone oculare denunciò al Procuratore Generale della Corte d’Assise l’uccisione di 15 partigiani (ma potrebbero essere solo civili) avvenuta nella notte tra il 28 e il 29 settembre “44“ in un prato subito dietro al quadrivio di Caselle d’Asolo”. Come già scritto uno dei carnefici era il ventiduenne Karl Franz Tausch, vicebrigadiere SS del “Kommando Andorfer” distaccato a Bassano: sarà lui il boia che, il 26 settembre ’44, fece impiccare 31 giovani agli alberi di tre vie di Bassano usando, come cappi, dei pezzi di cavi telefonici le cui cime erano collegate a una lunga fune legata al camion. Tausch coordinava l’esecuzione, dicendo come mettere il cappio e poi dava l’ordine al camion di accelerare. Il camion partiva e il cappio si stringeva attorno al collo dei trentuno condannati. Chi non moriva subito veniva preso e strattonato con colpi verso il basso dai giovani fascisti. Ricorda un testimone che all’epoca dei fatti aveva 13 anni, l’avv. Mario Della Palma: (Il 26 settembre ’44)…”andavo come sempre a pattinare davanti alla chiesa Delle Grazie di Bassano. Ho visto arrivare il camion con questi ragazzi con le mani legate dietro , con loro due soldati tedeschi. IL camion si ferma, ho visto il primo buttato giù, cioè appeso e impiccato e me ne sono andato”. Chi infilava le teste nei cappi erano ragazzini fascisti fra i 16 e 17 anni delle ex-Fiamme Bianche, inquadrati nei reparti della Flak contraerea. Il macabro “auto da fè” si concluse quasi a mezzanotte di quel giorno di morte. (*) - "Roncegno con il palazzo delle Terme e gli altri alberghi, tutti requisiti, era un centro di smistamento. Ci deve essere stato anche un incontro, nei saloni delle Terme, tra il maresciallo Kesselring e vari alti comandi", ricorda il professor Riccardo Montibeller, allora occupato in ufficio presso la Todt. Il paese divenne centro operativo per la 44 lotta antipartigiana in Valsugana e in gran parte del Veneto. Nel settembre 1944 partì da lì un'autocolonna per il rastrellamento del Grappa con ampio uso di plotoni del CST. A Villa Kofler (ex de Giovanni), detta "Villa triste" per le torture cui venivano sottoposti i malcapitati durante gli interrogatori, erano alloggiate le SS, sei-sette uomini, con Hegenbart, SS-Haupsturmführer (capitano), dal quale dipendeva tutto l'apparato poliziesco e militare. Gli ufficiali degli altri corpi dipendevano dagli ufficiali delle SS, anche se di grado inferiore. Hegenbart, reduce dalla Russia, dove si vantava di aver ucciso duecento bambini, aveva per collaboratori diretti il tenente Joseph Feuchtinger e il maresciallo altoatesino Friedrich Pelikan. In Russia e in Francia, dove l'occupazione avvenne prima, vennero massacrate o fatte sparire migliaia di persone. Molte finirono nei Lager senza essere neppure immatricolate e di esse gli aguzzini potevano disporre come meglio credevano. Feuchtinger aveva il compito di reprimere la resistenza nella valle del Brenta fino a Bassano per impedire, o quanto meno contenere, i continui sabotaggi dei partigiani del Feltrino e dell'Altopiano di Asiago. (Secondo Ermanno Pasqualini, Feuchtinger "...fu condannato all'ergastolo come criminale di guerra per questo e altri crimini commessi in Russia. Feuchtinger fu poi amnistiato, dopo 25 anni di carcere". In: E. PASQUALINI, I racconti di Casteltesino, Borgo Valsugana, Gaiardo, 1988, p. 279, nota n. 12). A Levico i comandi, sia italiani che tedeschi, e le relative strutture burocratiche, erano concentrati all'albergo Regina. Vi era stata trasferita l'emittente radio della Marina militare tedesca da Lipsia, che stava per essere occupata dall'Armata Rossa. Dei partigiani scesero dall'Altopiano per studiare il modo di sabotarla ma era inabbordabile perché circondata da reti di filo spinato. Il 15 marzo 1945 l'albergo fu raso al suolo da un bombardamento aereo e non fu più ricostruito. Morirono militari e anche civili del posto. La società Anonima Esercizio Regie Terme poteva però stare tranquilla: il pieno era assicurato anche per la stagione invernale anche se il pagamento non avveniva mai in marchi del Reich, ma in lire italiane anticipate dai comuni. In quel grande e capace nonché lussuoso complesso erano alloggiati la Gestapo (Geheime-Staatspolizei, polizia segreta di Stato), il CST, il SOD, la Gendarmeria, gli Alpenjäger e la Hitlerjugend (giovani dai dieci ai diciotto anni, solo di passaggio), le SA (Sturmabteilungen - reparti d'assalto) e lo SD (Sicherheitsdienst - servizio speciale addetto allo spionaggio politico). Alle Terme c'erano anche il comando della Wehrmacht, quello della Todt e l'ufficio progettazione delle fortificazioni che si stavano costruendo a Grigno, Cismon del Grappa, Romano d'Ezzelino, Thiene, Asiago, Lusiana ed Enego. Gli uffici tecnico-amministrativi erano distribuiti tra le ville Waiz, Flora e Baito. Fortificazioni, con gallerie per ospitare fabbriche e depositi vari, stavano sorgendo lungo la linea che andava dalla Svizzera fino a Lubiana, per assicurare un estremo fronte di difesa in caso di arretramento della "Linea gotica", dai tedeschi detta "grüne Linie" (linea verde). A villa Gerlach (chiamata anche villa Gordon o Bellaria) c'era la Speer. Albert Speer, l'architetto di Hitler, era subentrato a Fritz Todt, ministro degli armamenti e delle munizioni quando questi morì nel 1942. Al processo di Norimberga del 1946 fu condannato a vent'anni di carcere per aver reclutato nei vari campi di prigionia quattordici milioni di persone sottoponendole a lavori forzati. Il 30 gennaio 1945 nel salone delle Terme ci fu una gran festa per celebrare l'anniversario dell'ascesa al potere del Führer. Alle Terme c'erano gli uffici dell'Intendenza di Finanza. Tutti gli operai e gli impiegati, i collaboratori e i militari erano pagati puntualmente con carta moneta italiana nuova fiammante, tagliata da rotoli ancora intatti. Oltre al migliaio di operai della Organisation Todt (O.T.) della zona di Grigno, anche i duemilacinquecento che lavoravano alle fortificazioni di Cismon del Grappa erano pagati da Roncegno con moneta del Re d'Italia. Per quanto riguarda l'Italia bisognava "indurre la Banca di Stato a cedere valuta nazionale locale contro ricevuta". Montibeller suppone che ci fosse una zecca in quel di Roncegno, ma è più probabile che prima di ritirarsi da Roma gli invasori avessero provveduto a stampare quanto occorreva e anche più: il trasporto dei macchinari sarebbe stata un'ardua impresa. Stessa sorte degli alberghi di Roncegno e Levico toccò a quelli di San Martino di Castrozza. L'albergo Rosetta fu requisito il 10 dicembre 1943 per essere usato quale convalescenziario della divisione corazzata Hermann Göring. Anche l'albergo Dolomiti ebbe la stessa destinazione. In seguito gli alberghi Cimone, Regina, Jolanda, Savoia, Belvedere e Miramonti ospitarono reparti di SS che frequentavano corsi di sci: una vera fortuna per proprietari e dipendenti che, pur in tempo di guerra, potevano esporre il cartello "tutto esaurito”. Durante l'estate una corsa giornaliera della ditta Bordato - Cappello collegava Trento con Fiera di Primiero e San Martino di Castrozza attraverso il Passo del Brocon. Non di rado se ne - Giuseppe SITTONI, Uomini e fatti del Gherlenda , ed. Croxarie Strigno 2005 , edizione on line – servivano anche i partigiani. 45 (**) - Il “Kommando Andorfer” - Herbert Andorfer, austriaco di Linz, nato nel 1911, di professione segretario d’albergo. Si iscrive al partito nazista nell’ottobre 1931 ed è membro delle SS dal settembre 1939. Nel ’41 è in Serbia come sottotenente. Nel ’42 comanda il lager di Semin a Belgrado dove vengono sterminati , tra gli altri, 5.238 ebrei compresi donne e bambini con camere a gas mobili. Trasferito al comando di Salisburgo come tenente nell’autunno ’43 comanda in Italia l’unità antipartigiana “Kommando Andorfer” famigerata per stragi e omicidi. Opera in Lombardia, Liguria e a Macerata. Poi sull’Appennino emiliano, quindi a a Roncegno e Rovereto nel Trentino e, infine, a Novara. A guerra finita fugge in Sud America, salvo tornare negli anni ’60 quando verrà processato a Colonia. Così viene descritto da un testimone “..35 anni, alto 1,68, colorito pallido, corporatura snella, sbarbato. Guance incavate , non cammina dritto ma torto da un lato. Disposizione molto cattiva”. Nel 2008 lo si dava per morto in Austria ( avrebbe avuto 97 anni). Nel suo Kommando c’era anche un altoatesino, Wilhelm Niedermayer di Cronaiano, maresciallo SS. 26 SETTEMBRE 2008: Il boia nazista di Bassano del Grappa si è giustiziato suicidandosi con un colpo di pistola La notizia del suicidio è stata diffusa solo nella tarda serata del 26 settembre ’08 dalla striscia di un programma della RAI-TV: nessun altro cenno sia in TV che sui quotidiani, nemmeno su quelli mandati on line e sulle più note Agenzie d’informazione quali l’ANSA, Reuters, Adnkronos, ecc.. Il Corriere della Sera ha dato la notizia, che annunciava il suicidio del vicebrigadiere SS Karl Franz Tausch l’organizzatore delle impiccagioni di massa in tre strade di Bassano il 26 settembre 1944, solo in data 28 settembre 2008. 46 (Allegato D) ALBERTAZZI: un nazifascista (tra i tanti) IMPUNITO ! Nel 2004-06, lavorando sulle carte dell' Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, una studiosa vicentina - Sonia Residori, laureata in lettere, ricercatrice dell’Istituto sulla storia della Resistenza (del cui direttivo è membro) della stessa città, autrice di saggi e libri sulla storia delle donne e sulla demografia storica, (*) , ha ultimato un' ampia ricerca sulla violenza fascista nel Veneto centrale. Insieme con Monica Lanfranco, si è soffermata anche sul ruolo svolto dalla legione “Tagliamento” sul Grappa nell’utima guerra, unitamente a quello delle Brigate Nere e dei battaglioni “M”, responsabili del terribile rastrellamento che dal 20 al 29 settembre 1944 ha avuto luogo in quella zona. Nel documentarsi su “quanto gli italiani si sono sporcate le mani qui sul Grappa », quasi per caso, è uscito il nome di Albertazzi Giorgio, che comandava il 2° plotone della 3° compagnia.(**) I documenti erano lì, infilati in una busta “Tagliamento”, insieme alle carte di un processo intentato dal tribunale di Milano a 13 legionari dopo la Liberazione e sono stati resi noti ieri da una anticipazione della rivista MicroMega al Corriere della Sera. Giorgio Albertazzi c’era. Era lui, infatti - il sottotenente Giorgio Albertazzi, insieme al sottotenente Prezioso e al comandante tenente Giorgio Pucci, responsabile della terza compagnia, 63° battaglione “M”: i cosiddetti “battaglioni del Duce siamo noi, l’elite guerriera della Rsi con la emme (M) rossa”. A guidare l’“operazione Piave”; il grande rastrellamento antipartigiano del settembre 1944 sul Grappa fu appunto uno di questi battaglioni, il 63°, che collaborò coi nazisti, entusiasticamente, dal 20 al 29 settembre 1944, ad una vasta operazione di rastrellamento che causò gravi perdite alle formazioni partigiane. Come si è detto il battaglione, appartenente alla Legione “Tagliamento”, era formato da varie compagnie e una di queste, il 2° plotone della terza, aveva per ufficiale proprio il sottotenente Giorgio Albertazzi. Tra il “bottino” di guerra, tre soldati inglesi fucilati e cinque “banditi” uccisi (tra essi il leggendario capitano “Giorgi”, cioè il comandante della brigata partigiana Italia Libera “Campocroce”, Ludovico Todesco). Albertazzi c’era, ha visto e fatto. Un incontro coi partigiani molto ravvicinato, cruento. I documenti sono autentici, di prima mano. Inconfutabili. Vengono direttamente dal “Diario” militare dello stesso 63° battaglione, Manoscritto firmato di pugno dal medesimo tenente Giorgio Pucci e conservato negli archivi militari, oggi il “Diario” è reperibile su Internet. «8 lunedì, dopo mezz’ora di ostinata e violentissima sparatoria la resistenza viene domata e i banditi lasciano sul terreno 11 morti. 9 martedì. Dopo una ostinata lotta durata circa mezz’ora veniva ucciso un bandito e catturati 8. Venivano pure catturate due donne, una delle quali moglie di un bandito, ed un renitente alla leva. Gli 8 banditi catturati vengono passati per le armi. 17 mercoledì. Alle 4,30 la 3a compagnia attacca in località Mottalciata le cascina Mondova e Caprera nelle quali risultavano asseragliati elementi ribelli»... Su internet il “Diario” si arresta all’agosto 1944. Il seguito, gli ultimi sette giorni del sanguinoso settembre ’44, è stato appunto rinvenuto nella busta “Tagliamento” con gli atti processuali di Milano Il documento d' archivio è contenuto nella busta Tagliamento, che contiene copia degli atti del processo contro una quindicina di legionari celebrato dopo la Liberazione dal Tribunale militare territoriale di Milano, e giunto a sentenza nel 1952. Datato da Staro (presso Recoaro) il 28 settembre 1944, consiste nel diario delle operazioni compiute dalla terza compagnia del 63° battaglione M durante gli otto giorni compresi fra il 20 e il 27 del mese. Più esattamente, si tratta di una Relazione sull' azione «Piave» firmata dal responsabile della compagnia, il tenente Giorgio Pucci, e da lui inoltrata al comando di battaglione. Appena due pagine dattiloscritte, che permettono tuttavia di ricostruire con precisione - giorno per giorno, e quasi ora per ora - i movimenti degli ottantanove legionari agli ordini di tre ufficiali: lo stesso tenente Pucci e i sottotenenti Prezioso e Albertazzi, rispettivamente a capo del primo e del secondo plotone fucilieri. Da Solagna, gli uomini della terza compagnia avevano risalito i contrafforti del Grappa attraverso la valle di santa Felicita, attestandosi al limite del bosco di Monte Oro. Nel secondo giorno di operazioni, avevano fatto 47 prigionieri «n. 3 inglesi e n. 3 italiani». Il primo scontro a fuoco era avvenuto il 22 settembre: intercettata una «pattuglia di banditi», i legionari avevano prontamente reagito, «uccide(ndo) un bandito e costringe(ndo) la pattuglia nemica a scendere precipitosamente in basso». Ore dopo, un secondo scontro a fuoco si era facilmente concluso a loro vantaggio («poche raffiche bastarono per uccidere n. 4 banditi»). Alla fine dell' intensa giornata, la compagnia si era disposta a sbarramento della valle delle Foglie: ma non prima di avere fatto altri prigionieri, «n. 5 individui nascosti nel bosco». La marcia di ritorno verso Solagna era cominciata il 24, «su tre direttrici per il rastrellamento di uomini e degli armenti». Cinque i «renitenti alla leva» catturati quel giorno, in cui fra l' altro si era provveduto a fucilare i tre prigionieri inglesi; sette gli ostaggi dell' indomani («n. 6 renitenti alla leva ed un disertore dell' esercito repubblicano»). La terza compagnia era rientrata a Solagna nella mattinata del 26, mentre già il tenente Pucci si preparava ad accompagnare la sua Relazione sull' «azione Piave» con un fiero «riepilogo dei banditi messi fuori combattimento». Dal 20 al 29 settembre 1944, un reparto fra i più sperimentati e agguerriti della Guardia nazionale repubblicana, il 63° battaglione M, collaborò con l' esercito tedesco a una gigantesca operazione di rastrellamento, che per le formazioni partigiane si risolse in una gravissima disfatta. Il battaglione era composto di varie compagnie, una delle quali, la terza, aveva per ufficiale il sottotenente Giorgio Albertazzi. Senza riuscire straordinario, il bottino militare conseguito dalla sola terza compagnia nel breve volgere di una settimana fu comunque degno di nota: oltre ai tre soldati inglesi passati per le armi, cinque i «banditi» italiani uccisi negli scontri a fuoco (tra cui il comandante Ludovico Todesco della brigata Italia Libera-Val Brenta” Comando con sede a Campo Croce – settore BassanoValle S. Felicita-Canaloni di Crespano ), venti quelli catturati (in gran parte deportati a Dachau, e mai più ritornati). Albertazzi farebbe bene a raccontare la realtà nuda e cruda: sono stato un fucilatore (o tra coloro che comandavano i fucilatori). E lui che non ha cercato e, quindi, avuto nemmeno la “bella morte” - quella che, si dice, in nome del duce andavano vantandosi i “Battaglioni del duce siamo noi” - ha preferito darsela a gambe: «Dopo il 25 aprile, riparai ad Ancona..., dove misi in scena pièce sul Primo Maggio e sui repubblicani spagnoli, sotto il falso nome di Glauco G. Albe, per sfuggire alle reti dell’epurazione». A un fascista come lui non va richiesto alcun pentimento: va solo preso atto di quello che è stato e rimane! (*) - (nel 2004 è uscito il volume della Sonia RESIDORI, “Il coraggio dell’altruismo”, edizioni Cierre di Verona, nell’ambito della collaborazione con l’Istituto storico della Resistenza) – L’altra ricerca ricerca, corredata di allegati e documenti sulle gesta della 3° compagnia Battaglione M del sottotenente Albertazzi, uscirà sotto forma di libro in ottobre con il titolo “L’aristocrazia vicentina di tutte le guerre”, sempre per le edizioni Cierre di Verona. Dalla stessa autrice e dalla medesima casa editrice , nel 2007, è uscito il libro “Il Massacro del Grappa”. 48 Nel concludere la ricerca propongo una testimonianza del parroco di Crespano del Grappa raccolta da Pierantonio GIOS. E’ quasi un “fuori tema” rispetto alla ricerca ma rappresenta un tassello utile per impedire dei revisionismi “pacificatori” che tendono a ridurre quando non a escludere un coinvolgimento diretto dei repubblichini nell’eccidio del Grappa. E’ l’opinione di un prete e, come tale, una visione particolare che non deve cercare un qualche consenso o dissenso bensì colta come una delle voci che servono a rappresentare il clima di quei momenti. Un pastore nel vortice della guerra. L'arciprete di Crespano del Grappa don Ferdinando Galzignan - 1944 Non è la mano che trema nel vergare queste righe, è il cuore stretto da una morsa di ferro che trema, terrorizzato dall’avvenire fosco, fosco, che ci attende. Sperare sì…ma…su chi? Sugli uomini? Povere nazioni martoriate, ora per ora, popoli sotto l’incubo delle stragi, fatti bersaglio del cannone e della mitraglia, levate capita vestra Deo. Non negli uomini superbi e ambiziosi che ci hanno trascinato a queste condizioni vergognose ed umilianti; non nel valore degli alleati, ma nel cuore amabilissimo di Gesù e di Maria deponiamo tutte le nostre speranze, gridando il Salva nos perimus. La voce, trapelata nell'autunno scorso, si fa oggi realtà: sono arrivati i comandi delle forze armate ad Asolo ed a Paderno. Anche qui vediamo ufficiali superiori, alloggiati alla meno peggio; i più alti di grado in qualche villa. Anch'io devo adattarmi ad accogliere due sottotenenti veterinari, uno molto per bene, all'opposto l'altro. La presenza di tanti ufficiali ha sollevato subito i prezzi dei generi, introducendovi o aumentando così il mercato nero in pieno, specie nelle uova, latte, frutta e polli; qualche ufficiale è di modi distinti e condotta esemplare; i più noncuranti della religione; qualcuno si dimostra ateo volgare e viene obbligato a lasciare la sua mantenuta. Nel collegio femminile risiede lo stato maggiore. Vi è anche il generale. Hanno tutti paura dei partigiani che si ritrovano in Grappa e sono persuasi di essere in un paese con i partigiani. Quindi verso di noi vi è una diffidenza a tutta prova. A noi muovono per lo meno compassione questi signori ufficiali: non ne comprendiamo la loro missione; non hanno truppa, non armi, perciò sono giudicati inutili a questo lembo di patria, utili solo al tedesco imperante dovunque. Vediamo pubblicati i bandi perché gli sbandati si presentino alle armi. Anzi siamo chiamati in municipio, io, don Pio, don Andrea e don Giovanni. Davanti al colonnello comandante del presidio e circondato dal capitano dei carabinieri, dal segretario politico, dalla segretaria dei fasci e da Sante Piva. Incomincia elogiando l'attività del clero e arriva a dire che la patria è nelle nostre mani e confida nella nostra opera. Desidera che domenica prossima ventura a tutte le messe si legga il bando che commina la pena di morte agli sbandati che non si presentano entro pochi giorni. Si discute un po' e quindi mi permetto di dirgli: "Voi, signor colonnello, siete come quel medico che ordina agli infermieri di dare un purgante all'ammalato; questi non lo vuole ricevere, ma pressato ubbidisce. Appena ingoiato il purgante, lo rigetta tutto. Così - concludo - toccherà anche a noi sacerdoti; il popolo, da voi giudicato ammalato, prenderà il purgante, ma poi lo rigetterà e lo spruzzo andrà contro di noi preti, non contro di voi e l'ammalato rimarrà come prima, anzi peggio di prima e se la prenderà a petto con noi". Congedatici da quei signori ci raduniamo in sacrestia: senz'altro decidiamo di non leggere il bando, ma solo di parlare della protezione della Madonna che avrà per la nostra gioventù. Ho proibito nel modo più assoluto di dire dall'altare: presentatevi. E il popolo comprese bene la nostra tattica, tant'è vero che la notte seguente venne attaccato alle porte della canonica uno scritto che diceva: "Gli antifascisti di Crespano rendono omaggio al loro clero per la sua abilità dimostrata anche oggi dall'altare". E, quasi fosse poca l'umiliazione vedere la condotta di questi signori, ci piomba addosso la quinta compagnia del secondo battaglione del primo reggimento Cacciatori delle Alpi, formato da circa 49 150 guardie repubblicane. La maggior parte di questi militi si comportano come avanzi da galera. Ogni giorno ci fanno tracannare il calice di amarezze più raffinate, con quel linguaggio da veri galeotti che avea per ritornello obbligatorio: "Ammazzare, bruciare, arrestare". Quasi che fossero stati pochi tre anni di guerra con tante distruzioni e vittime, vengono a mettere l'ordine proprio questi famigerati, armati come briganti fino ai denti. Sempre di notte e mai di giorno, circondano case, ove si riposa tranquillamente, perché non abbiamo rimorsi da scontare. Entrano a viva forza in cerca di armi, buttano tutto sossopra, si bestemmia, si minaccia e si arresta qualcuno che, provocato, non potè tacere. Si sparano fucilate, bombe all'impazzata. Guai sentir rumore, fanno centro di bersaglio quel posto, forse per finire di uccidere qualche gatto randagio o un somarello di un contadino che di buon mattino si preparava a salir la montagna per far legna. Ci domandiamo tutti dove si andrà a finire di questo passo. A chi ci dovremo rivolgere per avere un po' di protezione, e siano salvaguardate persone e cose. Ma è voce ormai generale che anche i tedeschi mettano in pratica quanto di loro disse il Manzoni: se ne sentono continuamente dei fatti così gravi ed eccezionali da far rabbrividire: paiono cose impossibili eppure sono realtà e "voce di popolo, voce di Dio". Nella primavera gli ufficiali che abitano il collegio, pieni di paura, vogliono fortificare le adiacenze con filo spinato, sacchi di sabbia; mettono sentinelle ovunque, di giorno e di notte ed anche postano una mitragliatrice. Una notte ci svegliano con una sparatoria di bombe, fucileria. Viene dal collegio. Il coprifuoco non permette ad alcuno di uscire; si viene poi a sapere che le camicie nere sparavano contro i loro compagni che si trovavano dal versante opposto: ora si potrebbe ridere di quelle buffonate, ma allora si piangevano amare lacrime. Al 5 o 6 di giugno alcuni partigiani di notte entrano nell'albergo Socal di Possagno e contro il tenente colonnello Dell'Uva sparano alcuni colpi di rivoltella riducendolo in fin di vita. Viene trasportato in questo ospedale agonizzante. Il 10 giugno hanno luogo i funerali. Pochi soldati, molte camicie nere vi prendono parte; tutti con i fucili spianati. Per le strade dove passa il corteo vi sono gruppi di soldati, pure loro armati di tutto punto. Non un borghese prende parte al pio rito. Il giovane Bortolazzo Gino di Giovanni muratore, sta conducendo il carrettino di mattoni e gli sfugge la frase: "Non sarà questo il primo funerale". Subito viene preso da questurino in borghese, ammanettato, guardato da due militi e una serata viene condotto a Treviso. La mamma sua è disperata, il papà impreca, si fa ressa di gente. La mamma viene ad implorare il mio intervento. Non mi azzardo affrontare quelle belve umane. Solo quando vedo entrare nella casa del fascio il capitano dei carabinieri Testi, prendo coraggio e mi faccio audace. Il commissario di pubblica sicurezza e peggio ancora il maresciallo delle camicie nere non volevano ascoltare raccomandazioni; ma, fatto forte della presenza del capitano Silvio Zardo in rappresentanza del segretario politico, parla in favore dell'arrestato. Poi io pure sono ascoltato ed infine il capitano fa togliere le manette al caro Gino e lo mandano a casa libero. Quella famiglia viene presa di mira, perseguitata, più volte visitata di notte, si vuole incendiare la casa, si arresta il padre; viene battuto, insultato, fino a tanto che i tre figli sono costretti a darsi alla montagna, veri ribelli, alle barbare violenze dei soldati del duce. Pochi giorni dopo nell'istituto Filippin, sede del comando delle forze armate, una notte si spara dai carabinieri di guardia, pare contro qualche partigiano. Viene ferito il maresciallo Carola Biagio e, trasportato nel nostro ospedale, muore. I126 giugno gli si fanno i funerali, come quelli del signor colonnello. Senza nessun incidente. Le camicie nere si mordono dalla rabbia, ogni notte si sparano bombe a mano, si vuole vendicarsi di Crespano. La domenica 6 agosto, dopo la messa delle 11, un bel numero di camicie nere a mia insaputa entra nella chiesa parrocchiale, sono tutte armate; salgono in organo, nelle adiacenze, ovunque e con poco rispetto per la casa del Signore. La piazza è bloccata: circa 200 persone vengono fermate e condotte in caserma, controllate, e poi quasi tutte rilasciate. Appena conosciuta la profanazione della chiesa, scrivo una lettera al comandante, invitandolo nel mio ufficio. Lo ricevo alle ore 11,30 del giorno seguente. Faccio la mia protesta solenne in formis, egli si scusa, lo invito a mettere in scritto ogni cosa e dopo mezz'ora ricevo questa lettera. Guardia nazionale repubblicana - Secondo reggimento Cacciatori degli Appennini -Secondo battaglione 50 Comando quinta compagnia Posto di comando 717 - 7 agosto 1944 Al molto reverendo don Ferdinando Galzignan, Arciprete vicario foraneo Crespano del Grappa Sono venuto a conoscenza stamane che durante l'operazione di verifica dei documenti da me ordinata ed effettuata ieri nella piazza di Crespano, alcuni legionari, contrariamente alle mie precise disposizioni, sono penetrati in chiesa allo scopo di controllare se vi si fosse rifugiato qualche elemento sospetto, usando parole e modi non intonati all'ambiente sacro. Mentre deploro vivamente quanto è avvenuto a mia insaputa e contro il mio ordine, comunico di aver provveduto disciplinarmente a carico dei responsabili e vi prego di accettare le mie scuse. Devotamente. firmato: il comandante la compagnia (Capitano Pompeo Pompei) Nella sera del 18 agosto alle ore 8 pomeridiane due camicie nere arrivano a San Vittore, entrano in una casa, vedono due pacifici giovanotti alla radio e senza nulla dire ne ammazzano uno, Colombara Antonio, e feriscono a morte l'altro, Pietro Bosa di Sebastiano. Il volgare assassino certo Pistore, siciliano, il giorno dopo viene da me per i funerali che permette vengano fatti con certe limitazioni. Gli rispondo: "Queste cose doveva venirle a trattare da me un ufficiale, e non un semplice soldato". Quando vuole dare disposizioni gli dico subito: "Sappi che la salma di un cristiano morto, appartiene alla chiesa e io farò quanto è in mio dovere. Verrò all'ospedale, accompagnerò la salma in chiesa, celebrerò la santa messa con le esequie". Egli soggiunge che non potranno intervenire più di 12 persone e senza corone. Gli rispondo che io non accetto questi ordini. Si rivolga altrove a darli, perché io farò il funerale alla presenza di nessuno, come di mille intervenuti. Il numero di questi e delle corone non mi riguarda. La sera del 19 agosto abbandona il posto di telefonista ad Asolo, il soldato Rizzardo Nereo di Antonio; viene subito arrestato. Il papà suo corre a cercarmi. Mi trova in confessionale. Piange come un bambino. Mi prega di liberare presto il diletto figlio suo. E' domenica. Celebro alle 9; alle 10.30 sono in caserma della Guardia repubblicana. Il tenente Nardi, da Siena, mi dice che nulla si può fare: comanda la compagnia il tenente Verutti (Berruti ndr.) da Torino. Vengo presentato a questo ufficiale e dopo i convenevoli: "Voi mancate ai patti -gli dico-; siamo d'accordo che lascerete sempre liberi i giovani che sono a casa perché la loro presenza vi assicura che non sono tra i ribelli. E perché allora trattenete il Rizzardo?". Egli vuole dichiararlo disertore; lo persuado che è un provvedimento sbagliato e provocante; finisce a mandar- mi con Nardi a liberare il carcerato che alle ore 11.30 conduco fra i suoi genitori, che ci accolgono con lacrime di gioia. Da giorni avevo liberato dal carcere la Nini Mantovani. Ma ecco un nuovo arresto di questa ottima figliola insieme alla Lucia Danieli. La prima, perché ha il fratello in montagna arruolato alla brigata "Italia libera"; la seconda, per relazioni con i ribelli. Faccio conoscenza con il maggiore Zajotti Emanuele: autorizzato dal sottosegretario della guerra Basile, esplica qui le più ampie facoltà sulla Guardia repubblicana. Di carattere violento, perfettamente sordo, odia cordialmente i sacerdoti; permette però che lo si avvicini. Io non gli riesco così antipatico e lo trovo un burbero benefico. Le carceri ormai vanno sempre più popolandosi; è arrestato Capovilla Mosé e la figlia Fanny perché il figlio Dino ha abbandonato il suo posto di carabiniere ad Ampezzo e si è dato alla macchia. Vado subito in caserma. Si conviene che se io ricondurrò Dino, papà e la figlia saranno subito rilasciati. Il giorno dopo 27 agosto il ricercato viene da me. Siamo davanti al tenente. Vi è anche il capitano della Guardia repubblicana. Mosè e la Fanny vengono scarcerati e Dino dichiarato in arresto per ordine del comando della legione dei carabinieri. Fu come bomba in pacifica tenda, ma l'ordine è preciso. Il capitano vuole metterlo in carcere di sicurezza. Lo prego di desistere; discuto con due ufficiali e, partito il capitano, il tenente mette in libertà tutti e tre, purché io mi assuma la responsabilità di riportargli la rivoltella del carabiniere. Il giorno dopo consegno un bel tipo nuovo di rivoltella "Beretta" e un po' di munizioni. Soddisfatto di questo buon 51 esito domando di visitare le due suddette signorine. Mi accolgono con lacrime cocenti. Assicuro il mio vivo interessamento e dopo mezz'ora le lascio con cuore sanguinante. Il 30 agosto la figlia del maggiore Zajotti, a nome Rosa, doveva celebrare il matrimonio col signor Mario Maurich. Gli invitati erano tutti in primo piano. Già fioccano i regali, telegrammi, fiori in casa Zajotti, quando proprio alle 21 del giorno 29 due partigiani bendati rapiscono la figlia del maggiore, Luciana e non si sa dove sia stata trascinata. Alle 22.30 la moglie di Zajotti, Emmina, viene in canonica, vuole parlarmi. La ricevo: è disfatta. Non riesco a consolarla affatto. Alla mattina 30 agosto alle 8 sono dal maggiore: mi riceve in carabina a tracolla. E' truce: desta spavento. Ha girato tutta la notte. E' fuori di sé. Minaccia di bruciare le case vicine, Più di 30 guardie repubblicane sono con lui. Girano dovunque. Il non trovare né tracce né indizi li rende più feroci. Se non tornerà la rapita, sento che la Mantovani a mezzanotte verrà messa al muro. Provvidenza volle che alle 11 l'infelice Luciana tornasse in famiglia. Aveva promesso ai suoi rapitori di non parlare e si mantenne al fedele al giuramento. Corro verso sera in carcere. Attendo il maggiore. M'investe come non mai. Gli scrivo la supplica di lasciare in libertà i due ostaggi. La legge, la stringe tra le mani e, battendo i pugni sul tavolo, indispettito parte. A1 mattino dopo, alle 6, il suo attendente mi porta questa lettera. Crespano 30 agosto 1944 XXII Caro arciprete, sono assai dolente che nell'esasperazione dell'anima mia dovuta all'accaduto di ieri sera, abbia rivolta a te parole assai dure. Ma ben sai come esse, anche se dette a te, fossero dirette a quella masnada di traditori, delinquenti che, non paghi di aver tradito la patria a suo tempo e di tradirla ancora, persistono nel voler a tutti i costi colpire coloro che alla patria tutto danno e sono ancora pronti a donare! Avrei accolto ben volentieri la tua preghiera nei riguardi delle signorine fermate dalla Guardia nazionale repubblicana, ma al riguardo è bene che tu sappia che, se anche per una non creata combinazione il loro fermo è coinciso con l'accaduto di ieri sera, ciò è avvenuto soprattutto per motivi assai gravi e che non hanno nulla a che vedere con la mia persona né quelle dei miei familiari. Inoltre non si può né si deve dimenticare che la Mantovani ha un fratello coi ribelli di Italia Libera che trovasi a monte Croce. Ed allora? Possibile che, mentre nessuna lacrima viene sparsa per le migliaia di vittime innocenti uccise dall'idra rossa, proprio mezzo mondo si muova sol perché la Mantovani è in guardina? Ed è possibile che ci si debba commuovere alla disperazione della nonna della Mantovani che almeno sa di avere la nipote in guardina, mentre nessuno si è preoccupato della disperazione di una madre malata che per sedici ore è vissuta con l'angosciosa disperazione di non rivedere la figlia? Per tali motivi, a meno che non mi si diano formali e concrete garanzie sulla incolumità mia e della mia famiglia, considero la Mantovani come ostaggio fino a quando la mia famiglia non avrà lasciato il paese. Il dottor Mantovani ha curato mia moglie e mi conosce assai bene. Quindi, se ci tiene a sua nipote, venga in tua compagnia da me per la chiarificazione della situazione. Con affettuosa amicizia. firmato: maggiore Manuel Zajotti Alle ore 7 son dal dottor Mantovani per accordarmi sul modo di sottrarre la povera Nini. Esco dall'ospedale alle 8. Zajotti mi attende da un pezzo all'entrata. Ritorna a scusarsi della scenaccia fattami ieri sera e mi riaccompagna a casa. Alle 10.30 celebro il matrimonio della sua figliola. La chiesa è circondata dalle camicie nere. Però tutto procede con ordine. Terminato il sacro rito, appena in sacrestia, il maggiore viene a baciarmi. Mi ringrazia commosso. Io mi metto a piangere. Vuole sapere il perché, e gli rispondo: "Lasciami libera la Mantovani". Un no secco mi trapassa il cuore. Raddoppio il pianto. Egli esce, poi rientra, mi vuole al rinfresco. Accetto, nascondo a tutti la mia commozione; invitato, brindo agli 52 sposi beneaugurando e, aiutato dalla moglie, prima di partire, rinnovo la mia supplica; ed egli finalmente mi risponde: "Stasera forse ti accontenterò". Alle 11.45 sono in canonica. Mi attende il dottor Mantovani. Ci accordiamo che si porti subito in montagna a parlamentare con Giorgi (capitano Todesco), comandante della brigata Italia Libera, perché non permetta più rapine o altri gesti inconsulti: ne andrebbe di mezzo tutto il paese che senz'altro da questi pazzi verrebbe bruciato. E il caro dottore con quel caldo soffocante, che vien dalle rocce brulle, sale a piedi. Lo seguo con il pensiero e con l'affetto e con la preghiera. Alle 15 mi porto ad imbucare una lettera. Il maggiore mi vede dall'albergo, mi vuole a prendere il caffè con gli sposi. L'accontento e tutto felice esclama: "Vi avverto che ho dato ordini di scarcerare la Mantovani". Rispondo: "Deo gratias"! Sono più che lieto e corro ad accertarmi. La Nini è accanto alla nonna, tranquilla: tutti mi ringraziano. "E' sempre poco - rispondo - ciò che facciamo noi per ricompensare l'opera generosa del dottor Mantovani, vero padre putativo di Crespano". Se il settembre scorso fu un vero calvario per l'Italia, quello di quest'anno è un rinnovato calvario per Crespano e i paesi pedemontani. Ogni giorno e parecchie volte al giorno sono chiamato in carcere. Riesco a liberare la Petronia Manganello, il figlio suo; il 15 il maresciallo dei carabinieri Sguario, da due settimane detenuto con due suoi figli; il 20 la Bortolazzo Maria fu Sebastiano che aveva già il verbale pronto per venire trasportata in Germania; il 21 Torresan Giuseppe; due giovani da Borso, uno da Fietta. Il mio cuore soffre più che mai. Poche volte ho sentito così straziante il peso del mio ministero pastorale. Ho dovuto mettermi a letto e anche là ho ricevuto persone ricercate e poi liberate. Ma la tazza non era ancora colma. La Provvidenza aveva un'altra croce da addossarci. Ristabilitomi alla meno peggio, il 22 mi alzo e circa alle 9 si presentano nel mio studio due graduati tedeschi. Il capo, un omone volgare, comandante del plotone di esecuzione della S.S., con un portamento triviale, sfacciato, mi dice: "Voi preti tutti in prigione". Domando perché e mi risponde: "Voi prestate vesti ai ribelli. Raus". Mostro la carta d'identità. Sentono che sono arciprete di 66 anni. Mi impongono di dire quanti preti ho e dove si trovano. Se non sono svenuto, lo devo alla Madonna. Non mi sento di dire in quale strazio sono piombato con la mia diletta parrocchia, lascio perciò alla penna più forbita di un padre dei scalabrini descrivere come ci è venuto addosso il rastrellamento, vero uragano che tutto abbatte, distrugge, annienta. Ricordi del rastrellamento del Grappa (22-28 settembre 1944) Un movimento straordinario di macchine, di truppe; l'agitazione, il timore di cui la popolazione è preda ci fanno comprendere che qualche cosa di brutto sta per avvicinarsi. L'enigma non tarda ad avverarsi. Fin dalle prime ore del 21 il cannone ci sveglia. Si parla di rastrellamento. Nessuno può uscire fino alle ore 9. Le campane sono mute, la montagna coperta da una fitta nebbia, propria del settembre che fa maturare le castagne, ma questa volta ben altre castagne si bacchiano. Un doppio cordone di truppe circonda il massiccio del Grappa, mentre i soldati tedeschi e della Brigata Nera di Vicenza fanno la scalata. In montagna si combatte forte. Dapprima si resiste; poi dinanzi a forze maggiori, si comincia a cedere. Qui vengono rastrellati tutti gli uomini ed i giovani, che incolonnati sono rinchiusi nelle scuole della sala Canova, senza permettere di portare con sé né cibo, né coperte, mentre le case sono perquisite col terrore delle mamme e dei bambini. Ogni movimento è proibito per le strade, eccettuate due ore, una al mattino, l'altra alla sera, appena sufficienti per dar tempo alle donne di portare un po' da mangiare ai rinchiusi. Almeno ai sacerdoti si sperava venisse permesso di esercitare il proprio ministero a favore dei poveri condannati: al contrario il 22 settembre vengono emessi ordini speciali, si trama un piano speciale per prendere tutti in gabbia. Alle 9 era cessato il coprifuoco. I sacerdoti ed i chierici si affrettano alla chiesa per la santa messa. In chiesa non c'era anima viva. E' prigioniero anche il sagrestano. Durante la santa messa una cosa straordinaria si nota: dei soldati sembrano voler ascoltare la santa messa, ma entrano ed escono con un atteggiamento poco devoto. Tutto finito, i sacerdoti ed i tre chierici del seminario un po' intimoriti escono, ma appena fuori dalla porta un piantone li attende e senza tanti complimenti li costringe 53 a seguire la sorte che già a qualche altro prima di loro era avvenuta. Li rinchiudono all'albergo Campana. Io sono tra costoro. Col pallore in viso, vedo arrivar altri: sembrano condannati a morte. Il mio cuore si dilata: mal comune mezzo gaudio; chissà che non ci facciano tutti martiri? Eravamo in dodici: due scalabriniani quattro sacerdoti della parrocchia di Crespano, quattro chierici e i parroci di Fietta e di Scorzè. Qualcuno si esamina la coscienza per scrutare se nulla poteva rimproverargli troppo coraggio di fronte ai nuovi interrogatori. In mezzo alle più disparate supposizioni, qualcuno si fa portare le scarpe, il soprabito e qualche coperta, rassegnati di accettare la cattiva sorte di quel giorno e sperando non dovesse essere così a lungo. La sera scendeva triste e buia: già arrivavano i primi prigionieri. Si entra nella via purgativa, si recita il santo ufficio, poi il santo rosario per i caduti per i condannati per ottenere l'aiuto e la forza della Madre della misericordia per quanti sono nell'angoscia e nel dolore. Sotto il nostro salone è tutto un via vai di soldati tedeschi nelle cui mani sono le nostre sorti. Dalla strada ci giungono un po' coperte dal rullo delle macchine le grida strazianti dei condannati che presto si dileguano lasciando in tutti le più tristi impressioni. La notte arriva in qualche maniera. Come i polli si cerca un cantuccino, una seggiola, un divano; chi è più fortunato, una poltrona e si fa il possibile per riposare e dimenticare la triste realtà. Le ore passano lente. Le spalle stentano ad adattarsi al nuovo letto, mentre intanto ci giunge l'eco delle raffiche di mitraglia e delle bombe a mano. Allora ci adattiamo alla nostra sorte rassegnati a non celebrare la santa messa, privazione che più di tutto ci addolorò. Le condanne si susseguono anche per semplici sospetti senza dare il conforto dell'assistenza religiosa, più volte richiesta dall'arciprete e dal cappellano del collegio. Sono a Bassano il coraggioso padre Nicolini dei camilliani. Sfidando la morte senza farsi a scorgere, sale sul carro dei condannati conforta, assolve e benedice. Le perquisizioni, i rastrellamenti di uomini, animali e di quanto può interessare, gli incendi di case e fienili continuano per una settimana, gettando nella miseria tante povere famiglie. Nella sola parrocchia di Borso, abbiamo 47 cascine bruciate in montagna e 18 case di abitazione in paese. Finalmente il lunedì il rumore cessa. Sui volti di tutti si nota un senso di gioia; e infatti le truppe tedesche partono. Quella faccia truce, dai vocaboli indecifrabili sempre con la mitra puntata in avanti sparisce. Ora i bocconi scendono più volentieri ed il vino dell'arciprete è più gustoso. Ognuno può riposare sul letto offerto dai buoni albergatori senza dei quali in quei giorni noi saremmo morti di fame, più che di paura. Per mezzo di loro e con le donne di servizio si potevano far aver da mangiare ed arrivare fino a noi per metterci al corrente di tutto. Ancora però non si respirava del tutto. La Brigata Nera di Passuello voleva sfogarsi? Per fortuna fu cosa da poco e di poche ore. Veniamo a sapere che in piazza venne impiccato il giovane croato che col nodo alla gola domandava il sacerdote, e nel 24 il tenente dei carabinieri Giarnieri Luigi che implorava anch'egli un confessore. Si dice che gli assassini gli abbiano risposto: "Te lo daremo noi il confessore ". E' semplicemente enorme. A mezzogiorno ci conforta la presenza del signor arciprete, che ci ha fatto preparare un vistoso pranzetto con vino di bottiglie offerto da persona generosa. Come dopo una terribile grandinata si esce sul campo a controllare i danni, così, partita la Brigata nera copertasi d'infamia, si corre verso la montagna per domandare ai superstiti che avevano gridato guerra alla guerra, se vi fossero vittime. Veniamo a sapere che caddero fulminati Torresan Aldo di Giuseppe; Guadagnini Ilario fu Girolamo; Melchiori Adolfo di Francesco; Tonin Aldo di Giacomo, tutti giovani di belle speranze. Durante il rastrellamento, ogni giorno, circa 200 giovani e più, caricati su camion, guardati da tedeschi o camicie nere, partivano con destinazione ignota, dopo aver sentito in piazza la voce del comandante Passuello che li rimproverava di esser stati vittime della propaganda dei preti e del Vaticano. Nella sola contrada Gherla 8 giovani dai 18, 20 anni dei migliori del paese, di elette virtù cristiane, vennero presi come ostaggi e, nonostante le nostre premure per liberarli a Bassano, vennero mandati in Germania come feroci ribelli. Poveri agnelli condotti al macello. Padre Biondi, benedettino e don Ugo Orso, cappellani della brigata Muti di Padova, a nome di Sua Eccellenza vengono a visitarci. Mi trovano indisposto a letto. Li ringrazio molto pregandoli di umiliare i nostri omaggi all'amatissimo nostro padre e 54 maestro monsignor vescovo. Ristabilitomi alla meno peggio, incomincio di nuovo la via verso il carcere. Vi è la Ina Sguario: si vuole farla cantare, è percossa brutalmente, ma essa tutto affronta, sopporta e tace, non un nome dei partigiani esce da quella bocca. Arrestata il 25 settembre, rincasa il 5 ottobre. Riesco pure a togliere da quelle barbarie Favero Mario di Borso con altri 4 di colà, la Lucia di Damiano Danieli, Pontin Pietro, più volte carcerato, una insegnante di Borso col fratello suo, ed altri dei quali mi sfugge il nome; lo studente in medicina Ferrarese Tarcisio di Paderno, partigiano della prima ora: ferito a morte da queste camicie nere, rimase più mesi all'ospedale piantonato. Prendo accordi col capitano Zilio di Bassano e riusciamo a sottrarlo alla sentinella e portarlo ai suoi parenti di Bassano. Padre Biondi mi aveva assicurato che a Bassano poteva aiutarci molto il tenente Perillo, comandante di illimitati poteri. II 3 ottobre sono ad intervistarlo. Mi accoglie bene. Mi accorgo che è di una astuzia da vero poliziotto. Metto i patti per condurgli Nino Mantovani che scenderà da Campocroce. Lo farà arruolare nel corpo della sanità. I14, alle ore 15 prendo un'auto; davanti si mette un mio amico capitano, funziona così da salvacondotto. Andiamo a levare Nino nascosto in una casa: con lui vi è il sottotenente degli alpini Nello Prevedello, pur egli dell'Italia Libera. Salgono in fretta e via a Bassano. Alla caserma Monte Grappa, prima il capitano Zilio e poi Perillo accolgono i due giovani fieri con molta deferenza e mi assicurano che li tratteranno bene, dimenticando il loro passato. Due giorni dopo, sono qui a salutarci, ripartono. E la domenica 8 Nino a mezzogiorno sta per entrare in paese e viene arrestato dalle camicie nere. La sorella Nini corre a Bassano, ottiene da Perillo un ordine di scarcerazione; parla con il capitano delle camicie nere: anche questi ordina la scarcerazione di questo caro giovane, ma in caserma si sta macchinando il tradimento. Deve esser fucilato ad ogni costo ed in barba a tutti. Lo si mette in libertà, ma quando sono già calate le tenebre. E' pedinato, gli si impedisce di entrare all'ospedale per salutare lo zio. E' in piazza, quasi vicino a casa sua: ecco una scarica di mitra su quell'innocente che cade, viene portato in ospedale, medicato dallo zio, si confessa, riceve il santissimo viatico e poi muore. La canaglia aveva vinto. Il dottore nostro era stato colpito nell'intimo dei suoi affetti. Tutto il popolo come una siepe di cuori era attorno a lui. Per ben 4 volte era stato arrestato, ma aveva tenuto testa a volgari interrogatori e a stupide insinuazioni; conobbe il carcere, ma la sua fede incrollabile non piegò. Si cercarono accusatori con generose promesse o forti minacce; non uno si addossò la maschera del calunniatore. Nemici il dottore non ne aveva mai avuto tra i suoi concittadini; rivali nell'arte sua, uno solo che io mi sappia che tentava di minarlo, ma da lontano e sempre nascostamente, mai a visiera alzata. Mentre la sua delicata professione esigeva in lui la massima tranquillità di spirito, più volte di notte nella sua abitazione entrarono le camicie nere a frugare ogni angolo remoto, tra lo spavento della veneranda mamma sua, della gentile sua sposa e del suo Giancarlo. Il libro dei suoi atti operatori, controllati con occhio di lince per vedere se erano notate operazioni a partigiani, tutto testimoniava il grande chirurgo di coscienza illibata. Però dopo l'assassinio così volgare del nipote, il dottore non si sentì più sicuro della vita: domandò un mese di licenza e scomparve per due mesi. L'ospedale se ne accorse subito: meno della metà dell'ordinario si ridussero gli ammalati e ormai si temeva di dover chiudere il pio luogo. Il nostro amato dottore ritornò al posto di lavoro, rassegnato, ma vigile. Portò la vita, la prosperità e la serenità nel cuore del suo cuore e a tutta la popolazione. A colmare la tazza del nostro dolore venne il rastrellamento degli uomini per assegnarli ai lavori della T.O.D.T. Il maggiore Tramer, sebbene si mostrasse cattolico, non conosceva eccezioni per alcuno: potei con grande fatica liberare qualche capo famiglia dalla chiamata e qualche altro. E così dopo tante amare vicende, pieno di incendi, di delitti, di morti, di quei 90 impiccati tra la Brenta ed il Piave, tramontava il 1944, mentre nell'ultima sera dell'anno le camicie nere si abbandonavano alle orge e il popolo crespanese pregava nel silenzio la Madonna del Covolo che ci avesse a portare la sospirata pace. ANNO 1945 In una seduta indetta dal maggiore Zajotti, alla presenza del podestà e dei parroci di Cavaso, Possagno, 55 Paderno, Fonte, San Zenone e Borso, il maggiore Zajotti raccomandò a tutti vivamente di arruolare tutti i giovani che erano a casa nella Flak. Ebbe verso di me parole troppo generose perché pubblicamente assicurò i presenti che, se non fu incendiato Crespano dai tedeschi, lo si deve unicamente all'arciprete. Altrettanto disse il tenente Perilo al padre Biondi, benedettino, nei primi giorni di ottobre 1944. A rimpiazzare il posto delle camicie nere fuggite venne un plotone di 20 soldati, comandati da un sottotenente dei bersaglieri, napoletano, ma sempre sotto la giurisdizione di Zajotti. Il 18 febbraio armati entrarono nella chiesa parrocchiale di Borso diversi militi, insultando con basse parole il benemerito arciprete che venne straziato a riferirmi la cosa. Nel 19 febbraio col numero 394 di protocollo scrissi questa lettera. Gentile signor comandante "Presidio" È mio stretto dovere segnalare all'eccellentissimo mio vescovo che ieri soldati dipendenti da voi si sono permessi di entrare armati in chiesa ed in canonica di Borso per cercare ribelli e renitenti. Il loro atto mi ha assai amareggiato assieme a quei venerandi sacerdoti, mentre quel buon popolo si è abbandonato a giudizi molto severi. Che ciò possa accadere tra bolscevichi, lo si comprende; ma ciò si faccia nel Veneto cattolico e da soldati che portano il nome grande di italiani è semplicemente enorme. Pensate, signor comandante, se domani lo venissero a sapere i nostri nemici, come la radio Londra lo comunicherebbe a tutto il mondo con parole altisonanti e quali conseguenze ne avrebbe il vostro nome. Prima di addossare a voi la responsabilità, gradirei sapere da chi è partito l'ordine. Vi prego di accettare il mio deferente ossequio. Sempre devotissimo. Arciprete Subito alla sera vennero a presentarmi le loro scuse l'ufficiale ed un sergente maggiore e, nella parola di non ripetere più tali atti, si chiude il disgustoso incidente. Il 9 marzo il maggiore Zajotti mi scrive: Mio caro arciprete, il presidio militare tedesco di Possagno, chiede gentilmente l'uso del locale del cinema di Crespano di cui al manifesto che allega. Ti sarò molto grato se vorrai cortesemente aderire a tale richiesta. Con affettuosa devozione Zajotti Concedo l'uso della sala Canova e dopo il concerto, chiuse le porte, si danzò allegramente fino all'una. Subito mandai questa lettera: Gentile signor maggior Zajotti Emanuele, comandante del presidio. Voi con l'abituale vostra signorilità mi avete pregato di concedere la sala Canova per un concerto musicale che alcuni soldati tedeschi offrirono sabato prossimo passato ai Crespanesi. Ho controllato il programma e ho detto: "A tanto intercessor, nulla si nega". Mi venne riferito che dopo si danzò molto allegramente. Non si pensò che la sala cattolica è di proprietà della chiesa e nessuno mai si azzardò a profanare quel luogo, che merita riguardo speciale. Si passò sopra al coprifuoco, alle disposizioni che vietano le danze, non ricordando che siamo in tempo di Quaresima. Si sono fatti piccanti giudizi del popolo contro di me, perché non si sa e non si vuole sapere che io ho dato il mio consenso per il programma di musica e non al ballo, e ciò mi addolora alquanto. Sta bene che voi, comandante, sappiate queste cose per regolarvi nell'avvenire. Con deferenti ossequi. firmato: l'Arciprete. Nel 27 marzo tornò il capomusica tedesco a chiedermi nuovamente la sala, accompagnato dal sottotenente Soranzo: con molto garbo, ma con altrettanta fermezza gliela negai. Si tentò di farmi piegare, ma inutilmente. La sala rimase e rimarrà sempre chiusa. Iniziai la pratica dei 5 primi sabati del mese come aveva proposto ai veggenti la Madonna di Fatima. Fu un vero trionfo della grazia di Dio. Intanto un vero collasso si notava tra i soldati e le poche camicie nere. La radio Londra narrava quanto i giornali tacevano o negavano. Voci di persone autorevoli mi confortavano assicurando vicino il crollo della Germania. Con maggior lena abbiamo continuato il nostro segreto lavoro, di giorno per ascoltare Zajotti e compagni, e alle ore 18 di giorni alternati, riferendo al dottor Mantovani (capo partigiani) quanto ci interessava. Ci fu 56 di valido aiuto la signora Giulia Fuga col marito Attilio, la giovane di servizio Brion Cristina, e la staffetta che faceva servizio per Bassano, Panizzon Tecla. Il giorno 8 maggio ho spedito alla veneranda curia vescovile di Padova questa relazione:Nella soave speranza di fare opera gradita ai miei amati superiori e più ancora per sentito dovere, farò un po' di cronaca degli ultimi avvenimenti di questi giorni di profonda preoccupazione (dal 26 aprile al 6 maggio 1945). In questa parrocchia fortunata fra tutte perché vero giardino di Maria santissima, non una granata, non un ferito, non un morto, fino all'alba del 30 aprile. 26 aprile 1945: giovedì Alle ore 16 l'ex maggiore veterinario dottor Cataldo siciliano, mi viene a pregare di portarmi dalla Brigata Nera e convincerla a deporre le armi. Pochi momenti dopo, per il medesimo scopo, mi si presentano il capo dei patrioti di qui, Dario Costa, e quello di Paderno, ragionier Mario Sartor. Il loro portamento austero, fiero, mi fa capire che sono decisi a tutto. "Lei ci farà molto piacere - mi dicono - di andare a nome nostro dal comandante della caserma Silvio Zardo a dirgli che entro mezz'ora vogliamo la consegna immediata delle armi, se vogliono i suoi militi salva la vita, tergiversare sarebbe troppo tardi. Abbiamo già bloccato le strade e siamo oltre 300". Raccomandandomi alla Madonna, parto. La caserma è sottosopra. Tratto col solo Zardo. Già persuaso di arrendersi, riunisco tutti i militi, manifesto lo scopo della mia missione. I più giovani non vorrebbero piegare; ma, garantendo io stesso la loro incolumità, cedono. Per assicurarli a rimaner tranquilli conduco con me Zardo a parlamentare con i capi che mi attendono in canonica. Messi i patti e accettati partono soddisfatti. Un quarto d'ora dopo arriva da Treviso il tenente della Brigata Nera, accompagnato da quel Pistone che con un colpo di mitra nell'agosto scorso, uccise un caro giovane di qui Colombara Antonio, e ferì gravemente Bosa Pietro, poi guarito, Vi è anche Zardo. Il tenente Nardi Carlo vuole assicurarsi di quanto mi incaricarono i capi dei patrioti poi senza dire parola mi strinsero tutti la mano, ringraziandomi e via. Eccomi a contatto con il bravo brigadiere delle finanze Pintus Giorgio, sardo: ha ordine di sparare contro i militi se non cedono le armi. Alle 8 pomeridiane, con le sue guardie, farà l'azione che gli venne comandata. Corro allora subito al telefono. Il brigadiere va in caserma: si fa vivacissima discussione col tenente Nardi ma i patrioti assediano ormai la piazza, la caserma, ogni contrada. Sono già qui Fietta, Paderno, Sant'Eulalia, Borso, Semonzo, tutti armati di moschetto, mitra, bombe ecc. La resa diviene totale. Padroni ormai dell'ambiente, arrestano tutti i militi più per precauzione e i pochi iscritti al partito fascista dopo l'8 settembre 1943. Nella notte pattuglie di giovanotti fanno da sentinella. Così trascorse il sessantaseiesimo mio natalizio. 27 aprile 1945: venerdì A ovest di Crespano spunta una colonna di automezzi tedesca: nasce uno scontro pericolosissimo con i patrioti che disarmano alcuni nemici. Gli altri sparano. I nostri fuggono. Entrano gli assaliti nelle case, prendono 15 persone come ostaggi le mettono sul parafango e non smettono di sparare per avere via libera. Sono le 8 e dalla chiesa sta per uscire un funerale; in piazza, sei sette e più soldati tedeschi sparano. Fischiano le palle ovunque e rientrano le persone che portavano la bara con il cappellano dell'ospedale. Tutti chiudono le porte e le finestre. Viene lanciata una bomba dal signor Ellero, sfollato di Padova, nella sala da pranzo letteralmente distrutta. Piove. Passa la colonna di soldati, auto, cavalli ecc. Crespano sembra un cimitero. Il signor maggiore, perfetto gentiluomo austriaco e ottimo cristiano, direttore dell'ospedale tedesco in collegio femminile: vuole osservati i diritti di zona ospitaliera. Nelle strade che arrivano da Bassano a San Zenone mette soldati della Croce Rossa che avvertono i loro compagni in fuga di passare tranquillamente per Crespano, senza paura di venire assaliti. Fu quest'ordine la nostra salvezza. Passano colonne e colonne di soldati, cavalli di eccezionale bellezza, fieri anche sotto la pioggia; verso sera corre voce che sono alla Gherla 150 della S.S. tedesca. Lo spavento, anzi il terrore, 57 assale tutti, e verso le 19 si sente una mitraglia che spara a tratti. Poi l'esplosione di grandi bombe che assordano. Un carro mitragliatore sosta in piazza e spara, Da una finestra semichiusa vediamo passare quasi 40 autoambulanze di feriti che sono trasportati nel collegio femminile e 60 in questo ospedale. Si dice fossero più di mille. Non ho poi ricordato che alle 4 pomeridiane si era sparsa la voce che la Germania aveva domandato la pace. Al molto reverendo don Zago e don Roncaglia che mi recarono tale notizia, risposi che era un nuovo 8 settembre badogliano; ma, siccome il comandante la piazza confermava la notizia, permisi il suono delle campane che dopo mezz'ora feci sospendere, perché non mi risultò vera la voce sparsa. 28 aprile: sabato Durante la notte continuo passaggio di automezzi, carri armati; così al mattino verso mezzogiorno veniamo invitati a tapparci in casa. E' prossimo l'arrivo di altri 100 militi della S.S. tedesca, armati fino ai denti che vogliono mettere a ferro e fuoco il paese. Il maggiore dell'ospedale tenta di persuaderli alla calma; piazzano quattro mitragliatrici pesanti verso il collegio. Corrono a cercare i patrioti che per i fitti avvenuti stavano rincasati. Scende la notte; da lontano tuona il cannone e ci raccomandiamo, come ogni sera, l'anima a Dio. Intanto 6 feriti tedeschi sono morti nel collegio; un buon cattolico, nell'ospedale, baciando il crocifisso. 29 aprile: domenica Verso le 5.45 la chiesa è quasi deserta. Alle 6.15 celebro la santa messa, raccomando di tornare e di rimanere tutti in casa recitando il santo rosario. Così alla messa delle 9 e delle 11. Fin dal mattino vi è un continuo passaggio di colonne. Gruppi isolati in parte disarmati camminano alla rinfusa, stanchi e finalmente noti più fieri. Verso mezzogiorno caccia -mitragliatori girano dovunque, il cannone spara dalle parti di Bassano, Rosà e Rossano: si dice che sono presi di mira i patrioti di colà. Da ieri siamo tagliati fuori dal mondo. Manca la forza elettrica. Tace la radio, il telefono. Parla solo il cannone e la mitraglia, ma parla anche il popolo nostro col linguaggio della preghiera e della pietà. Durante la notte più di 900 feriti vengono trasportati a Feltre. La S.S. pure è partita. Fanno servizio le autoambulanze della Croce Rossa. Con una auto è qui trasportato Dei Rossi Vittorio, patriota, ferito da mitra nel basso ventre a Fellette. Ricevette l'olio santo a Mussolente, e qui don Benvegnù gli amministrò il santo viatico. Verrà operato dal bravo ed infaticabile nostro medico dottor Mantovani Orsetti. L'ospedale è un vero porto di mare. Apre le sue porte a tutti i feriti, vero Hotel de Dieu, che non conosce partiti, nazionalità, delinquenti, assassini, ma tutti accoglie con paterna soavità e premura. Un ferito della vicina Borso racconta che in uno scontro i patrioti di colà piangono due morti ed altri feriti non gravemente. 30 aprile: lunedì Verso le 12 di ieri sera il cannone ha rallentato i suoi boati, così vicini e strazianti. Comparisce Pippo dopo tante sere di consolante assenza, ed il suo rumore che si perde lontano, ci invita al riposo. Sono le 7 antimeridiane. Il segretario comunale mi viene ad avvertire che sono arrivati circa tremila tedeschi, laceri, sfiniti che domandano da mangiare e da riposare, e partiranno stasera. Mi assicura che sono disarmati in buona parte. Mi meraviglia e mi addolora la notizia perché era in me entrata la dolce speranza che la prova fosse finita. Assicuro il messaggero che dopo celebrata la messa mi interesserò volentieri e mi permetto di dirgli: "Ma perché si fermano qui se io so che gli inglesi sono già a Romano?" Riportò questa mia notizia al comandante tedesco che, accertatosi che era il pastore che l'avea pronunciata, ordinò a tutti di fuggire. La maggioranza sale il Grappa con 10 ostaggi in testa, abbandonando biciclette, qualche carretta e viveri rubati nel negozio di Morosin Aurora e in alcune case della contrada Gherla. Arrivati 58 sulla cima gli ostaggi vennero rilasciati, ma due cari e buoni giovani della vicina Fietta, violentate guide di altri soldati fuggiaschi, mentre tentavano la fuga, vennero freddati da una scarica di mitra. Sono Basso Onorio, fratello di Beato, ex cameriere di monsignor vescovo ed un certo Fornasier Silvio. Però circa 200 dei tremila, preferirono scendere in pianura verso San Zenone, entrando nelle case in via Perli che segna il confine di questa parrocchia. Il comando locale dei patrioti ne manda 20 di questi ad inseguirli. Si comincia la lotta: mitragliatrici da una parte e dall'altra; rimane ferito un mio cantore, Torresan Antonio, che verso mezzogiorno viene medicato per una ferita al piede destro. Colpiti invece nella testa, restano fulminati due miei cari giovani: Panizzon Agostino e Minore Pasqualino e un certo Follador da Fietta. I compagni di questi diventano pericolosi: sparano all'impazzata, però rispettano le persone. 1° maggio 1945: martedì Continua il rastrellamento degli iscritti dopo l'8 settembre 1943 al Partito Fascista Repubblicano e si inizia la tosatura delle signorine che amarono la compagnia dei militi della Brigata Nera, tra lo schiamazzo dei curiosi e i fischi generali. Verso le 17 arrivano un croato ed un americano. Vogliono ammazzare subito e in piazza, 5 tedeschi e 5 fascisti. Il commissario del comune, signor ingegnere Antonio Zardo, si oppone, spalleggiato dall'arciprete e i due se ne partono. 2 maggio: mercoledì Molti si portano nella camera mortuaria a visitare le salme dei due patrioti. Nessun incidente notevole. Si piange, si medita e si prega. 3 maggio: giovedì Alle ore 10 funerale delle due vittime. Rimasero a casa solo i vecchi impotenti e le donne di cucina. Riuscì molto devoto e di eccezionale imponenza. Prima delle esequie l'arciprete tenne il discorso. Alle 14, ben legati in camion, vengono trasportati a Castelfranco circa 36 persone fra militi e iscritti al Partito Fascista Repubblicano. 4, 5, 6 maggio 1945: venerdì, sabato, domenica. Tutti e tutto tranquillo. Chiudiamo questo stelloncino di cronaca rivolgendo il nostro pensiero riconoscente alla Madonna che con tanta fede abbiamo invocato e che in devoto pellegrinaggio andremo a ringraziare domenica 13 maggio anche per ricordare il 13 maggio 1917 che comparve a Fatima e il 13 maggio 1944 che comparve a Bonate di Bergamo. Ci continui la mamma celeste nella sua materna protezione, sempre. E, se ora ci ha salvati dagli orrori della guerra, tutti ci salvi da quelli dell'inferno. 17 gennaio 1946 don Ferdinando Galzignan v. GIOS Pierantonio, La “cronaca parrocchiale” di don Ferdinando Galzignan Crespano del Grappa 1940-45, ed-. Comune di Crespano del Grappa e Parrocchia dei SS. Marco e Pancrazio, ISTRESCO 2001 pp. 35-53 59 60