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La mediazione e la provvigione del mediatore

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La mediazione e la provvigione del mediatore
La mediazione e la provvigione del mediatore
Articolo di Giovanni Stefano Avon 26.01.2011
Sommario: 1) Per aversi mediazione non è necessario un incarico: basta
non rifiutare l’attività del mediatore da cui deriva la conclusione dell’affare. 2) Il nesso di causalità tra
la conclusione dell’affare e l’attività del mediatore. 3) L’interruzione del nesso di causalità: a) le
trattative interrotte e poi riprese; b) la differenza di prezzo; c) la segnalazione dell’affare; d) la submediazione; e) la consapevolezza dell’opera di mediazione; f) l’identità dell’affare: il leasing finanziario;
g) la vendita dell’immobile attuata tramite cessione delle quote sociali. 4) Il preliminare di preliminare,
la puntuazione (o minuta), il contratto di opzione e la conclusione dell’affare.
1. Per aversi mediazione non è necessario un incarico: basta non rifiutare l’attività del mediatore da cui
deriva la conclusione dell’affare
Nonostante il suo inserimento nel titolo dedicato ai singoli contratti, la mediazione sarebbe, secondo
alcuni, una fattispecie non contrattuale, giacché il rapporto di mediazione è il prodotto della messa in
relazione di soggetti per opera del mediatore, a prescindere da un eventuale accordo intercorso tra
essi, per cui l’attività del mediatore risulta libera e volontaria[1].
Secondo tale interpretazione è perciò sufficiente che vi sia la mera attività non negoziale, corredata
dai caratteri tipici individuati dalla legge, affinché si producano gli effetti della mediazione, per cui non
è necessaria la manifestazione di un intento negoziale che pur può verificarsi.
In altri termini, secondo la tesi acontrattualistica della mediazione, tra l’opera del mediatore e la
conclusione dell’affare è necessario che vi sia un nesso di causalità, indipendentemente dal fatto che
entrambe le parti abbiano inteso valersi dell’opera del mediatore, a nulla rilevando la consapevolezza, o
no, in capo alle parti di servirsi della collaborazione del terzo[2].
Per i contrattualisti, invece, non potrà mai esservi mediazione qualora gli interessati non siano stati
messi nella condizione di conoscere l’attività del mediatore e, quindi, di valutare l’opportunità, in termini
di efficienza economica, di avvalersi del suo operato[3].
Nondimeno, anche l’idea della mediazione di natura non negoziale ammette l’eventualità che, nella
pratica, si possa configurare un modello contrattuale: in altre parole, la mediazione può anche nascere
da un incarico, ma non necessariamente ne presuppone l’esistenza[4].
La più recente giurisprudenza pare invero attestarsi su tali posizioni: si sostiene cioè la natura
ambivalente della mediazione, nella sua duplice configurazione, tipica e atipica[5].
Si ammette cioè che, in base al principio dell’autonomia negoziale, accanto alla mediazione ordinaria o
tipica, prevista dall’art. 1754 c.c., le parti possano dar luogo a una mediazione negoziale definita
«atipica», fondata su un contratto a prestazioni corrispettive, la quale ricorre quando tutte o anche
soltanto una delle parti interessate, volendo concludere un affare, incaricano altri di svolgere
un’attività finalizzata alla ricerca di un soggetto disponibile alla conclusione del medesimo affare, a
condizioni predeterminate.
La mediazione atipica è qualificabile come contratto misto nel quale, a fianco degli elementi della
mediazione, si collocano elementi tipici del mandato; anzi, per la Cassazione gli artt. 1756 e 1761 c.c.
legittimano la possibile conformazione di un vero e proprio rapporto di mandato ex art. 1703 c.c..
Quanto alla mediazione ordinaria (o tipica), si afferma in ogni caso che, in base all’art. 1754 c.c.:
a) essa prescinde da un sottostante obbligo a carico del mediatore stesso di attivarsi per la conclusione
dell’affare, in quanto viene svolta in difetto di un apposito titolo giuridico, atteso che per aversi
mediazione non è necessario un incarico;
b) la «messa in relazione» delle parti ai fini della conclusione di un affare è perciò qualificabile come
attività giuridica in senso stretto[6];
c) tale attività viene individuata come fonte del rapporto obbligatorio in base all’ultima parte dell’art.
1173 c.c.: l’obbligazione deriverebbe cioè da attività riconducibile alla locuzione «ogni altro fatto
idoneo» a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico[7].
Si ritengono rapporti di tipo contrattuale quelli tutelati dalla responsabilità sancita dagli artt. 1218 ss.
c.c. e più comunemente tutti quei rapporti patrimoniali che non sorgono da fatto illecito, bensì dalle
altre fonti indicate nell’art. 1173 c.c.: si parla così di «rapporti contrattuali di fatto» quando un
rapporto nasce da una fattispecie legale diversa dal contratto, vale a dire da un fatto[8].
Questa condicio facti è conosciuta con il nome di «contatto sociale»: ciò avviene allorché, secondo la
previsione legale, i rapporti sono di matrice contrattuale, ma nella realtà effettiva essi si formano
senza alcuna base negoziale.
L’ipotesi è quella di una parte che esegue una prestazione a favore di un destinatario con cui entra in
contatto, senza esserne obbligata: ciò che differenzia questa fattispecie da quella contenuta nell’art.
1327 c.c. è, appunto, la mancanza di una espressa proposta.
Se un rapporto sociale di mero fatto coinvolge un interesse di particolare valore[9], che non trova
adeguata tutela nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e comporta un’obbligazione atipica di
protezione a carico del soggetto che rispetto ad esso assume in concreto una funzione di garanzia e di
controllo, si parla allora di «contatto sociale qualificato», ossia di un rapporto reale tra due soggetti non legati da un contratto già stipulato – in forza del quale uno di essi è tenuto all’esecuzione, in favore
dell’altro, di prestazioni proprie di una relazione di tipo contrattuale.
Il rapporto sarebbe quindi di tipo obbligatorio ma privo di un obbligo primario di prestazione: il
soggetto non è obbligato ad effettuare la prestazione, ma se la inizia volontariamente risponde, in caso
di relative patologie, ai sensi dell’art. 1218 c.c. e non a titolo extracontrattuale.
Oggetto del rapporto obbligatorio è, quindi, la corretta esecuzione della prestazione inizialmente non
dovuta, e l’obbligo deriva dal generale dovere di rispetto dell’altrui sfera giuridica, cui si ricollegano
obblighi di comportamento di varia natura, diretti a salvaguardare la tutela di interessi manifestati o
esposti a pericolo in occasione del contatto sociale[10].
L’aver ricondotto la natura della mediazione ad un rapporto fattuale da “contatto sociale” consente di
trarre importanti considerazioni sotto l’aspetto del regime di responsabilità dell’intermediario: per la
Suprema Corte, ad esempio, essendo questi una figura professionale[11], la sua responsabilità andrebbe
inquadrata, anziché sub specie aquiliana, nell’ambito di quella già tracciata dalla giurisprudenza con
specifico riferimento alla figura del medico ed alle sue prestazioni prescindenti da un rapporto
contrattuale[12], denominata appunto “da contatto sociale”; ciò in quanto “tale situazione è
riscontrabile nei confronti dell’operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali ed
abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista l’iscrizione ad un apposito ruolo, ed a favore di
quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche (si
pensi, ad esempio, alle c.d. agenzie immobiliari dalle particolari connotazioni professionali ed
imprenditoriali)” [13].
Per i “contrattualisti”, del resto, è sempre stato pacifico che l’incarico potesse esplicarsi in un atto
comunicativo espresso per facta concludentia, vale a dire nella semplice utilizzazione consapevole
dell’attività del mediatore; in altre parole, c’è incarico anche quando si dimostri semplicemente che le
parti hanno avuto consapevolezza dell’intermediazione, valorizzandola come tale.
Per costoro dunque, il consenso necessario per ritenere concluso il contratto di mediazione, ove non sia
frutto di uno specifico incarico conferito al mediatore, può essere manifestato validamente anche in
modo «tacito», come quando la parte si avvalga consapevolmente dell’opera del mediatore[14], e la
consapevole utilizzazione, da parte degli interessati, dell’attività del mediatore equivarrebbe ad un
contegno il cui significato sociale è, indipendentemente dalla effettiva volontà (interiore) delle parti,
quello di un atto decisionale espressivo della volontà di conferire un incarico mediatorio.
Sicché, nel caso specifico in cui una parte usufruisca di una prestazione altrui, sarà comunque sempre
necessario valutare se quel contegno è socialmente valutato come accettazione della prestazione.
Il «contratto di fatto» concluso mediante un contatto sociale, costituirebbe allora pur sempre un
contratto per il quale è pur sempre necessario un consenso, anche se funzionalmente qualificato: «si
tratta di un consenso alla (propria o altrui) prestazione, e non del consenso (negoziale) alla nascita della
propria obbligazione[15]», sicché, per l’insorgere del diritto alla provvigione, non è necessario il
preventivo conferimento dell’incarico ma «la mera circostanza della valorizzazione consapevole
dell’opera» del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare[16].
Si può pertanto affermare che il diritto alla provvigione si basa sulla sussistenza dei seguenti
presupposti: la conclusione dell’affare ed il nesso di causalità tra l’attività del mediatore e l’affare
concluso[17]; non è pertanto necessaria la presenza di un incarico, ma è sufficiente che l’opera del
mediatore non venga rifiutata dal soggetto intermediato.
Con la mediazione, infatti, la legge riconosce ad un operatore professionale che svolge un’attività con la
quale mette in contatto due o più parti che concludono un affare, il diritto ad un compenso che, gli usi,
quantificano in una percentuale sul valore dell’operazione.
Non rispondendo il contratto di mediazione allo schema consensualistico e bilaterale degli altri tipi
(come emerge peraltro dalla stessa analisi strutturale dell’art. 1754 c.c.) è la sua attuazione a produrre
l’effetto di vincolare tanto il mediatore quanto il destinatario; quest’ultimo, tuttavia, ha sempre la
possibilità di paralizzare gli effetti dell’esecuzione esprimendo il proprio dissenso all’attività svolta dal
mediatore, prima del prodursi del risultato (salvo, naturalmente, nel caso in cui, all'atto della
convenzione negoziale, sia stato concertato l'obbligo di corresponsione della provvigione, da parte del
cliente, indipendentemente dalla conclusione dell'affare e per effetto della semplice acquisizione, da
parte del mediatore, di un'offerta omogenea a quella indicatagli).
Caratteristica del rapporto di mediazione è infatti la facoltà di recesso senza alcuna responsabilità,
che la dottrina e la giurisprudenza unanimemente riconoscono alle parti[18].
Pertanto si può ben affermare che «nella mediazione, l’attuazione equipara il silenzio delle parti a
consenso; oppure, che l’attuazione conclude un contratto non consensuale, purché non intervenga una
previa rinunzia (da parte del mediatore) o una prohibitio (da parte del cliente)[19]».
2. Il nesso di causalità tra la conclusione dell’affare e l’attività del mediatore
Non qualsiasi attività di mediazione dà diritto alla provvigione, ma solo quella legata da un nesso di
causalità alla conclusione dell’affare.
E’ questo un principio assodato nella giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, la quale precisa
altresì che è onere del mediatore che fa valere il diritto alla provvigione di provare sia di aver posto i
contraenti in contatto tra loro, sia che in seguito a questo contatto ed eventualmente all'ulteriore
opera di mediazione da lui svolta, è stata possibile la conclusione dell'affare[20].
Invero non è necessario che il ruolo sia esclusivo, niente impedendo che abbia più modesta portata e
cioè che l'attività del mediatore si inserisca come semplice concausa nel processo formativo dell'affare
medesimo[21].
Il riconoscimento del contributo causale minimo si fonda sull’art. 1755 c.c. che pone come requisito
necessario affinché si maturi il diritto alla provvigione che il contratto si sia concluso «per effetto
dell’intervento del mediatore».
Detta attività può intervenire inoltre in qualsiasi momento, all'inizio segnalando l'affare - sempre che la
segnalazione costituisca il risultato utile di una ricerca fatta dal mediatore - oppure nel corso delle
trattative, senza che sia quindi necessario che si protragga dall'inizio fino alla conclusione dell'affare,
essendo infatti orientamento pacifico quello secondo cui è mediatore chi mette in relazione le parti
interessate ad un affare, se questo è poi concluso, indipendentemente dalla partecipazione attiva del
mediatore a tutte le fasi successive alla messa in contatto dei soggetti.
In altri termini, il mediatore ha diritto alla provvigione se la conclusione dell'affare si trova in diretto
rapporto causale con la sua attività ed un tale rapporto ricorre anche quando il mediatore si limiti a
porre in relazione le parti, purché tanto rappresenti l'antecedente necessario per pervenire alla
conclusione dell'affare, sia pure attraverso fasi e vicende successive[22].
Quello che è indispensabile è che, in qualsiasi momento intervenga o con qualsiasi altro fattore causale
concorra, l'attività del mediatore costituisca un antecedente necessario della conclusione
dell'affare[23].
Pertanto se il mediatore vi ha messo lo “zampino”, per quando piccolo sia stato il suo contributo causale,
se comunque si può sostenere che senza l’attività di messa in relazione svolta dal mediatore l’affare non
si sarebbe realizzato, il diritto alla provvigione può dirsi sorto[24].
Al fine di stabilire se tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare sussista il nesso causale
richiesto perché sorga il diritto alla provvigione, la giurisprudenza ritiene che occorra aver riguardo al
principio della causalità adeguata o efficiente, in base al quale la conclusione dell’affare deve costituire
l’effetto dell’intervento del mediatore, il che si verifica quando l’attività da questi svolta rientra nella
serie di fattori ai quali sia ricollegabile la positiva conclusione delle trattative[25].
La valutazione circa la sussistenza del nesso di causalità, in quanto accertamento di fatto, è rimessa poi
all'apprezzamento del giudice di merito ed è insindacabile in Cassazione, se adeguatamente
motivata[26].
Ne consegue che non dà diritto a provvigione l'attività di mediazione che, secondo l'apprezzamento del
giudice, non svolga alcun ruolo causale, neppure ridotto.
3. L’interruzione del nesso di causalità
a) le trattative interrotte e poi riprese
In base al principio suddetto si è escluso, ad esempio, il diritto alla provvigione - ritenendo inesistente
il nesso causale tra l'attività di mediazione dell'agenzia e la vendita - in un caso in cui la ripresa delle
trattative era intervenuta successivamente, per effetto di iniziative nuove, in nessun modo ricollegabili
con le precedenti o da queste condizionate[27] (nella fattispecie erano trascorsi più di due anni da
quando, cadute le trattative intavolate con la mediazione dell'agenzia, ne furono intavolate altre su
segnalazione di altro soggetto, le quali andarono a buon fine anche perché erano variate le condizioni
dell'affare, ossia il prezzo e lo stato dell'immobile, né l’agenzia aveva provato che chi, a suo tempo, le
aveva conferito l'incarico di trovare un acquirente, avesse effettivamente agito in rappresentanza del
figlio il quale, a sua volta, due anni dopo aveva effettivamente concluso l’affare).
Va detto, comunque, che non esiste una linea netta di demarcazione tra trattative interrotte e poi
riprese per effetto di iniziative nuove, non ricollegabili alle precedenti: spesso dipende molto dalla
sensibilità del giudice (e dall’abilità dell’avvocato) dimostrare che si è in presenza di una nuova ed
indipendente operazione di mediazione oppure che la successiva messa in relazione tra le parti non è
altro che il completamento di un lavoro di intermediazione già realizzato (con la conseguenza che
ciascun mediatore avrà diritto a una quota della provvigione, come previsto dall’art. 1758 c.c.)[28].
In linea generale si è affermato che non costituiscono circostanze di per sé idonee ad interrompere il
nesso di causalità né il fatto che la conclusione dell'affare sia avvenuta dopo la scadenza
dell'incarico[29], né l'intervallo di tempo tra la conclusione del contratto e le prime trattative, né il
successivo interessamento anche di altri soggetti[30]; e nemmeno il fatto che «le parti sostituiscano
altri a sé nella stipulazione conclusiva, sempre che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle
trattative e quello che ne prende il posto in sede di stipulazione negoziale e sempre che la conclusione
dell'affare sia collegabile al contatto determinato tra le parti originarie[31]».
b) la differenza di prezzo
A., futuro compratore, conosce B., futuro venditore, ma non gli si rivolge direttamente.
Affida la sua proposta ai Mediatori e chiede di trasmetterla a B..
B., cui i Mediatori si presentano come latori di quella specifica offerta, non rifiuta l'intermediazione
dei Mediatori, ma si dice interessato alla vendita solo per un prezzo maggiore.
Dunque, è l'intervento dei Mediatori presso il B. come latore dell'offerta di A. a realizzare la messa in
contatto dei due in rapporto all'affare.
L'affare in seguito si concluderà, ad un prezzo diverso.
Secondo la Cassazione è illogico negare che non abbia assunto ruolo causale la presentazione di quella
proposta e non l'abbia assunto perché le parti, che già si conoscevano tra loro, hanno ancora potuto
incontrarsi sul tema: quella conoscenza, infatti, non era stata prima sufficiente a stabilire un contatto
tra le parti del futuro affare.
Ciò significa, da un punto di vista logico, che è stata la presentazione, da parte dei Mediatori, di
un'offerta specifica che essi avevano consigliato a A. di fare, che ha consentito di stabilire il contatto,
che è poi evoluto verso la conclusione dell'affare.
Come già detto, per aversi mediazione non è necessario un incarico, essendo sufficiente che l'opera del
mediatore non sia rifiutata e questa opera consiste nel mettere in relazione due o più parti per la
conclusione di un affare; sicché, quando il mediatore allega che l'affare concluso è frutto del suo
intervento presso le parti, per negare che ne sia stata raggiunta la prova, non si deve dare rilievo ad
elementi di contorno afferenti ai comportamenti delle parti, ma al dato oggettivo costituito da ciò, che
l'affare concluso non si presenta riconducibile per le sue caratteristiche economiche a quello
originariamente intermediato[32].
A conclusione analoga la Corte è pervenuta anche nel caso in cui il mediatore ha riferito l'offerta e
dopo qualche mese l'affare si è concluso a prezzo ridotto[33].
c) la segnalazione dell’affare
Si è affermato che anche la semplice attività consistente nel reperimento e nell’indicazione dell’altro
contraente, o nella segnalazione dell’affare, legittima il diritto alla provvigione, a condizione però che
l’attività costituisca il risultato utile di una ricerca fatta dal mediatore e poi valorizzata dalle
parti[34].
Dunque la “segnalazione dell’affare” in sé e per sé considerata non appare sufficiente a far sorgere il
diritto alla provvigione se non è accompagnata da un’accertata effettiva rilevanza dell’opera del
mediatore ai fini della conclusione del contratto.
A fronte, ad esempio, di un intervento volto a segnalare semplicemente l’affare ad altra persona, che
poi personalmente provveda a procurare l’incontro tra i contraenti, si tende ad escludere il diritto alla
provvigione in base alla considerazione che «chi compie la segnalazione non provvede a procurare
l’avvicinamento dei futuri contraenti, sicché l’affare non è riconducibile alla notizia da lui fornita ma
all’attività di chi la utilizza procurando tale incontro, il che implica che l’opera di intermediazione è
svolta da quest’ultimo soggetto che ha diritto alla provvigione[35]».
d) la sub-mediazione
In ipotesi di cd. submediazione (che ricorre allorché il mediatore incaricato fa svolgere ad altri –
submediatore - in piena autonomia l’attività oggetto del suo incarico), si afferma invece l’interruzione
del nesso di causalità, nel senso che i rapporti vanno tenuti rigorosamente distinti: nessun diritto «può
essere ipotizzato tra il titolare del subdiritto e l’originario dante causa, restando interposta tra detti
soggetti la figura di colui che ha costituito il subdiritto, salva l’eccezionale facoltà (prevista in tema di
locazione ma estendibile a tutti i casi di subcontratto) attribuita al solo originario dante causa, di agire
per la tutela dei suoi diritti originari direttamente nei confronti del titolare del sub diritto – senza che
tuttavia quest’ultimo sia a sua volta legittimato ad agire nei confronti del primo dante causa anziché di
colui che gli ha trasmesso il subdiritto»[36]. Ciò significa che mentre alla parte che in origine ha dato
incarico al mediatore spetta - in applicazione analogica dell'art. 1595 c. c. - la facoltà di agire per la
tutela dei suoi diritti anche nei confronti del submediatore, l'obbligo invece di corrispondere a
quest’ultimo la provvigione resta a carico del solo mediatore che direttamente gli ha conferito
l'incarico (esulando tale fattispecie dall’ipotesi prevista dall’art. 1758 c.c. che riguarda il caso diverso
di più mediatori incaricati dalla medesima parte).
Pertanto, se da un lato il submediatore può chiedere il compenso non alle parti ma solamente al
mediatore da cui ha ricevuto l’incarico, d’altro canto egli continua ad essere tenuto nei confronti delle
parti anche alle obbligazioni di informazione, di comunicazione e di avviso derivanti dall'art. 1759 c.c.,
sempre che di tale norma sussistano le condizioni di applicabilità in relazione alle circostanze a lui note.
Va evidenziato, tuttavia, che tale argomentazione si basa sulla concezione “contrattualistica” della
mediazione che, per ovvie ragioni, rimarrebbe priva di senso ove si intendesse la mediazione non come
negozio giuridico, bensì come mera attività materiale del mediatore (la messa in relazione di due o più
parti) da cui la legge fa scaturire il suo diritto alla provvigione (a condizione della conclusione
dell’affare) nei confronti «di ciascuna delle parti» e solo «per effetto del suo intervento», “quale
appunto conseguenziale alla sua neutralità ed imparzialità nel metterle in relazione” [37].
In tal caso, infatti, se è effettivamente il sub-mediatore a mettere in contatto le parti, nel senso che è
a lui che si deve la «messa in relazione» delle medesime, significa che l’attività “giuridica in senso
stretto”, da cui la legge fa sorgere l’obbligo di pagare la provvigione per i soggetti che poi concludono
l’affare, è stata compiuta da lui e lui soltanto, mentre il primo mediatore incaricato altro non è che una
figura assimilabile a chi ha semplicemente segnalato l’affare.
e) la consapevolezza dell’opera di mediazione
Si è già detto che il diritto alla provvigione non sorge qualora le parti, pur avendo concluso l'affare
grazie all'attività del mediatore, non siano state in grado di conoscere ed abbiano ignorato
incolpevolmente l'opera di intermediazione svolta: si ritiene cioè che il requisito della riconoscibilità
dell’attività di mediazione svolta sia indispensabile non solo per il diritto alla provvigione, ma per
l’esistenza stessa del rapporto di mediazione[38].
f) l’identità dell’affare: il leasing finanziario
A norma dell'art. 1755 c.c., l'affare che costituisce il diritto alla provvigione del mediatore è quello che
dal mediatore è stato proposto alle parti sicché, nel caso che queste concludano successivamente un
affare diverso da quello originariamente proposto dal mediatore, viene meno ogni nesso di causalità tra
l'attività da quest'ultimo espletata e l'affare ed il conseguente obbligo delle parti di pagare la
provvigione[39].
L’affare deve consistere in un atto di volontà giuridicamente efficace a vincolare le parti, in altre
parole un accordo tra (almeno) due soggetti, idoneo ad abilitare ciascuna di esse ad agire per
l’esecuzione del contratto o, in difetto, per il risarcimento del danno come ad esempio la conclusione di
un contratto un preliminare[40].
Più specificamente, il termine «affare» è riferibile ad ogni operazione generatrice di obbligazioni e,
cioè, ad ogni rapporto giuridico che rivesta carattere vincolante e che riceva tutela dall’ordinamento
giuridico, il quale ne assicuri l’adempimento[41].
Insomma, anche se normalmente vi è coincidenza tra affare e contratto, tale coincidenza non deve
ritenersi essenziale: l’affare va cioè inteso non solo come conclusione di un unico contratto (anche se
normalmente è così che avviene) ma come qualsiasi operazione di natura economica che si risolva in
un’utilità patrimoniale che dia luogo a conseguenze giuridiche: «la locuzione "affare", impiegata dalla
norma, non serve a definire soltanto le operazioni di trasferimento di beni, ma include ogni operazione
di contenuto economico che si risolve in una utilità di natura patrimoniale[42]».
Tale conclusione ha consentito di ritenere giuridicamente possibile l’opera di un mediatore anche nella
stipulazione di una pluralità di contratti tra loro collegati e diretti a realizzare un unico interesse e
programma economico, restando in questo caso la mediazione unica, avendo ad oggetto pur sempre un
unico «affare» e rimanendo obbligati al pagamento della provvigione i soggetti che hanno partecipato
alla conclusione di detto affare[43].
Tuttavia, poiché il diritto alla provvigione da parte del mediatore consegue non alla conclusione del
negozio giuridico, ma dell’affare come sopra inteso, la condizione perché sorga il diritto alla provvigione
è l’identità dell’affare proposto con quello concluso, sicché, quando si debbono individuare i soggetti
tenuti al pagamento della provvigione è necessario sempre risalire allo strumento giuridico utilizzato
per il compimento dell'affare e guardare ai soggetti dell'atto giuridicamente rilevante nel quale è
contenuta l'operazione economica frutto della mediazione.
Tale distinzione tra parti in senso economico e parti in senso giuridico dell'affare ha, naturalmente, il
solo scopo di consentire l’identificazione dei soggetti tenuti al pagamento della provvigione.
Da quanto detto si ricava che non è sempre facile stabilire se sussista in concreto una identità tra
affare proposto e affare concluso.
La stessa giurisprudenza, in ordine al criterio da adottare per formulare il giudizio di identità, pare
oscillante, richiedendo a volte che la fattispecie oggetto del contratto intermediato venga attuata negli
stessi termini previsti e voluti dalle parti al momento del conferimento dell’incarico, altre volte
sostenendo che, più che alla struttura giuridico–formale dell’affare, si debba guardare all’attitudine di
questo a soddisfare l’interesse economico avuto di mira dalle parti[44].
Questa considerazione appare evidente soprattutto in relazione alle pronunce giurisprudenziali che si
sono occupate di trasferimenti immobiliari realizzati con l’intervento di un mediatore attraverso il
ricorso alla figura della locazione finanziaria (cd. leasing)[45].
Come è noto, questa figura contrattuale prevede la partecipazione di tre soggetti: il concedente
finanziatore (che esercita l’attività di leasing), il fornitore, e l’utilizzatore finale del bene. Quest’ultimo
(di solito un imprenditore), interessato all’utilità di un determinato bene, ma al contempo intenzionato a
non sostenere gli oneri economici e fiscali di un acquisto, si rivolge al concedente finanziatore
conferendogli l’incarico di finanziare e procedere all’acquisto da terzi di beni di qualsiasi specie, mobili
o immobili, per concederli in uso ad un soggetto (utilizzatore) per un periodo di tempo prefissato e
contro il pagamento di un canone periodico. Il concedente effettua quindi l’acquisto e, mantenendo la
titolarità del diritto di proprietà sul bene acquistato, ne cede il godimento all’utilizzatore in cambio di
un corrispettivo periodico prestabilito (c.d. locazione finanziaria). Alla scadenza del contratto
l’utilizzatore ha la facoltà di scegliere tra il riscatto del bene mediante il pagamento di un prezzo
finale, la proroga della locazione e la restituzione del bene al concedente finanziatore.
Può pertanto accadere che, dopo che il mediatore abbia messo in relazione due parti interessate
rispettivamente all’acquisto ed alla vendita di un immobile, l'immobile venga poi definitivamente
acquistato da un terzo soggetto che lo concede in leasing al soggetto originariamente interessato
all’acquisto, il quale ne risulta pertanto l'utilizzatore.
Ebbene, nei casi in cui le parti non concludano il contratto di vendita per il quale il mediatore le ha
messe in relazione, ma l’una alieni il bene al terzo e l’altra stipuli con l’acquirente convenzione di leasing,
la Suprema Corte, pur qualificando tale contratto come figura di collegamento negoziale, ha ritenuto
l’affare soggettivamente ed oggettivamente diverso, a nulla rilevando che la convenzione si atteggi
come operazione economica complessiva e svolga funzione traslativa subordinatamente all’esercizio del
riscatto: diversi sono i tipi contrattuali utilizzati, diverse sono le parti protagoniste del leasing e della
compravendita; per cui l’affare concluso risulta soggettivamente e oggettivamente diverso rispetto a
quello oggetto della mediazione, non andata a buon fine[46].
Altre volte, invece, richiamandosi al principio sopra esposto secondo cui la maturazione del diritto alla
provvigione non deriva tanto dalla conclusione del contratto, ma "dall'affare" (termine che comprende
qualsiasi operazione di contenuto economico che si risolva, a prescindere dalla forma negoziale
adoperata, in un'utilità di carattere patrimoniale in relazione all'obiettivo prefisso dalle parti) la
Cassazione ha affermato che: «la conclusione di una compravendita tramite locazione finanziaria può
considerarsi, in relazione agli obiettivi perseguiti dalle parti, affare identico alla compravendita stessa
ai fini della maturazione del diritto alla provvigione in capo al mediatore»[47].
Giova rilevare, peraltro, che da tempo la giurisprudenza ha assimilato alla vendita quantomeno la figura
del «leasing traslativo» (che ricorre allorquando il canone sia stato pattuito come corresponsione
anticipata di parte del prezzo di acquisto previsto alla scadenza del contratto e la concessione in
godimento assume funzione strumentale a detto acquisto, in modo che l’insieme dei canoni remunera
interamente il capitale impiegato e, alla scadenza del contratto, il prevedibile valore del bene
sopravanza in modo non indifferente il prezzo di opzione) al fine di differenziarne la disciplina della
risoluzione rispetto al «leasing di godimento» (pattuito, invece, con funzione di finanziamento rispetto
a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e a fronte di
canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni stessi).
E’ con riferimento alla prima figura che la Cassazione ha affermato che, in realtà «le parti intendono
realizzare un preminente e coessenziale effetto traslativo … al quale risulta applicabile in via analogica,
stante la omogeneità degli interessi tutelati, l'art. 1526 c.c…» mentre, al leasing di godimento, si dovrà
invece applicare la disciplina dei contratti ad esecuzione continuata o periodica dettata dall'art. 1458
c.c. (con particolare riferimento alla non ripetibilità dei canoni già versati)[48].
Ora, tenuto conto che il diritto alla provvigione matura per effetto della conclusione (non del contratto
ma) dell’affare, e che quest’ultimo comprende qualsiasi operazione di contenuto economico, appare
forse più corretto ritenere che anche la conclusione di una compravendita tramite locazione finanziaria
possa considerarsi, a seconda degli obiettivi perseguiti dalle parti, affare identico alla compravendita
stessa alla cui conclusione l’acquirente perviene tramite il finanziamento di un terzo[49].
Nessuna incertezza sembra sussistere invece nell’ipotesi del cd. sale and lease back.
Si è così negato il diritto alla provvigione, ritenendo non sussistente l’identità dell’affare concluso
rispetto a quello proposto, anche se i soggetti coinvolti sostanzialmente non erano mutati, in un caso in
cui il mediatore aveva appunto proposto alle parti un contratto di leasing back per la cessione di un
immobile; le parti non l’avevano accettata e, dopo qualche tempo, avevano concluso un semplice
contratto di vendita[50].
In effetti, il contratto di sale and lease back (in forza del quale un'impresa vende un bene strumentale
ad una società finanziaria, la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione
finanziaria alla stessa impresa venditrice, verso il pagamento di un canone e con possibilità di riacquisto
del bene al termine del contratto per un prezzo normalmente molto inferiore al suo valore), configura
un contratto d'impresa socialmente tipico[51], in quanto frequentemente applicato nella pratica degli
affari (poiché consente agli operatori economici di ottenere, con immediatezza, liquidità, mediante
l’alienazione di un bene strumentale - di norma funzionale a un determinato assetto produttivo e,
pertanto, non agevolmente collocabile sul mercato - conservandone l’uso con la facoltà di riacquistarne
la proprietà al termine del rapporto).
Esattamente il contrario avviene invece nel leasing finanziario, là dove il finanziamento è solo indiretto
e, soprattutto, l’imprenditore ha interesse ad acquisire il bene produttivo e non già il denaro: si deve
pertanto riconoscere che tale contratto si differenzia dalla compravendita, trattandosi, in effetti, di
affare certamente diverso.
g) la vendita dell’immobile attuata tramite cessione delle quote sociali
Può poi capitare che il mediatore proponga l’acquisto di un immobile appartenente ad una società ma gli
acquirenti, anziché l’immobile, comprano le azioni della società proprietaria.
Anche in tale ipotesi, caratterizzata da una differenza formale tra l’affare intermediato e quello
concluso, vi è incertezza nella giurisprudenza.
Secondo un primo orientamento, il mediatore incaricato di procurare la vendita di un immobile ha
diritto al compenso anche se l’affare venga concluso, con l’acquirente da lui procurato, anziché mediante
una compravendita, tramite la cessione delle azioni[52] o delle quote[53] della società venditrice,
argomentando che l’acquisto dell’immobile è «indirettamente» avvenuto.
Altra giurisprudenza ha invece negato che il mediatore abbia in tal caso diritto alla provvigione: nella
fattispecie chi voleva vendere un immobile tramite l’agente immobiliare era una S.r.l., mentre la
cessione delle quote è stata attuata dai tre soci e per questo tipo di operazione è stata negata la
provvigione; si è precisato, infatti, che l’affare concluso (cessione delle quote) è una figura giuridica
completamente diversa dalla compravendita, anche se nelle quote è compreso l’immobile che,
conseguentemente, viene alienato assieme alle quote e, quindi, viene meno il nesso di causalità tra
l’attività del professionista e la conclusione dell’affare stesso; in ogni caso, afferma ancora la Suprema
Corte, anche a voler ammettere che possa esservi sostanziale identità dal punto di vista del risultato
economico complessivo tra l'affare concluso e quello progettato, resta pur sempre il fatto che vi è
totale diversità del soggetto venditore (i tre soci) rispetto a quello con cui interviene il rapporto di
mediazione originario (la S.r.l.) [54].
Anche in una fattispecie costituita dalla pretesa di provvigione nei confronti di un soggetto sul
presupposto che la mediazione era consistita nell'averlo messo in contatto con altre persone per
consentirgli l'alienazione del 20% del pacchetto azionario di una società da lui detenuto, si è ritenuto
che nell'affare costituito dall'acquisizione, mediante intermediazione, di azioni o di partecipazioni
societarie attraverso il trasferimento di pacchetti azionari, i vari soggetti che cedono o acquistano
azioni o pacchetti azionari di riferimento sono soltanto le società coinvolte nell'operazione, e non anche
i singoli soci: legittimati passivi della richiesta di pagamento della provvigione non sono pertanto i soci
preesistenti, ma la società stessa ed i nuovi soci, essendo questi i soggetti che hanno partecipato
all'atto giuridicamente rilevante nel quale è contenuta l'operazione economica frutto della mediazione:
solo questi ultimi sono i soggetti che l'affare dichiarato come "intermediato" coinvolge: ne restano
estranei, sia dal punto di vista formale sia da quello sostanziale, i singoli soci alienanti[55].
4. Il preliminare di preliminare, la puntuazione (o minuta), il contratto di opzione e la conclusione
dell’affare
Si è già detto che la nozione di affare - ai fini dell’insorgenza del diritto alla provvigione in capo al
mediatore - va intesa in senso ampio, intendendosi per tale qualsiasi operazione che comporti un'utilità
economica.
Si tratta quindi – giova ripetere - di una nozione di contenuto più ampio rispetto a quella di contratto e,
come tale, riferibile non solamente al momento conclusivo di un contratto vero e proprio, essendo
sufficiente «… il compimento di un’operazione di natura economica generatrice di un rapporto
obbligatorio tra le parti, di un atto cioè in virtù del quale sia costituito un vincolo che dia diritto di
agire per l’adempimento dei patti stipulati o, in difetto, per il risarcimento del danno»[56], tanto che è
orientamento giurisprudenziale indiscusso quello secondo cui anche la conclusione di un contratto
preliminare può essere ritenuto un affare compiuto, restando ininfluente la circostanza che al
preliminare non segua, poi, la stipula del contratto definitivo[57].
E’ noto, tuttavia, che nel settore della contrattazione immobiliare assistita da un mediatore, la dinamica
di formazione del consenso traslativo appare tipicamente frammentata e cadenzata in una serie di atti
prodromici rispetto al contratto definitivo.
In particolare, si è nel tempo consolidata la prassi secondo cui quando il mediatore trova un interessato
all’acquisto di un immobile fa sottoscrivere al medesimo una proposta di acquisto (di norma irrevocabile
per un certo tempo) contenuta in un modulo prestampato e predisposto dall’agenzia enunciante i termini
essenziali dello scambio. In tale fase l’agente immobiliare può raccogliere anche varie proposte
d’acquisto, a condizioni diverse (essenzialmente di prezzo offerto), ma tutte di regola accompagnate
dal versamento di una somma di danaro a mani del mediatore, vincolata a nome del potenziale venditore,
nella maggior parte dei casi mediante assegno non trasferibile intestato al medesimo. Il mediatore
quindi sottopone al proprietario dell’immobile le varie proposte a lui indirizzate, affinché possa o meno
procedere ad accettare la piú vantaggiosa. Al momento dell’accettazione, il mediatore trasmette al
promittente venditore l’assegno o comunque la somma ricevuta. Nel contratto così formato viene inoltre
generalmente previsto l’obbligo delle parti di concludere, entro un certo termine, un contratto
preliminare di compravendita (era frequente un tempo anche la previsione di una penale da pagare nel
caso in cui una delle parti si fosse pentita e avesse rifiutato di concluderlo) al quale, solo in una terza
fase, segue la compravendita definitiva.
Si perfeziona così un’intesa che da molti viene chiamata, «preliminare di preliminare» o «preliminare
aperto[58]».
E’ evidente che questa macchinosa tripartizione del procedimento di formazione del contratto è opera
non già di una precisa volontà delle parti, ma piuttosto di quella dell’intermediario il quale, per garantirsi
il compenso, cerca di allontanare il più possibile la presa di contatto diretta tra le parti medesime,
facilitandosi così la prova, non sempre agevole, che l’affare si è poi concluso per effetto della sua
determinante attività.
Come è stato acutamente osservato, infatti: «… nonostante sia evidente che sostanzialmente è il
venditore che offre il bene in vendita, incaricando il mediatore di trovare un acquirente per un prezzo
sommariamente indicato nella fase di conferimento dell’incarico, formalmente l’atto di avvio dell’iter
negoziale è costituito da un documento nel quale proponente appare invece la parte che desidera
acquistare il bene. Per iscritto quindi si ribalta la sostanza dell’effettivo percorso che conduce al
contratto: il soggetto che vuole comprare appare come proponente e il venditore appare come oblato,
ma in realtà è lui ad aver per primo deciso di procedere alla compravendita. Sembra che tale prassi
possa essere utile al venditore che è così in grado di valutare eventuali altre offerte di acquisto, ma
anche al mediatore che può in tal modo avere maggior controllo della situazione afferente alla
conclusione dell’affare in virtù della sua opera e quindi al suo diritto di percepire la provvigione,
generalmente rapportata, in misura percentuale, al prezzo di acquisto del bene. Per altro … operando in
questa maniera, il mediatore potrebbe lasciare trascorrere un lasso di tempo prima di comunicare
l’accettazione del venditore, in modo da attivarsi per raggiungere "offerte" più vantaggiose: così,
infatti, sarebbe possibile preferire una successiva "proposta di acquisto" per un prezzo più alto, salva
la semplice restituzione dell’eventuale somma data dal precedente "proponente acquirente" …, senza
alcun obbligo di restituire il doppio della stessa in quanto non si è mai concluso il contratto cui essa
accede e non può quindi configurarsi un inadempimento della parte venditrice per gli effetti di cui
all’art. 1386 c.c.[59]».
Va poi precisato che, per aversi un impegno vincolante, non è sufficiente che la proposta e
l’accettazione rimangano nelle mani del mediatore. Si afferma infatti che, trattandosi di atti traslativi
relativi a beni immobili, la proposta e l'accettazione, per pervenire ad un risultato contrattuale
perfetto, non solo debbono essere sottoscritti dai contraenti ma quegli atti, in ragione della loro natura
recettizia, debbono essere diretti all'altra parte e da questa ricevuti, mentre la proposta rilasciata
nelle mani del mediatore non ha un inequivoco significato di impegno vincolante espresso alla
controparte; essi infatti hanno generalmente mera funzione di manifestazione di impegno verso il
mediatore (a garanzia del quale vengono rilasciati) di serietà della volontà di trattare per concludere
l'affare; sicché in mancanza della prova della ricezione, da parte degli ipotetici destinatari, dei
documenti contenenti rispettivamente la proposta e l'accettazione non può predicarsi l'esistenza di un
accordo negoziale di carattere vincolante per entrambe le parti[60].
In genere, comunque, è quando l’intermediario viene incaricato da una parte (nella specie il venditore) di
reperire un acquirente che si assiste alla fattispecie del cd. preliminare di preliminare, ovverosia
allorché il mediatore professionale agisce nell’ambito di un vero e proprio mandato, con la conseguenza
che tutta la sua attività perde i connotati di neutralità ed imparzialità che caratterizzano invece la
mediazione tipica, tant’è che in tal caso la giurisprudenza afferma che il mediatore può pretendere la
provvigione dalla sola parte che gli ha conferito l'incarico, rispetto alla quale ha in ogni caso l'obbligo (e
non la facoltà) di attivarsi per la conclusione dell'affare, essendo contrattualmente vincolato
nell’espletamento dell’incarico (di fiducia o intuitus personae) e delle connesse prestazioni[61].
Quanto alla valenza di siffatto accordo, la dottrina maggioritaria[62] e la prevalente giurisprudenza di
merito[63], ai cui esiti si è recentemente allineata anche quella di legittimità[64], affermano il principio
secondo cui «qualora una parte formalizzi una proposta d'acquisto, successivamente accettata
dall'altra parte, contenente l'impegno a concludere un contratto preliminare che vincoli a stipulare
successivamente un contratto definitivo, l'accordo raggiunto in ordine al futuro contratto si configura
quale ''preliminare di preliminare'' - tecnicamente collocabile nella fase delle trattative, sia pure nello
stato avanzato della ''puntuazione'' - destinato a fissare il contenuto del successivo negozio ma privo
di effetti vincolanti per le parti».
Con il termine “minuta” o “puntuazione” infatti, dottrina e giurisprudenza identificano tradizionalmente
un semplice documento ricognitivo delle intese già raggiunte, che svolge la mera funzione di fissare per
iscritto lo stato delle trattative, utile come promemoria per il proseguimento delle negoziazioni; intese
dunque non vincolanti, da cui è possibile liberamente recedere, salvo il limite del rispetto del parametro
di buona fede ex art. 1337 c.c., la cui violazione fa sorgere, come è noto, una responsabilità
precontrattuale con il connesso obbligo risarcitorio.
Ne consegue che, laddove la parti si siano limitate a raggiungere un siffatto accordo di massima (si
pensi ad una dichiarazione di intenti) e si siano riservate di stipulare, successivamente, un vero e
proprio contratto, non si può affermare che l'affare sia stato concluso e, quindi, la provvigione non
spetta.
L’unica funzione di tale intesa sarebbe, infatti, solo quella di duplicare il momento obbligatorio, di
creare un bis in idem[65] senza che tra le due fasi anteriori al definitivo vi sia una differenziazione
percepibile, dando luogo «ad un’inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse
meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico[66]»; in altri termini, non vi sarebbe alcuna ragione
per complicare la formazione dell’accordo, ben potendo l’impegno essere assunto immediatamente: non
ha senso pratico promettere ora di promettere in seguito qualcosa, anziché prometterlo subito.
Pertanto, essendo l’obbligo ad obbligarsi privo di causa autonoma e quindi nullo, si nega al mediatore il
diritto di riscuotere la provvigione se alla proposta accettata non segua anche il preliminare formale o
cd. «chiuso».
Riconducendo allora l’accordo intervenuto tra le parti alla fase delle trattative, in caso di mancata
esecuzione dell’obbligo assunto si ribadisce la configurabilità tutt’al più di una responsabilità
precontrattuale, con l’ulteriore conseguenza che anche l’eventuale domanda volta ad ottenere la
condanna dell’aspirante acquirente al pagamento della somma offerta – ma non ancora versata - a titolo
di caparra nella proposta di acquisto, va rigettata[67] (ciò per un triplice ordine di motivi: a) la nullità,
per mancanza di causa, della predeterminazione di una penale riferita a una responsabilità
extracontrattuale quale è quella in cui si può incorrere nella fase delle trattative; b) l’ulteriore
invalidità derivante dal superamento del limite dell’interesse negativo, con conseguente attribuzione di
un arricchimento senza causa; c) la natura reale del patto, che non si sarebbe quindi perfezionato, in
mancanza della dazione della somma in questione al momento della sottoscrizione della proposta[68]).
Anche a prescindere dai profili di nullità, il cosiddetto preliminare aperto non sarebbe poi nemmeno
eseguibile in forma specifica ex art. 2932 c.c., sia in quanto in esso è generalmente prevista una penale,
atteso che questa lascerebbe intendere che il contratto è «vincolante solo in modo “promissorio”, è
finalizzato a garantire alle parti stesse la libertà di lasciare cadere l’impegno con un sacrificio in
denaro[69]» sia, in ogni caso, perché esso rinvia alla stipula di altra scrittura privata e quindi rivela
l’implicita volontà delle parti di escludere l’operatività del rimedio giurisdizionale fino a quando non sia
intervenuta l’ulteriore scrittura che definisca compiutamente il contenuto del contratto.
Questo orientamento si basa sulla concezione secondo cui l’esclusione di ricorrere al rimedio
dell’esecuzione in forma specifica - che lo stesso art. 2932 c.c. prescrive derivi dal titolo - potrebbe
anche non essere espressa, ma solo desumibile in via presuntiva dal contenuto stesso del titolo.
Ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale, dunque, l’orientamento dominante
ritiene che per distinguere le due ipotesi sia rilevante accertare se le parti con quell’atto abbiamo
effettivamente voluto definire la propria regolamentazione degli interessi in gioco; pertanto si afferma
che il completo ordinamento di un determinato assetto negoziale può costituire un atto meramente
preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, qualora difetti l’attuale
effettiva volontà delle stesse di obbligarsi giuridicamente[70].
In sostanza, perché si possa parlare di contratto e, conseguentemente, perché si possano invocare i
rimedi previsti dall’ordinamento per il caso di inadempienza, è necessario ricercare la comune
intenzione dei contraenti, attraverso il senso letterale delle parole e delle espressioni usate; perché
possa configurarsi un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa
su tutti gli elementi dell’accordo, sicché non si è in presenza di un contratto nel caso in cui sia raggiunta
un’intesa solamente sugli elementi essenziali, ancorché riportati in apposito documento (cd. “minuta” o
“puntuazione”) e risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori.
Ne consegue che anche in presenza del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale, può
risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante
tra le parti[71]: si ammette, insomma, che le parti, pur avendo raggiunto l’intesa sugli elementi
essenziali del contratto, abbiano rinviato ad un momento successivo la volontà di vincolarsi[72].
Altri, invece, non ritengono convincente l’idea di poter desumere l’esclusione della possibilità di
esecuzione in forma specifica in via presuntiva dal contenuto stesso del titolo (id est dalla mera
circostanza che sia stata prevista una fase intermedia tra la previsione del primo accordo preliminare e
quella del definitivo): la norma prevede che l’esclusione del rimedio ex art. 2932 c.c. risulti «dal titolo»
e, quindi, dovrebbe risultare per iscritto ed espressamente, in quanto siamo di fronte ad atti aventi ad
oggetto la negoziazione di beni immobili, che richiedono la forma scritta a pena di nullità ed il
formalismo si estende a tutto il contenuto negoziale, od almeno al suo contenuto essenziale, perché
addirittura influisce sul tipo contrattuale e ne altera la causa[73].
Inoltre la giurisprudenza ha sempre ritenuto che la provvigione maturi a fronte di un vincolo giuridico
eseguibile in forma specifica o che al limite consenta alle parti di agire per il risarcimento del danno,
sicché: «le due condizioni sono chiaramente alternative, il che consente di concludere che basta la
seconda, non essendo necessaria anche la prima. Del che, peraltro, si trae conferma dall’orientamento
giurisprudenziale che ha riconosciuto la provvigione a fronte di un preliminare di mutuo, pacificamente
non suscettibile di essere eseguito in forma specifica[74].
In effetti già da tempo la giurisprudenza ha affermato che costituisce atto conclusivo dell'affare - da
cui scaturisce il diritto alla provvigione per il mediatore - anche un contratto preliminare di
compravendita d'immobili malgrado, nello stesso, sia stata prevista la facoltà di recedere dietro
pagamento di una penale[75], fattispecie in cui non si ammette l’esperibilità dell’esecuzione in forma
specifica ex art. 2932 c.c. in quanto espressamente esclusa dal titolo.
Inoltre, dovendosi in sede di interpretazione della volontà delle parti “decifrare” con esattezza la
funzione che il promittente venditore ed il promissario acquirente hanno, caso per caso, attribuito in
concreto al secondo preliminare, una volta constatato che le proposte di acquisto comunemente
impiegate nella prassi dalle agenzie immobiliari quanto meno indicano chiaramente i soggetti
(proponente ed oblato), l’oggetto (l’intenzione di acquistare/vendere un immobile ben individuato e ad
un certo prezzo) nonché evidentemente la causa, e tra l’altro sono dotate anche di forma scritta: sono
cioè presenti tutti gli elementi essenziali del contratto, si tende allora ad applicare il principio secondo
cui l’accordo delle parti, ai fini della conclusione del contratto, può considerarsi non raggiunto solo
quando sia impossibile l’identificazione giuridica degli elementi costitutivi della fattispecie contrattuale
cui la legge attribuisce gli effetti ex art. 1372 c.c.[76].
Vi è così chi, facendo leva sul principio di conservazione del contratto (art. 1367 c.c.), ritiene che in tali
casi, essendo pacifico che le parti non abbiano voluto subordinare l’accordo a successive intese su
clausole accessorie o elementi secondari, risulta difficile poterlo qualificare come semplice
“puntuazione” e la volontà delle parti andrebbe allora intesa come diretta a concludere un contratto
preliminare vero e proprio, che esprime cioè un accordo compiuto, mentre il secondo preliminare
sarebbe in realtà una mera riproduzione del consenso già intervenuto (che, non costituendo un
passaggio essenziale, non impedirebbe in caso di sua mancata conclusione di poter stipulare la vendita);
per cui la proposta accettata sarebbe già di per sé un preliminare eseguibile in forma specifica «ed il
problema del preliminare di preliminare sarebbe quantomeno marginale e comunque mal posto, essendo
semmai la seconda fase del procedimento ad essere priva di causa, e non la prima, nella quale si
sostanzia il consenso vincolante»[77].
A tali conclusioni arriva anche chi si richiama alla disciplina della conversione del contratto nullo (art.
1424 c.c.) e, dunque, afferma che il preliminare di preliminare, sussistendone i presupposti, potrebbe
convertirsi in un ordinario contratto preliminare. In altre parole, pur riconoscendo la nullità del
preliminare di preliminare, si ritiene possibile interpretare la volontà delle parti come solo
apparentemente intesa ad obbligarsi alla conclusione di un successivo preliminare. La proposta di
preliminare, se accettata, porterebbe dunque alla conclusione del preliminare senza che rilevi la
previsione della stipula di un successivo preliminare: il primo accordo sarebbe un ordinario contratto
preliminare, eseguibile in forma specifica, cui dovrebbe seguire il contratto definitivo.
Sulla scorta delle medesime considerazioni si è peraltro arrivati a sostenere che in casi simili – e
sempre laddove ciò non venga palesemente smentito da altri elementi - la volontà delle parti vada intesa
come diretta a concludere non già un secondo accordo ancora inutilmente preliminare, bensì un
contratto definitivo, produttivo di veri e propri effetti traslativi, ancorché da riprodursi, in una terza
fase, in forma autentica al fine di consentirne la pubblicità nei registri immobiliari (cd. preliminare
improprio)[78].
Va poi segnalata anche l’esistenza di orientamenti, tanto in dottrina[79] che nella giurisprudenza di
merito[80], volti a ritenere la figura del preliminare di preliminare del tutto ammissibile, e ciò senza
ricorrere al principio di conservazione del contratto (che non fa che riqualificare ciò che appare
un’intesa di natura incerta riqualificandola, di volta in volta, come preliminare, proprio o improprio che
sia), ma attribuendole vera e propria dignità di accordo pienamente valido e meritevole di tutela da
parte dell’ordinamento giuridico.
Si sostiene innanzitutto che il fatto stesso che un tale contratto venga concluso dimostrerebbe
l’esistenza di un effettivo interesse delle parti in tal senso; né, del resto, è mai stato spiegato perché
andrebbe negata meritevolezza di tutela a tale figura contrattuale, la qual cosa si traduce, pertanto, in
un’ingiustificata ingerenza su aspetti assai delicati e gelosi della privata autonomia delle parti,
autonomia che intende esercitarsi anche sulle modalità del contrarre e tale, com’è noto, è anche quella
di assumere impegni non in via definitiva[81].
Si afferma, quindi, che la fase intermedia tra l’atto già sottoscritto in cui si manifesta il consenso prepreliminare e il contratto definitivo in cui si esprimerà il consenso finale in forma autentica (che in
sostanza è il vero momento che appare essere inteso dalle parti come una mera ripetizione di un
consenso già espresso[82]) può ben avere una sua particolare rilevanza, atteso che entrambe le parti o
una di esse potrebbero, ad esempio, avere interesse alla stipulazione successiva di un contratto
preliminare in forma pubblica davanti ad un notaio, al fine di poter ottenere la trascrizione prevista
dall’art. 2645 bis c.c. dell’accordo che, malgrado contenga tutti gli elementi che l’art. 1325 c.c.
considera necessari affinché vi sia un contratto (individuazione dell’immobile, prezzo, modalità di
pagamento, indicazione del destinatario sia pure per relationem) è pur sempre assunto, solitamente,
mediante la sottoscrizione di un sintetico modulo predisposto da un’agenzia immobiliare[83].
Il fatto poi che detto contratto, contenente la pattuizione delle sole clausole essenziali, sarebbe privo
di alcuni elementi, non costituirebbe un problema, trattandosi di mancanza di clausole accessorie
(relative al tempo dell’adempimento, alle modalità del pagamento, ecc.) che non incidono sulla
valutazione della sussistenza della causa o/e dell’oggetto: se il c.d. preliminare aperto presenta tutti gli
elementi essenziali del contratto finale, esso è eseguibile ex art. 2932 anche qualora le parti si siano
riservate di contrattare su clausole accessorie.
E’ inoltre ammissibile in linea di massima, già in sede di pronuncia giudiziale ex art. 2932 c.c., poter
apportare modifiche al contenuto del preliminare quando l’integrazione o la rettifica di cui si tratta
rientrino nell’ambito delle facoltà concesse alla parte che le domanda o al giudice[84].
In base all’art. 1374 c.c., inoltre, il contratto obbliga le parti anche a quanto ne deriva secondo gli usi e
l’equità, dunque in caso di mancato accordo delle parti sugli elementi accessori, interverrà l’integrazione
automatica del contratto, con eseguibilità in forma specifica dell’art. 1374 c.c.[85].
Anche all’eventuale mancanza di indicazione della data per il contratto definitivo si può ovviare
ricorrendo alle norme sul tempo dell’adempimento ex art. 1183 c.c., trattandosi di prestazione che in
virtù degli usi e per sua natura deve essere sottoposta a un termine ed essendo la stipula del definitivo
nient’altro che un adempimento di quanto pattuito in sede di contrattazione iniziale[86].
Ne consegue, sempre secondo tale tesi, che l’accettazione di una proposta di acquisto, anche qualora
rinvii alla stipula di un successivo preliminare, costituisce invece un vero e proprio «affare» ai sensi
dell’art. 1755 c.c., rappresentando un vincolo giuridico che legittima le parti comunque a chiedere la
risoluzione del contratto in caso di inadempimento ed il risarcimento dei danni, oppure ad agire per
l’esecuzione forzata in forma specifica ex art. 2932 c.c., con la conseguenza che la provvigione del
mediatore matura al momento in cui il proponente l’acquisto ha notizia dell’accettazione di controparte,
ossia quando si perfeziona il vincolo giuridico prodromico che costituisce un contratto preliminare a
tutti gli effetti, salvo un apposito patto che la subordini espressamente e chiaramente alla conclusione
del preliminare, o salvo il caso in cui la proposta d’acquisto accettata, per i suoi contenuti, non possa
configurare un vincolo giuridico, ma sia qualificabile come una mera puntuazione, il che però,
normalmente non avviene, «almeno nelle proposte utilizzate dalle agenzie»[87].
Da ultimo giova altresì segnalare che una parte minoritaria della giurisprudenza, riconducendo per lo più
la proposta irrevocabile di acquisto, successivamente accettata, alla figura di un contratto di opzione
(art. 1331 c.c.), ha ritenuto che tale figura, proprio in quanto contratto, possa in sostanza essere
ricondotta nella nozione di affare e conseguentemente far sorgere il diritto del mediatore alla
provvigione; nel senso che, ove non si venga ad accertare la sussistenza di una pattuizione
espressamente difforme, l'oblato, avendo acquistato la titolarità di un diritto d'opzione, ed il
concedente tale diritto, poiché parti di un contratto, dovranno essere considerati altresì parti di un
affare concluso, da ciò derivando la nascita del diritto alla provvigione dell'eventuale mediatore sulla
base dell'art. 1755 c.c.[88].
A questo punto, pur nella consapevolezza che in questa materia non si può arrivare a delle conclusioni
univoche, in quanto la soluzione dipende dalle specifiche clausole previste di volta in volta dai singoli
atti dei casi concreti in esame[89], pare difficile non convenire che il ricondurre la fattispecie che ci
occupa nell’ambito di un vero e proprio preliminare è, in fin dei conti, in piena aderenza con l’idea
accolta in dottrina per cui il preliminare serve proprio a fermare gli intenti corrispettivi delle parti
rimandando al futuro l’integrazione di alcuni elementi, essendo la sua funzione proprio quella di fissare
le clausole essenziali che devono essere contemplate nel definitivo, il minimum da osservare nella
successiva fase di completa contrattazione[90].
(Altalex, 26 gennaio 2011. Articolo di Giovanni Stefano Avon)
______________
[1] Negano la natura contrattuale, tra gli altri, L. CARRARO, La mediazione, Padova, 1960, 1 ss.; G.
FERRI, Manuale del diritto commerciale, Torino, 1988, 987 ss.; CARTA, Mediazione di contratto non
contratto di mediazione, in Foro It., 1988, I, 296; G. MIRABELLI, Promessa unilaterale e mediazione, in
Riv. dir. comm., 1953, I, 165 ss.; A. CATAUDELLA, Note sulla natura giuridica della mediazione, in Riv.
dir. comm., 1978, I, 361 ss.; A. CATRICALÀ, La mediazione, in Tratt. di diritto privato, a cura di P.
Rescigno, 12, Torino, 1986, 403 ss.
[2] Cfr. A. LUMINOSO, La mediazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di A. Cicu e F.
Messineo, Milano, 1993, 31. La giurisprudenza anticontrattualistica ha osservato che la mediazione si
ricollega all’attività del mediatore, funzionale rispetto alla conclusione del contratto, autonomamente
disciplinata dalla legge e scaturente dalla semplice opera del mediatore: così Cass. 25.10.1991, n. 11384,
in Giur. it., 1992, I, 1, 1059, nota di BAIOCCO, per cui, qualora l’attività viene svolta a favore di un ente
pubblico, il mediatore ha diritto al compenso senza che per il conferimento dell’incarico sia necessaria
la forma scritta, la quale resta obbligatoria per la stipulazione di contratti da parte di enti pubblici.
[3] Vedi Cass., 28.7.1983, n. 5212, in Mass. Giur. It., 1983; Id., 6.6.1989, n. 2750, in Mass. Giur. It.,
1989; Id., 14.12.1988, n. 6813, in Mass. Giur. It., 1988; Id., 14.4.1994, n. 3472, in Mass. Giur. It., 1994.
[4] Cfr. Cass., 1.6.2000, n. 7273, in Foro it., 2001, I, 562; e in Giust. civ., 2001, I, 784; Trib. Cagliari,
4.7.1994, in Riv. giur. sarda, 1996, 57, con nota di LUMINOSO, Sulla prova della mediazione.
[5] Cass. 14.7.2009, n. 16382; Cass. 5.9.2006, n.19066.
[6] Cfr. S. MEZZANOTTE, Attività giuridica in senso stretto e responsabilità da contatto sociale nella
mediazione, in Obbligazioni e Contratti, 2010, 11, 759 ss.
[7] L’ art. 1173 c.c. costituisce la base normativa che consente, talora, ad un fatto diverso dal contratto
di dar vita ad un rapporto contrattuale.
[8] La categoria dei «contratti di fatto» – ovvero di quei rapporti modellati secondo il contenuto di uno
specifico contratto tipico che non scaturiscono da atti di autonomia privata ma da fatti socialmente
rilevanti – è nata in Germania negli anni ’40 e fu espressione della denunzia della crisi della concezione
individualistica espressa, appunto, dal contratto, e della riconduzione dei fatti sociali a fonte dei
rapporti interprivati.: v. HAUPT, Über faktische Verhältnisse, Lipsia, 1943; SIMITIS, Die faktischen
Vertragsverhältnisse, Francoforte, s. M., 1957; NIKISCH, Über faktische Vertragsverhältnisse, in
Festschrift für Dölle, Tubinga, 1963.
[9] Si pensi ad un interesse di rango costituzionale, come ad esempio il diritto alla salute di cui all’art.
32 Cost.
[10] V. ancora S. MEZZANOTTE, Attività giuridica in senso stretto e responsabilità da contatto
sociale nella mediazione, cit.
[11] La l. 3.2.1989, n. 39 ha innovato decisamente la materia, introducendo il principio in virtù del quale
l’attività di mediazione, quand’anche sporadica e saltuaria, può essere esercitata esclusivamente da
soggetti appositamente abilitati; essa è, inoltre, sottoposta a vigilanza, nonché limitata da controlli e
vincoli.
[12] V., tra le altre, Cass. S.U. 11.1.2008, n. 577; Cass. 24.5.2006, n. 12362 e Cass. 19.4.2006, n. 9085.
[13] V. Cass. 14.7.2009, n. 16382, cit., secondo cui il mediatore “tipico” è comunque tenuto all’obbligo di
comportarsi in buona fede, in virtù della clausola generale di correttezza di cui all’art. 1175 c.c.,
estrinsecantesi, in specie, nell’obbligo di una corretta informazione, tra cui la comunicazione di tutte le
circostanze a lui note o conoscibili sulla base della diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., comma 2,
vertendosi senz’altro in tema di attività professionale per come ulteriormente ribadito dalla l. n. 39 del
1989. Tale obbligo di correttezza sussiste inoltre a favore di entrambe le parti, messe in contatto ai
fini della conclusione dell’affare, quale comprensivo di qualunque operazione di tipo economico-giuridico.
In particolare, il mediatore è tenuto a comunicare: l’eventuale stato di insolvenza di una delle parti,
l’esistenza di iscrizioni o pignoramenti sul bene oggetto della conclusione dell’affare, la sussistenza di
circostanze in base alle quali le parti avrebbero concluso il contratto con un diverso contenuto,
l’esistenza di prelazioni ed opzioni. In caso di contenzioso tra il mediatore stesso e le parti, ne deriva,
ancora, l’onere per il mediatore sia di dimostrare di non aver agito in posizione di mandatario di una
delle parti, sia di dimostrare di aver fatto tutto il possibile, in base alla richiamata diligenza ex art.
1176 c.c., comma 2, nell’adempimento degli obblighi di correttezza ed informazione a suo carico, mentre
spetta alle parti fornire prova esclusivamente dell’avvenuto contatto ai fini della conclusione
dell’affare. Il termine di prescrizione per far valere in giudizio detta responsabilità del mediatore è poi
quello ordinario decennale e non quello quinquennale della responsabilità extracontrattuale.
[14] Così Cass. 6.6.1989, n. 2750; Cass. 14.4.1994, n. 3472, in Foro it., 1994, I, 1722; Trib. Milano,
19.5.2000; Cass. 22.5.2001, n. 6963.
[15] SACCO, La conclusione del contratto, 60.
[16] Così testualmente Trib. Venezia, 30.8.2002, in Foro It., 2002, 3469, nonché in “Dialoghi”, Cedam,
4, 2002, 199, con nota di R. SENIGAGLIA, “La mediazione come «contratto di fatto». Proposta
irrevocabile e diritto alla provvigione”; v. anche Cass. 5.3.2009, n. 5348 e Cass. 20.5.2002, n. 7253.
[17] Salva, in ogni caso, la legittimazione soggettiva dell’intermediario riconosciuta dalla sua iscrizione
nel relativo ruolo ex lege n. 39/1989 (ruolo peraltro soppresso dal d.lgs. n. 59 del 26.3.2010, entrato in
vigore in data 8.5.2010, il quale prevede comunque la necessità di dichiarazione di inizio attività e
l’iscrizione nel registro delle imprese e nel REA).
[18] Per Cass. 24.5.2002, n. 7630, infatti: «La conclusione di un contratto di mediazione non comporta
l'obbligo, per la parte che abbia conferito l'incarico al mediatore, di concludere l'affare propostole da
quest'ultimo, pur se esso risulti, del tutto conforme alle richieste originariamente avanzate, con la
conseguenza che il conferente l'incarico di mediazione può, anche in assenza di giusta causa,
liberamente recedere dal proseguire in questo suo intento, senza incorrere nella responsabilità di cui
all'art. 1337 c.c. nei confronti del mediatore»; se, quindi, il soggetto che ha dato l'incarico di
mediazione ha la facoltà di recedere ad nutum dal proseguire in questo suo intento, e non solo per una
giusta causa, non è ontologicamente concepibile una sua responsabilità ex artt. 1337 e 1338 c.c. nei
confronti del mediatore. Precisa poi la Corte, che se si segue la teoria non contrattualistica della
mediazione, per cui essa non avrebbe natura negoziale, scaturendo i diritti e le obbligazioni tra il
mediatore e le parti - e perciò il rapporto giuridico di mediazione - dalla "messa in relazione" delle parti
(atto giuridico in senso stretto) ad opera dell'intermediario, a prescindere da ogni elemento di natura
negoziale, una responsabilità precontrattuale sarebbe inconcepibile proprio per la mancanza di un
contratto. Se, invece, si segue – come la Corte ritiene preferibile - l'orientamento tradizionale, per cui
la mediazione è pur sempre un contratto, l'inapplicabilità a tale contratto della responsabilità
precontrattuale discende dalla struttura dello stesso. Così, nel caso in cui il mediatore ricorrente
lamentava il mancato riconoscimento di un risarcimento del danno, a titolo di responsabilità
precontrattuale, per aver, uno dei contraenti, taciuto la parziale altruità dell’immobile compravenduto
(circostanza che aveva comportato la mancata conclusione della vendita), la Cassazione ha argomentato
che dette cause di invalidità non attengono al negozio di mediazione, ma al contratto oggetto della
mediazione. Pertanto il mediatore non può pretendere alcun risarcimento fondato sulle patologie di un
contratto del quale non è parte, le cui vicende restano del tutto estranee ed indifferenti al rapporto di
mediazione: il mancato rispetto, da parte di uno dei contraenti del dovere d’informazione delle parti,
del dovere di affidamento sull’affare e, soprattutto, del dovere di creare o salvaguardare le condizioni
di efficacia del contratto non possono ripercuotersi su eventuali pretese risarcitorie del mediatore, in
quanto soggetto estraneo al negozio mediato.
[19] SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto civile, a cura di Vassalli, Torino, 1975, 94.
[20] Cass. 05.12.1989, n. 5370.
[21] Cass. 16.1.1996, n. 297; Cass. 28.7.1997, n. 7048.
[22] Cass. 20.2.1997, n. 1566.
[23] Cass. 16.1.1997, n. 392; Cass. 18.8.1997, n. 7554; Cass. 13.12.1978, n. 5929; Cass. 18.3.2005, n.
5952 in Foro It., 2005, I, 3092 e Studium Juris, 2006, n. 1, 84.
[24] Così testualmente: FORTINA, La provvigione senza (quasi) mediazione, in Obbligazioni e Contratti,
2006, 11, 900.
[25] Cass. 22.04.1986, n. 2814.
[26] Cass. 21.4.1999 n. 4043; Cass. 29.03.1982, n. 1934.
[27] Cass. 2.8.2001, n. 10606, in Corriere Giur., 2001, 11, 1417; Contratti, 2002, 1, 75; v. anche Cass.
18.3.2005, n. 5952 cit.; App. Genova, 4.3.2006.
[28] Sul punto v. FORTINA, op. cit., 902, secondo cui «… normalmente la giurisprudenza tende a
considerare preminente chi porta ad esistenza la nuova trattativa: se si tratta di un mediatore terzo,
sopravvenuto, il quale, ex novo, ha avvicinato le parti conducendole alla conclusione dell’affare, tale
operazione può considerarsi sufficiente ad escludere il diritto alla provvigione di un antecedente
mediatore che infruttuosamente abbia tentato di concretizzare egli stesso il contratto, sicché possa
escludersi l’utilità dell’originario intervento. Se però è una delle due parti ad attivarsi, contattando
direttamente l’altra, sulla scorta di quanto, anche anni prima, il mediatore Tizio aveva loro prospettato,
sarà altamente probabile che il giudice adito riconosca che quella conclusione dell’affare tragga ragion
d’essere anche dall’operato svolto dal mediatore, che in buona sostanza ha permesso alle parti di sapere
l’una dell’altra, e della possibilità di concludere affari».
[29] Cass. 18.09.2008, n. 23842; Cass. 11.04.2003, n. 5762; Per Cass. 13.6. 2002, n. 8437 il
conferimento di incarico al mediatore, con patto di esclusiva per un determinato periodo di tempo, non
è indicativo anche della volontà del preponente di rifiutare l’attività del mediatore stesso dopo la
scadenza del termine di validità del patto.
[30] Cass. 21.11.2000, n. 15014.
[31] Cass. 20.10.2004, n. 20549; Cass., 6.9.2001, n. 11467.
[32] Cass. 5.3.2009, n. 5339.
[33] Cass. 7.4.2005, n. 7252.
[34] Cass. 20.12.2005, n. 28231; Cass., 11.4.2003, n. 5762.
[35] Così VISALLI, La Mediazione, Padova, 1992, 322; v. anche Cass. 27.11.1969, n. 3833 nonché Cass.
4.2.2000, n. 123, in Foro It., 2000, I, 1602.
[36] Cass. 3.9.1991, n. 9350, in Giust. civ., 1992, I, 695; nonché Cass. 4.2.2000, n. 1233, cit., 1602
(obiter) e Cass. 8.3.2002, n. 3437.
[37] Esclude la mediazione “tipica” come un contratto Cass. 25.10.1991 n. 11384, cit., nonché Cass.
14.7.2009, n. 16382, cit.
[38] «Il rapporto di mediazione non può configurarsi - e non sorge quindi il diritto alla provvigione -
qualora le parti, pur avendo concluso l'affare grazie all'attività del mediatore, non siano state messe in
grado di conoscere (ed abbiano pertanto potuto ignorare incolpevolmente) l'opera di intermediazione
svolta dal predetto, e non siano perciò messe in condizione di valutare l'opportunità o meno di avvalersi
della relativa prestazione e di soggiacere ai conseguenti oneri, come nel caso in cui il mediatore abbia,
con il suo comportamento, potuto ingenerare nelle parti una falsa rappresentazione della qualità
attraverso la quale egli si è ingerito nelle trattative che hanno condotto alla conclusione dell'affare. La
prova della menzionata conoscenza incombe, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., al mediatore che voglia far
valere in giudizio il diritto alla provvigione» (Cass. 15.03.2007, n. 6004, in Contratti, 2007, 12, 1086,
nota di MACCARRONE; Imm. e propr., 2007, 6, 388; Cass. 21.7.1994, n. 6814, in Contratti, 1995, 1, 53).
[39] Cass. 6.9.2001, n. 1467; Cass. 6.5.1996, n. 4196; Cass. 7.6.1990 n. 5457; Cass. 27.5.1987 n. 4734.
[40] Per affare compiuto, ai fini del diritto alla provvigione derivante da un contratto di mediazione,
deve intendersi un atto da cui è scaturito un vincolo giuridico tra le parti messe in relazione per
effetto dell'attività intermediatrice, che consenta loro di agire per l'esecuzione di esso, con la
conseguenza che anche la conclusione di un contratto preliminare può essere ritenuto un affare
compiuto (orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema Corte: v. Cass. 26.9.2005 n. 18779;
Cass. 22.3.2001 n. 4111; Cass. 11.5.2001 n. 6599; Cass. 7.6.1990 n. 5457 cit.).
[41] Cass. 12.4.2006, n. 8555, in Mass. Giur. it., 2006; Cass. 16.6.1992, n. 7400, in Foro it. Rep., 1992;
Cass., 16.12.1987, n. 9348, in Arch. civ., 1988, 285; Cass. 25.7.1983, n. 5117, in Foro it. Rep., 1983; Cass.
22.1.1977, n. 330, in Foro it. Rep., 1977.
[42] Cass. 27.7.1995, n. 8187, in Giust. civ. Mass., 1995;
[43] Cass. 15.5.2000, n. 6220, in Mass. giur. it., 2000; Cass. 27.7.1995, n. 8187, cit.; Cass. 22.1.1977 n.
330, cit.
[44] Cass. 25.7.1983, n. 5117, in Mass. giur. it., 1983; Nell’ipotesi in cui il mediatore abbia procurato
l’acquisto di un immobile appartenente ad una società ma gli acquirenti, anziché l’immobile, hanno
comperato le azioni della società proprietaria, Cass. 25.10.1991, n. 11384, cit., ritiene concluso
ugualmente l’affare con diritto del mediatore alla provvigione, argomentando che l’acquisto
dell’immobile è «indirettamente» avvenuto.
[45] Cass. 23.10.1976, n. 3820, in Foro it. Rep., 1976; App. Palermo 18.1.1964, in Riv. giur. ed., 1965, I,
375.
[46] Cass. 6.9.2001, n. 11467, cit.
[47] Cass. 9.5.2008, n. 11521.
[48] Cass., Sez. un. 7.1.1993, n. 65, in Foro It., 1994, I, 177 nota di VACCHIANO; Cass. 7.2.2001, n.
1715; Cass. 14.11.2006, n. 24214; Cass. 2.3.2007, n. 4969, in Foro It., 2007, I, 2433; Cass.13.5.2008, n.
11893.
[49] BORDOLLI, Mediazione immobiliare e leasing, in Immobili & Proprietà, 2008, 9, 552.
[50] Cass., 6.5.1996, n. 4196, in I Contratti, 1997, 156.
[51] E, come tale, in linea di massima, astrattamente valido, ferma la necessità di verificare, caso per
caso, la presenza di elementi sintomatici atti ad evidenziare che la vendita è stata posta in essere in
funzione di garanzia ed è volta, pertanto, ad aggirare il divieto del patto commissorio: cfr. ad esempio
Cass. 14.3.2006, n. 5438.
[52] Cass. 23.10. 1976, n. 3820.
[53] Cass. 25.10. 1991, n. 11384, cit.
[54] Cass. 28.6.2001, n. 8850.
[55] Cass. 18.5.1977 n. 2030; Cass. 27.7.1995, n. 8187, cit.
[56] Trib. Monza, 24.11.2005; Cass. 16.6.1992, n. 7400, in Mass. Giur. it. 1992; Cass. 30.12.1997, n.
13132, in Mass. Giur. it. 1997; Cass. 21.5.1998, n. 5080, in Mass. Giur. it. 1998.
[57] Cass. 26.9.2005 n. 18779; Cass., 8.8.2002, n. 12022; Cass. 22.3.2001 n. 4111; Cass. 11.5.2001 n.
6599; Cass. 7.6.1990 n. 5457 cit.
[58] La dicitura deriva dal fatto che questo tipo di proposta recava spesso la previsione della penale da
pagare nel caso in cui una delle parti si pentisse e rifiutasse di concludere il preliminare: «lasciando
spazio per quello che era un vero e proprio ius poenitendi, l’intesa è sempre stata convenzionalmente
etichettata come «preliminare aperto», da contrapporsi a quello formale o chiuso, di norma stipulato
successivamente dal notaio, nel quale tale facoltà non era e non è prevista» (TOSCHI VESPASIANI,
nota a App. Firenze, 14.4.2004, in Giur. It., 2005, 4).
[59] NAPOLI, nota a Cass. 2.4.2009, n. 8038, in Riv. Dir. Civ., 2010, 1, 81, ss.
[60] App. Roma, 8.1.2009.
[61] Sulla distinzione tra mediazione tipica (fattispecie non negoziale bensì meramente materiale del
mediatore, in quanto da lui svolta in via del tutto autonoma, senza alcun incarico di una parte
interessata all’affare, da cui la legge fa scaturire il suo diritto alla provvigione nei confronti «di
ciascuna delle parti» e solo «per effetto del suo intervento», “quale appunto consequenziale alla sua
neutralità ed imparzialità nel metterle in relazione”) e mandato o mediazione cd. “unilaterale”, v. Cass.
14.7.2009, n. 16382.
[62] V. RASCIO, Il contratto preliminare, Napoli, 1967, 174; DE MARTINI, Profili della vendita
commerciale e del contratto estimatorio, 1950, 78 e segg.; PEREGO, I vincoli preliminari ed il
contratto, Milano, 1974, 124 e segg.
[63] Trib. Salerno, 23.7.1948, in Dir. e Giur., 1949, 101; Id. Napoli, 23.11.1982, in Giust. Civ., 1983, I,
283; Id. Napoli, 21.2.1985, in Dir. e Giur., 1986, 725; Pret. Bologna, 9.4.1996, in Giur. It., 1997, I, 2,
540. Da ultimo, cfr. App. Napoli, 1.10. 2003, in Giur. di Merito, 2004, 1, 62: la massima stabilisce
chiaramente la nullità del preliminare del preliminare, che pertanto non costituisce presupposto per il
maturare della provvigione a favore del mediatore.
[64] Cass. 2.4.2009, n. 8038, cit.
[65] GAZZONI, Contratto preliminare, in Il contratto in generale, II, 612, in Trattato di diritto
privato diretto da Bessone, Torino, 1998.
[66] Cass. 2.4.2009, n. 8038, cit.
[67] Cass. 2.4.2009, n. 8038, cit.
[68] Tenuto conto che la proposta di acquisto ha indubbiamente natura di atto unilaterale recettizio, la
qualificazione più corretta della somma di denaro versata dal promittente l’acquisto nelle mani
dell’agente immobiliare che andrà poi consegnata all’oblato quando eventualmente accetterà la proposta
indirizzatagli, sembra essere quella di «deposito cauzionale»: il mediatore infatti riceve la somma in via
fiduciaria al solo scopo di trattenerla temporaneamente e restituirla (in caso di mancata accettazione)
o trasmetterla all’oblato una volta che abbia accettato la proposta. Si tratta evidentemente di un
deposito anche nell’interesse di un terzo (art. 1773 c.c.), avente ad oggetto una somma di danaro che
quindi il depositario non può restituire al depositante senza il consenso del terzo; non si tratta pertanto
né di «acconto sul prezzo», dato che nessun prezzo è ancora dovuto fino a che la proposta non sarà
accettata, né di caparra confirmatoria, la quale non può ricorrere nel caso in cui non acceda ad un patto
che vincoli entrambi i contraenti, non potendo altrimenti il suo versamento essere in grado di svolgere
la sua peculiare funzione di coazione indiretta all’adempimento, sia per il soggetto che la dà che per
quello che la riceve. Per TOSCHI VESPASIANI (op. cit.): «la sua natura giuridica assume connotati che
mutano in riferimento al diverso stato di avanzamento del procedimento di formazione del consenso,
ossia tra il momento della dazione al mediatore e quello in cui il promissario venditore accetta e ritira la
somma… Tale somma ha dunque una funzione immediata di «conferma» della proposta: senza dubbio,
come la stessa caparra, anch’essa mira a richiamare l’attenzione della parte che emette la proposta;
tale funzione deve però essere vista in prospettiva, ossia come un qualcosa di transitorio, di destinato
ad evolversi (all’atto dell’accettazione della proposta) e a tramutarsi in caparra confirmatoria. La
modulistica normalmente, infatti, prevede espressamente questo automatico meccanismo: la prima
tranche del prezzo, da mera somma versata in deposito a mani del mediatore, diviene subito caparra
confirmatoria quando l’oblato accetta e in virtù di ciò riceve materialmente la somma in questione…».
[69] ROCCA, Incarichi di intermediazione immobiliare e vicenda intermediata nei moduli e formulari di
cui all’art. 5, l. n. 39/1989, in Riv. Notar., 1994, 85.
[70] Cass., 2.2.2009, n. 2561, in Notariato, 2009, 3, 250; Id., 20.6.2006, n. 14267, in Mass. Giur. It.,
2006; Id., 18.1.2005, n. 910, in Contratti, 2006, 22, con nota di SELVINI, Formazione progressiva del
contratto: il confine tra le trattative e la conclusione.
[71] MONEGAT, Il preliminare di preliminare non produce alcun effetto, nota a Cass. 2.4.2009, n.
8038, in Immobili & Proprietà, 2009, n. 6, 383.
[72] V. Trib. Venezia, 30.8.2002, cit.: «… L’accettazione della proposta irrevocabile, tale dovendo
intendersi quella oggi in esame, non può neppure valere come preliminare, poiché, come già detto, la
volontà delle parti, da intendersi in base al significato sociale (dovendo anche alle nostre latitudini
ormai ritenersi tramontato da parecchi lustri il dogma volontaristico), ha delineato un diverso
procedimento di formazione del vincolo contrattuale. L’effetto dell’atto sottoscritto dalle parti,
pertanto, è quello proprio della proposta irrevocabile, ossia della temporanea perdita del potere di
revoca da parte del proponente, ond’è che non essendosi perfezionati né il preliminare né il definitivo
deve concludersi per la sopravvenuta inefficacia del primo a causa dell’inutile spirare del termine
indicato …».
[73] GABRIELLI, Prassi della compravendita immobiliare in tre fasi: consensi a mani dell’intermediario,
scrittura privata preliminare, atto notarile definitivo, in Riv. Notar., 1994, 50.
[74] Così: TOSCHI VESPASIANI, cit.; v. altresì Cass. 18.6.1981, n. 3980, in Giust. civ., 1982, I, 202.
[75] App. Napoli, 26.3.1971, in Dir. e giur., 1971, 351 e in Foro Pad., 1973, I, 42, con nota di Alpa,
Recesso dalle trattative e diritto del mediatore.
[76] Cass. 13.5.1998, n. 4815.
[77] TOSCHI VESPASIANI, cit.
[78] Pret. Firenze, 19.12.1989.
[79] SACCO - DE NOVA. Per BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 1998, 186, lo stesso
interesse che il preliminare vero e proprio consente di realizzare potrebbe sottostare alla stipulazione
anche di un preliminare mediante il quale le parti si impegnano a stipulare un contratto obbligatorio.
[80] App. Firenze, 14.4.2004, cit; Trib. Napoli, 28.2.1995, n. 2039, in Dir. e Giur., 1996; Trib. Napoli,
19.12.1986; App. Napoli, 11.10.1967, in Dir. e Giur., 1968, 550.
[81] DI MAJO, La “normalizzazione” del preliminare, in Corriere Giur., 1997, 2, 131 e segg.; V inoltre
Trib. Genova, 7.9.1993, in Giur. It., 1995, I,2, 530: «L'accettazione di una proposta d'acquisto con cui
una parte si impegna alla stipula di un contratto preliminare e successivo definitivo di compravendita
immobiliare determina la nascita di un vincolo contrattuale la cui violazione, comunque tale vincolo voglia
definirsi, può dar luogo alla risoluzione del contratto per inadempimento e al risarcimento dei danni».
[82] FERORELLI, nota a Cass. 2.4.2009, n. 8038, in Giur. It., 2009, 12, 2658.
[83] Per App. Firenze, 22.11.2002, ad esempio: «… è evidente che il primo impegno che le parti
intendono cristallizzare in forma scritta, redatto prima che abbiano potuto munirsi di tutte le
informazioni e di svolgere tutti gli accertamenti opportuni, è necessariamente più sommario e a volte i
contraenti hanno interesse, prima ancora di addivenire alla stipulazione del rogito notarile, a
trasfondere la loro volontà traslativa in una scrittura privata più dettagliata e quindi più precisa. Ma ciò
non toglie che già il primo negozio — contenendo tutti gli elementi necessari, ossia la determinazione
della res, il prezzo di vendita, il consenso alla stipula del successivo contratto di vendita e la data di
stipula — è già atto perfetto, qualificabile come contratto preliminare di compravendita e le parti
hanno rimesso alla successiva formalizzazione di un atto più completo la sola regolamentazione degli
elementi accessori non ancora precisati».
[84] Cass. 29.3.1982, n. 1932; Cass. 10.1.2007, n. 233, in Contratti, 2007, p. 867 ss., con nota di
TOSCHI VESPASIANI.
[85] Secondo CARBONE, Contratto preliminare di preliminare: un contratto inutile?, in D. e giur., 1995,
p. 470 e segg., l’art. 1374 renderebbe inutile il secondo preliminare, se non addirittura inammissibile,
dato che l’operatività della stessa norma non può essere esclusa dalle parti (sul punto v. RODOTÀ, Le
fonti di integrazione del contratto, Milano, 1970, 101).
[86] NAPOLI, cit.
[87] TOSCHI VESPASIANI, cit., nello stesso senso NAPOLI, cit.; V. anche Trib. Genova, 7.9.1993 cit.
[88] Cass. 21.7.2004, n. 13590, in Riv. Dir. Civ., 2005, 6, 635, con nota critica di VENTRICINI; nonché
Trib. Bari, 3.4.2008 e Trib. Bologna, 18.3.2010.
[89] FERORELLI, cit.
[90] NAPOLI, cit.
( da www.altalex.it )
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