...

Oriente-Occidente: sull`origine dell`equivoco dell`incompatibilità

by user

on
Category: Documents
22

views

Report

Comments

Transcript

Oriente-Occidente: sull`origine dell`equivoco dell`incompatibilità
ORIENTE
MODERNO
Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
brill.com/ormo
Oriente-Occidente: sull’origine dell’equivoco
dell’incompatibilità. Alcune considerazioni
Enrico Ferri
Università Niccolò Cusano – Roma
Abstract
Often, as much in the mass media as in scientific circles, one resorts to the categories of “East” and “West,” which are usually recited in a series of variations (for
instance ‘western values,’ ‘western civilisation,’ ‘western democracy,’ etc.), that are
used to indicate different, if not opposed visions of life, politics or culture.
The article shows how from the start, in Greek and Roman political thought and
historiography, an ideologically oriented reading of one’s own past developed;
these dynamics then were taken up again and accentuated, especially in the modern era, often to justify and legitimise processes of conquest and domination.
Keywords
East/West; Greece/Asia; Freedom; Roots; Troy; Identity
A Carmelo Motta
L’uso dei due termini, Oriente ed Occidente, spesso evocati per rappresentare due visioni del mondo alternative, se non contrapposte, è invalso nel
linguaggio delle scienze politiche e storiche, ma è pure entrato a far parte
del lessico dei media più diffusi.
Oriente ed Occidente vengono spesso usati sotto forma di aggettivi, in
endiadi che assumono una forte valenza ideologica, ad esempio “mondo
occidentale”, “valori occidentali”, “modello occidentale”, “cultura occidentale”, “sistema di vita occidentale”, ecc.
L’utilizzazione dei termini Oriente ed Occidente, in ultima istanza
sinonimi di civiltà nettamente differenziate, è da un punto di vista storico
relativamente recente, risale al XIX secolo.1 Assai più antica, però, è l’idea,
1 La “nascita dell’Occidente” intesa come elaborazione di una teoria del primato della civiltà europea e dei popoli di origine europea, che fonda il diritto/
Koninklijke Brill NV, Leiden, 2013
DOI: 10.1163/22138617-12340011
240
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
la teoria (cioè l’idea variamente articolata e giustificata) che vede la storia
umana come lo scenario in cui civiltà diverse e alternative, se non incompatibili, si confrontano e spesso si contrappongono.
Nelle pagine di presentazione di quello che costituisce il suo Lebenwerk,
il lavoro di una vita, (il conflitto tra Greci e Barbari culminato nelle Guerre
persiane) Erodoto inizia con il definirne le origini, prima mitologiche, poi
storiche, con il rapimento di Io, la figlia di Inaco re di Argo, a cui seguì per
rappresaglia il rapimento di Europa, figlia del re di Tiro, in terra fenicia,
da parte di “alcuni Greci”. Greci che si resero responsabili di un “secondo
sopruso”, quando gli Argonauti rapirono Medea, figlia del re dei Colchi, nel
Ponto Eusino, che si rifiutarono di restituire perché “i Barbari non avevano
dato soddisfazione per il rapimento dell’argiva Io”. La storia di questi rapimenti (Io, Europa, Medea) si chiude con il celebre ratto di Elena, che Erodoto presenta come un’ulteriore rappresaglia a cui Paride / Alessandro si
decide, anche perché “sicuro che non sarebbe stato punito poiché non lo
erano stati nemmeno gli altri”.
dovere di diffondere tale civiltà, si lega strettamente al fenomeno del colonialismo
e dell’imperialismo, in una logica di potenza ed in una prospettiva di conquista.
Allo stesso tempo, coerentemente, “Sin dall’inizio, la speculazione occidentale
intorno all’Oriente era incentrata sull’incapacità di quest’ultimo di rappresentare
se stesso” (Said, Edward W. Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente. Milano,
20087, p. 280. Titolo originale inglese Orientalism, 1978). Più in generale essa mirava
alla costruzione dell’Altro, a L’invention du sauvage (Actes Sud, 2011), tema d’una
interessante mostra che s’è tenuta fino al giugno 2012 a Parigi, al Musée du quai
Branly. Per quasi un secolo e mezzo migliaia di individui non bianchi, provenienti
da territori colonizzati di quattro continenti, furono considerati come materiali da
esibire (Exibitions. L’invention du sauvage, il titolo completo della mostra) in circhi,
zoo umani, locali come il café-théatre, in esposizioni coloniali e mostre itine­ranti. Quasi a rappresentare la loro radicale estraneità ad ogni forma di cultura
degna di riconoscimento, rispetto, tutela. “Toute la période des zoos humains correspond à l’absence de référents de l’Occident face aux altérités”, ha osservato Pascal Blanchard, uno dei curatori della mostra. Pierre-André Taguieff ha ricordato
come “il vero selvaggio è colui che non relativizza le evidenze del proprio gruppo
di appartenenza, che non pensa in modo decentrato”, in Il razzismo. Pregiudizi,
teorie, comportamenti, Milano, 1999, p. 11. Titolo originale francese Le Racisme.
Cfr. Bravo, Gian Mario. “L’Occidente e il dibattito su civilizzazione, colonialismo e
imperialismo”. A cura di Gian Mario Bravo. Imperi e Imperialismo. Modelli e realtà
imperiali nel mondo occidentale. XXIV Giornata Luigi Firpo. Atti del Convegno
internazionale – 26-28 settembre 2007, Roma, 2009, p. 167-187.
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
241
Questo evento segna non solo il passaggio dal mito alla storia, ma pure
da una serie di vicende personali, per così dire, ad una guerra fra popoli: tra
una coalizione di Greci da una parte e Troiani con i loro alleati dall’altra.2
Questo salto di qualità rappresentò un evento gravido di conseguenze,
che lo stesso Erodoto non mancò di sottolineare, in questi termini: “Fino
a questo punto, si trattava soltanto di rapimenti tra l’un popolo e l’altro;
ma, da questo momento, grave divenne la responsabilità dei Greci; poiché furono i primi a muovere in armi contro l’Asia, prima che quelli d’Asia
venissero contro l’Europa”.
Nel volgere di alcune pagine, il fatto che all’inizio appariva come una
razzia di marinai fenici che catturano alcune donne (“Io e alcune altre
furono rapite”) finisce per sfociare nell’evento (la guerra di Troia) che apre
il conflitto tra Europa ed Asia e viene considerato all’origine delle stesse
guerre persiane.
Le pagine d’esordio delle Storie erodotee si rivelano assai istruttive per
tentare di fissare, seppure in modo provvisorio e approssimativo, alcune
coordinate utili a definire le valenze di Oriente e Occidente: le origini e la
natura di tale dicotomia.
Al riguardo ci sono almeno quattro questioni fondamentali che vengono
evocate, a volte icasticamente fissate, nell’esordio delle Storie del Sapiente
di Alicarnasso. Mi sembrano potersi così elencare:
1) la questione interpretativa e dei criteri di giudizio;
2) il problema della responsabilità del conflitto;
3) la questione del rapporto tra territorio e identità culturali;
4) la questione della definizione della natura (“geografica”, etnica, culturale, “ideologica”) dei soggetti che si contrappongono (Greci–Barbari,
Greci–Persiani, Europa–Asia, ecc.).
2 Quasi unanimemente gli storici concordano sul fatto “. . . che Troia, città fiorente e ben munita dell’Asia Minore, sia stata assediata e distrutta da una coalizione micenea nella seconda metà del secolo XIII” (Omero. Iliade. Versione di
Rosa Calzecchi Onesti. Torino, 200921, p. I). Sul fatto che ci sia stata una guerra di
Troia, ma non necessariamente la guerra di Troia descritta nell’epopea che per tradizione s’attribuisce a Omero, c’è una sostanziale concordanza fra gli studiosi. Così
pure, incerta appare l’identificazione dello strato rinvenuto negli scavi sulla collina
di Hisarlik, probabilmente il VI. Utile per una messa a punto delle differenze tra “Le
nove città di Troia” il recente studio di Nic, Fields. Troia, tra storia e mito. Milano,
2010, p. 16-31 e 39-51. Titolo originale inglese Troy C. 1700-1250 BC.
242
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
Sul primo punto (la questione dei criteri interpretativi e di valutazione)
occorre ricordare che Erodoto, all’inizio della sua ricerca, dopo aver annunciato di voler narrare, perché non siano dimenticate, le imprese dei Greci e
dei Barbari e “la ragione per cui vennero in guerra tra loro”, affronta immediatamente l’analisi di queste ragioni, in questi termini: “Raccontano dei
dotti persiani che furono i Fenici a provocare l’inizio delle ostilità”. Erodoto
presenta, pertanto, tanto la versione persiana che quella greca dell’accaduto,
che tra loro divergono. Erodoto ricorda pure che all’origine della guerra,
almeno tra le sue cause remote, c’è una sostanziale diversità tra Greci e
Persiani nel giudicare gravità e responsabilità degli atti che furono poi visti
come un casus belli, cioè i rapimenti: “Ora, a giudizio dei dotti persiani, se
rapire donne è azione da uomini ingiusti, è agire da stolti il prendersi pena
per vendicarle; mentre è da uomini ben pensanti non curarsene affatto,
poiché è chiaro che se esse non volessero non si lascerebbero rapire” (1,4).
Questa prima questione già ci porta al secondo fondamentale nodo, quello
della responsabilità della guerra.3 Il primo rapimento, che scatenò un mec3 Euripide, ne Le Troiane, ripropone, attraverso la voce di Cassandra, il giudi­
zio tradizionale sulla responsabilità della guerra, dovuta alla “colpa di una donna
fuggita volontariamente e non rapita con la forza”, v. 371-372. Elena è definita
da Andromaca “la rovina di molti barbari e di molti Greci”, v. 771. Il giudizio
sulla sposa di Menelao, nel contesto ellenico è, però, molto più articolato. Sempre ne Le Troiane, Elena si difende sostenendo: “Le mie nozze salvarono la Grecia: non fu dominata dai barbari, non fu travolta dalla guerra e dalla tirannide”,
v. 932-935, alludendo al fatto che se Alessandro avesse giudicato Pallade la più
bella avrebbe ricevuto in cambio “il sommo potere sull’Asia e sulle terre d’Europa”,
v. 929-931. Argomento ripreso indirettamente da Isocrate, che nell’Encomio di Elena
attribuisce a quest’ultima il merito di aver unito i Greci e che così conclude il suo
ragionamento: “. . . potremmo a ragione ritenere di non essere schiavi dei barbari
per merito di Elena. [. . .] i greci grazie a lei si accordarono e compirono una spedizione comune contro i barbari; e che in quell’occasione, per la prima volta, l’Europa
trionfò sull’Asia”. Cito dall’edizione a cura di Monica Tondelli, Milano, 20093,
p. 71-73. Anche Tucidide (I,3) ricorda che “. . . prima della guerra di Troia non
sembra che la Grecia avesse compiuto qualche impresa comune”. Lo stesso giudizio
sulla responsabilità di Elena è stato paradossalmente ribaltato nel celebre scritto di
Gorgia, Elogio di Elena, in cui si dice che fu vittima, piuttosto che colpevole: “. . . sia
nel caso che abbia fatto ciò che ha fatto perché innamorata, sia perché persuasa
dai discorsi, sia perché rapita a forza, sia perché necessitata da divina necessità,
sfugge in ogni modo alla colpa” (I Sofisti. A cura di Antonio Capizzi. Milano, 1988,
seconda ristampa, p. 34). Il quadro d’insieme appare articolato: nell’Iliade, accanto
a eroi troiani, come Enea e Antenore, favorevoli a consegnare Elena agli Achei,
troviamo atteggiamenti diversi. La stessa Elena in occasione del lamento che evoca
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
243
canismo di rappresaglie e di contro rappresaglie, fu compiuto dai Feni­ci,
cioè da asiatici filo-persiani, ma assai più grave sembra la responsabilità
del Greci, che prima operano una indebita generalizzazione delle responsabilità dei rapitori fenici di Io, ritenendo responsabili i Barbari nel loro
insieme (I,2); poi inopinatamente trasformano un gesto riprovevole ma
confinato, qual era il rapimento di una o più donne, in un pretesto per
scatenare la guerra. Inoltre, per primi, assumendosi una “grave responsabilità”, mossero guerra all’Asia “prima che quelli d’Asia venissero contro
l’Europa”.
Già dall’esordio dell’opera del “padre della storia”, ci sono sufficienti
motivi se non per giustificare, almeno per capire perché, qualche secolo
dopo, Plutarco definirà Erodoto philobarbaros.
La terza questione, che già le pagine di esordio di Erodoto pongono, è
quella del rapporto tra identità culturali, etniche e territorio.
Il conflitto tra Greci e Barbari assume le dimensioni d’un contrasto
tra Greci e Persiani, poi tra Europa e Asia. Erodoto precisa che “i Persiani
considerano l’Asia e i popoli che vi abitano come cosa loro; con l’Europa,
invece, e con il mondo greco in particolare, ritengono di non aver nulla in
comune” (I,4). Del resto, l’impero achemenide appariva ai Greci come una
multinazionale di genti barbare unificate dalla Persia. Quando gli Ateniesi,
prima della battaglia di Platea (con la quale si cacciarono definitivamente
i Persiani di Serse dal suolo greco), discutono con i Tegeati su chi dovesse
collocarsi all’ala destra dello schieramento greco (posizione d’onore, dopo
quella, al centro della formazione, tradizionalmente di pertinenza degli
Spartani), tra i vari argomenti usati per rivendicare questo privilegio, adducono il fatto che a Maratona, “combattendo da soli [noi Ateniesi] contro il
Persiano [. . .] vincemmo quarantasei popoli” (IX,27).
Si sarà notato che, nel passo di Erodoto che precede l’ultima citazione, si
identificano Persia e Asia e ciò non stupisce se consideriamo che i confini
orientali dell’impero del Gran Re (il fiume Indo nell’India nord occidentale) erano considerati a Oriente i confini dell’Asia e del mondo civile.
Allo stesso tempo si fa una distinzione non solo tra Asia ed Europa, ma
pure tra Grecia ed altre parti dell’Europa; ciò non meraviglia perché era
ben nota ed in buona parte esplorata, quella realtà territoriale ad occidente
della Grecia che si estendeva fino ed oltre le colonne di Ercole.
Ettore, dopo la sua morte, dice: “mai ho udito da te mala parola o disprezzo”, Iliade,
XXIV, 767.
244
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
Possiamo perciò dire che fin dalle origini il rapporto più o meno conflittuale tra i due mondi, o presunti tali, viene posto attraverso l’identificazione
di entità geografiche ed etnico-culturali: Grecia/Europa e Persia (impero
persiano) / Asia.4
La quarta questione che le pagine d’esordio delle Storie sembrano porre
è quella dei diversi caratteri dei soggetti in competizione (Greci–Barbari;
Greci–Persiani; Europa–Asia). Solo apparentemente, infatti, all’origine della loro contrapposizione vengono posti i rapimenti di donne greche (Io
e Elena) o asiatiche (Europa e Medea). In realtà, ciò che scatena il conflitto continentale è il diverso modo di valutare lo stesso evento: quasi un
fatto privato o, comunque, circoscrivibile ad una dimensione non pubblica,
da parte persiana. Un altro punto di differenziazione è il diverso, opposto
modo di porre la questione della responsabilità: i Greci ritengono tutti gli
Asiatici responsabili del rapimento di Io e tutti si ritengono offesi dal ratto
di Elena. Sono quindi dei tratti culturali, antropologici, all’origine del conflitto: ad esempio, una diversa cultura giuridica della responsabilità, della
colpa e dell’offesa.
I Greci sembrano portatori di una visione più arcaica, fondata sullo ius
sanguinis, sui legami tribali, per cui il responsabile dell’offesa coinvolge
tutta la comunità di appartenenza nella colpa e colpisce, attraverso uno o
più singoli, tutta la comunità di cui gli offesi sono parte, legittimando in tal
modo una rappresaglia collettiva che investe l’insieme della collettività a
cui i responsabili dell’offesa appartengono.
4 Il riferimento all’Europa come entità geografica continentale nelle fonti antiche è piuttosto rara, mentre quando ci si riferisce all’Europa come entità politica si
intende la Grecia ed i territori ad essa più vicini. Quando si fa il resoconto dell’impresa di Alessandro contro l’impero persiano, ad esempio, in storici come Arriano e
Curzio Rufo, il principale argomento ideologico e propagandistico a giustificazione
dell’impresa è la rappresaglia contro le due invasioni della Grecia, l’incendio dei
templi e di Atene, almeno fino alla battaglia di Gaugamela, dove “I mercenari greci
[. . .] furono opposti proprio alla falange macedone come i soli capaci di opporsi ad
essa” (Arriano. Anabasi di Alessandro. III,7) e all’incendio di Pasargade, nell’aprile
del 330 a.C. Sempre Arriano così commenta: “Egli [Alessandro] sostenne che intendeva punire i Persiani, perché dopo aver invaso la Grecia avevano distrutto Atene e
distrutto i templi, e che avrebbe fatto loro scontare tutti i mali che avevano inflitto
ai Greci”, ivi, III,18. In Q. Curzio Rufo, Alessandro descrive Persepoli come la “città
più ostile ai Greci, da cui erano partiti gli immensi eserciti di invasione”. Da Persepoli, “Dareum prius, deinde Xerxem Europae impium intulisse bellum”; pertanto
con la sua distruzione si sarebbe vendicata la morte degli antenati. In: Storia di
Alessandro Magno, VI,6.
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
245
La prospettiva giuridica persiana sembra, su questa questione fondamentale, più avanzata perché fondata sulla responsabilità e la colpa individuali, che non investono la comunità del reo, così come l’offesa non si
estende al­l’insieme della comunità di chi la subisce.
Già queste sommarie considerazioni, su quella che potremmo definire
la erodotea mitologia del conflitto tra Europa e Asia, cioè tra Occidente e
Oriente, moderna versione (come vedremo meglio più avanti) del primo,
sembrano far emergere una serie di caratteristiche ricorrenti, che sono
importanti perché le ritroveremo come delle costanti nel corso della storia
millenaria di queste due civiltà/continenti, se così ci si può esprimere.
Proviamo a stilare un primo sommario elenco:
a) la contrapposizione Asia–Europa/Oriente–Occidente sembrerebbe
rinviare a un contrasto originario che fissa nel mito le sue radici;
b) in tale contrasto, iniziative di singoli o di soggetti privati sembrano
coinvolgere intere comunità, con una tendenza alla generalizzazione
del conflitto;
c) il conflitto stesso sembra derivare non tanto da oggettive, ineludibili
ragioni, ma essenzialmente dai diversi codici culturali ed antropologici
usati per “leggere” i fatti;
d) sembra esserci (soprattutto da parte europea, bisogna precisare) una
tendenza a fare assumere una valenza simbolica al contrasto Asia–
Europa ed alla sua versione moderna: Oriente–Occidente. Secondo gli
“occidentali”, infatti, Occidente è sinonimo di un tipo di civiltà ritenuta, se non la sola, comunque la più alta espressione della ratio e dalla
humanitas nella storia umana.
Che sia legittimo assimilare il contrasto Europa–Asia a quello tra Occidente
e Oriente, sembra essere confermato dalla ricerca storica.
C’è “una vecchia e famosa opinione”, per usare le parole di Mazzarino,5
secondo la quale l’Asia si identificherebbe naturalmente con l’Oriente in
quan­to starebbe a indicare in lingua accadica il luogo in cui sorge il sole
(asu) mentre l’Europa, di converso, la terra in cui il sole tramonta (erebu):
quindi, rispettivamente, Oriente e Occidente. In tedesco l’Occidente si
definisce come Abendland, alla lettera “la terra della sera”, del tramonto,
appunto.
5 Fra Oriente e Occidente (1947). Milano, 1989, cap. II, “La storia di un nome”,
p. 45 e sg.
246
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
La contrapposizione Europa–Asia viene declinata in vari modi, non
solo in una prospettiva mitico/storica, ma pure culturale, antropologica
e “ideologica”. A partire dalle guerre persiane in Grecia si elabora l’idea
della propria identità come ideologia della libertà contrapposta a quella
della non libertà persiana. In tal modo alla contrapposizione Grecia–Persia
viene caratterizzata come l’alternativa fra la libertà e il dispotismo, dove
la libertà viene variamente declinata: autonomia; non dipendenza; isonomia; uguaglianza. Allo stesso modo il dispotismo è schiavitù (in Persia solo
uno è libero); dipendenza; arbitrio; diseguaglianza. I principi della libertà
e dell’uguaglianza sono in-tesi in una prospettiva propria a tutti i Greci,
per certi versi panellenica, come libertà dall’oppressione esterna e capacità-volontà di autodeterminazione: come comunanza di lingua, religione,
costumi, valori.6
La libertà (eleutheria) in Grecia è il principio e la parola d’ordine anche
della democrazia; isonomia, termine con cui in Erodoto viene presentata la
democrazia, sta a significare “uguaglianza davanti la legge”, ma pure liberazione dall’arbitrio personale, di uno o di pochi, in quanto essenzialmente
alle leggi si deve obbedire, su un piano di parità, non alle volontà dell’uno
o del-l’altro.7 Allo stesso modo il ricorrente riferimento alla patrios politeia,
in verità non solo in ambito democratico,8 rinvia ad una serie di regole, di
6 In Erodoto, però, sono rari i passi in cui ci si richiama a questa comunanza
di valori e principi, in modo esplicito ed argomentato solo in un caso, alla fine del
settimo libro (VII, 144), quando gli Ateniesi motivano agli ambasciatori di Sparta
le ragioni per cui mai potranno allearsi con il Medo, tradendo chi “. . . ha il nostro
stesso sangue e la nostra stessa lingua, e i comuni templi degli dei e i riti sacri e gli
analoghi costumi”.
7 Sono noti quei passi in cui Aristotele riportando le tesi dei difensori della
democrazia, così ne definisce la natura: “Base della costituzione democratica è la
libertà [. . .] Una prova della libertà consiste nell’essere governati e nel governare
a turno [. . .] Un altro è di vivere ciascuno come vuole, perché questo, dicono, è
opera della libertà [. . .] di qui è venuta la pretesa di essere preferibilmente sotto
nessun governo o, se no, di governare e di essere governati a turno”. In: Politica. VI,
1317 a 40 e ss.
8 Senofonte (Elleniche, II,3,2) ricorda che dopo la sconfitta, nella guerra del
Peloponneso, ad Atene fu nominato nell’estate del 404 un governo oligarchico
dei Trenta Tiranni “incaricati di redigere la costituzione patria”, sinonimo di un
ordinamento conforme ai principii dei primi legislatori della città, legislatori come
Solone che fissarono regole riconosciute da tutta la comunità cittadina come patri­
monio condiviso. Lisia pronunciò un discorso famoso contro Eratostene, uno dei
Trenta Tiranni, che aveva assassinato Polemarco, suo fratello: “Quanto a Polemarco, i Trenta gli ingiunsero il solito ordine, cioè bere la cicuta, prima ancora di
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
247
valori e principii, definiti fin dai primordi della vita della città, valori su cui
si fonda la comunità e che non possono essere stravolti e manipolati dal
potere di turno.
I Greci per tre secoli rappresentarono la loro storia come un processo ed
una lotta per la libertà, per un principio che in epoca moderna, soprattutto
a partire dalla rivoluzione americana e francese, è considerato il carattere
che distingue e identifica l’Occidente, il così detto Occidente. Una lotta per
la libertà contro l’oppressione interna, la tirannide di uno, di una parte,
dell’altro greco e contro lo straniero, rappresentato per antonomasia dai
Persiani, i soli a tentare per due volte, nell’arco di un decennio, di assoggettare l’Ellade.
La prima invasione promossa da Dario, con un corpo di spedizione di
cinquantamila uomini al comando di Dati e Artaferne, fu fermata nella
piana di Maratona dagli Ateniesi e dai Plateesi guidati da Milziade. Assunse
agli occhi dei Greci un valore simbolico particolare perché fra le truppe
di invasione c’era Ippia, figlio del tiranno Pisistrato e lui stesso tiranno di
Atene fino alla sua cacciata ed all’esilio presso il Gran Re. Erodoto sottolinea più volte che “Ippia figlio di Pisistrato guidava i Barbari a Maratona”
(VI, 107) e che la località scelta dai Persiani per lo scontro era la stessa in cui
si erano radunati i partigiani del padre per marciare su Atene in occasione
della rinnovata presa del potere del tiranno.9
A Maratona, si disse, si era combattuto tanto contro l’invasore persiano
quanto contro la restaurazione della tirannide. Ippia rappresentava questa
duplice minaccia alla libertà, un personaggio che sarebbe potuto diventare
il nuovo padrone di Atene e della Grecia: un tiranno e un satrapo allo stesso
tempo, il rappresentante del Gran Re nella più occidentale delle provincie
dell’impero degli Achemenidi.
L’auto-rappresentazione della storia greca, si diceva, si definisce come
una storia della libertà, a partire da Atene città simbolo della libertà e della
democrazia, una storia considerata all’origine e patrimonio della modernità democratica. Allo stesso tempo, però, è una storia che appare, già
nelle fonti storiografiche antiche, in tutti i suoi risvolti paradossali e con
molteplici contraddizioni. Aspetti che inficiano tanto l’immagine della
Grecia quale paladina della libertà contro l’autocrazia asiatica, quanto la
dirgli il motivo per il quale doveva morire; a lui no, non toccò un processo, lui non
ebbe il diritto di difendersi”. A cura di G. Avezzù. Contro i tiranni. Venezia, 1991,
p. 71.
9 Erodoto. I, 62.
248
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
convinzione di un’incolmabile distanza fra Grecia e Asia, prototipo di
quella fra Occidente e Oriente.
Atene si erge in tutti i campi a paladina della libertà, nella lotta contro la
tirannide interna ma pure come terra d’asilo per i perseguitati da un ingiusto potere. Contro le fazioni degli oligarchi, contro Sparta che rappresenta
un modello di vita che inibisce il libero sviluppo della persona, contro il
Barbaro, un mondo dove esistono solo servi e gradi diversi di asservimento.
È sempre in nome della libertà, però, che gli spartani alla testa della Lega
del Peloponneso scatenano la guerra contro la lega delo-attica di cui Atene
è egemone. E la fine della guerra, con la sconfitta di Atene, viene fatta coincidere con la rinascita della libertà: “Allora Lisandro entrò con la flotta nel
Pireo, i fuoriusciti ritornarono e si iniziò a demolire le mura con grande
entusiasmo al suono dei flauti, pensando che quel giorno segnasse l’inizio della libertà della Grecia”.10 L’elenco dei liberatori della Grecia e dei
Greci si dilata se consideriamo l’Ellade non come un’entità geografica, ma
come una comunità caratterizzata da una stessa lingua, che si riconosce
in una storia condivisa ed è partecipe di uno stesso universo mitologico,
religioso e culturale. Se, in altre parole, consideriamo pure i “Greci d’Occidente”, della Sicilia e della “Magna Grecia”, e quelli di Oriente, le colonie
greche dell’Asia Minore e del Ponto Eusino, l’attuale Mar Nero. Se allargassimo le coordinate temporali di riferimento, vedremmo entrare a far par­
te dei salvatori dei Greci i personaggi più vari e impensabili. Filippo, il
padre di Alessandro, è acclamato da Isocrate come un nuovo Eracle a cui
è affidato il compito di riunire i Greci intorno a lui, in una nuova unità
nazionale, contro l’Asia.11 Ma è contro un altro Filippo, erede del primo,
che i Romani arrivano in Grecia, per difendere, fra l’altro, la libertà della
Grecia. Chiamati dagli Etoli, considerati dagli altri Elleni come i più selvaggi tra i Greci, con un linguaggio così rozzo da sembrare più simili a
barbari.12 Sono i Romani a concedere la “libertà alla Grecia”, per bocca del
console Tito Quinzio Flaminino, ai giochi Pitici del 196 a.C., fra le grida
10 Senofonte. Elleniche. II, 2, 23
11 Isocrate. Filippo. 16: “Voglio infatti consigliarti di prendere l’iniziativa della
concordia tra i Greci e della spedizione contro i barbari”. Sull’accostamento ad
Eracle ed il ruolo di questi nella lotta contro l’Asia, ivi, 32 e ss. e 111. Il testo si trova
in Isocrate. Orazioni. A cura di C. Ghira e R. Romussi. Milano, 1997, p. 329-407. Su
Eracle capostipite dei re macedoni si veda nota 23, p. 344-345.
12 Quello della rozzezza degli Etoli è un vecchio, ricorrente topos; ad esempio, leggiamo in Tucidide. III, 94: “. . . parlano una lingua sconosciutissima e sono
mangiatori di carne cru-da”. Questa pratica alimentare era, fin dai tempi più
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
249
di gioia e le lacrime dei presenti.13 Ma le condizioni di questo regalo non
furono diverse, nella sostanza, da quelle ricorrenti nei trattati di pace che i
Romani imponevano ai popoli da loro sconfitti: “avere gli stessi amici e gli
stessi nemici dei Romani” e non poter seguire autonomi indirizzi di politica
estera, ancor meno poter intraprendere guerre senza la previa autorizzazione dei Romani. Tito Livio, qualche secolo dopo, parlando del proclama
di Flaminino, ammonirà i beneficiari di tali concessioni (con un evidente
riferimento ai contemporanei) a “fare un uso moderato della libertà”.14 Solo
qualche cenno si può dare sulla teoria dei presunti alfieri della libertà dei
Greci nell’Occidente. Pirro il Molosso, chiamato dai Tarantini, si presenta
nella sua campagna militare, estesa alla Sicilia, come il campione dei Greci15
e in questa veste avrebbe voluto attaccare Cartagine. Lo stesso aveva fatto
il tiranno Agatocle, descritto da Diodoro come un personaggio degenerato,
nei suoi conflitti in Sicilia e nella campagna contro Cartagine.16 Gelone, che
aveva rifiutato di aiutare i Greci contro Serse, si vanterà di aver respinto a
Imera i Cartaginesi impedendo l’invasione da occidente.17 Persino Dionigi,
il tiranno di Siracusa, avanzò la pretesa, che Diodoro definì spudorata, d’essere un paladino della libertà dei Greci.
Lo stesso Annibale Barca, della liberazione degli Italici e dei Greci d’Italia e di Sicilia18 fece il principale motivo di propaganda della sua campagna
contro Roma.
antichi, sinonimo di carattere ferino; ad esempio, nell’Odissea. XX, 348, si dice che
i pretendenti mangiavano “carni insanguinate”.
13 Tito Livio. Storia di Roma dalla fondazione. XXXIII, 32; cfr. Polibio. Storie,
Frammenti del Libro XVIII. § 44-46. Cito dall’edizione con traduzione e note di
Carla Schick, Milano, 1988. Sull’uso alternativo che nel corso del tempo si farà della
storia di Roma, si veda la suggestiva ricostruzione di Giardina, A. e Vauchez, A. Il
mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini. Roma-Bari, 2008.
14 Sull’“uso moderato della libertà” di cui i Greci si sarebbero dovuti mostrare
“degni”, Tito Livio. Storia di Roma. XXXIV, 49.
15 Dopo aver sconfitto i Romani, a Eraclea, nel 280 a.C. e ad Ascoli di Puglia,
nel 279, Pirro offrì la pace ai Romani chiedendo, fra l’altro, la loro non ingerenza
negli affari delle città della Magna Grecia. Sulle “guerre pirriche”, Jehne, Martin.
Roma nell’età della Repubblica. Bologna, 2008, p. 43 e ss. Titolo originale tedesco
Die Römische Republik. Von der Gründung bis Caesar.
16 Diodoro Siculo ci ha lasciato la più ampia trattazione su Agatocle, il suo carattere e le sue imprese, a cui dedica alcuni capitoli del diciannovesimo libro e gran
parte del ventesimo nella Biblioteca Storica.
17 Erodoto, VII, 157-166.
18 Annibale Barca, a partire dalle prime vittorie, sul Ticino e sulla Trebbia, come
am­piamente documentato dalle fonti, trattò in modo diverso i prigionieri romani e
250
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
Un altro mito che non trova nessuna conferma nelle fonti storiche è
quello della “lotta nazionale” dei Greci in difesa della loro autonomia
contro il Barbaro, lo straniero.
Se la prima invasione della Grecia ha tra i suoi artefici i Pisistradi e tra i
suoi comandanti Ippia, quando leggiamo in Erodoto gli schieramenti che
si contrappongono per terra e per mare durante la seconda invasione della
Grecia, guidata da Serse in persona, vediamo che città come Argo evitano
di scendere in campo e che molte altre, con Tebe in prima fila, si schierano
con il Persiano, al punto che non sembrano apparire distanti le cifre che
attestano la presenza greca nell’uno e nell’altro schieramento.
Ciò nonostante, così come nel IV secolo ad Atene si ricostruirà una
storia della città che per più versi coincideva con la storia della democrazia, a partire dalla presunta autoctonia degli Ateniesi,19 soprattutto partire dall’incon­tro-scontro tra gli Ioni d’Asia e i Persiani, con la successiva
invasione del territorio greco metropolitano da parte di Dario e di Serse, si
ricostruisce l’immagine di due diverse realtà umane, ideologiche, psicologiche, “razziali”: quella europea-greca e l’altra asiatica-persiana. Due diversi
tipi di uomo, di governo, di valori di riferimento. Si giunge perfino, in un
testo attribuito ad Ippocrate,20 a stabilire un nesso, una relazione, tra due
diversi tipi di uomo e di sistemi di vita con i luoghi, le caratteristiche orografiche e climatiche dei territori in cui gli uni e gli altri vivono. Parallela a
questa storia delle contrapposizioni e delle differenziazioni, attraverso le
stesse vicende ed i testi che le raccontano, è possibile ricostruire una storia
delle contaminazioni e delle identità. Erodoto racconta che quando Serse
mosse da Sardi, la capitale più occidentale del suo impero, verso la Grecia,
giunse a Troia “e dopo averla contemplata ed essersi informato di tutti i
particolari dei fatti li avvenuti, sacrificò ad Atena Iliaca 1000 vacche e i magi
offrirono libagioni agli eroi”.21 Serse recandosi a Troia dove i Greci avevano
sconfitto gli Asiatici, sacrifica alle divinità del posto. Questa divinità era
i loro al-leati italici e galli. Questi ultimi furono quasi sempre liberati senza riscatto.
Allo stesso tempo, Annibale si proclamò campione dell’autonomia degli Italici da
Roma. Polibio. Storie. III, 77, 85; Tito Livio. Storia di Roma dalla fondazione. XXI,
45, 47, XXII, 7; Appiano (consultabile solo in traduzione francese, con testo greco a
fronte). Histoire Romaine. Livre VII, “Le Livre d’Annibal”, Paris, 2002, p. 9.
19 Lo stesso Aristotele, pur essendo un filosofo notoriamente poco incline alla
democra-zia, ne La Costituzione degli Ateniesi riprende questo schema. Su questo
aspetto, il brillante studio di Musti, Domenico. Demokratía. Origini di un’idea.
Roma-Bari, 20063, p. 175-184.
20 Ippocrate. Sulle arie, sulle acque e sui luoghi.
21 Erodoto. VII, 43.
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
251
però Atena, la dea da cui aveva preso il nome la città che, prima di tutte,
Serse aveva di mira: Atene, la capitale dell’Attica. Atena, come pure Febo, è
considerata una divinità benefica che affianca Ahura Mazda (dietro il carro
del Dio, Serse procedeva nella sua marcia verso la Grecia) e non Ahriman,
una divinità “comune” ai Greci come ai Persiani. La stessa stirpe troiana,
alla quale esplicitamente Serse si richiama, che rappresenta gli Asiatici nel
primo scontro tra Europa e Asia, non ha caratteri molto dissimili da quelli
degli Achei che ad essa si contrapposero. I Troiani sembrano piuttosto
avere i tratti di Greci d’Asia. Del resto, lo stesso Omero descrive Troia come
una città dai costumi ellenici, già a partire dalla sua struttura urbana con il
tempio sull’Acropoli. I Troiani parlano la stessa lingua dei Greci (nell’Iliade
i protagonisti dell’una parte parlano senza interpreti con quelli dell’altra).
E se c’è un eroe che più di altri incarna l’eroe greco, lo stile di vita e di valori
aristocratici, questi è Ettore e non Achille o Ulisse. Per altro verso, come
ricorda Mazzarino nello studio su ricordato, “c’è qualche traccia nella figurazione di Priamo di una regalità del tipo orientale”, come ad esempio la
poligamia del re di Troia. Aspetti secondari, però, se si considera, per un
verso, la libertà sessuale diffusa presso i maschi dell’aristocrazia greca e la
stessa poligamia in voga in un contesto ellenico, come in quello macedone,
ai vertici del potere.
Sta di fatto che quando gli interpreti moderni vanno alla ricerca di quelli
che, nell’Iliade, possono apparire come tratti distintivi di due diverse culture
e civiltà finiscono immancabilmente per rifarsi a un passo che troviamo
al-l’esordio del terzo libro dell’Iliade e che descrive la discesa in campo di
Teucri e Argivi in quella che sarà la battaglia in cui Paride e Menelao si
affronteranno. Da una parte ci sono i Troiani che schiamazzanti e scomposti muovono a battaglia, dall’altra gli Achei, calmi, ordinati, silenziosi.
Non bisogna sottovalutare le gerarchie assiologiche a cui le differenze dei
tratti psicologici rinviano: il lettore degli storici greci e dei latini, come Erodoto, Tucidide, Polibio e Tito Livio, per citare solo i maggiori, sa bene con
quanta frequenza nelle loro opere essi descrivano la sconfitta in battaglia
come conseguenza del venir meno dell’ordine e della disciplina delle milizie che combattono e come, in generale, siano poste alla base dello schieramento oplitico la coesione e l’organizzazione dei soldati. Ciò nonostante, si
può condividere il commento di Snell, quando sostiene che “in complesso,
però, una differenza tra le parti è appena percettibile”.22
22 Snell, Bruno. La cultura greca e le origini del pensiero europeo. Torino, 1963,
p. 219. Titolo originale tedesco Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung
des europäischen Denkens bei den Griechen.
252
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
Del resto, da parte persiana come da parte greca, sembra essere diffusa
la convinzione che i due mondi non sono così lontani, anzi per più versi
contigui, se non apparentati. Non è possibile non ricordare una celebre
immagine che Eschilo riporta ne I Persiani (176-214), nota come “il sogno
di Atossa”, della regina madre di Serse. Dopo la partenza del figlio, Atossa
sogna due donne: “una era abbigliata con vesti persiane, l’altra con vesti
doriche”; queste donne “erano sorelle di sangue, della stessa stirpe: a una
era toccato in sorte di abitare la terra greca, all’altra la terra dei barbari”.
“Sorelle di sangue”, ma pure “ostili l’una all’altra”. Serse cerca di ammansirle
e le tratta come due cavalle. Cerca cioè di aggiogarle al suo carro; mentre,
però, quella che rappresentava l’Asia “prestava docile la bocca alla briglia”,
la seconda, immagine della Grecia, “recalcitra”, si ribella al morso, “spezza
il giogo a metà”. La donna indocile al morso è la Grecia; refrattaria ad ogni
forma di sudditanza, fa della libertà (eleutheria) il tratto distintivo della
sua identità. Sempre ne I Persiani, leggiamo, infatti: “di nessuno [i Greci]
si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi”. Quella fra Greci e Troiani,
come poi fra Greci e Persiani, appare perciò più come una lotta intestina
che uno scontro fra popoli diversi ed estranei l’uno all’altro. Commentando
proprio “il sogno della Regina”, Massimo Cacciari nota: “una stásis è la
loro, non un pólemos. Qui addirittura la guerra che per il greco ha finito
con l’essere assunta a modello del pólemos, della guerra contro il barbaro,
viene chiamata col nome di ‘guerra interiore’. Asia ed Europa non soltanto
appaiono entrambe belle e divine, ma realmente ‘sorelle di sangue, della
stessa stirpe’. Abitano terre diverse, ma una ne è l’origine”.23
La stretta vicinanza, la “consanguineità” tra Europa–Grecia e Asia–Persia a cui fa riferimento Eschilo, il poeta tragico che combatté a Maratona
e a Salamina, ha una controprova che deriva dall’uso alternativo che nel
corso della storia si è fatto di alcune realtà simboliche come, ad esempio,
Troia che di volta in volta è stata assunta a rappresentante simbolica tanto
dell’Oriente che dell’Occidente.
Alessandro nel corso della sua impresa si reca a Troia dove depone una
corona sulla tomba di Achille che considera un suo antenato, ma sacrifica
pure a Priamo, “volendo stornare l’odio di Priamo per la stirpe di Neottolemo, cui egli apparteneva”.24
23 Cacciari, Massimo. Geo-filosofia dell’Europa. Milano, 1994, p. 18.
24 Arriano. Anabasi di Alessandro. 1,11.
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
253
Virgilio e con la sua opera più famosa, che trae il nome da un eroe troiano,
l’Eneide, opera una completa inversione del paradigma classico che vuole
l’i­dentificazione fra Troiani e Asiatici.
In altri termini viene meno il nesso tra collocazione geografica e caratteri
culturali e psicologici, correlazione in realtà mai completamente teorizzata
nel pensiero greco che conosceva l’Asia dei Greci e l’Asia dei Barbari. Inoltre, come è scritto a chiare lettere in un testo del corpus ippocratico, Sulle
arie, sulle acque, sui luoghi, le istituzioni politiche, il nomos, la legge, possono modificare in meglio o in peggio le nature, ad esempio accrescendo
o sminuendo l’ardimento in guerra. Per accentuare questo tratto Virgilio
opera un’inven­zione, un espediente: descrive il Lazio come la terra d’origine dei Troiani, “l’antica madre” a cui ritornano.25 Sullo scudo di Enea è
descritta la battaglia di Azio26 dove le forze barbariche orientali sono rappresentate da Antonio e dalla “sposa egiziana”.
I Troiani che tornarono nel Lazio sono appunto reduces, ritornanti; in tal
modo gli asiatici non stanno all’origine della stirpe romana, ma sarebbero
stati dei latini all’origine della gente troiana, gli stessi che ora ritornano alla
terra che li “generò per prima”. Lo ius sanguinis ha la meglio solo ius loci.
Ancora un’inversione della prospettiva viene operata all’indomani della
conquista della “Seconda Roma”, di Costantinopoli, la capitale di un popolo
che prima gli Arabi e poi i Turchi chiamavano Rūmī, Romani, un popolo di
stirpe e lingua greca. Così l’umanista Laonico Chalkokoudyles commenta
la caduta di Costantinopoli nelle sue Historiarum demonstrationem: “Sembra che questa catastrofe, la più grande che si sia verificata nel mondo,
abbia superato per il suo orrore tutte le altre, e che sia stata molto simile a
quella di Troia, anzi una vendetta presa dai barbari per l’uccisione in massa
compiuta dei Greci a Troia. I Bizantini sono convinti che si sia scatenata
sui Greci la vendetta per la distruzione avvenuta un tempo a Troia”.27 Nel
1462, nove anni dopo la conquista di Costantinopoli, Maometto II visitò
la Troade e in un discorso riportato dallo storico bizantino Cristobulo di
Imbro, il Conquistatore di Bisanzio sostenne di aver vendicato i “popoli
dell’Asia” per la distruzione di Troia da parte dei Greci. Giovanni Ricci nota
che “L’Idea non era tutta del Sultano. Certamente al suo seguito si trovava
qualche umanista italiano che gli raccontò i poemi omerici di cui era avido
25 Eneide. III, 94-98.
26 Ivi. VIII, 671 e ss.
27 A cura di Agostino Pertusi. La caduta di Costantinopoli. L’eco nel mondo,
Milano, 2003, p. 227.
254
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
e gli instillò l’idea della sua discendenza dal Teucro. In Italia, in effetti, lo
scambio Turchi / Teucri era usuale dagli inizi del Quattrocento; né era solo
un vezzo letterario, come dimostra la sua presenza sui registri linguistici
differenziati”.28
Come è evidente, già nella sua origine storica la contrapposizione fra
Europa / Grecia / Occidente e Asia / Troade / Oriente viene sviluppata con
argomenti diversi, di segno opposto, che a seconda dei casi privilegiano i
luoghi, cioè la collocazione nello spazio, o le culture, cioè le vocazioni spirituali e i caratteri psicologici, come nel casi di Virgilio, “il poeta di Augusto”
che descrive Roma come fondata da autoctoni, da migranti che ritornano,
reduces che il Fato riporta all’“antica madre” per ricostruire una nuova
Troia, Roma, destinata a governare il mondo.
Potremmo dire, pertanto, tentando una prima sintesi conclusiva, che sin
dalle origini una certa lettura del rapporto, spesso conflittuale, tra Europa
ed Asia o, nell’accezione moderna, tra Oriente ed Occidente, è frutto di un
equivoco. La rappresentazione del conflitto tra Occidente ed Oriente è, per
più versi, frutto di un equivoco.
Equivocare i dati della realtà storica significa immaginare o addirittura “teorizzare” per un verso l’idea che una civiltà, qualsivoglia civiltà,
sia un tutto omogeneo, autoreferenziale, assolutamente indifferenziato,
non “contaminato”, non comunicante con le altre civiltà, sostanzialmente
immodificabile nel tempo, “costruito” a partire come derivazione di un
principio, cioè alla stregua di un’ideologia. Costruita in tal modo l’idea
di civiltà, cioè alla stregua di un’ideologia, è giocoforza pensare alle altre
civiltà come ideologie elaborate a partire da altri diversi principi, che in
ultima istanza sono tra loro incompatibili, così come, ad esempio, lo sono
libertà ed autocrazia.
In realtà le cose stanno assai diversamente. Ogni civiltà è espressione
cangiante di incontri, sintesi, rielaborazioni. Le civiltà spesso condividono
principi come il valore della verità e della pace, principi e valori per più
versi unificanti e universali, anche se variamente espressi e rappresentati.
Per un altro verso si è visto come stesse realtà mitiche e storiche – Troia,
innanzitutto, la “madre di tutte le guerre” – possano essere, a seconda dei
momenti, simbolo di Oriente, ma insieme cultura alle origini di Roma, città
simbolo nei secoli di Europa e d’Occidente, o persino rappresentazione di
un Oriente in cui l’Islam si identificava.
28 Ricci, G. Ossessione turca. Bologna, 2002, p. 108.
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
255
Quanto sia arbitrario voler rappresentare l’Europa e il cosiddetto Occi­
dente (cioè il mondo europeo prolungato alle sue antiche propaggini coloniali: Stati Uniti, Canada, Australia, innanzitutto) coi caratteri di unità /
invaria­bilità / originalità di cui si diceva più sopra, si può evincere anche
dal dibattito, per certi versi in corso, sulle radici culturali dell’Europa.
Da più parti, ad iniziare dal mondo cattolico e dalle sue gerarchie, si è
auspicato e si auspica un riconoscimento delle “radici cristiane” dell’Europa.
Richiesta più che legittima, in considerazione del fatto che per secoli il
Cristianesimo ha fortemente condizionato molti aspetti della cultura europea: dalla letteratura all’arte, dalla filosofia all’architettura, dal diritto alla
morale, e così via, contribuendo a creare per più versi una comune cultura
europea, definita attorno alla Weltanschauung cristiana. Ogni persona
dotata di una seppure elementare cultura storica può convenire, pertanto,
sul fatto che il Cristianesimo rappresenti “una” delle radici dell’Europa
contemporanea, pur se non si può dimenticare, per un verso, che senza la
Grecia sarebbe stata un’altra l’identità culturale dell’Europa e persino il suo
nome sarebbe un altro. D’altra parte, il fatto che per secoli il Cristianesimo
sia stato il carattere unificante a livello continentale, non ha impedito le
guerre fratricide tra sovrani e popoli, insieme europei e cristiani, che non di
rado giunsero ad allearsi con sovrani e popoli “infedeli” (cioè musulmani)
per avere la meglio sui vicini della stessa religione.
La questione vera, o almeno la più importante a cui voglio fare riferimento, è un’altra. Nel momento in cui si conviene sul fatto che una delle
componenti costitutive dell’identità europea sia il Cristianesimo, si riconosce allo stesso tempo che una religione orientale, derivata dall’Ebraismo,
a partire dalla figura del suo fondatore, Gesù Cristo, che si situa all’interno
e a conferma di quella tradizione, è costitutiva dell’identità occidentale.
Sarebbe come dire che una delle componenti della cultura europea-occidentale è una religione asiatica-orientale, almeno se viene considerata a
partire dalla tradizione di cui si dice espressione-continuazione e dei suoi
fondatori: Gesù, i suoi apostoli e, in genere, i primi componenti della comunità cristiana.29
29 Il Concilio di Nicea (325) è il primo e fra i più importanti concili considerati
ecumenici, che definì fra l’altro il dogma della “consustanzialità” fra Padre e Figlio,
in contrapposizione alle tesi del presbitero alessandrino Ario (Atanasio. De decretiis Nicaenae Synodi. A cura di E. Cattaneo. Il credo di Nicea. Roma, 2001, cap. III e
cap. II.). Fatte tre o quattro ec-cezioni, al consilium imperiale i circa trecento convenuti erano tutti in rappresentanza di comunità orientali, non solo per la collocazione geografica di Nicea. “A partire dal V secolo [ma vale anche per Nicea, ndr.]
256
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
La considerazione che l’Europa abbia essenziali componenti asiatiche,
può apparire curiosa o addirittura provocatoria a chi parte dal pregiudizio
ideologico secondo il quale il cosiddetto Occidente e il cosiddetto Oriente
sono due monoliti culturali e ideologici distinti, incompatibili, tendenzialmente confliggenti e non comunicanti. In realtà l’Occidente è pieno
di Oriente, così come l’Asia è piena di Europa. D’altra parte sono tutt’ora
validi e condivisibili gli argomenti che Jules Isaac espone in Gesù e Israele30
per sottolineare il profondo legame – e non potrebbe essere altrimenti –
che lega Gesù a Israele. Gesù nacque in una famiglia ebrea, porta un nome
ebraico grecizzato e, secondo l’uso, è circonciso. Vive ed è educato nel
contesto culturale dell’Ebrai­smo, del quale rispetta i precetti e celebra le
feste; predica per la prima volta in una sinagoga. Nato e vissuto “sotto la
legge”, egli stesso si colloca nel seno della tradizione dei Padri: “Non sono
venuto per abolire ma per dare compimento”.31
Se, pertanto, volessimo porre la matrice giudaico-cristiana a fondamento dell’Europa e dell’Occidente, contrapponendolo semmai, come
fa Huntington in Lo scontro delle Civiltà, a quello che è considerato il suo
nemico storico, l’Islam (pervaso di un’alterità radicale e quindi, per antonomasia, rappresentazione dell’Oriente) si incorrerebbe in una serie evidente
di contraddizioni. Almeno per due importanti ragioni. La prima è data
dal fatto che le “radici giudeo-cristiane”, se proprio vogliamo usare questa
metafora che considero inadeguata, rinviano a un contesto orientale, come
su ricordato. La seconda ragione si chiarisce se ricordiamo che l’Islam
rivendica le sue origini costitutive nel profetismo ebraico e cristiano (Gesù
è considerato un profeta del­l’Islam) che, pertanto, verrebbe a perdere il suo
carattere differenziante per assumerne uno di segno opposto, unificante.
Prima di considerare più attentamente questo aspetto va ricordato che
riflessioni simili vanno fatte se estendiamo, come mi sembra doveroso,
essi si situano soprattutto nel punto di intersezione della ‘pentarchia’, cioè delle
cinque principali sedi episcopali di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia,
Gerusalemme, che verranno poi indicate con il nome di Patriarcati”: Schatz, Klaus.
Storia dei Concili. Bologna, 2012, p. 13 e ss. Recentemente, Franco Cardini (Cristiani
perseguitati e persecutori. Roma, 2011), ha sottolineato ripetutamente la prevalenza
delle Chiese d’Oriente nei primi secoli del Cristianesimo.
30 Isaac, Jules. Gesù e Israele. Genova, 20012. Titolo originale francese Jésus et
Israël.
31 Matteo. 5,17.
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
257
all’emi­sfero ellenico la terza originaria ed essenziale componente dell’Occidente. Da di­versi decenni, ormai, nessuno parla più “miracolo greco”,
formula con la quale si voleva esprimere l’idea di una civiltà greca come
espressione originale ed “autoctona” di un popolo ed una cultura capaci
uno sviluppo, per così dire, “isolato”, dove influenze e lasciti di altre culture
e civiltà avevano un ruolo del tutto secondario ed in ultima istanza ininfluente. Tutt’al più, secondo una vulgata diffusa da Platone32 a Hegel,33 le
influenze esterne avrebbero costituito solo una sorta di materiale grezzo
che il genio greco aveva rielaborato e trasformato in modo originale, sì da
renderlo sostanzialmente altro da quello che era all’origine. Le cose stanno
diversamente e si può dire che non c’è stato ambito della cultura e della vita
greca dove non sia stata presente e condizionante l’influenza delle culture
e delle civiltà dei popoli che i Greci incontrarono e con i quali interagirono:
dai Fenici ai Caldei, dagli Egiziani ai Babilonesi, dai Persiani ai Pelasgi,
come le stesse fonti greche attestano.34
32 Platone. Epinomide. 9, 987.
33 Hegel, G. W. Friedrich. Lezioni sulla filosofia della storia. Firenze, 1973, vol. III,
“Il mondo greco”. Titolo originale tedesco Vorlesungen über die Philosophie der
Geschichte.
34 Erodoto, ad esempio, nel secondo libro delle sue Storie ricorda di quanti usi
ed invenzioni i Greci siano debitori agli Egiziani, dalla geometria (II, 108) alla dottrina dell’immor­talità dell’anima (II, 123). Da Solone a Platone, l’Egitto fu meta di
quelli che potremmo definire “viaggi di istruzione”. Erodoto parla delle influenze
e dei costumi che i Greci ebbero in comune con altri popoli, come i Lidi (I, 94), i
Pelasgi (II, 52-53), i Babilonesi (II, 109), i Fenici (I,170). Platone, nel Cratilo (409e),
attribuisce a Socrate la teoria che “ molti nomi, i Greci, soprattutto quelli che
vivono sotto genti straniere li abbiano presi dagli stranieri”. Questione fondamentale perché al nome si attribuisce la capacità di esprimere la natura delle cose (Ivi.
393c-394d). Eraclito fu perentorio nell’affermare “Democrito ha fatto sue le teorie
babilonesi”, (62B 299 D-K.), forse anche grazie ad alcuni Magi e Caldei che Serse,
per ricambiare l’ospitalità, lasciò presso il padre del filosofo come precettori. Da
essi, sostiene Diogene Laerzio nelle Vite dei Filosofi, “Democrito, ancora fanciullo,
apprese teologia e astronomia”. Allo stesso tempo Martin L. West ricorda che
“I legami tra il pensiero di Eraclito e la religione persiana [. . .] sono stretti”, come
pure l’opportunità di riferirsi ad un testo come le Upanishad per comprendere
aspetti significativi del pensiero eracliteo. West considera evidente l’influenza iranica sui “sistemi teologici e cosmologici [greci] della fine del sesto secolo e dell’inizio del quinto”, in West, Martin L. La filosofia greca arcaica e l’Oriente. Bologna, 1993,
p. 157-314. Titolo originale inglese Early Greek Philosophy and the Orient. I passi citati
sono alle p. 268-269. Si veda anche von Fritz, Kurt. Le origini della scienza in Grecia. Bologna, 1988. Titolo originale tedesco Der Ursprung der Wissenschaft bei den
Griechen; in particolare il capitolo VII, “Sviluppi dell’astronomia antica”. Belle
258
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
C’è un’altra ragione per cui mi sembra non fondato sostenere che la
cultura giudaico-cristiana possa considerarsi come un tratto distintivo della
civiltà occidentale, contrapposta, semmai, a quello che viene considerato,
non solo da Huntington, il nemico millenario dell’Occidente, cioè l’Islam.
Se considerassimo quella che viene definita come la cultura giudaicocristiana a fondamento del mondo occidentale, dovremmo convenire sul
fatto che le stesse fondamenta sono presenti nell’Islam che le rivendica
attraverso il suo Profeta, o se si preferisce, attraverso la rivelazione di cui
Muḥammad si fa latore e che il Corano raccoglie. Muḥammad è l’Inviato di
Dio e “il sigillo della profezia” di cui Abramo (Ibrāhīm), Mosè (Mūsà), Gesù
(ʿIsà) sono stati i rappresentanti più significativi. L’Ebraismo e il Cristianesimo non sono religioni diverse dall’Islam ma momenti della sua manifestazione, parti di un unicum che si esprime nel tempo con profeti diversi,
che però riportano sempre la rivelazione dello stesso ed unico Dio.
La rivelazione che giunge agli uomini attraverso Muḥammad raccoglie,
compendia e per certi versi purifica le precedenti rivelazioni, la giudaica
e la cristiana, nel senso che le monda da tutte le alterazioni, corruzioni,
travisamenti che nel corso dei secoli le hanno contaminate e rese, per certi
versi, fuorvianti. In tal modo, però, tanto la rivelazione giudaica quanto
quella cristiana non solo non vengono negate ma sono riaffermate in quella
che si considera l’originaria purezza.
L’affermazione di Muḥammad, “Io non sono un novatore tra i Messaggeri”35 sta ad indicare la conferma dello spirito e della sostanza dei precedenti momenti in cui l’Islam (l’unica e vera religione rivelata dall’unico e
vero Dio, Allāh) si manifesta.
Pertanto, se volessimo restare in questo orizzonte concettuale, dovremmo
prendere atto che l’Occidente/Europa e il suo antagonista storico l’Oriente/
Islam hanno le stesse “radici” giudeo-cristiane. Va però detto, o almeno
accennato, che la metafora delle radici mi appare inadeguata, e non poco,
per definire l’identità tanto dell’Occidente che dell’Oriente, dell’Europa
come del­l’Islam. Nell’un caso come nell’altro, parlare di radici giudaicocristiane è improprio se non fuorviante. La metafora delle radici rinvia
all’idea di origine e di causa, di fondamento su cui una realtà poggia e da
pagine su questi temi sono state scritte da Giovanni Semeraro in L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicini Oriente e le origini del pensiero greco.
Milano, 2001. Semeraro ricorda anche le influenze orientali presenti nel diritto
greco.
35 Corano, XLVI:9.
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
259
cui si alimenta. Là dove si recidessero le radici verrebbe meno anche l’insieme su cui una realtà poggia e si alimenta, così come con l’eliminare la
causa di un fenomeno si farebbe venir meno lo stesso. In modo del tutto
diverso stanno le cose quando parliamo di una cultura, di una civiltà. Più
adeguata a rappresentarne le origini e lo sviluppo mi sembra la metafora
del fiume, come suggerisce Bettini:36 l’idea che ci sia una fonte da cui si origina il fiume, che però si definisce anche ed essenzialmente nel suo corso,
per gli affluenti che in esso si riversano, che lo alimentano e lo caratterizzano, come pure per i luoghi nei quali scorre che ne orientano la direzione
e lo sviluppo. Spesso accade che quanto più il fiume si allontana dalle fonti,
tanto più si trasforma rispetto all’originaria identità.
Le fonti della civiltà europea sono greche e poi romane, di una Roma che
sin dalle origini si considera non estranea al mondo ed alla cultura della
Grecia. L’“affluente” cristiano ha un ruolo fondamentale almeno per un
millennio, ma nel contesto della storia europea non è l’unico e neanche il
primo, non è l’ultimo.
Non è corretto a mio avviso parlare di radici “giudeo-cristiane”, anche
per un altro motivo: in questa formula il Giudaismo viene evocato essenzialmente in quanto componente e, a sua volta, “radice” del Cristianesimo.
La richiesta di un riconoscimento delle origini, delle “radici” giudeo-cri­
stiane dell’Europa proviene soprattutto da ambienti culturali e aree politiche cristiani e, in particolare, cattolici.
Si fa riferimento a un Ebraismo reinterpretato alla luce dei Vangeli e
della storia cristiana, come una realtà dalla quale il Cristo trae origine, ma
che allo stesso tempo trascende e supera, rendendolo antiquato, rendendo
“vecchia” la sua testimonianza: in ultima istanza incompiuto, incapace di
avere un senso proprio, se pensato a prescindere dal Cristo. Nella prospettiva cristiana l’E­braismo è una religione ed una rivelazione che acquistano
un senso pieno e definitivo unicamente in quanto preparazione e annuncio
del Messia, che permette di cogliere il senso di tutta la storia precedente.
Nel momento in cui l’Ebraismo rifiuta quello che dal suo interno/esterno
(tale è Gesù, interno e al-lo stesso tempo esterno all’Ebraismo) appare come
lo svelamento del suo sen-so profondo e il suo inveramento, la “radice”
36 Bettini, M. Contro le radici. Tradizione, identità, memoria. Bologna, 2011; la
metafora del fiume si trova nel paragrafo “La tradizione orizzontale”, p. 39 e ss.
La metafora delle radici può essere sintetizzata nella icastica affermazione di
Paolo: “. . . sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te”,
Romani. 11,18.
260
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
ebraica diventa un corpo estraneo, un anacronismo. Le sue stesse premesse diventano argomenti contro gli ebrei e l’ Ebraismo, per l’incapacità di
essere tali in modo conseguente e fino in fondo. Disconoscere il Cristo
significa disconoscere il senso della missione a cui sono chiamati, restare
nell’incompiutezza, non voler comprendere che “Il nuovo testamento è
nascosto nell’Antico e l’Antico diventa chiaro nel Nuovo”.37 In nome del
“Verus Israel”,38 i cristiani rimproverano agli ebrei che vogliono restare tali
di non riconoscere e porre in atto la loro vera missione e vocazione.39
Non dissimile la vicenda dei rapporti dell’Islam e le precedenti rivelazioni, Ebraismo e Cristianesimo, e dei popoli che se ne fecero portatori.
Muḥammad annunciò l’Islam in una realtà come Mecca, integralmente
politeista, in un contesto geografico e culturale come il Higiaz e la Penisola
arabica, dove sono presenti ebrei e cristiani. A nord c’è l’impero cristiano
di Costantinopoli, a nord-est l’Impero sasanide con una religione di Stato
gnostica, il Mazdeismo, con una forte vocazione monoteistica. A occidente,
oltre il Golfo persico, c’è l’Abissinia, dove il Negus regna su sudditi cri­
stiani monofisiti. Muḥammad si proclama inviato di Allāh, nunzio di una
religione che ha avuto in Abramo il primo grande profeta e che nel corso
del tempo è stata tra-smessa agli uomini essenzialmente attraverso ebrei
e cristiani. Muḥammad si proclama, riportando la parola divina che gli è
stata trasmessa, come colui che continua e completa il ciclo della profezia.
Anche se i primi a cui annuncia l’Islam e i primi a convertirsi sono i suoi
concittadini di Mecca, quelli che considera spiritualmente più vicini sono
gli ebrei ed i cristiani. Verso Gerusalemme è diretta la preghiera dei primi
musulmani, fino alle fasi iniziali dell’Egira medinese, da Gerusalemme procede l’ascensione del Profeta verso il cielo, fino “alla distanza di due archi
dal trono del Signore”, nel “Viaggio notturno” iniziato a Mecca.40 Presso il
Negus cristiano trovano rifugio i suoi primi seguaci, in quella che è chiamata la “piccola Egira”, ricordata anche attraverso un noto passo in cui i
37 Agostino. Quaestiones in Heptateuchum, o “Domande sull’Ettateuco”, 2,2,73.
38 “Siamo noi il vero Israele, quello spirituale, la stirpe di Giuda, di Giacobbe, di
Isacco e di Abramo”, Giustino. Dialogo con Trifone. 11,5.
39 Su questa problematica, una articolata introduzione può fornirla il libro di
Stefani, Pietro. L’antigiudaismo. Storia di un’idea. Roma-Bari, 2004. Alla questione
del “Verus Israel” è dedicato il terzo capitolo, p. 69 e ss.
40 Delaporte, P. H. Vita di Maometto Profeta dell’Islam, secondo il Corano e
gli storici arabi. Milano-Trento, 1998, p. 125-166. Titolo originale francese Vie de
Mahomet. Sulla prima migrazione in Abissinia, p. 75 e sg.
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
261
seguaci di Muḥammad presentano il loro credo, un attestato di fede che
ogni cristiano potrebbe sottoscrivere.41
Praticamente inesistente nel Corano una critica teologica dell’Ebraismo,
mentre appare complessa ed articolata la polemica contro alcuni dei fondamenti del Cristianesimo che ne inficerebbero, secondo il Corano, la stessa
natura di religione monoteistica. A partire dall’inammissibilità della natura
divina di Cristo e dalla Trinità, dottrina che associando all’unico e vero Dio
altri presunti dei, svilisce la Rivelazione in una forma di politeismo, con un
pantheon trinitario. Si nega, allo stesso tempo, un altro principio fondante
del Cristianesimo: la morte di Gesù sulla croce, per i musulmani mai avvenuta, e conseguentemente la risurrezione.42
Innanzitutto dagli ebrei, a partire dalle tre tribù di Yathrib, Muḥammad
si aspettava un riconoscimento del suo crisma di “inviato di Dio” (Rasūl
Allāh) e un sostegno politico e poi militare, come del resto prevedevano
gli impegni presi nel “Rescritto di Medina”.43 Vennero meno sia il riconoscimento della natura profetica del suo messaggio che il sostegno politicomilitare contro i meccani politeisti. Gli ebrei medinesi sono accusati di
insensibilità, slealtà, tradimento; vengono espulsi o trucidati, le loro terre e
i loro beni in gran parte confiscati.
Poche settimane dopo l’arrivo a Yathrib dei musulmani cominciano i
problemi: la direzione della preghiera è spostata, inizia la polemica religiosa da una parte e dall’altra. Molte sure con passi del periodo medinese
ci trasmettono il nuovo atteggiamento ostile che monta verso gli ebrei e
si definisce una tradizione avversa agli ebrei, ai quali secondo alcuni racconti si fa risalire la morte del Profeta, avvelenato da un’ebrea.44 Anche se,
occorre ricordarlo, questo atteggiamento ostile non travalica il Higiaz e gli
41 Un’altra nota biografia (Lings, Martin. Il profeta Muhammad. La sua vita
secondo le fonti più antiche. Torino, 2004. Titolo originale inglese Muhammad: His
Life Based on the Earliest Sources) ricorda che Ǧaʿfar ibn Abī Ṭālib, la guida degli
Emigranti in Abissinia, per spiegare i caratteri essenziali dell’Islam, recita un passo
della “Sura di Maria”, Corano, XXI:16-21.
42 Nel Corano esiste una articolata cristologia. Si veda ad esempio la “Sura della
famiglia di Imran”, 48-51, “La Sura della mensa”, 17-46, 72-79, 110-117; “La Sura di
Maria”, 16-36; “La Sura dei Profeti”, 26, “La Sura del ferro”, 27, “La Sura degli ordinamenti d’oro”, 63-65, “La Sura dei ranghi serrati, 6, “La Sura della prova chiara”, 4-6.
43 “La Costituzione di Medina” è riportata come appendice in Watt, W. Mont­
gomery. Islamic Political Thought. Edinburgh, 2007. Si vedano, in particolare, i
punti 24, 43 e 44.
44 “La causa di questa malattia era il veleno che gli era stato somministrato da
una donna ebrea a Khaybar, e di cui una porzione impercettibile gli era penetrata
262
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
ebrei medinesi.45 Gli ebrei che rifiutano la conversione saranno considerati
“una nazione ormai passata”,46 che ha esaurito la sua missione; vivranno in
dār al-Islām come “ḏimmī”, come minoranza protetta, cittadini con diritti
limitati, ma garantiti e quasi sempre rispettati. Si troveranno spesso, nel
corso dei secoli, in una situazione migliore di quella dei loro correligionari
di stanza nell’Europa cristiana. Almeno fino agli albori della modernità, alla
loro emancipazione, al l’affermazione dello Stato laico.
Diversa la situazione che andò a determinarsi nei rapporti con i cri­
stiani. All’indomani della morte del Profeta, dopo la rapida conquista della
penisola arabica, inizia l’espansione ad Oriente ed Occidente, dove vivono
popolazioni cristiane, fino alla Penisola iberica e oltre. Per più di mille anni
con l’Europa cristiana, con l’altra sponda del Mediterraneo, ci sarà una
condizione di guerra dichiarata o di tregua, mai di pace consolidata. Nel
confronto dottrinale prevarranno gli elementi polemici e propagandistici
dell’una come dell’altra parte. Soltanto nella seconda metà del XX secolo
si tenterà con difficoltà di percorrere la strada della comprensione e del
dialogo.47
nelle vene, nonostante la prontezza con cui aveva sputato il fatale boccone”, in
Delaporte, P. H. Vita di Maometto Profeta dell’Islam. p. 429.
45 Ricorda Claudio Lo Jacono (Maometto. Roma-Bari, 2011, p. 116), a commento
della strage che, dopo la “Battaglia del Fossato”, provocò la morte di quasi tutti i
maschi dell’ultima delle tre tribù ebree di Medina: “A riprova di una matrice più
che altro politica della carneficina dei 900 Qurayẓa sta il fatto che gli altri 25.000
membri di quella stessa tribù, presenti in Higiaz, non furono minimamente disturbati”. Gli ebrei pagarono la colpa, almeno secondo i musulmani, di aver aiutato i
nemici meccani del Profeta nel tentativo di conquistare Medina.
46 Corano II; 134, Mirkhond. La Bibbia vista dall’Islām. Milano, 1996. Titolo originale persiano Rawżat al-ṣafāʾ; Tottoli, Roberto. Vita di Mosè secondo le tradizioni
islamiche. Palermo, 2006; Gnilka, Joachim. Bibbia e Corano. Che cosa li unisce, che
cosa li divide. Milano, 1992. Titolo originale tedesco Bibel und Koran: Was sie verbindet, was sie trennt; Guzzetti, C. M. Bibbia e Corano. Confronto sinottico. Milano, 1995;
Bouman, J. Der Koran und die Juden. Die Geschichte einer Tragödie. Darmstadt, 1990;
Lewis, B. Semiti e antisemiti. Indagine su un conflitto e un pregiudizio. Bologna, 1990.
Titolo originale inglese Semites and Anti-Semites.
47 Il tema del confronto fra le religioni monoteistiche, come quello del problematico rapporto tra Islam, modernità e democrazia, è centrale e ricorrente nella
ricerca contemporanea, non solo tra gli orientalisti e gli studiosi dell’Islam. Le stesse
problematiche sono all’ordine del giorno anche nel mondo musulmano, seppure
in modi radicalmente diversi, a seconda dei contesti geopolitici e culturali di una
realtà che coinvolge più di un miliardo di persone su scala globale. Un problema
nel problema è dato da un approccio ideologico ed emotivo, spesso condizionato
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
263
L’esempio che ho scelto mi sembra utile per chiarire quanto sia improduttivo e fuorviante un approccio superficiale a questioni come quelle che
riguardano la definizione dei caratteri essenziali e distintivi dell’Oriente
e del-l’Occidente, delle loro relazioni e compatibilità. Se accettassimo, sep­
pure sub conditione, l’idea che l’Europa ed il mondo cosiddetto occidentale, che con l’Europa e gli Stati Uniti sostanzialmente si identifica,
abbiano tra i loro elementi costitutivi le componenti giudaico-cristiane
e usassimo questo tratto identitario per distinguerli dal mondo orientale
(sinonimo di alterità irriducibile), quindi islamico, dimenticheremmo
che lo stesso Islam rivendica una matrice giudaico-cristiana. Allo stesso
tempo, quando cerchiamo di definire meglio il significato di “radici giudaico-cristiane” dell’Europa, dobbiamo prendere atto che la matrice giudaica viene a definirsi tale essenzialmente a partire dalla interpretazione
diffusa in ambito cristiano, non di rado “altra” da quella gli ebrei danno
della loro stessa storia. Simili osservazioni sono possibili quando consideriamo quelli che per l’Islam sono due momenti essenziali della rivelazione
monoteistica: l’Ebraismo e il Cristianesimo. Tutta la storia dell’Ebraismo e
del profetismo ebraico è reinterpretata alla luce della rivelazione coranica
e la figura di Gesù è ricondotta a quella di un profeta dell’Islam e ridefinita
dai conflitti contemporanei, che coinvolge anche studiosi di assoluto valore scientifico. Non è questo un argomento che si può trattare in nota, ma almeno un esempio si può portare. Recentemente è stato tradotto in italiano un testo di Bernard
Lewis che raccoglie 38 scritti prodotti in circa mezzo secolo – il titolo originale
del volume è From Babel to Dragomans, Oxford, 2004 – che riprende il titolo di un
contributo dedicato al ruolo avuto dai traduttori nei rapporti fra la Sublime Porta
e le potenze europee. Il titolo che si è scelto nella traduzione, evidentemente con il
consenso dell’autore, è stato Le origini della rabbia musulmana. Milano, 2009: titolo
che riprende quello di uno dei testi tradotti. In un’introduzione che è una sorta di
autobiografia scientifica, ma pure umana, si legge a p. 9: “Lo storico deve sforzarsi,
per se stesso e per i suoi lettori, di essere il più obiettivo possibile, o almeno onesto,
cioè consapevole del proprio coinvolgimento e dei propri timori e, se necessario,
deve ammetterli e superarli [. . .] in modo da consentire al lettore di formarsi un
giudizio indipendente. Lewis insiste pure, giustamente, sul rigore metodologico
e scientifico che deve caratterizzare la ricerca. Poi nel testo leggiamo, a p. 359,
passi come questi: “Solo noi commettiamo errori e ci macchiamo di crimini perché solo noi, dietro le quinte, prendiamo decisioni o provochiamo avvenimenti. Il
resto del mondo è passivo e inerte, e il suo destino è determinato unicamente dalle
nostre azioni. In questo senso la scuola di autoflagellazione storica ora di moda è,
in fondo, arrogante ed egocentrica quanto il tipo più tradizionale di storia autocelebrativa”. Leggiamo brani come quello citato in un testo che porta come sottotitolo “Millecinquecento anni (sic) di confronto tra Islam e Occidente”.
264
E. Ferri / Oriente Moderno 93 (2013) 239-264
secondo i tratti dottrinari propri a questa religione. Gesù, come tutti i profeti, è considerato un essere di natura esclusivamente umana, limite che
non sempre (a partire dalla battaglia di Uḥud) i musulmani considerano
applicabile al “Sigillo della profezia”. Allo stesso tempo, anche limitandoci
a quest’ultimo esempio, vediamo che una serie di realtà comuni, seppure
variamente interpretate, hanno interagito fra di loro creando un humus
culturale tale da favorire, se non l’accettazione, almeno l’avvicinamento
alle ragioni dell’altro.
Fly UP