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il rastrellamento degli uomini

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il rastrellamento degli uomini
IL RASTRELLAMENTO DEGLI UOMINI
A Castelforte si diffonde la voce che i tedeschi si stanno preparando per eseguire
rastrellamenti di massa degli uomini per adibirli alla costruzione delle strutture difensive o
per trasferirli in Germania. Di conseguenza, gli uomini, in età a rischio di cattura, si
nascondono come possono; molti si rifugiano in collina.
Intanto, il comando militare tedesco, il 18 settembre 1943, intima ai cittadini di
consegnare tutte le armi in loro possesso.
La prima avvisaglia dell’attuazione dei rastrellamenti degli uomini si ha il 19
settembre: è domenica e a Castelforte si tiene il consueto e importante mercato settimanale
con la presenza di tanti venditori e numerosissimi avventori, affluiti da tutto il circondario.
Improvvisamente, alle 10:00 circa, si diffonde in un baleno la notizia che i tedeschi in
alcune zone stanno effettuando un massiccio rastrellamento di uomini. Si determina un
grande panico generale: le strade si svuotano immediatamente, la popolazione si barrica in
casa, gli uomini si nascondono in paese o raggiungono le colline circostanti. È un tentativo
che fallisce per la mancanza dell’effetto sorpresa.
Francesco Di Paola (Ciccillo) di quella triste giornata conserva ancora, a distanza di
moltissimi anni, un nitido e indimenticabile ricordo, che si riporta:
Tutto accade di domenica, giorno di mercato, propizio, secondo le intenzioni teutoniche, per attuare il
loro piano. La voce corre, il mercato si spopola, gli uomini di ogni età riparano in montagna. È l’inizio di un
calvario che avrà termine solo nella notte del 12 maggio 1944. I monti che sovrastano Castelforte, in un
baleno, si popolano di vite umane. Le località Ortali, Caprareccia, Reali, Pozzari, Tamburriello, Ceschito, La
Noce e La Valle degl’Jacino (dell’Acero) riecheggiano delle voci di uomini sfuggiti alla rappresaglia
teutonica. Il tempo è splendido in montagna e promette un autunno soleggiato. I pensieri di tutti corrono allo
sbarco a Salerno, sperando che gli americani arrivino presto. È un sogno infranto! Purtroppo, nessuno
intuisce la tragedia che incombe.
I tedeschi, dopo aver valutato il fallimento dell’operazione, ritengono opportuno
rinviarla. La situazione torna alla normalità e in paese riprendono le abituali attività, pur
con qualche timore e giustificata apprensione.
L’allarme, però, è un segnale foriero di tragiche e dolorose conseguenze per la
popolazione maschile di Castelforte. Purtroppo, l’operazione è solo rimandata di qualche
giorno. Infatti, il 23 settembre 1943, alle 10:00 circa, il comando militare tedesco emana
un drammatico Proclama, portato a conoscenza della popolazione mediante affissione
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nella principale via del paese, davanti al negozio Coletta. Dalla lettura si evince che ormai
il territorio nazionale, dal fiume Garigliano al Nord dell’Italia, è sotto il controllo assoluto
delle forze tedesche di occupazione, sul quale impongono la legge di guerra con l’avallo
della Repubblica sociale italiana. È scritto in italiano sgrammaticato e molto
approssimativo e lascia intendere che il testo è stato redatto senza consultare le autorità
alleate italiane. Con tale proclama si intima a tutti gli uomini, tranne alcune eccezioni, di
radunarsi, dalle 15:00 alle 17:00, in località San Lorenzo, minacciando rappresaglie anche
nei confronti delle loro famiglie, in caso di disubbidienza. Si riporta integralmente il
delirante e sconclusionato testo:
Proclama della popolazione italiana
Nell’accordo del Governo italiano Fascista sono stati richiamati nel settore
italiano tutti gli uomini delle classi 1900-25 che sono capaci a portare le armi e
lavorare per fare servizio di lavoro e precisamente lavorare nell’interesse
dell’economia di guerra.
Loro saranno condotti in altro luogo. Il senso di questa è il seguente che nel
settore presente non è prestato più la garanzia di un esercizio regolare della
professione atto a lavorare e a portare le armi in seguito a situazione militare,
soprattutto per la minaccia dell’aviazione nemica.
Col richiamare e condurre è incaricato l’esercito germanico. L’esecuzione avrà
luogo in tutta la località.
Per le persone in questione si tratta dei seguenti: 1) sono obbligate a fare servizio
di lavoro; 2) sono sottoposti subito alle leggi di guerra; 3) sono mantenute conforme
ai principi Germanici, pagate e nel punto liberamente provviste; 4) loro famiglie
ricevono delle sovvenzioni familiari.
Per il trasporto dei membri sui posti di lavoro si sta preparando nuove
regolamentazioni.
Le persone che sono obbligate a lavorare e le sue famiglie stanno sotto la direzione
dell’esercito Germanico.
Il trattamento si regola secondo il contegno loro e delle famiglie. Nel caso di
resistenza si prende misure coercitive che si stendono anche sulle famiglie e suoi beni.
Il richiamare e condurre non è una cosa disonorata, ma solamente aver luogo per
la ragione sopradetta e sta nell’interesse stessa. Il posto di lavoro sarà fuori del
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territorio di guerra. Tutti gli radunati hanno da portare con sé una o più coperte
come tascapane e una valigetta con roba più necessaria.
È proibito severamente di lasciare il posto di raduno.
La roba sopradetta sono da portarsi immediatamente dai familiari presenti.
Ognuno radunato che fa tentazione di fuga ed esporsi viene immediatamente
fucilato.
Gli uomini incaricati di sorvegliare il filo telefonico si presentino con la fascia
coll’iscrizione “LEITUNCHESWASCH” al capo reparto tedesco. Il trasporto sarà
eseguito da camion dell’esercito tedesco.
Esenzioni. Sono esenti: 1) Ammalati; 2) Impiegati Ospedali; 3) Impiegati
Comunali, compreso il personale dell’acquedotto; 4) Impiegati della Tesoreria
Comunale; 5) Sacerdoti; 6) Carabinieri.
Nota bene: per quelli appartenenti alle classi ora cadenti a quella del 1900 sono
ammessi arruolamenti volontari.
Adunata dalle ore 15 alle ore 17 di oggi in piazza S. Lorenzo. Sanzioni contro
coloro che si rendessero latitanti il comando Germanico verrà la forza delle armi.
Castelforte il 23 settembre 1943.
Il comandante
N. B.: Il testo è riportato con tutte le sue scorrettezze, senza alcuna modifica.
Il 23 settembre è giovedì, un triste, doloroso e indimenticabile giorno per Castelforte:
iniziano i rastrellamenti degli uomini, che per i tedeschi costituiscono una irrinunciabile
forza lavoro da utilizzare in Germania nella produzione industriale e agricola, nella
manutenzione delle linee ferroviarie, nella costruzione di fortificazioni, nello sgombro
delle macerie provocate dai bombardamenti aerei, nel carico e scarico di navi e treni,
nonché nelle miniere.
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Inoltre, il loro impiego è ritenuto indispensabile, poiché consente la sostituzione degli
operai tedeschi chiamati a rafforzare gli organici della Wehrmacht, dopo la defezione
dell’Esercito Italiano, conseguente alle vicende dell’8 settembre.
Il proclama ingiunge a tutti gli uomini, militari e civili, delle classi appartenenti alla
fascia 1900-1925, “capaci a portare le armi e lavorare”, di radunarsi, dalle 15:00 alle
17:00, nella piazza di San Lorenzo, zona periferica.
I tedeschi, preventivamente, fin dal mattino, controllano le vie di uscita dal paese. Nel
primo pomeriggio iniziano un massiccio e sistematico rastrellamento di tutti i quartieri,
che si conclude con la cattura di centinaia di uomini; alcuni si presentano spontaneamente.
Molti dei rifugiati nelle colline adiacenti al paese, essendo stati informati del contenuto del
bando, rientrano e si consegnano ai tedeschi, per timore delle minacciate ritorsioni o
rappresaglie anche nei confronti delle loro famiglie.
LE TESTIMONIANZE DEI RASTRELLATI
Si riportano alcune testimonianze dei protagonisti di quella triste giornata.
Francesco Cimino, uno dei cittadini catturati quel giorno, così nel suo libro racconta la
sua triste avventura:
È il 19 settembre, domenica, giorno in cui da sempre si svolge il mercato settimanale. La Piazza Vittorio
Emanuele è piena di venditori ambulanti e acquirenti, quando verso le 10:30, improvvisamente, inizia un
fuggi fuggi. Sono insieme a mio padre, nei pressi del mercato: noto questo spettacolo. Cerco di rendermi
conto e, mentre domando a una persona cosa sta succedendo, intravedo due tedeschi che rincorrono alcuni
giovani. Corriamo anche noi verso casa, dove apprendiamo, però, che i tedeschi, visto fallire il colpo, sembra
che rinuncino alla razzia. Le strade si svuotano ugualmente e tutti, specie noi giovani, cerchiamo scampo
nelle vicine colline. […] All’alba del 23 settembre, puntualmente, prendiamo la via della montagna.
Rimaniamo in collina fin verso le ore 14:00 e in quel lasso di tempo ci raggiunse un mio parente che ci
informò su quanto stava accadendo in paese e ci mostrò una ordinanza del comando militare tedesco che
ingiungeva ai giovani di presentarsi al comando stesso per accertamenti. Chi avesse trasgredito l’ordine
avrebbe subìto conseguenze con rappresaglie verso la propria famiglia e la distruzione dell’abitazione. Ci
consultammo e decidemmo di rientrare in paese in ordine sparso, ma senza alcuna speranza di essere protetti,
in quanto non c’era alcuna nostra autorità in grado di farlo. Il podestà, unico che poteva esercitare una
qualche pressione, era stato preso in ostaggio. Così tornammo in paese e io e mio fratello entrammo in casa
da due usci diversi e trovammo tutti riuniti in sala da pranzo. Io riferisco il contenuto dell’ordinanza dei
tedeschi e questo rende l’atmosfera ancora più drammatica. […] Lascio casa e mi reco, con mio fratello, nei
pressi del ristorante Tucciarone, dove trovo già molte persone “razziate” alle quali se ne aggiungono altre, a
mano a mano, che l’operazione di rastrellamento si conclude. Da qui ci portano alla frazione di San Lorenzo,
dove troviamo altri “razziati”. Tutti insieme partiamo con due camion. Attraversiamo il territorio di
Castelforte e di Minturno, fino a giungere alla strada statale Appia e da questa, velocemente attraverso Scauri
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e Formia, giungiamo a Gaeta dinanzi alla sede del Comune. È difficile descrivere quanto abbiamo notato
durante il viaggio. Sono scene di apocalittica distruzione. La piazza antistante la sede comunale è il punto di
concentramento; continuano a giungere i “razziati” da centri vicini e, finalmente, intorno alle 19:00,
inquadrati ci conducono a piedi, formando un lungo corteo, verso la fortezza che fu degli Svevi, degli
Angioini e degli Aragonesi.
Arturo D’Aprano, sergente maggiore della Milizia, in servizio a Roma e in licenza a
Castelforte in quel periodo, nel suo diario inedito, scritto durante il suo internamento in
due lager in Germania, così annota gli avvenimenti di quei dolorosi giorni:
19 settembre 1943, ore 10, mentre ero da Giovanni Volpe, fuggi fuggi generale per cattura uomini da
parte dei tedeschi. Falso allarme. Da ieri versamento delle armi da parte di tutti i cittadini. Rilasciata
dichiarazione che la mia pistola mi fu ritirata dai tedeschi a Gaeta, il mattino del 9 settembre 1943.
23 settembre 1943 rastrellamento di me. Data di prigionia.
23-9-43 Partito da casa alle ore 17,30 e giunto a Gaeta alle 18,15 su di un camion con tutti paesani.
Passando per Formia ebbi un senso di terrore per il mucchio di macerie che vidi fino al pastificio Pavone
[Paone]. Fummo alloggiati nel reclusorio Militare (quanto onore!), dopo che ci fu dato un pane in due e un
formaggio in astuccio di zinco in tre persone. Verso le ore 21, trovai altri paesani e mio cognato Alfiero [Di
Mambro]. Ci mettemmo insieme a dormire per terra su di una coperta dataci. Ma a mezzanotte fummo
svegliati da due colpi di pistola [:] era la sveglia per i 300 che dovevano partire per primi. Ci capitammo tutti
noi paesani. Fummo cacciati fuori alle 3 e fino alle 7 ora in cui partimmo alla volta di Frosinone ivi
giungendo alle 10 circa e nella piena convinzione di raggiungere la mia sede: Roma.
24-9-43 Io e un collega dell’82[°] Fanteria fummo presentati al comando tedesco e ci dissero di
attendere l’interprete. Fummo alloggiati nell’edificio scolastico Pietro Tramonti fino alle 8 del 26 corrente.
[…]
26-9-43 Partiti da Frosinone alle 8, sotto una pioggerella fino alla stazione e prima di partire sotto la
tettoia della p.v. [pensilina viaggiatori] in riparo di una forte pioggia. Alle 9,40 fummo fatti salire in carri
bestiame (40 per carro) e alle 10 circa partimmo alla volta di Roma. Giunti alla staz. Casilina alle 19 ove
sostammo circa un’ora e di lì alla Tiburtina alle 24 [,] ora in cui partimmo. Fummo dati a bere dai ferrovieri e
aperta la porta chiusa con filo di ferro. Prima di giungere a Orte si gettarono 2 paesani con altri 3 di Formia e
dopo Orte altri paesani (circa 6).
[…]
30-9-43 Giunti a Memmingen alle 2 [,] alle 7 ci fecero scendere, inquadrati ci portarono in una palestra
scolastica e dopo divisi per squadre ci diedero del te [tè] e burro con pane. Stemmo lì fino al mattino del...
1-10-43 Verso le 7 ci inquadrarono e ci portarono al Campo VII-B [,] dopo la immatricolazione, (1)
versamento denaro e compilazione moduli notizie. Versai £ 560 e mi fu presa la lampada tascabile che mi
dispiacque tanto. Mi sentì male fino a sera. Non mangiai neanche. Ci fecero fare il bagno dopo consumato il
pasto sulla strada (patate e trippa). Alle 16 giungemmo al Campo e ci divisero per squadre facendoci
occupare posto sotto una grande tenta [tenda]. La mia era la I squadra composta di 50 elementi quasi tutti
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paesani, tra i quali il Compare Cimino, il fratello e mio cognato Alfiero. La notte fece freddo e umido. (1) N.
10104.
Alfiero Di Mambro, nel suo articolo pubblicato dal periodico mensile «Il Golfo», così
rivive la sua indimenticabile esperienza di rastrellato e deportato:
[…] La popolazione, nel tentativo di sfuggire alla cattura, si riversò in massa sulle colline circostanti
l’abitato, trascorrendo i giorni e le notti all’addiaccio. Il 23 settembre [1943], in seguito ad azioni di
sabotaggio, posto in essere da cittadini, contro le forze di occupazione, i tedeschi effettuarono un massiccio
rastrellamento di civili di tutte le età. Fu in questa triste circostanza che, unitamente all’ex carabiniere
Gallucci Ersilio, fummo, con la forza delle armi, da due tedeschi, sul sagrato della Chiesa dell’Annunziata,
rastrellati e condotti in S. Lorenzo, e quindi caricati su camion insieme a decine e decine di compaesani e
internati nel reclusorio militare di Gaeta. Dopo alcuni giorni di coartata libertà, una mattina, a colpi di
pistola, fummo svegliati, con espresso invito di utilizzarci per lo sgombero delle macerie di Cassino. Ci
condussero invece, nottetempo, anziché sulla strada per Ausonia, verso la statale per Itri, Pico, Ceprano,
Frosinone. Qui fummo concentrati in un edificio scolastico per diversi giorni.
Nel trasferimento da Frosinone allo Scalo ferroviario, inquadrati e vigilati, ricordo che il Sig. Giovanni
Fabiani, di Fondi, sposato a Castelforte, riuscì a eludere la vigilanza tedesca, rifugiandosi in un casolare.
Caricati e ammassati come bestie nei carri-derrate, sigillati esternamente, partimmo. Allo Scalo di Ciampino,
il capotreno, passando per una finta ispezione dei carri, a bassa voce, ci avvertì che, sulla salita di Orte,
avrebbe fatto rallentare l’andatura del treno per consentire ai fortunati, che avessero avuto la forza di
scappare, di riacquistare la libertà, gettandosi dal treno. Con me vi erano, tra gli altri, Antonio Patriarca,
Capolino Michele, Saltarelli Rosindo, Giuliano Gildo, D’Aprano Arturo, Alessandro Vezza, Ernesto
Viccaro, Cavezzano Attilio, Garigliano Amedeo, Russo Ottavio, Ciani Alfredo – poi finito nel campo di
sterminio di Buchenwald Dora – Mignano Antonio, Ferro Vincenzo, Tipaldi Alfonso e i fratelli Francesco e
Giuseppe Cimino. Quando venne il momento della decisione, ricordo che nella zona di Orte, nottetempo, si
lanciarono dal treno Lucio D’Urso, Saltarelli Rosindo, Garigliano Amedeo e i fratelli Giovanni e Francesco
Orlandi da Formia, e altri che mi sfuggono. Prima di giungere a Firenze, i tedeschi ci avvertirono che
avrebbero resi liberi tutti coloro che si fossero arruolati nella Guardia Repubblicana. A Firenze, le promesse
rimasero tali. Anzi uno di noi, per essersi allontanato un po’ dal treno, venne falciato a colpi di mitraglia
presso la stazione di S. Maria Novella, ove ci avevano fatto scendere per ristorarci. Era un povero deportato
a noi sconosciuto! Anche nella galleria Firenze-Bologna ci fu data la possibilità di tentare la fuga, perché il
macchinista rallentò l’andatura; ma la impenetrabile oscurità non ci incoraggiò a tanto. In questa ultima
occasione, a nostra insaputa, si lanciarono, tra gli altri, Ottavio Russo e Gildo Giuliano […] Noi
proseguimmo mestamente per il Nord e, quindi, internati nei campi di concentramento e di sterminio KZ
della Germania, ove fummo costretti ai più brutali lavori e a quelli per la produzione di armi segrete […].
Gildo Giuliano (Cosemino), lanciatosi dal treno in corsa che lo sta portando in
Germania, ci lascia una rilevante e dettagliata testimonianza con la quale rievoca la sua
dolorosa e rocambolesca storia:
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Il giorno 23.9.1943 a Castelforte fui rastrellato dalle truppe tedesche, insieme con altre centinaia di
uomini (giovani e anziani). Ci portarono con camion nel reclusorio militare di Gaeta e di lì, in piena notte, in
un edificio scolastico di Frosinone. Dopo tre giorni ci chiusero in vagoni merci di una tradotta militare diretta
in Germania. Dopo un paio di giorni di viaggio arrivammo alla stazione ferroviaria di Firenze-Rifredi. Qui
Russo Ottavio riuscì tramite un ferroviere ad avvertire sua sorella suora, che viveva a Firenze, la quale, dopo
qualche ora, si presentò con una cesta piena di pane vicino al treno dove eravamo rinchiusi. I tedeschi in
malo modo la scacciarono. Da allora decidemmo di scappare a ogni costo. Appena giunta la sera, per primo
io, e dopo Ottavio, ci buttammo dal treno in corsa sotto la galleria Firenze-Bologna, lunga 18 chilometri. Io
riuscii dopo il lancio, correndo e non lasciando il treno, a salvarmi, mentre Ottavio, un po’ più anziano, non
riuscì a staccare le mani dal treno e finì con una gamba sotto una ruota. Dopo di noi si gettarono altri due
giovani, uno dei quali, il compaesano Cerimoniale Giuseppe, e insieme riuscimmo a uscire dalla galleria,
mentre i tedeschi, dal treno che si allontanava, sparavano raffiche di mitra. Fu una notte piena di peripezie.
Quando uscimmo dalla galleria, pioveva a dirotto. Noi utilizzammo, come barella, una coperta. Cercammo
alla meglio di fermare il sangue della gamba ridotta a brandelli e ci avviammo per i paesi appenninici in
cerca di asilo. Dalle case, cui noi bussavamo, non rispondeva nessuno. Tutti avevano paura. Prima dell’alba,
finalmente, ci accolsero in una casa dove chiamarono un dottore, il quale ci portò all’ospedale di Vergato, in
provincia di Bologna. Qui io persi i sensi per parecchie ore e, quando rinvenni, vidi Ottavio che era stato già
operato e gli avevano amputato la gamba. Parlammo un bel po’ insieme; poi mi diede l’indirizzo della sorella
e mi pregò di avvertirla. Quindi, tornando, passai per il convento della suora e l’avvertii, descrivendole tutta
la situazione; poi mi preparai per il ritorno verso casa, dove arrivai nei primi giorni di ottobre. Subito mi
rifugiai sulle montagne e, finalmente, quando le truppe alleate varcarono il Garigliano il 17.1.1944, passai il
fronte e mi trovai in territorio liberato. Alla fine della guerra, venni a sapere che Ottavio era morto, dopo
pochi giorni, da quando lo avevo lasciato.
Filippo Coviello, in un’ampia e articolata testimonianza scritta, rivive con puntualità e
precisione quei tristi giorni:
Il 19 settembre 1943, domenica mattina, io mi trovavo nel bar di Giuseppe Mazzante, all’imbocco di via
Capo di Ripa. Sentii dei trilli di fischietti, mi affacciai e vidi che la gente scappava gridando: I tedeschi! I
tedeschi! Le persone erano tante, residenti e non, e correvano imboccando le vie che portavano verso la
montagna. Coloro che avevano difficoltà nel correre cercavano rifugio nelle case più isolate.
Intanto in paese il comando militare tedesco aveva fatto affiggere un manifesto di fronte alla rivendita di
Coletta, con il quale si invitavano tutti gli uomini idonei al lavoro, nati dal 1900 al 1925, a presentarsi entro
le ore 17:00 al comando militare tedesco di San Lorenzo, per essere avviati fuori del territorio di guerra e,
quindi, utilizzati in lavori connessi alle necessità belliche. Nello stesso tempo, minacciava gli inadempienti di
provvedimenti coercitivi, estensibili alle famiglie e ai loro beni. Dato che ero l’unico della famiglia soggetto
all’osservanza di quel bando, contro la volontà dei miei familiari, decisi di presentarmi. Verso le ore 16:00,
insieme a tanti altri amici, mi avviai verso San Lorenzo. Ci seguirono diverse donne, tra le quali mia madre.
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La separazione avvenne tra abbracci, grida, raccomandazioni e pianti. Amia madre dissi: Se uno di questi
torna, tornerò anch’io!
I tedeschi ci trasferirono con dei camion a Gaeta, scaricandoci nel cortile del castello Angioino. Altri
camion stracarichi di persone continuarono ad arrivare da Castelforte e dai paesi vicini. Per la notte ci
sistemammo alla meglio nei sotterranei. Portavo con me un borsone, non ricordo se presi da esso una coperta
militare, o se me la procurai sul posto; mi sistemai alla meglio. Quando pensammo di poter riposare,
sentimmo diversi spari, uscimmo nel cortile per sentirci dire: Si deve partire subito. Quelli che partiranno per
primi saranno utilizzati nei posti migliori. Partii tra i primi. Credo che passammo attraverso i territori di Itri,
Lenola, Pico, Ceprano per fermarci a Frosinone, nei pressi di un edificio scolastico. Era ancora notte e,
appena a terra, i tedeschi, armi in pugno, ci ingiunsero di scaricare dai camion filoni di pane nero
(sembravano pezzi di traverse ferroviarie). Nel pomeriggio di sabato, sotto una leggera pioggia, ci
incolonnarono e, sotto scorta armata, ci condussero allo scalo ferroviario di Frosinone. Lungo il percorso, il
primo che riuscì a scappare fu Arturo Fabiani.
Un lungo treno merci, composto di carri bestiame, ci stava aspettando. Nel carro, dove capitai, eravamo
una cinquantina circa, prevalentemente paesani, tra i quali Di Mambro, Di Paola, Garigliano, Gallucci,
Giuliano, Gattola, Galardo, Lepanto, Russo, Saltarelli. Completato il carico, il convoglio si mosse. Il treno
arrivò a Roma in piena notte. La stazione non era illuminata. L’oscurità, però, ci favorì; difatti, alcuni di noi
riuscirono a parlare attraverso i finestrini con i ferrovieri, i quali portarono acqua per dissetarci, liberarono i
portelloni dalle chiusure esterne, e ci permisero di chiedere ai macchinisti di ridurre durante il percorso, dove
era possibile, la velocità del treno. Dopo qualche ora, il treno ripartì. Era buio pesto. I primi che saltarono
fuori dal treno furono – così credo – i fratelli Francesco e Giovanni Orlandi di Formia. A Poggio Mirteto
saltò Piero Tommarello di Spigno, a Civita Castellana, Rosindo Saltarelli e Pasqualino Di Paola di
Castelforte. Quando stavo per saltare, mi accorsi che il treno transitava su un ponte. Attesi un po’ e, rivolto
all’interno del carro, dissi: Mi segua almeno un paesano. Poi saltai e feci un ruzzolone lungo una piccola
scarpata, fermandomi nella sottostante cunetta, appena in tempo per evitare un fascio di luce, che,
proveniente dalla coda del treno, spazzò i binari, sfiorandomi. Appena mi alzai, fortunatamente illeso, mi
allontanai dalla ferrovia per nascondermi dietro una siepe, ove aspettai lo scorrere di un po’ di tempo. A un
tratto sentii dei passi, e una voce che mi chiamava. Constatato che si trattava di una persona sola, risposi: era
Almerindo Galardo, amico e paesano, il quale, appena avvicinatosi, mi disse: Scappiamo, il treno si sta
fermando!
Attraversata una strada, ci addentrammo in una pineta e decidemmo di passarvi la notte. Era il 25
settembre. Almerindo dormì sodo. All’alba lo svegliai e insieme, vista a una certa distanza una coppia di
contadini, chiedemmo loro notizie della zona in cui ci trovavamo. Ci assicurarono che stavamo nei pressi
dello scalo ferroviario di Orte. Ritenemmo prudente portarci nel posto dove la notte prima avevo intravisto
un casello ferroviario; vi trovammo una cortesissima famiglia che, sentita la nostra storia, ci rifocillò. Poco
dopo il capofamiglia ci accompagnò in prossimità della stazione, assicurandoci che non era controllata dai
militari. C’era tanta gente ad aspettare. Il primo treno che arrivò dal Nord era stracarico; noi, insieme a tanti
altri, partimmo all’arrembaggio, piazzandoci sui predellini. A Monterotondo, dopo una breve sosta del treno,
ci trovammo a fianco di Esilio Gallucci, altro amico e paesano. Il treno ripartì procedendo lentamente.
Arrivati alle porte di Roma, scendemmo alla prima stazione. Dopo esserci riuniti a una decina di persone,
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entrammo in un ristorante, dove, consumato un frugale pasto, convenimmo sulla opportunità di rientrare ai
nostri paesi per ferrovia.
Mario Francavia, nella testimonianza registrata da Leonida D’Aprano, dopo tanti anni,
in modo lucido e dettagliato, rievoca le sue vicissitudini e spiega come ha evitato, dopo la
cattura da parte dei tedeschi, l’internamento in Germania e il lavoro coatto nella zona del
Garigliano. Egli era stato chiamato alle armi nel 1937 per il servizio di leva in marina e
imbarcato sull’incrociatore Duca degli Abruzzi. Al momento del congedo era stato
trattenuto in servizio a causa dello scoppio della guerra. Durante il servizio, aveva
partecipato a due missioni di guerra (12.06.1940 e 25.08.1940) e alla battaglia navale di
Punta Stilo (Mare Ionio 09.07.1940). Il 9 settembre 1943 era sbarcato a Taranto; il giorno
15, ottenuta la licenza di convalescenza di 30 giorni, era ritornato a Castelforte. Come tanti
altri compaesani era incappato nel rastrellamento attuato dai tedeschi il 23 settembre 1943
e condotto a Gaeta. Così racconta la sua odissea:
Catturati dai tedeschi, siamo stati condotti alla caserma Mazzini di Gaeta, ex reclusorio militare.
All’arrivo siamo stati sistemati in una grossa camerata arredata con spesse tavole, che fungevano da letti per
i reclusi. La camerata era sporca e infestata di cimici e pulci. Il secondo giorno di permanenza, in piena notte,
siamo stati svegliati bruscamente e avviati verso il cancello di uscita. Al mio fianco camminava un certo
Giuseppe Perretta (Peppino) di Cellole, sposato a Castelforte, il quale mi ha detto, a bassa voce: Cammina
piano, non avere fretta, altrimenti parti. Ho seguito istintivamente il suo consiglio e ho rallentato il passo,
facendomi sorpassare dagli altri. Quando sono giunto in prossimità del cancello, ho notato che era chiuso e
ho capito il significato del suo suggerimento: i primi a uscire sono stati fatti salire sui camion parcheggiati
nel cortile e subito trasferiti a Frosinone; per noi ritardatari, fortunatamente, non c’erano più i camion. Per
tale motivo ci hanno fatto rientrare nella camerata. Qualche giorno dopo questo fatto, a Gaeta c’è stato un
bombardamento aereo e una bomba è esplosa in mare, vicino al reclusorio. Io stavo tagliando la barba a un
compagno. Abbiamo avuto tanta paura. Perretta, invece, è stato colto da una crisi di panico, perché era molto
pauroso; ma io sono riuscito a rincuorarlo e a calmarlo. Durante il soggiorno a Gaeta, Perretta ha organizzato
delle assemblee e delle riunioni, durante le quali ci parlava delle alternative che si prospettavano per noi:
lavorare in Italia o partire per la Germania.
Una mattina i tedeschi hanno formato un gruppo di elementi più giovani, compreso me, per informarlo
che l’indomani lo avrebbero condotto a Roccamonfina a caricare il legname. Siamo rimasti lì due o tre
giorni: abbiamo dormito nelle grotte, che si trovavano nel bosco, mangiato pane, salame, lardo, grasso di
maiale, formaggio e castagne. Poi siamo tornati a Gaeta e abbiamo portato tante castagne raccolte nel bosco.
Ai nostri compaesani, una decina, che non sono venuti con noi, abbiamo suggerito di sfruttare l’eventuale
occasione di andare a lavorare a Roccamonfina per raccogliere le castagne nel bosco.
Il tempo trascorreva lento e monotono, sempre rinchiusi nel reclusorio. Fortunatamente a me hanno
procurato gli attrezzi da barbiere e, così, ho potuto esercitare il mio mestiere. Un giorno ho incontrato Aldo
D’Orvé (Peppino), di Castelforte, il quale nel reclusorio era conosciuto da tutti ed era tenuto in grande
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considerazione dai nostri carcerieri. Ad alcuni di noi ha consigliato di sottoporci a visita medica. Dopo
qualche tempo, mentre noi eravamo sdraiati sulla paglia, ci hanno chiamato per la visita medica, effettuata da
un tenente medico tedesco e da un tenente medico della nostra Marina. Il medico tedesco era favorevole al
mio rilascio, mentre quello italiano era contrario, perché, secondo lui, io potevo svolgere i lavori leggeri.
Così sono rimasto a Gaeta fino ai primi giorni di febbraio 1944. Con me c’erano una decina di paesani e un
centinaio di rastrellati dei paesi vicini. Peppino D’Orvé, dopo qualche tempo, è ritornato al reclusorio in
divisa da caporale della Milizia, con un moschetto portato ad armacollo e con una sessantina di cartoline di
mobilitazione. Si è avvicinato al gruppo, di cui facevo parte, per dirci: Si parte, andiamo a Tarquinia;
facciamo un periodo di addestramento di un mese e poi andiamo a combattere. Prontamente gli ho risposto:
Io non combatto contro gli italiani. Io sono militare, non fascista.
Egli di rimando: Stai zitto, non farti sentire, lascia fare a me. Io vi porto a casa. A Castelforte, sopra
Tamburriello, c’è un cannone costiero antisbarco, che c’è stato affidato. Io, poco convinto, ho ribattuto in
modo minaccioso: Se non c’è il cannone e devo andare a combattere, quando ti vedo, ti…
Egli, con altre delucidazioni, mi ha fatto capire, parlando a bassa voce, ciò che intendeva effettivamente
fare; così ho deciso di fidarmi di lui. Dopo ha consegnato a me e ad altri cinque o sei la divisa da milite e il
moschetto. Si è accorto che la mia cartolina di mobilitazione riportava il nome di Damaschino Mario,
anziché Francavia Mario, provvedendo immediatamente a farla rettificare. Prima di andar via, ci ha detto:
Domattina alle cinque partiamo e andiamo a Castelforte.
L’indomani, come aveva promesso, siamo usciti dal reclusorio, con lui in testa, e a piedi, ci siamo
incamminati verso Castelforte. Erano i primi giorni di febbraio 1944. Giunti a Vindicio, a metà strada tra
Gaeta e Formia, siamo incappati in un terribile bombardamento aereo. Abbiamo fatto appena in tempo a
ripararci in un fosso, protetto da un muro. Ritornata la calma, abbiamo ripreso il cammino. Ma giunti a
Scauri, abbiamo subìto un altro bombardamento. Quando siamo arrivati nei pressi della stazione ferroviaria
di Minturno, siamo stati fermati dai tedeschi, ai quali abbiamo detto, in modo goffo, parlando alla loro
maniera e mimando le parole, per cercare di farci capire: Noi camerati. Andare momento casa, famiglia; poi
partire e bum… bum… bum. I tedeschi, facendo cenno col capo di aver capito, hanno risposto: Ja, ja, ja.
Soddisfatti della nostra risposta, hanno assunto un atteggiamento amichevole nei nostri confronti. Infatti,
dopo averci offerto delle sigarette, ci hanno fatto passare. Io, appena giunto a Castelforte, mi sono rifugiato
in località Ortali, stando sempre nascosto per sfuggire ai tedeschi. Finalmente, il 10 febbraio 1944, attraverso
un sentiero nei pressi di Rio Rave, con mia moglie, mio cognato e mia suocera, sono riuscito ad attraversare
la linea e mettermi in salvo in territorio occupato dagli angloamericani. Con l’aiuto dei soldati alleati mi sono
sistemato a San Castrese di Sessa Aurunca, dove, finalmente libero, ho svolto il mestiere di barbiere sino alla
fine della guerra. Devo la mia salvezza a due persone: Giuseppe Perretta e Aldo D’Orvé.
I tedeschi continuano a eseguire periodici e improvvisi rastrellamenti degli uomini per
adibirli ai lavori di consolidamento delle strutture di fortificazione della linea Gustav o,
addirittura, per internarli nei campi di lavoro in Germania, nei famosi stammlager. I
rastrellamenti sono eseguiti soprattutto nelle zone collinari, ove si è riversata in massa la
popolazione.
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La mattina del 2 novembre 1943, un drappello di soldati tedeschi, giunti in Italia dopo
la disfatta in territorio oltremare, in divisa color cachi, tipica dei reparti dell’Afrika Corps,
compie nella zona collinare un massiccio e improvviso rastrellamento. Nella retata, in
località Pozzari, tra gli altri, incappano cinque giovanissimi, di età compresa tra i diciotto e
i venti anni: i fratelli Edoardo e Giuseppe Di Pastena, Luigi Lentisco, Antonio Testa e
Alberto Vezza. Costoro sono condotti prima a Coreno Ausonio, dopo a Frosinone, dove un
convoglio ferroviario, costituito di carri merci e bestiame, è pronto per il trasferimento in
Germania. In questo frangente, Edoardo Di Pastena ha la possibilità di eludere la vigilanza
e fuggire, ma non coglie l’occasione per restare insieme con il fratello che, secondo lui, ha
bisogno della sua protezione e del suo sostegno per affrontare quella difficile situazione in
cui si trova. Infatti, Giuseppe è studente dell’Istituto Nautico “Caboto” di Gaeta, non è
ancora abbastanza smaliziato e temprato ad affrontare le avversità della vita.
I rastrellati, dopo un interminabile viaggio, giungono al campo di Reichenau
(Innsbruck), ove trascorrono quasi due anni di internamento in condizioni disumane,
dovute alle continue vessazioni, ai patimenti della fame, alle precarie condizioni igieniche,
ai duri lavori ai quali sono quotidianamente sottoposti. Nonostante tutto, riusciranno a
sopravvivere e a tornare a casa il 22 agosto 1945, tranne Giuseppe Di Pastena, il più
giovane!
La tragica e immatura scomparsa di questo giovane sconvolge l’esistenza dei suoi
genitori e suscita enorme commozione in paese. Di questa dolorosa vicenda Luigi,
all’epoca dei fatti un bambino di appena tre anni, conserva indelebilmente nella memoria il
racconto degli episodi più rilevanti e drammatici vissuti dal fratello Giuseppe, ascoltati
durante la sua infanzia, in un clima familiare in cui aleggiava quell’inconsolabile dolore
per la grave perdita subìta. Giuseppe – ricorda Luigi (Gigino) – il 16 dicembre 1943 fa
parte di una squadra di prigionieri incaricata della rimozione delle macerie dopo un
bombardamento aereo. Si tratta di un lavoro abituale, poiché gli Alleati quotidianamente
eseguono continui e devastanti bombardamenti delle città della Germania. Il lavoro è
faticoso, estenuante e richiede dispendio di energie, di cui gli internati non dispongono a
causa della insufficiente alimentazione somministrata al campo. Dopo ore di snervante
lavoro, sono affaticati, esausti, debilitati e, soprattutto, affamati. Durante la rimozione
delle macerie rinvengono alcuni barattoli integri di sottaceti. Sono consapevoli che sono
previste gravi sanzioni per coloro che si appropriano degli oggetti recuperati, sia pure di
scarso valore. Ma la fame è incontenibile, e quel cibo emerso dalle macerie è una
irrefrenabile tentazione. Sono giovani e hanno bisogno di energie per attenuare i morsi
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della fame, dopo ore di estenuante lavoro. La fame certamente è più forte delle minacciate
punizioni! Aprono quei barattoli e ne mangiano il contenuto. Giuseppe, secondo alcuni
testimoni, non mangia neppure quel cibo. I sorveglianti osservano e non intervengono,
lasciano fare; la sera, però, al rientro al campo informano il comandante dell’accaduto.
Questi, dopo un processo sommario, in palese violazione della Convenzione internazionale
dei diritti dei prigionieri di guerra, decreta la condanna a morte di quegli sfortunati
giovani, colpevoli di appropriazione indebita di beni della Germania, condanna eseguita
la stessa sera! È una esecuzione sommaria!
Le vittime, di questa barbarie nazista, secondo alcuni testimoni, sono sette. È trascorso
soltanto poco più di un mese dalla cattura di Giuseppe! Edoardo, alloggiato in un’altra
baracca, rientrato la sera al campo da un altro lavoro, non è neppure informato della
tragica sorte toccata al fratello; solo dopo circa tre mesi scoprirà la tragica e dura verità e il
luogo della sua sepoltura.
Si racconta che una donna austriaca, commossa dal triste destino riservato a questo
giovane internato italiano, periodicamente abbia deposto sulla sua tomba dei fiori. I resti
mortali di Giuseppe subiscono vari spostamenti, che ne fanno perdere così le tracce.
Nel frattempo i genitori, rimasti a Castelforte, nel mese di febbraio 1944 riescono a
raggiungere il territorio alleato e la salvezza oltre il fiume Garigliano. Dopo un breve
periodo di permanenza a Sessa Aurunca, sono trasferiti a Cittanova (Reggio Calabria).
Essendo in territorio alleato, dei figli internati in Germania non possono ricevere notizie.
Al termine della guerra, con il ritorno a Castelforte, scoprono in maniera del tutto casuale
che Giuseppe è deceduto in Germania. Difatti, dopo alcuni giorni dal loro rientro, Pietro
Di Paola, incontra Adolfo Di Pastena, il papà di Giuseppe, e nota la sua cravatta nera;
ritenendo che la porti per il figlio, gli porge le sue condoglianze. Ma Adolfo Di Pastena,
invece, portava il lutto per la morte del cognato. Pietro Di Paola, mortificato per
quell’increscioso equivoco e per il grande dolore involontariamente provocato all’amico, è
costretto a rivelargli la tragica morte del figlio. Solo con il ritorno di Edoardo e degli altri
internati, la famiglia Di Pastena conoscerà alcuni tristi dettagli della vicenda. Edoardo,
durante la prigionia, ha scritto un diario in cui certamente ha annotato le sue dolorose
vicissitudini e la tragica fine di suo fratello, ma non ha mai voluto farlo leggere ai familiari
o rivelarne il contenuto. Dopo la sua morte, avvenuta il 30 settembre 2004, del diario si
sono perse le tracce. Forse egli, per pudore o per risparmiare ai suoi familiari un nuovo
dolore determinato dalla conoscenza di certi particolari della vita nel campo e della morte
del fratello, ha preferito distruggerlo.
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Trascorrono gli anni, ma il dolore della famiglia non si attenua. I genitori hanno un
solo desiderio: ritrovare la tomba di Giuseppe e trasferire le sue spoglie nel cimitero di
Castelforte. A tale proposito i fratelli Di Pastena, lo stesso Edoardo, Mario e Luigi, si
recano in Austria e fanno il giro dei cimiteri consultando i registri dei defunti. La ricerca
consente solo di individuare il nome di Giuseppe tra i deceduti, senza l’indicazione del
luogo di sepoltura. La famiglia è determinata e non demorde. Dopo alcuni anni da questo
tentativo, a Castelforte giunge in visita ufficiale il ministro Giulio Andreotti. La madre,
Meola Pasqua (Pasqualina), ritiene che egli sia l’unica persona in grado di fare qualcosa
per individuare il cimitero ove riposa suo figlio Giuseppe. Chiede l’intervento del sindaco
Alfiero Di Mambro, per ottenere un colloquio con il ministro.
L’on. Andreotti, quando si trova davanti la signora Di Pastena, vestita di nero, con il
volto ancora segnato dal dolore e con una collana da cui pende un ciondolo con la foto del
figlio, ritiene che lei abbia bisogno di un aiuto economico e le offre diecimila lire. La
signora con tono deciso gli dice: “Io non ho bisogno di denaro, ma solo di abbracciare le
spoglie di mio figlio trucidato in Germania, e non so dove si trovino”.
Il Ministro, sensibile al dolore inconsolabile di questa madre, quando rientra a Roma,
attiva tutti i canali diplomatici per individuare la tomba di Giuseppe. Il suo intervento è
decisivo e provvidenziale. Dopo qualche tempo, infatti, la famiglia Di Pastena il 18 giugno
1976 riceve la comunicazione ufficiale dal Ministero della Difesa che la tomba di
Giuseppe si trova nel cimitero di Amras (Innsbruck). La tumulazione ufficiale dei resti
mortali di Giuseppe avviene nel cimitero di Castelforte il 18 aprile 1978, alla presenza
delle autorità, con gli onori militari e con la commossa partecipazione di tutta la
cittadinanza. Per perpetuare il suo ricordo, gli è stata intitolata la locale sezione “reduci e
deportati”, e conferito un attestato d’onore alla memoria.
Riportato in: D’Aprano Ezio, Affetti dispersi, La popolazione di Castelforte tra guerra e dopoguerra
1943-1944, Herald Editore, Roma, 2007, pagg. 22-37
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