...

IL DATABASE COME FORMA CULTURALE L

by user

on
Category: Documents
37

views

Report

Comments

Transcript

IL DATABASE COME FORMA CULTURALE L
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di laurea in DAMS percorso mediologico
IL DATABASE COME FORMA CULTURALE
L’impatto dei nuovi media sulla creazione artistica:
estetica, narrazione, rapporto con il cinema
Tesi di laurea in TEORIA E TECNICA DELLE COMUNICAZIONI DI MASSA
Relatore: Prof.
Presentata da
Pier Luigi Capucci
Rausa Oriana
Sessione seconda
Anno Accademico 2006-2007
Il database come forma culturale
L’impatto dei nuovi media sulla creazione artistica: estetica, narrazione, rapporto con
il cinema e la società.
Indice :
Introduzione........................................................................................................pag. 1
Motivazioni e modi della ricerca
Capitolo primo...................................................................................................pag. 11
L’importanza dell’archivio nella società contemporanea.
Una vera e propria ossessione..................................................................................pag. 17
Come rappresentare il mondo in un catalogo. Tulse Luper.....................................pag. 26
Capitolo secondo
L’estetica del database
Manovich e il cinema digitale..................................................................................pag. 31
Un estetica della rimediazione.................................................................................pag. 38
La rimediazione nel cinema e nella tv.....................................................................pag. 45
Progetto soft cinema................................................................................................pag. 48
Estetica del liquido...................................................................................................pag. 54
Capitolo terzo
Narrazione e database
Ipertesto, interattività, videogame.........................................................................pag. 59
Cinema e videogame. Percorsi possibili nell’universo dei dati.............................pag. 67
Cosa succede quando il cinema ricomincia daccapo? eXistenZ............................pag. 71
L’attacco al database. “Se smetti di giocare vuol dire che sei libero”...................pag. 76
Capitolo quarto
Tutti all’interno di un database
La società in un database: potere e controllo.........................................................pag. 81
La società in un database: il weblog......................................................................pag. 93
Bibliografia........................................................................................................pag. 99
Webografia.............................................................................................................pag. 102
Introduzione
Nel momento in cui mi sono avvicinata allo studio della comunicazione di massa
attraverso i nuovi media ho pensato di scrivere una tesi partendo da una delle idee
sviluppate da Manovich nel suo “Il linguaggio dei nuovi media” quello del database come
nuova forma simbolica; da questo punto mi sono posta delle domande a cui ho cercato di
rispondere.
Lo scopo è stato infatti capire prima di tutto che cosa si intende per nuovi media, in che
modo questi siano effettivamente entrati nella vita giornaliera di tutti, in che modo
l’abbiamo trasformata e come l’arte abbia trovato un nuovo mezzo di espressione. Questo
in generale. In quanto al database, una delle forme in cui i nuovi media si attuano ha
attratto la mia attenzione proprio per la sua forma di archivio che sembra essere diventato
indispensabile ma a sua volta anche motore di creazione. Una raccolta di documenti, e
uno spazio navigabile, metodi tradizionali per organizzare sia i dati sia l’esperienza
umana del mondo, sono diventate quindi due forme presenti in quasi tutti i campi dei
nuovi media. Il database è diverso da una tradizionale archiviazione di documenti perché
permette di accedere, classificare, riorganizzare milioni di registrazioni nel giro di pochi
minuti, contenendo vari tipi di media.
Per Manovich queste due forme si estendono alla cultura in generale. Allo stesso tempo il
database diventa la nuova metafora che concettualizza la memoria culturale individuale e
collettiva, una raccolta di documenti, oggetti ed altri fenomeni ed esperienze.
Nell’età contemporanea il computer è diventato indispensabile, un tavolo di lavoro, un
elettrodomestico:
“Nella
civiltà
occidentale
i
nuovi
strumenti
sono
video,
telecomunicazioni, computer, con le loro numerose articolazioni e filiazioni, in uno
scenario mediale straordinariamente ricco e fecondo di possibilità di rappresentazione e di
comunicazione. Nel quale, per fare solo due esempi, nel ’94 negli Stati Uniti il numero
dei computer venduti ha superato quello dei televisori e gli utenti di Internet in tutto il
mondo crescono ogni mese di otto milioni di unità”1 il ruolo di uno studioso e di un
1
da
“ARTE
&
TECNOLOGIE”
di
Pier
Luigi
Capucci
http://www.noemalab.org/sections/specials/arte_tecnologie/main.html
1996
EDIZIONI
DELL’ORTICA
fonte
internet:
artista è quindi di dovere confrontarsi con i nuovi oggetti mediali cercando di capirne la
forma ma anche e soprattutto il rapporto che il pubblico instaura con tali mezzi, essendo
questi mezzi interattivi, nati affinché la ricezione e l’uso fosse attivo e non passivo come
ad esempio quello televisivo.
Quando a Brodway si mette in scena un opera teatrale in cui in cui l’autore fa parlare i
suoi attori raccontando storie lette nei weblog dalla oramai sterminata blogsfera, può
venire il dubbio se la scusa di usare la rete sia un motivo pubblicitario o se questa sia
effettivamente un operazione artistica. Il dubbio sembra legittimo dato che la Rete sembra
attrarre molta pubblicità e per molti un weblog rappresenta una moda, tuttavia quella è
una forma d’arte. Perché non solo è stata presentata su un palco rinomato apprezzata da
pubblico e critica, ma perché dietro vi è una riflessione più ampia. Se consideriamo la rete
come una forma dei nuovi media, come un enorme database in cui sono contenuti milioni
d’informazioni, di esperienze, allora questo può essere fonte di contenuti per l’arte
classica ma anche per nuove forme di arte.
Se consideriamo il progetto mylifebits della microsoft, in cui un programma viene
sviluppato per poter registrare in un database ogni aspetto della propria vita con diversi
file multimediali (foto, registrazioni vocali, cambiamenti di temperatura corporea,
documenti scannerizzati) per ogni ora delle propria vita, possiamo assumere che il
database diviene una forma culturale ma anche sociale. È una forma indispensabile nel
momento in cui le memorie del PC continuano ad aumentare e lo spazio sterminato di
Internet sembra il posto ideale che non abbiamo più, abituati (soprattutto le ricche società
occidentali) ad accumulare oggetti in uno spazio sempre più ristretto.
Sembra che la caratteristica principale dei nuovi media sia la ricerca del dato voluto in
una vasta memoria di dati; al centro ci sono loro, i dati, che ci piovono addosso da ogni
direzione, in ogni situazione. Se i dati ci assalgono da ogni parte, sostiene Manovich, è il
momento di studiare le forme che assumono.
In altre parole, che struttura devono assumere le informazioni per risultare accessibili al
meglio? “Il fatto di raccogliere, trattare, archiviare i dati e arricchirli di un senso che li
renda utili per noi è al centro della vita sociale ed economica”2 , spiega Manovich. Un
database informatico è completamente diverso da una tradizionale archiviazione di
documenti: permette di accedere, classificare, e riorganizzare milioni di registrazioni in
pochi minuti; è la nuova metafora culturale, una raccolta di esperienze. Il database
2 da “Il linguaggio dei nuovi media” di Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002
diviene il simbolo nell’era dei computer e un nuovo modo di strutturare la nostra
esperienza in una nuova sensibilità estetica, in parte determinata proprio dalle
caratteristiche
delle
interfacce
e degli
strumenti
informatici
che
utilizziamo
quotidianamente.
Pensiamo per l’appunto al concetto di database, l’organizzazione in archivio che ormai
caratterizza indifferentemente immagini, testi, suoni, è presente nei CD-ROM, nelle
enciclopedie, nei sistemi di ricerca delle librerie, in Internet dove trova la massima
espressione, nuove operazioni artistiche, nuovo impianto narrativo nel cinema che nella
letteratura, insomma il concetto stesso di database è entrato in tutti gli aspetti della nostra
vita rimodellandoli, e ridefinendone di contenuti che ridotti al linguaggio dei bit, vengono
memorizzati e possono essere trattati allo stesso modo.
Il database diventa il centro del processo creativo, e il contenuto e l’interfaccia diventano
entità separate; con uno stesso contenuto possiamo avere diverse interfacce. Un esempio
pratico di questo concetto ce lo da proprio Manovich con il suo progetto artistico SoftCinema,(http://www.softcinema.net) che nasce dalla collaborazione tra Lev Manovich,
teorizzatore dei nuovi media e Andres Kratky, new media designer. Affiancati da una
serie di artisti che vanno da DJ Spooky e Scanner per la musica a Schoenerwisse/of CD
per le visualizzazioni e Ross Cooper Studios per il media design. Soft Cinema vuole
essere una proposta e un’ analisi fattiva delle estetiche che possono essere non solo e
semplicemente generate dal computer, ma basate sulle strutture di produzione e consumo
che si sono sviluppate tramite esso. È un grande database in cui confluiscono molte
immagini che di volta in volta creano dei percorsi narrativi diversi, il layout stesso è
costituito da diversi frames, che mescolano svariati elementi media (immagini video e
grafiche, suoni, testi...).
Nel primo capitolo ho tentato di dimostrare come il bisogno dell’archiviazione sia
connaturato all’uomo; alcuni esempi artistici lo sono e sono molto legati alla tecnologia.
Dopo aver spiegato il database e il contesto da cui è stato tratto ovvero gli studi sui nuovi
media sono andata più in fondo nel concetto di database in quanto archivio nell’arte
novecentesca per capire come questa forma sia diventata simbolica e culturale.
Se indaghiamo le relazioni tra arte contemporanea e contesto, politico, sociale
tecnologico rilevandone le influenze chiave una di queste è di sicuro l’archiviazione,
l’accumulo di dati, come una delle caratteristiche sintomatiche dell’era moderna dovuta
all’aumento d’importanza dato all’archivio come un modo in cui le conoscenze storiche e
le forme di memoria sono accumulate, depositate, recuperate.
Oltre aver spiegato l’importanza dell’archivio come un impulso e bisogno freudiano ma
anche artistico, sono passata al concetto di archivio nell’arte esaminando alcuni autori che
nelle arti visive, nella fotografia o nel cinema sembrano avere una vera e propria
ossessione verso il catalogo, inteso come catalogazione di materiale storico, emozionale o
visivo, e come sistema di una nuova organizzazione visuale e narrazione.
L’esperienza delle guerre e del bisogno di non dimenticare hanno spinto o influenzato
alcuni autori nella loro creazione artistica, la necessità di usare la forma d’archivio è
diventata l’unico modo di poter rappresentare l’esigenza di trascrivere il più possibile
l’esperienza per preservarla o per darle un senso.
Sander portò dal novecento il bisogno enciclopedico della fotografia dentro il nuovo
secolo, usando infatti tecniche e mezzi della fotografia delle origini dandogli un tocco
innovativo, progettò di avere quarantacinque cartelle e in ognuna venti immagini relative
al titolo della cartella e all’intero progetto denominato Gente del XX secolo in cui voleva
catalogare migliaia di tipi tedeschi per crearne l’identità di tutto un popolo. La guerra
influenzò l’impulso di archiviazione di Boltanski artista che mescola il lato ironico,
l’istantaneità della fotografia e il suo aspetto reliquiale con l’istanza catalogatrice che
ordina oggetti e mobili come in museo, rafforzando l’idea che una sopravvivenza è
possibile nella rigidità della rappresentazione.
Un regista particolarmente attaccato al tema del catalogo come elaborazione del ricordo
storico è Alain Resnais; il registro letterario in Hiroshima mon amour si sovrappone a
quello cinematografico che alterna momenti di metalinguaggio, di manifesti pacifisti,
documentari sino a quello sentimentale. I suoi film sembrano essere tessere di un mosaico
in
continua
costruzione
fondate
sull’impossibilità
di
sfuggire
all’oblio;
con
Smoking/NoSmoking il film verrà considerato “ cinema interattivo”, il fruitore si sentirà
realmente chiamato in causa nella composizione del senso e della narrazione.
In Peter Greenaway l’ossessione del catalogo si lega indissolubilmente ad una altra sua
ossessione quella di un cinema totalmente innovativo, spoglio della narrazione; la
catalogazione, è un tema dominante, un tentativo dell'uomo di mettere ordine nella vita
quotidiana o in ciò che non si riesce a comprendere, con tutta la sistematicità di un
collezionista; viene definito anche da Manovich un artista del database.
Nel secondo capitolo ho tentato di risalire ad un estetica del database. Finora gran parte
delle riflessioni sul cinema nell’era digitale si è concentrata sulle possibilità della
narrazione interattiva con l’idea di uno spettatore che partecipa attivamente alla
narrazione, ho quindi indagato sul concetto di estetica del database, su quello che apporta
di nuovo negli altri media. Quindi ho raccolto pareri e tesi di altri studiosi, primo fra tutti
Manovich che spiega come il cinema digitale si avvicini all’idea di pittura attraverso le
nuove tecnologie e come il database e le interfacce possano modificare l’idea di cinema e
arte.
Costa spiega come le nuove tecnologie generano nuovi prodotti artistici e nuove forme di
sensibilità che nell’artista si esplicano attraverso l’approfondimento delle possibilità delle
nuove tecnologie verso la creazione di nuovi significati e nuovi modi di significazione, e
la ricerca dei nuovi comportamenti “estetico-antropologici” dovuti alla fruizione dei
dispositivi tecnologici.
Soprattutto si chiede che ne è dell’opera d’arte nell’epoca della sua digitalizzazione? E
che ci dice oggi il termine bellezza?
Nel 1999 esce Remediation. Understanding new media di Jay David Bolter e Richard
Grusin scrivono Remediation ed esplorano le trasformazioni che i nuovi media apportano
sui vecchi e viceversa sostenendo una pluralità di forme mediali che diviene centrale nella
cultura mediale in America come in Europa secondo i principi dell’immediatezza,
ipermediazione e rimediazione secondo i quali le nuove tecnologie reinventano categorie
estetiche dei vecchi media assorbendone però i loro tratti fondamentali.
Tutto lo si può vedere più avanti nell’analisi del Progetto SoftCinema di Manovich: “Soft
Cinema consiste in un programma composto da un grande database che contiene
videoclip, animazione, musica, voce fuori campo che corre su ogni immagine in ogni
momento per quattro ore, cinque ore di musica selezionate in parte da me ed in parte da
DJ Spooky”3.
In questa operazione Manovich tuttavia riprende le caratteristiche di un montaggio
cinematografico, lo stesso Vertov, citato appunto da lui all’inizio del libro agiva con la
stessa operazione di montaggio di immagini a random spesso ripetute e affiancate come
in un montaggio grafico digitale odierno, ma non solo il cinema delle origini o quello di
avanguardia (Resnais, Godard…) anche le operazioni artistiche che si basano sul flusso di
coscienza di Joyce che, per esempio, offre immagini, rumori, sensazioni una dopo l’altra
3 Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2005
senza nessuna intermediazione spiegata all’interno di uno stesso paragrafo. Quindi ancora
una volta la novità rimane l’interattività, “database interattivo” per l’appunto.
Tutti i film sono programmati in modo che non ci sia una singola versione. Tutti gli
elementi, includendo lo schermo, le immagini e la loro combinazione, la musica, la
narrazione e la lunghezza, sono soggetti a cambiamento ogni volta che il film è visto e
caricato.
È il cinema database messo in pratica dal suo stesso teorizzatore con buoni esiti. Lo
spazio dello schermo è sottoposto alla teoria di un estetica del remix e della fluidità, in
questo modo anche la città viene progettata da architetti come Rem Koolhaas o Novak,
con questo stesso principio.
“Come forma culturale il database rappresenta il mondo come un elenco di voci non
ordinate e che si rifiuta di ordinare. Invece la narrazione crea una traiettoria causa-effetto
apparentemente disordinata. Quindi sono nemici naturali.”4 Nel terzo capitolo ho cercato
di affrontare proprio questo discorso; il lettore di un romanzo non ha a che fare con un
algoritmo ma deve sempre capire la logica del romanzo sottintesa. Non tutti gli oggetti
mediali seguono esplicitamente la logica del database ma alla fine sono tutti database.
Nell’età dei computer questo è il centro del processo creativo. Il nuovo oggetto mediale è
costituito da una o più interfacce che portano ad un database di materiale multimediale.
L’utente della narrazione attraversa un database seguendo dei link secondo il percorso
definito dal creatore. Una narrazione interattiva si può quindi intendere come la
sommatoria di più traiettorie che attraversano un database, e la narrazione tradizionale
come una delle tante possibilità di un ipernarrazione. E che quindi una serie di dati presi
da un database potrebbe essere una narrazione.
Tuttavia per avere una narrazione dobbiamo avere: attore o narratore, il testo la storia la
fabula, e i suoi contenuti legati da causa effetto, causati o vissuti dagli attori.
In sostanza, il database e la narrazione non hanno lo stesso status nella cultura dei
computer, nella coppia database/ narrazione la parola database si riferisce anche per la
narrazione. Infatti la sostiene ma non la incentiva.
4 Da Lev Manovich “ Il linguaggio dei nuovi media” MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002
I videogiochi vengono percepiti come narrazioni. La base narrativa di un videogioco
spesso maschera un algoritmo, sembrano proprio ispirarsi alla logica dell’algoritmo, per
vincere si deve eseguire un algoritmo.
Man mano che si gioca l’utente scoprendo il meccanismo di funzionamento del gioco
discopre l’algoritmo alla base. I dati non esistono di per se ma devono essere generati o
digitalizzati da altri medium preesistenti che poi vanno ripuliti, organizzati, indicizzati.
Nel mondo dei new media di solito la parola narrazione viene usata accanto alla parola
interattiva.
Le domande guida sono state la forma narrativa e quella del database sono davvero
concorrenti? Possiamo arrivare ad una loro coesistenza? E quindi, come possiamo
archiviare, classificare, recuperare dati e poi realizzare nuove narrazioni attraverso l’uso
dei nuovi media, e del database in particolare? In quale forma si esprime questa loro
cooperazione? Con il progetto SoftCinema in che modo, Manovich visualizza la nuova
“data-soggettività” senza usare i collaudati metodi di montaggio, surrealismo e assurdo?
Come egli riesce a connettere significato, la narrazione e gli strumenti del software
fondato sul database? Possiamo ritrovare nel web e nel cinema altre espressioni di questa
nuova forma di narrazione?
Nel quarto capitolo “Tutti all’interno di un database”ho analizzato l’altra parte della
medaglia delle nuove tecnologie. Se la forma database è un mezzo col quale, creare,
organizzare dati e forme culturali, essa può organizzare e catalogare la società intera. Il
titolo presagisce idee catastrofiche tuttavia non è proprio così. I nostri dati sono posseduti
non solo dagli uffici della pubblica amministrazione, ma anche dalle banche, dalle
università, dalla rete ospedaliera, dalle biblioteche, e i nostri spostamenti, le nostre azioni,
i nostri acquisti sono rintracciabili da ciò che usiamo per compierli: carte di credito,
telefonini, badge. Accanto a tutto ciò in questi spazi e nelle strade molto spesso siamo
sorvegliati da telecamere. Di solito questi dati vengono incrociati fra diversi database nel
caso di investigazioni su persone o gruppi di persone che hanno commesso un reato, o per
la maggioranza delle volte operano nel nome di efficienza e sicurezza. Ma a quale prezzo
e a quale efficacia?
Il web in queste situazioni diventa territorio dove l’espressione e la ricerca di verità
trovano un territorio fertile. Per questo internet diventa territorio conteso degli stati la cui
architettura aperta, fluida e orizzontale rappresenta – addirittura- un pericolo, o comunque
uno spazio da gestire e controllare. Associazioni, reti civiche, informazione alternativa, si
affidano alla rete; per Castells internet si rivela quindi un mezzo efficace affinché la
democrazia si dimostri o per lo meno ne può contribuire alla costruzione. Tuttavia se si
vuole controllarla, l’importante è porre dei filtri alle entrare, in questo modo il controllo
potrebbe essere totale, anche perché in Internet si è completamente trasparenti, la privacy
è assente, il rischio di essere spiati è alto.
La rete offre anche la possibilità di esprimere le proprie idee, o pubblicare qualsiasi cosa
come mai prima nella storia. I weblog sono stati definiti, diari di bordo o intellettuali,
giornalismo alternativo, ma anche siti personali con molte notizie poco utili. A questo
punto possiamo chiederci come molti hanno fatto, se chiunque può scrivere qualsiasi
cosa, come è possibile allora trovare contenuti di alta qualità nei weblogs? La risposta è
che la qualità emerge dai weblog dalla scelta dei lettori, ovvero tramite il maggior numero
di collegamenti ipertestuali intessuti dalla comunità degli editori.
I nuovi media hanno portato ad una rivoluzione per il modo in cui sono entrati a fare parte
della vita giornaliera delle persone e della loro fruizione, e per il fatto che hanno portato a
nuove soluzioni stilistiche ed estetiche aiutando i vecchia media ad un confronto proficuo
e reciproco attraverso i contenuti e le forme.
Il database diventa una delle forme simboliche e culturali con cui si dispiega
l’interesse e il bisogno dell’uomo contemporaneo di progredire attraverso la
tecnologia.
Capitolo primo
L’importanza dell’archivio nella società contemporanea.
La storia inizia con la scrittura ovvero dal momento in cui l’uomo inizia a registrare gli
eventi e a mantenerne una testimonianza per il futuro. E’ connaturato all’uomo il suo
istinto di lasciare una traccia della sua esperienza, del suo sentire, della sua interiorità,
attraverso la storia, la letteratura, l’arte; “una psicanalisi delle arti plastiche troverebbe
all’origine della pittura e della scultura, il complesso della mummia [...] che soddisfa un
bisogno fondamentale della psicologia umana, la difesa contro il tempo”5. Con
l’invenzione della stampa i mezzi per leggere e per pubblicare si estesero a molte fasce
della popolazione a cui prima il sapere elitario era escluso; improvvisamente tutti si
scoprirono scrittori. Con l’entrata in campo di media come la fotografia, il cinema, la
massificazione della cultura si fece evidente; su questa Benjamin scrisse uno dei suoi
articoli più illuminanti: “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” dove
la perdita dell’aurea dell’arte indicava il lento declino dell’attimo irripetibile della
creazione artistica.
Con la rivoluzione digitale si apre un nuovo capitolo della storia dei mezzi di
comunicazione di massa e di espressione dell’animo umano; se nel 1977 Kennet Olsen,
fondatore della Digital Equipment Corporation, aveva dichiarato: “Non c’è alcuna
ragione per cui ogni individuo abbia un computer a casa”6, questa affermazione non può
farci che sorridere. La rivoluzione tecnologica nei paesi sviluppati si estende alla
stragrande maggioranza della popolazione soprattutto quella situata nei centri urbani,
(non dimentichiamo infatti il digital divide spiegato da Castells) e pervade ogni aspetto
della vita giornaliera. Nel 1960 già si parlava di società d’informazione come un’ipotesi
realizzabile, oggi è diventata una realtà giornaliera per chiunque viva in un paese
sviluppato, gli uffici sono pieni di computer e scrivanie, sia che si tratti di una redazione,
5
da “Che cos’è il cinema?” di Andrè Bazin Garzanti Editore Milano 1986 pag. 5
da “Cinema e Internet nell’epoca del digitale” Emanuele Melli tesi di laurea fonte internet:
http://www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=11664
6
un ufficio di analisti finanziari o uno studio di architetti. Ma oltre il lavoro conduciamo la
nostra vita in un archivio informazionale depositando tutte le nostre email, sms, foto
digitali, e altre tracce digitali della nostra esistenza.
Nel prossimo libro in uscita, Manovich ha coniato il termine “Infoestetica”, ovvero il
modo in cui le forme della cultura contemporanea, dal design all’architettura, dal cinema
al web, rispondono alla necessità di archiviare e trattare i dati. Se è vero che il computer è
al centro di questo processo, è ormai sempre più evidente che il suo ruolo è cambiato
radicalmente e che le logiche alla base del suo funzionamento influenzano ogni aspetto
della nostra cultura. “La società d’informazione è dove i cittadini di un mondo sviluppato
vivono oggi, sperimentandola nella pratica quotidiana”7.
Pensiamo al concetto di database, una delle forme culturali e del linguaggio base dei
nuovi media, l’organizzazione in archivio che ormai caratterizza indifferentemente
immagini, testi, suoni, è presente nei CD-ROM, nelle enciclopedie, nei sistemi di ricerca
delle librerie, in Internet dove trova la sua massima espressione, in nuove operazioni
artistiche, nel nuovo impianto narrativo nel cinema o nella letteratura (“Lola Corre” e
“Una storia” di Baricco) insomma il concetto stesso di database è entrato in tutti gli
aspetti della nostra vita rimodellandoli, e ridefinendone i contenuti che, ridotti al
linguaggio dei bit, vengono memorizzati e possono essere trattati allo stesso modo.
Ma fino a che punto i contenuti possono essere ridefiniti?
Potrebbe sembrare che sempre più spesso la nostra esperienza con i media assomiglia a
un viaggio in un cumulo di dati piuttosto che al filo di una narrazione coerente; dove
finisce quindi la narratività che così tanto aveva caratterizzato i vecchi media?
In realtà la narratività non viene abolita completamente ma cambia, in una “narratività
interattiva” come la definisce Kocur (“teoria nell’arte contemporanea dal 1985”): creare
le diverse traiettorie non basta, il creatore deve controllare la semantica degli elementi e
della loro connessione in modo che abbiano una narratività, inoltre il cammino che
l’utente intraprende e crea diviene una propria narrazione. È il passaggio dalla forma al
flusso che caratterizza la trasformazione dall’analogico al digitale.
“Il database diviene il simbolo nell’era dei computer e un nuovo modo di strutturare la
nostra esperienza in una nuova sensibilità estetica, in parte determinata proprio dalle
caratteristiche
delle
interfacce
e degli
strumenti
informatici
che
utilizziamo
quotidianamente. Designers, media artists, grafici, architetti usano sempre più le capacità
7
da “Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002
di gestione, catalogazione e trasformazione dell’informazione, tanto da rendere possibile
“nuove forme di cinema narrativo (Timecode, L’arca Russa) e nuove forme di ritratti (il
progetto Mylifebits della Microsoft).”8
Prima di tutto dobbiamo definire il concetto database, non dilungandomi con un’analisi
dettagliata, perché non è questo lo scopo della dissertazione: in informatica il termine
database tradotto in italiano con banche dati, base di dati o anche base dati, indica un
insieme di dati riguardanti uno stesso argomento o più argomenti correlati tra loro,
strutturato in modo da consentire l’uso dei dati stessi e il loro aggiornamento da parte di
applicazioni software che a partire dagli anni sessanta si sono evoluti come appositi
sistemi software detti sistemi per la gestione di basi di dati. La loro struttura si presenta
gerarchica (rappresentabile tramite un albero; anni sessanta, XML ha una struttura
gerarchica per scambi di dati sul web), o reticolare (rappresentabile tramite un grafo; anni
settanta), relazionale (attualmente il più diffuso rappresentabile attraverso tabelle e
relazioni tra esse, anni settanta e ottanta) e a oggetti (“object oriented” tipico della
programmazione a oggetti, anni ottanta).
La funzionalità di un database dipende in modo essenziale dalla sua progettazione: la
corretta individuazione degli scopi del database e quindi delle tabelle, da definire
attraverso i loro campi e le relazioni che le legano, permette poi un’estrazione dei dati più
veloce, e in generale una gestione più efficiente. Se in passato i DBMS erano diffusi
principalmente presso le grandi aziende e istituzioni che potevano permettersi l’impegno
economico delle grandi infrastrutture hardware, oggi il loro utilizzo è diffuso
praticamente in ogni contesto. Sempre più frequentemente si assiste alla integrazione
delle basi di dati e di internet: una vasta classe di applicazioni della rete fa uso di
informazioni presenti su basi di dati; esempi di questo tipo di applicazioni vanno dai
cataloghi delle imprese disponibili per il pubblico, alle edizioni on-line dei giornali e dei
quotidiani. Col tempo la sua funzione di catalogo si è estesa a nuove possibilità estetiche;
ma che impatto ha avuto sulla cultura?
Diversamente dalla lettura di un romanzo o dalla visione di un film l’esperienza del
database ha come caratteristica quella di non avere una sequenza lineare ma di essere
principalmente frammentaria; la traiettoria di lettura si configura come una serie di
operazioni diverse a cui l’utente risponde attivamente creando dei percorsi individuali.
“Dopo la preferenza del romanzo e del cinema per la narrazione come forma principale di
espressione culturale, l’era dei computer ha introdotto il suo complice, il database. Molti
8
da “Infoestetica” Lev Manovich da www.manovich.net
nuovi oggetti mediali non raccontano storie; non hanno alcuno sviluppo tematico formale
o di altro tipo che ne organizzi gli elementi in una sequenza. Sono piuttosto raccolte di
elementi individuali, ognuno con la stessa possibilità di significare.”9
Prendiamo il Web, questa impalpabile ragnatela che avvolge il pianeta, che rende Internet
simile ad un’opera narrativa che esiste nell’hic et nunc dell’utente, ovvero che si sviluppa
dai movimenti dell’utente in uno spazio virtuale e nel tempo della navigazione, è un testo
ibrido “dove una larga parte della narrazione fa riferimento al contenuto stesso del testo
senza rimandi extratestuali se non allusivi”10.
Lorenzo De Carli parla di puri soggetti di enunciazione, riferendosi a chi transita nella
rete e stabilisce un rapporto con questo testo da cui emerge la propria soggettività in base
all’identità che si assume. Se riprendendo Bachtin che dice che la nostra voce è fatta dalla
voce degli altri, la nostra parola dalla parola degli altri, noi contessuti con tutti un testo tra
testi, la soggettività diviene una intersoggettività all’interno di un enorme archivio di
testi. La MIT PRESS e la londinese White Chapel hanno dato avvio alla pubblicazione di
Documents of Contemporary Art, una serie di pubblicazioni di studi che indagano le
relazioni tra arte contemporanea e contesto, politico, sociale tecnologico rilevandone le
influenze chiave. Una di queste è l’archiviazione, l’accumulo di dati, come una delle
caratteristiche sintomatiche dell’era moderna dovuta all’aumento d’importanza dato
all’archivio come un modo in cui le conoscenze storiche e le forme di memoria sono
accumulate, depositate, recuperate.
Gli artisti di conseguenza hanno esaminato, contestato e reinventato il concetto di
archivio dall’inizio del secolo a oggi. La maggior parte delle istituzioni e delle
organizzazioni hanno storie circa le loro origini, una memoria collettiva che permette
forme certe di pensiero collettivo e comportamenti, anche se contraddittori: Internet per
esempio, ne ha come minimo tre (pragmatismo militare, paradiso hacker, emporio
commerciale). La memoria di un evento o di un’organizzazione è spesso situata in una
memoria del computer, sui libri, certificati, o racconti. Tutto questo ne fonda il sistema di
credenze. Le nuove testimonianze si sistemeranno e amalghemeranno con le vecchie, ma
sotto l’egida dell’organizzazione. Da qui parte il discorso di Derrida Jacques che si
riallaccia a Freud.
Nel suo libro “Mal d’archive: une impression freudienne” Derrida guarda con un occhio
di riguardo alla psicoanalisi, soprattutto sul fatto che questa esamina la memoria
9
da “Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002
da “Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002
10
soprattutto quella nascosta, e questo comportamento spesso è fonte di errori logici o loop
infiniti: se si deve dare un’organizzazione alla struttura dei dati anche i dati dovranno
essere riorganizzati, e chi riorganizza i dati riorganizza se stesso. Lo stesso Freud sarebbe
stato vittima di questa “Archive fever”, vediamo come.
Quando arrivò a postulare e a capire l’importanza dell’istinto di morte o distruzione insito
in ognuno di noi, preso da impulso naturale che all’inizio non riuscì a spiegare, cominciò
a riorganizzare tutti i suoi dati e a catalogarli a sistemare e riscrivere tutte le sue
considerazioni con il dubbio che in fondo fosse solo uno spreco di tempo. Tuttavia si rese
conto che questo lavoro serviva a salvare dalla distruzione della dimenticanza le sue idee
che presero forma una volta finito. Si tratta naturalmente dell’impulso della distruzione
che risiede in ognuno di noi, lo stesso che ci spinge ad archiviare, catalogare, e
riutilizzare il passato, l’archivio infatti si fonda su ciò che è stato, passato. Derrida scrive
sempre nel suo articolo: “non c’è archivio senza l’affidamento ad un posto esterno che
assicura la possibilità di memorizzazione, ripetizione,… che in accordo con Freud è
sempre legata all’impulso di morte, e cosi alla distruzione. L’archivio lavora sempre, e a
priori contro se stesso”11.
Hal Foster riprende nel 2006 nel suo articolo “An Archivial Impulse” la parola impulso
riferendola come una tendenza relativamente nuova della cultura contemporanea
internazionale soprattutto artistica. Prima di tutto ricorda come questo impulso era già
presente nel periodo pre-guerra ( Heartfield con i fotomontaggi e Rodchenko) quando il
repertorio di risorse era esteso sia politicamente che tecnologicamente, e nel periodo postguerra quando la ripresa di immagini già create e la ripetizione seriale divenne una
caratteristica comune, sino ad arrivare ad una nuova sensibilità di questo impulso, “again
pervasive” che ha delle proprie caratteristiche che lo differenziano dai precedenti. Molte
volte il campionamento dell’archivio spinge le complicazioni postmoderniste di
originalità e autorità all’estremo.
Il lavoro dell’artista nell’età dell’informazione digitale secondo Foster subisce un
cambiamento di status; il progetto diviene una catena di progetti, una struttura dinamica
che produce forme che sono parti dello stesso. “L’informazione, oggi, spesso appare
come un readymade virtuale, altrettanto i dati ad essere riprocessati, e spediti oltre, e
molti artisti creano, campionano, e condividono come il loro modo di lavorare.”12
11
da “The archivi. Documents of Contemporary Art” edito da Charles Merewether MIT PRESS
Cambridge, Massachussetes articolo di Derrida Jacques “archive fever” 1995
12
da “The archivi. Documents of Contemporary Art” edito da Charles Merewether MIT PRESS
Cambridge, Massachussetes articolo di Hal Foster “An Archivial Impulse”
È quello che Manovich chiama “collaborative remixability”. “Le persone sono stimolate a
guidare le informazioni da ogni genere di fonti in un loro spazio personale, remixarle e
renderle disponibili agli altri, come collaborare o come minimo giocare su una stessa
piattaforma d’informazioni.”13
Foster aggiunge poi che il medium più rappresentativo dell’arte-archivio è il mega
archivio Internet, di cui i termini piattaforma, rete, interattività sono diventati d’uso
comune; tuttavia quello digitale richiede dei fini relazionali non presenti prima d’ora:
“questi (gli archivi) si presentano come materiale recalcitrante, frammentario più che
funzionale, e come tale richiede un’interpretazione umana più che un’analisi della
macchina..”14 È proprio questo il cambiamento apportato?
13
“These paths stimulate people to draw information from all kinds of sources into their own space, remix
and make it available to others, as well as to collaborate or at least play on a common information
platform.” da fonte internet: http://www.nettime.org/Lists-Archives/nettime-l-0511/msg00060.html
14
da “The Archive” op. cit. “They ( archives) are recalcitrantly material, fragmentary rather than fungible,
and as such they call out for human interpretation, not machinic reprocessing.”
Una vera e propria ossessione
L’arte contemporanea è caratterizzata dalla riflessione sullo statuto dell’opera d’arte, le
varie avanguardie hanno ampliato il termine di decostruzione dell’opera d’arte : i collage
avanguardisti sulla commistione di elementi diversi che concorrono alla realizzazione di
un’opera si fondano sulla costruzione tramite la scelta di elementi diversi che raffigurano
delle realtà tramite l’accostamento di mezzi diversi. Anche nella poesia d’avanguardia
futurista italiana troviamo delle poesie composte dalla presa a caso dei termini che
compongono una poesia. Gli inizi del secolo sono pieni di esempi di questo tipo;
l’avanguardia ha utilizzato i nuovi mezzi quali la fotografia e il cinematografo per
elaborare nuovi significati e nuove elaborazioni estetiche.
Ma in alcuni artisti, nelle arti visive, nella fotografia o nel cinema è presente una vera e
propria ossessione verso il catalogo, inteso come catalogazione di materiale storico,
emozionale o visivo, e come sistema di una nuova organizzazione visuale o narrazione.
Manovich parla ampliamente di Vertov come uno dei maggiori registi-database del
novecento. L’uomo con la macchina da presa è infatti realizzato tramite una traiettoria
attraverso l’enorme materiale d’archivio e gli effetti che il regista aveva realizzato per
scoprire l’ordine del mondo attraverso la percezione, la vista.
L’esperienza delle guerre e del bisogno di non dimenticare hanno spinto o influenzato
alcuni autori nella loro creazione artistica, la necessità di usare la forma d’archivio
diviene l’unico modo di poter rappresentare l’esigenza di trascrivere il più possibile
l’esperienza per preservarla o per darle un senso. Al giorno d’oggi l’esperienza della
guerra sembra essere un brutto sogno, “ci siamo svegliati in un altro secolo” 15 ma forse
una delle cose che è rimasta dentro è la responsabilità del ricordo e della sua
catalogazione. Sembra difatti che una delle esigenze sia avere il controllo assoluto sulle
nostre vite tramite l’inserimento delle nostre azioni in un enorme database. Siamo un
enorme database.
Nell’ articolo che prende il nome dal lavoro omonimo “ Research and Presentation of all
that Remains of my childhood 1944-1950” del 1969 Boltanski, un autore che vedremo fra
poco in particolare, riflette sui sistemi che possiamo impiegare nel superare il
deterioramento del tempo: “Ho deciso di imbrigliare me stesso nel progetto a cui ero
15
da “Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood” di Franco La Polla Castoro Editore Milano
2004, si riferisce al comune sentimento di sentirsi rinati in un altra epoca negli dopo la seconda guerra
mondiale.
legato da molto tempo, preservare una persona nella sua interezza, conservando la traccia
di tutti i momenti della nostra vita, tutti gli oggetti che ci hanno circondato, tutto quello
che abbiamo detto, o ci è stato detto, questa è la mia meta” 16, il resto è perso per sempre e
il tempo impiegato per una simile catalogazione non è mai abbastanza, molto tempo
passerà prima che la vita sia ordinata ed etichettata in un posto sicuro “e così potrò
finalmente riposarmi”17.
Il tedesco August Sander coniugò nei primi anni del secolo la tendenza della NuovaOggettività ad avere un approccio distaccato alla materia trattata e quella che poteva
essere chiamata “la tendenza archiviale”. Iniziò col ritrarre ritratti di contadini nelle aree
rurali della Germania che lo spronarono a pianificare una galleria di ritratti sistematici di
tipi di persone, di occupazioni. Progettò di avere quarantacinque cartelle e in ognuna
venti immagini relative al titolo della cartella e all’intero progetto denominato Gente del
XX secolo (People of the XX century) e con questo lavoro portò dall’Ottocento il bisogno
enciclopedico della fotografia dentro il nuovo secolo, usando infatti tecniche e mezzi
della fotografia delle origini dandogli un tocco innovativo attraverso l’isolamento del
soggetto in uno sfondo indefinito che risaltasse i tratti particolari del volto o del corpo tali
da renderli unici. Ne escono dei ritratti da cui scaturisce l’impressione e l’idea
emozionale che il soggetto trasmetteva a Sander nell’immediato, ma che nello stesso
tempo doveva anche raffigurare la “classe” di appartenenza nell’antologia sanderiana di
archetipi tedeschi che in realtà poco assomigliavano alla concezione ariana che il nazismo
in quel periodo inculcava nella popolazione come effige dell’uomo e donna tedeschi.
Questo fu solo l’inizio dell’attrito fra Sander e il regime; i ritratti di tipi come i disabili e i
disoccupati che venivano considerati da “purificare”, inseriti nel gradino più basso della
scala sociale, divennero così scomodi da spingere il governo ad ordinare una completa
distruzione della sua opera Face of Time tanto quanto fece anche la guerra e i
bombardamenti subito dopo (il suo laboratorio fu raso al suolo).
Dopo la guerra continuò la sua opera aggiungendo nel catalogo i ritratti degli ebrei
perseguitati e i prigionieri politici. Non riuscì mai a scoprire l’enorme influenza che ebbe
nella ritrattistica contemporanea, nel tentativo di scoprire forse il segreto della vita nella
catalogazione di mille volti e nella loro unicità.
Le fotografie di Sander non trasmettevano come quelle di Boltanski il segno della
16
“i decided to harness myself to the project that’s been close to my heart for a long time: preserving
oneself whole, keeping traces of all the moments of our lives, all the object that have surrounded us,
everything we’ve said and what’s been said around us. That’s my goal.” da “The archive” op. cit.
17
“ i may finally rest.” da “The archive” op. cit.
caducità ma del tempo, “esse sono il tempo” 18. Ripresi nella loro fissità architettonica i
soggetti esprimono l’appartenenza ad un gruppo specifico, un’identità, dei punti fissi del
cosmo sociale. La rappresentazione schematica e totale di uno spaccato di realtà che ci
può sembrare ambiziosa relegata al solo mezzo di un fotografo, nulla al confronto con i
mezzi di cui disponiamo adesso, tuttavia l’idea dell’uomo del XX secolo non poteva
essere più precisa e profonda. Questo perché la lunga esposizione praticata da Sander era
la condensazione non dell’attimo irripetibile ma del sunto significativo di una vita.
Una delle sue foto che all’apparenza può anche sembrare un’istantanea è una delle sue
foto più note “Giovani contadini” del 1914 inserita nell’antologia1: giovani contadini,
riassume sia lo sguardo quasi sorpreso dei giovani di fronte al mezzo con la posizione in
diagonale del personaggio sulla sinistra, sia la fissità di sguardo del personaggio centrale
e quello di destra, ben ancorati alla terra dal bastone che sembra indicare l’appartenenza
di quel territorio.
Nell’antologia dell’uomo del ventesimo secolo il gruppo del contadino e dell’artigiano
riunisce foto in cui i tipi sono ritratti con i loro attrezzi, gli altri gruppi sono ritratti per lo
più con angolazioni diverse in piani ravvicinati per carpirne meglio l’essenza, pian piano
lo sfondo diventa bianco neutro ad esaltare il primo piano. Tuttavia l’aspetto psicologico
non è fondamentale in Sander; ciò che deve trasparire è il ritratto sociale atemporale, un
archetipo, sebbene iscritto come nei primi ritratti in un pittorialismo.
Per molti Sander rappresenta uno storiografo nel suo progetto di catalogare lo spirito di
un’epoca, ma alcuni sguardi, alcune posture sembrano una catalogazione d’anime;
prendiamo ad esempio “movimento giovanile” del 1923 in antologia 40: i giovani della
grande città centrale è lo sguardo dell’uomo che va oltre la camera, verso un punto posto
al lato ma indefinito, verso un punto di riflessione che denota preoccupazione ma anche
speranza, il riflesso della luce sulle lenti illumina lo sguardo e lo incornicia. Oppure
prendiamo un collage degli anni trenta “studi, l’uomo”, la serie dei tagli e dei particolari
di un volto formano insieme un’unicità ideale, in quanto provenienti da persone diverse, il
tutto con una sensibilità post-moderna.
In una lettera al figlio del 1944 la moglie Anna Sander scrive: “ Papà è di nuovo al
lavoro: sta raccogliendo fotografie di mani di intellettuali e artigiani, di bambini e
anziani…puoi immaginarti quanto sia ben poco edificante avere come unica occupazione
quella di ingrandire le fotografie dei soldati caduti, ritoccarle giorno dopo giorno e dover
18
da “ August Sander. La fotografia non ha ombre oscure” a cura di Gerd Sander Alinari Editore
Firenze1996
ascoltare, al momento della vendita delle foto, le pene delle madri e delle mogli…la sua
unica preoccupazione è quella di salvare per un tempo futuro il lavoro di tutta una vita.”19
Il XX secolo è stato un secolo difficile, soprattutto per l’Europa, August Boltanski un
autore degli anni settanta dice: “il fatto che io sia nato proprio a partire dalla guerra, che
da bambino non abbia sentito parlare d’altro che di Shoah, che tutti gli amici dei miei
genitori fossero dei sopravvissuti, mi ha sicuramente formato. Io non ho vissuto
direttamente quelle esperienze, ma ne ho subito le conseguenze, come il timore
dell’esterno, l’idea del pericolo, il dover nascondere le cose, l’essere allo stesso tempo
fieri di qualcosa pur avvertendone consapevolmente il pericolo…”20
Come per Sander, Boltanski analizza il concetto del tempo, tuttavia ciò che lo
contraddistingue non è l’analisi storica ma porre l’accento della decadenza del tempo,
dell’ineluttabilità del perire. Le sue operazioni seguono un fluire temporale, le tracce, le
foto, gli oggetti o gli indumenti sono segni di un passaggio e di una ricostruzione del
soggetto attraverso il ricordo che deve attivare un percorso di pensiero individuale
staccandosi da un impianto narrativo. Già dalle sue prime opere nella metà degli anni
settanta l’artista mescola il lato ironico, l’istantaneità della fotografia e il suo aspetto
reliquiale con l’istanza catalogatrice che ordina oggetti e mobili come in museo,
rafforzando l’idea che una sopravvivenza è possibile nella rigidità della rappresentazione.
Rigidità che non è come per molta fotografia contemporanea congelamento ed
estraniamento, ma tutto al contrario un punto di arresto del tempo per un’introspezione
all’interno da cui far scaturire una personale narrazione verso un mondo interiore,
l’oggettività diventa soggettività attraverso il ricordo. In “boites de biscuits” del 1969
Boltanski mette in colonna ammucchiate al muro di una parete di un lungo corridoio una
serie di scatole di biscotti, all’interno vi sono “..vecchi pezzi di carta, ritagli di giornale
ingialliti, fotocopie di pagine di libri, biglietti strappati, foto sbiadite, vecchie diapositive
deteriorate, senza o con didascalie, e messe a casaccio, cassette video impolverate e quasi
cancellate, oggettini ridicoli scampati alla pattumiera per miracolo, il tutto alla rinfusa…
insomma reliquie. Reliquie estratte con mille precauzioni dalle loro povere bare di latta,
disposte con cura sul tavolo, maneggiate con riverenza, per poi tentare di metterci ordine
19
da “ August Sander. La fotografia non ha ombre oscure” op. cit pag. 216
da “ Boltanski” a cura di Danilo Eccher per la Galleria d’Arte Moderna Bologna, Charta Editore Milano
1997
20
per poter provare a partire da loro, a ricostruire il soggetto. Il soggetto Christian
Boltanski, artista, e le sue molteplici manifestazioni, o forse molteplici sparizioni?”21
Più avanti queste scatole di biscotti conquisteranno scaffali interi per una maggiore
occupazione dello spazio in cui il fruitore deve passare e osservare ad altezza d’occhio
tutte le fotografie attaccate su ogni scatola, incorniciate da un quadrato nero, l’opera è
“Riserva degli svizzeri morti”: “…ci si fa strada con difficoltà tra le 150 colonne, si
diventa un Pollicino braccato in una foresta mortale dal gusto di metallo arrugginito. Si ha
l’impressione di trasgredire se non di profanare. Il ritorno è labirintico…la parola
ambiente riprende servizio con grande violenza e provoca un bell’effetto di prostrazione
estetica.”22 La sacralità dei luoghi è una sua costante, lui non è credente tuttavia è
interessato alla conoscenza delle religioni, molte sue installazioni sono fatte dentro le
chiese o attraverso la ricostruzione di ambienti religiosi, le luci che illuminano ogni
ritratto in bianco e nero sono lumini di una necropoli che ha la forma molto spesso di una
piramide. I “monumenti” dei primi anni Ottanta sono infatti installazioni in cui la
fotografia è la parte principale che regge il significato maggiore, il volto centrale, funereo
e impalpabile è amplificato dalle luci e dai fili elettrici che legano una foto all’altra,
facendo partire nel fruitore dei collegamenti mentali narrativi.
Le icone di Boltanski si legano oltre che tra di loro anche con la Storia, spesso si è parlato
di lui come uno degli artisti dell’olocausto, egli infatti inizierà a prendere a soggetto delle
foto di bambini come omaggio ai bambini senza nome perduti nelle soluzioni finali
naziste ma soprattutto si può leggere un ammonimento moralista più generale a chi ha
perso l’innocenza e la fase dell’infanzia per diventare adulti o una personale nostalgia
all’infanzia perduta dell’artista. Daniel Soutif scrive nel 1988 : “boltanskia… un luogo
perduto dove tutti sono anonimi e possono scambiare i propri ricordi con quelli degli altri,
dove l’infanzia si sarebbe prolungata indefinitamente al punto che la si potrebbe
confondere con l’eternità della morte.”23
Come Sander anche Boltanski vuole nella sua opera creare una figura dell’uomo del XX
secolo, in quanto pur parlando dell’infanzia, non vuole mostrare la sua infanzia in
particolare ma uno stadio emotivo comune a tutti in cui il fruitore deve ritrovarsi per
capirsi, soprattutto l’uomo contemporaneo che a corto di ideologie e utopismi dopo le due
21
da “ Boltanski” a cura di Danilo Eccher per la Galleria d’Arte Moderna Bologna, Charta Editore Milano
1997
22
da “ Boltanski” a cura di Danilo Eccher per la Galleria d’Arte Moderna Bologna, Charta Editore Milano
1997
23
da “ Boltanski” a cura di Danilo Eccher per la Galleria d’Arte Moderna Bologna, Charta Editore Milano
1997
guerre sembra entrato in un post-umanesimo in cui l’unico vero sentimento è
l’identificazione col proprio vicino.
Nel cinema le avanguardie hanno spesso utilizzato materiale d’archivio per creare delle
elaborazioni artistiche, si pensi al già citato Vertov che con gli altri “evangelisti” delle
scuole sovietiche arrivarono a sperimentare delle connessioni narrative attraverso il
montaggio; l’effetto Kulesow dell’immagine di Mozzuchin fondata sui collegamenti
mentali dello spettatore a seconda del montaggio rimarrà uno degli esempi più
emblematici.
Ma se prendiamo in particolare l’esempio di alcuni registi che hanno saputo elaborare dei
rapporti tra narrazione e sperimentazione attraverso il montaggio di sequenze come
materiale d’archivio per proporre una riflessione sul ricordo personale e storico, l’elenco
si assottiglia, e in particolare prenderò due registi che si legano anche ad una riflessione
sui nuovi media, sino ad arrivare ad esemplificare come le nuove tecnologie aiutano la
realizzazione estetica di opere in cui l’esigenza dell’arte contemporanea di decostruire
l’opera, scomporla per arrivare ad un'altra realizzazione aperta aiutano questa istanza. Un
regista particolarmente attaccato al tema del catalogo come elaborazione del ricordo
storico è Alain Resnais e ciò è particolarmente presente già nei suoi primi cortometraggi
più che nei lunghi. Il testo filmico per Resnais deve essere ricomposto secondo una logica
che riordini materiale indifferenziato dopo una completa ricodificazione, tutto sotto
l’egida di una ricostruzione storica e sentimentale.
Il suo metalinguismo è stimolato soprattutto da temi collegati alla conservazione della
storia intesa come guerra, ricordanza, oblio. Iniziando da Guernica che segue il corto su
Van Gogh, si differenzia da questo per l’eccesso di smembramento e deflagrazione dei
dettagli che si accavallano come un collage cubista, ritagli di giornale, murales e le parole
chiave. Questo corto in particolare “è una piccola feritoia aperta nella barriera del tempooblio per gettare uno sguardo al di là, dove anche le statue muoiono, dove notte e nebbia
confondono le tracce del passato e impediscono di vedere il futuro.”24
Dal 48 al 50 egli dirige alcuni corti legati alla figura di artisti, prima si occupa di Van
Gogh, poi di Gaugin e infine dirige Guernica. Lo stile nei tre corti è simile, la narrazione
affidata ad una voce off si sovrappone ai quadri degli artisti. Tuttavia il ritmo sale sempre
di più da un corto all’altro, il quadro di Picasso che si riferisce ad un particolare evento
storico più che alla figura dell’artista, è un incalzante montaggio di quadri, particolari,
titoli di giornali e materiale d’archivio. Anche la musica si sovrappone agli spari, ai
24
da “ Alain Resnais o la persistenza della memoria” di Di Sergio Arecco Le mani, Recco (GE)1997
bombardamenti sino ad arrivare alla produzione statuaria di Picasso che viene a
rappresentare l’evoluzione dell’attacco sul paese basco raffigurato, ovvero la morte, la
distruzione, il disfacimento.
Ma la sua ansia di conservazione del ricordo accanto alla catalogazione viene manifestata
ampiamente da un lungometraggio del 1956 “Tutta la memoria del mondo”
commissionato dal Ministero degli affari Esteri per rappresentare una delle più grandi
biblioteche del mondo la Bibliothèque Nationale di Parigi. Qui Resnais dà ampio respiro
alla sensazione di inafferrabilità e di sperdimento di fronte ad un’enormità di materiale
minuziosamente ordinato e catalogato per l’esigenza del cittadino. Più che una biblioteca
sembra che la mdp si perda in un grande labirinto, si muove lentamente tra i corridoi e
molte riprese partono dal basso in senso verticale verso l’alto quasi a riempire con il
soffitto tutto lo schermo. Un ansia di morte pervade tutto questo lungometraggio, un libro
è fermo nella sua posizione fino a che qualcuno non lo richieda, per poi tornare nell’oblio
dell’enorme quantità di altri libri, una volta usato. In più l’enormità di materiale sembra
essere troppo grande per lo sforzo di tutti i lavoratori della biblioteca, il loro lavoro è
documentato: catalogazione, disposizione per genere e specie, numerazione, perforazione,
conservazione, restauro…sembra che sia tutto inutile di fronte le ultime sequenze del
film, che riprendono dall’alto la monumentalità della struttura della memoria in confronto
ai lettori che sembrano quasi sparire.
Se prendiamo uno dei suoi maggiori capolavori “Hiroshima mon amour” del 1959 la
parte iniziale sembra una continuazione naturale dei primi corti; la voce off dei
protagonisti che all’inizio si intravedono attraverso i loro corpi, si sovrappone a sequenze
d’immagini di repertorio, e a riprese all’interno di musei che ricordano la catastrofe
atomica. In questo film passato e presente si sovrappongono sul discorso della memoria e
dell’oblio, il registro letterario (scritto da Margherite Duras) si sovrappone a quello
cinematografico che alterna momenti di metalinguaggio, di manifesti pacifisti,
documentari sino a quello sentimentale. I suoi film sembrano essere tessere di un mosaico
in continua costruzione fondate sull’impossibilità di sfuggire all’oblio, anche il ricordo a
cui la protagonista si aggrappa è in realtà un ricordo che sta per essere superato e
cancellato: “conosco l’oblio…come te ho desiderato di avere una memoria
inconsolabile…ma ho dimenticato.”25 Il momento topico è quello in cui nel tea room la
protagonista ricorda il proprio passato a Nevers e il trauma di vedere il proprio amato
ucciso, la conseguente colpa di aver amato un tedesco e la reclusione nella cantina. Tutto
25
da “ Alain Resnais o la persistenza della memoria” di Di Sergio Arecco Le mani, Recco (GE) 1997
ciò è reso con una continua sovrapposizione tra la città di Hiroshima e quella di Nevers
tra passato e presente, tra l’identità dell’architetto giapponese e il soldato tedesco, con il
terrore di non saper gestire questo flusso di ricordi la cui destinazione è la scomparsa.
Anni più tardi nel 1993 con Smoking/ No smoking porterà l’operazione di work in
progress a livelli tali che il film verrà considerato “cinema interattivo”, il fruitore si
sentirà realmente chiamato in causa nella composizione del senso e della narrazione.
Un’intuizione che Resnais aveva già intravisto nei suoi primi corti: “ La ricorsività dei
personaggi, delle azioni, dei tempi nasce da una piattaforma algoritmica, e cosi il
procedimento del tempo e dello spazio, comune a tutto il cinema di Resnais e qui
semplicemente matematizzato, mappizzato…il film sembra disporsi tra Feydeau e
l’elaborazione elettronica, tra il marivaudage e l’informatica.”26
26
da “ Alain Resnais o la persistenza della memoria” di Di Sergio Arecco Le mani, Recco (GE)1997
Come rappresentare il mondo in un catalogo. Tulse Luper.
In Peter Greenaway l’ossessione del catalogo si lega indissolubilmente ad una altra sua
ossessione quella di un cinema totalmente innovativo, spoglio della narrazione che per
tanto tempo ha reso succube il cinema nell’essere solo un modo per raccontare una storia,
per liberarsi nell’espressione assoluta come è possibile in pittura; una delle sue frasi più
celebri è “il prologo del cinema è finito, e noi ora possiamo veramente cominciare”.
Artista poliedrico egli è anche un pittore o media artist, dopo aver studiato alla
Walthamstow School of Arts tenta di iscriversi al Royal College of Art Film School,
senza successo tornando a dedicarsi alla pittura, uno dei suoi quadri più famosi è “ Se
solo col cinema si potesse fare lo stesso” e allestisce la mostra “ 100 objects to Represent
the world” nel 1992, scrive anche dei romanzi ispirandosi in particolare a Borges ed a
Calvino. Per la propensione alla pittura Greenaway propone nelle sue pellicole delle
composizioni di forte impatto visivo, organizza le composizioni e le inquadrature nude e
simmetriche o debordanti di oggetti come dei dipinti, sperimentatore di mezzi e
linguaggi, inserisce nei propri film numeri e tabelle, organizza la narrazione in capitoli o
ramificazioni e continui rimandi alla sua stessa opera. L’interesse verso l’esplorazione
delle potenzialità degli straordinari mezzi di comunicazione lo porta a servirsi della
rivoluzione digitale come di un modo per abbattere le barriere tra il cinema e le nuove
tecnologie; arriva a coniare il concetto di Digital Cinema Multimedia per definire il suo
progetto: The Tulse Luper Suitcase, iniziato nel 2003 con la prima parte La storia di
Moab e continuato con Antwerp ma con minor successo di critica e pubblico.
Ancor prima che Greenaway realizzasse il progetto Tulse Luper, Manovich l’aveva
inserito come uno dei registi-database nel suo “Il linguaggio dei nuovi media” come un
artista che aveva portato all’estremo le conseguenze della sperimentazione con i nuovi
mezzi digitali.
Nel cinema di Greenaway la catalogazione, è un tema dominante, un tentativo dell'uomo
di mettere ordine nella vita quotidiana o in ciò che non si riesce a comprendere, con tutta
la sistematicità di un collezionista; nel film La storia di Moab la prima parte della trilogia
Luper viene definito: “per lo più come un naturalista, aveva intrapreso gli studi di
archeologia, forse è importante considerarlo soprattutto un collezionista, lui si definiva
una specie di erudito, nutriva un ammirazione particolare per i collezionisti, i lessicografi,
gli enciclopedisti, tutti coloro che si adoperavano in ogni modo per ordinare le cose del
mondo in un unico posto sotto un unico sistema, si divertiva a compilare liste…di
immagini, eventi, nomi, esperienze, persone, personaggi, prigioni, pezzi di carbone…”27
Il tema del libro e del catalogo compare in H is for the House, A walk through H (in cui
compare questo personaggio enigmatico Tulse Luper ) nel Lo zoo di Venere in cui lo zoo
diventa un enciclopedia di animali viventi, e nella labirintica biblioteca di Prospero in
L’ultima tempesta in cui tutti i libri rimandano agli altri sino ad arrivare alla summa di
tutto ovvero La tempesta di Shakespeare. L’ambizione di poter percepire e organizzare
tutto l’esistente caratterizza molti dei suoi protagonisti come Nagiko di Pillow book o
appunto il fantomatico Tulse Luper, citato molte volte nelle sue prime opere inizierà ad
avere col tempo una personalità: è l’ornitologo di A walk through H a cui si devono 92
disegni di rotte migratorie degli uccelli raccolte dopo la sua morte, è il realizzatore del
progetto Vertical Feature, una raccolta di forme verticali da cui Greenaway trae Vertical
Feature Remake strutturato secondo il numero 11, diviene protagonista con un volto nel
2003 in Le valigie di Tulse Luper: “null’altro è se non l’alterego del regista, il
personaggio sul quale l’autore gallese carica le sue ossessioni, le sue seduzioni, le sue
manie pitagoriche e cataloganti, le visioni di un mondo-caos che nelle sue mille e mille
vie di fuga è da “contenere”, afferrare, imbrigliare e dunque razionalizzare e spiegare
mediante catalogazioni di tutto e su tutto mediante numeri significanti, gruppi e
sottogruppi, schemi, caselle, archivi, icone, archeologie.”28 Le persone incontrate sono 92
come le valigie di Luper, 16 sono gli episodi e le prigioni.
Prigioni che possono essere il sunto della narrazione di questo film, una serie di reclusioni
che Tulse Luper ha vissuto nella sua vita: partendo dall’infanzia, quando il padre lo
rinchiude nella carbonaia per aver fatto crollare un muro di mattoni e dove lui riempie la
sua prima valigia di oro nero gallese; passa nella prigione di Moab, nello Utah USA per
aver sedotto una sposa bambina, Passion Hockmeister, di una famiglia mormone che
dopo averlo maltrattato lo perseguiterà anche ad Anversa, sino ad arrivare alla terza
prigione di questo film, nel bagno della stazione di Anversa per essere stato accusato di
spionaggio contro il nazismo, mentre delle dattilografe trascrivono tutti i documenti e i
manoscritti di Luper. La narrazione quindi si sposta anche se in linea cronologica,
saltando da uno spazio all’altro, quello che ci aiuta nella ricapitolazione della trama sono
gli interventi di alcune “autorità” super partes che sembrano illustrare un documentario o
27
dal film “Le valigie di Tulse Luper. La storia di Moab” di Peter Greenaway 2003 126’ GAM film :la
voce narrante-dimostrativa si inserisce nel film quando Tulse è alle prese con la sua prima prigionia e la
prima valigia.
28
da “Le valigie di Tulse Luper. di Peter Greenaway” di Renzo Gilodi rivista Cinema sessanta n°3-4/2004
rispondere ad una intervista su Tulse Luper e si inseriscono nella narrazione attraverso dei
piccoli quadrati verso il bordo dello schermo. L’uso di questi riquadri, dello split screen,
di inserimenti grafici, di numeri o scritte, o della enumerazione delle valigie con il
commento del loro contenuto e della loro storia, di disegni di oggetti che sono nella
catalogazione “gli oggetti che rappresentano il mondo” (con relativa musichetta da
intervallo) sono i veri elementi che caratterizzano questo film come uno degli esempi di
multimedialità che offre soluzioni narrative e visive verso cui lo spettatore è incuriosito e
sollecitato ad operare collegamenti mentali e riflessioni: “L’opera è una specie di summa
di tutti gli universi greenawaiani di esaltazione del post-moderno tendente a sintetizzare
una summa radicalmente rifondata verso un’introduzione ad Internet…”29
Il film si apre con delle audizioni ai vari personaggi e comparse del film che hanno una
numerazione precisa che ricompare nel corso del film quando si attua la loro parte, in
seguito le immagini del gioco alla guerra dei bambini del quartiere di Luper si
accavallano alle immagini d’archivio, al suono degli spari reali, sotto una musichetta da
grammofono e l’inserimento di diversi quadrati con i personaggi della stessa narrazione.
Se quindi nei suoi film Greenaway stravolge lo schema della narrazione lineare e dà vita
ad un'opera fruibile come un CD ROM o un ipertesto stimolando il ruolo dello spettatore
che decide liberamente quale percorso seguire nel guardare un film, Greenaway,
nonostante questo avvicinamento alla tecnologia, verso la quale pensa sempre di tenerla
in pugno e di potersene servire pensi anche che, tutto sommato, sia necessario
confrontarsi con l'uomo, la mente, l'artista. In particolare il ruolo del regista: “sono
convinto che ancora oggi tutte le scelte sono fatte dall’autore e non dallo spettatore. E
tuttavia credo anche ci sia qualcosa di molto costruttivo per il cinema. Forse è una
condizione per l’evoluzione del linguaggio.”30
29
da “Le valigie di Tulse Luper. di Peter Greenaway” di Renzo Gilodi rivista Cinema sessanta n°3-4/2004
da un intervista a Peter Greenaway su “Peter Greenaway. Il cinema delle idee” di Alessandro bencivenni
e Anna Samueli LE MANI EDITORE Recco (GE)1996
30
Capitolo secondo
L’estetica del database
Manovich e il cinema digitale
Nel dibattito fra i teorici del cinema all’inizio del secolo sullo statuto del cinema i
“realisti” erano per una definizione di cinema che si fondasse sulla ripresa di azioni reali
avvenute nello spazio fisico reale, come finestra sul mondo o specchio della vita.
Per Peirce era il tentativo di trasformare le impronte in arte; cinema come l’arte
dell’indice. Nel 1970 il teorico francese Christian Metz scrive che “la maggior parte dei
film realizzati al giorno d’oggi - siano belli o brutti, originali o no, commerciali o no hanno in comune la caratteristica di raccontare storie; in questo senso appartengono tutti
allo stesso, unico genere, o meglio, a una specie di ‘surgenere’ ”31 del ventesimo secolo.
Finora gran parte delle riflessioni sul cinema nell’era digitale si è concentrata sulle
possibilità della narrazione interattiva con l’idea di uno spettatore che partecipa
attivamente alla narrazione, scegliendo tracciati diversi nello spazio narrativo e
interagendo con i personaggi, ma questa concezione si appunta solo sull’aspetto della
narrazione. Ma sappiamo che dobbiamo andare oltre questo problema.
Tornando alla proprietà indicale del cinema come ontologia dobbiamo ammettere che
nell’era della simulazione computerizzata questa viene a cadere quando è possibile
generare delle scene realistiche con un sistema di animazione computerizzato oppure
modificare fotogrammi o intere sequenze con l’ausilio di un programma di disegno
digitale o unire situazioni reali e quelle virtuali con assoluta credibilità fotografica senza
in effetti aver filmato nulla di tutto ciò. Per Manovich con l’ingresso del cinema nell’era
digitale le tecniche manuali tornano a essere al centro del processo cinematografico e
questa costruzione manuale delle immagini rappresenta un ritorno alle pratiche
precinematografiche del diciannovesimo secolo, quando le immagini erano dipinte e
animate a mano. Con il passare del tempo queste tecniche diventano caratteristiche del
31
da “Cos'è il cinema digitale?” citazione di Christian Metz in L e v M a n o v i c h su www.trax.it
cinema fantastico e d’animazione. Sempre per Manovich nasce una diversa logica
dell’immagine digitale in movimento che subordina il fotografico e il cinematografico al
pittorico e al grafico, distruggendo l’identità del cinema come mezzo di registrazione.
Le grandi case di produzione, soprattutto hollywoodiane hanno assegnato agli effetti
speciali un enorme peso nella creazione dei film, e la loro costruzione e realizzazione
occupa l’attenzione di molti documentari e spazi nei dvd come contenuto extra accanto al
film di riferimento. Tuttavia col digitale non solo gli studios possono permettersi
strumenti digitali e i tecnici specializzati con la diffusione dei mezzi digitali l’intera
concezione della produzione cinematografica è intaccata, dagli studios, agli indipendenti
ai dilettanti.
Ciò che era fondamentale nel cinema tradizionale, tutto il processo di produzione e post
produzione, viene a cadere oggi nel processo in cui tutte le immagini del film devono
passare attraverso una lunga serie di programmi prima di entrare nel film; la ripresa dal
vivo è ormai una semplice materia grezza destinata all’elaborazione manuale attraverso
l’animazione, l’inserimento di immagini in 3D, pittura ecc..
Manovich riassume il tutto in cinque punti 32 :
1) Piuttosto che filmare la realtà, oggi è possibile creare delle sequenze cinematografiche
con l’ausilio di un programma di animazione in tre dimensioni. Perciò la ripresa dal vivo
perde il ruolo di materia prima della costruzione cinematografica.
2) Una volta digitalizzata (ovvero tutto viene trasformato in codice binario), la realtà
filmata si libera del legame indicale che costituiva la relazione privilegiata del cinema
tradizionale: il computer non distingue tra immagini ottenute fotograficamente in ripresa
diretta e quelle create da un programma di disegno come soluzione grafica. Tutti gli
elementi si prestano a essere facilmente alterati, sostituiti e scambiati.
3) La ripresa dal vivo diviene un materiale grezzo, destinato alla composizione,
all’animazione e al morphing. Così, mentre il realismo visivo resta delegato al processo
cinematografico, il cinema ottiene la plasticità che fino a poco tempo fa era esclusiva
della pittura e dell’animazione (il lungo e intricato volo di una piuma in Forest Gump di
Robert Zemeckis, Paramount Pictures 1994).
4) In passato il montaggio e gli effetti speciali erano attività rigidamente separate. Il
tecnico di montaggio lavorava sull’organizzazione di una sequenza di immagini, mentre
l’elaborazione diretta dell’immagine spettava a chi si occupava degli effetti speciali. Il
computer distrugge questa separazione.
32
Grazie ai programmi di disegno o
Da “Cos'è il cinema digitale?”di L e v M a n o v i c su www.trax.it
all’elaborazione algoritmica, la manipolazione di una singola immagine è semplice
quanto il montaggio: entrambi si riducono a un semplice ‘taglia e incolla’.
5) Dati i principi appena formulati, possiamo definire il cinema digitale con questa
equazione: cinema digitale = ripresa dal vivo + pittura + elaborazione delle immagini +
montaggio + animazione computerizzata a due dimensioni + animazione computerizzata
a 3D.
Ciò che risalta maggiormente è che la ripresa dal vivo diventa una materia come le altre
nel cinema digitale, bisogna saper manipolare programmi ed effetti speciali ed il cinema
di animazione riscopre un ruolo preponderante.
La stessa pellicola diventa una serie di dipinti creati da un artista che manipola le
immagini, una per una o tutte insieme. Le immagini digitalizzate, e ritoccate con l’ausilio
di un computer sono l’esempio del nuovo status del cinema: non più costretto al solo
contesto fotografico, il cinema si apre al mondo del pittorico. Molti degli effetti speciali si
fondano sulla modifica fotogramma per fotogramma, vengono colorati, modificate o
ricreate le ambientazioni.
Tuttavia riprendendo il discorso sul realismo, potrebbe sembrare che il linguaggio del
cinema tradizionale non ne venga intaccato in quanto gli effetti o le elaborazioni sono
nascoste bene sotto il realismo classico, ovvero sotto la finzione di reale anche per quanto
irreale.
Metz si chiede se in futuro verranno realizzati più film non narrativi: “se mai dovesse
accadere il cinema non avrebbe più bisogno di creare un effetto realistico.”33
I mezzi elettronici ci dirigono verso altri campi visuali caratterizzati dal flusso
d’informazioni come la televisione, lo schermo di un computer, i video musicali.
In un’intervista alla fine del dvd Soft Cinema, Manovich spiega che : “alcune delle mie
influenze provengono da alcuni quadri di Mondrian, o dal sistema GUI (graphical use
interface), oggi sono le convenzioni delle GUI che migrano nella realtà fisica. Noi
interagiamo con schermi che sono divisi in una serie di finestre multiple che hanno
differenti forme, così ritenevo importante rendere una sorta di layout simmetrico,
diversamente dal sistema tradizionale cinematografico in cui una singola immagine
occupava l’intero schermo. Altre influenze provengono dalla televisione ed in particolare
dai programmi finanziari e notiziari, come quelli di Bloomberg, in cui lo schermo è diviso
33
da “Cos'è il cinema digitale?”citazione di Christian Metz in L e v M a n o v i c h su www.trax.it
in zone in cui vi sono grafici, strisce scorrevoli con il testo e finestre principali che
mostrano azioni, servizi o dove viene mostrato l’annunciatore…”34
Se prendiamo i video musicali vi notiamo una qualche forma di narrazione, ma non
seguono uno svolgimento lineare dall’inizio alla fine e pertanto si avvalgono di immagini
in pellicole o video, modificate però sino a negare le norme tradizionali del realismo
cinematografico. Anche per questo il territorio del videoclip è sempre stato un terreno
fertile alla sperimentazione attraverso le nuove possibilità offerte dai computer e dalla
manipolazione fotografica. Lo stesso discorso vale per i videogiochi e verrà analizzato
più avanti.
La narratologia, il ramo della teoria letteraria che si occupa di teoria della narrazione,
distingue tra narrazione e descrizione. La narrazione è costituita da quelle parti della
trama narrativa che fanno procedere la vicenda; la descrizione è costituita da quelle parti
che non influiscono su di essa. Sempre Manovich sostiene che nell’era dell’informazione,
narrazione e descrizione si sono scambiati i ruoli. Se le culture tradizionali offrivano
narrazioni ben definite (miti, religioni) e scarse informazioni, oggi abbiamo troppe
informazioni e poche narrazioni capaci d’integrare il tutto. Bene o male l’accesso
all’informazione è diventato un’attività chiave nell’era digitale. Perciò abbiamo bisogno
di quella che potremmo chiamare Infoestetica, un’analisi teorica dell’estetica
dell’accesso all’informazione nonché della creazione di nuovi oggetti mediali che
estetizzano l’elaborazione dell’informazione: “Dopo la preferenza del romanzo e del
cinema per la narrazione come forma principale di espressione culturale, l’era dei
computer ha introdotto il suo complice, il database. Molti nuovi oggetti mediali non
raccontano storie; non hanno alcuno sviluppo tematico formale o di altro tipo che ne
organizzi gli elementi in una sequenza. Sono piuttosto raccolte di elementi individuali,
ognuno con la stessa possibilità di significare.” 35
Sempre per Manovich una raccolta di documenti e uno spazio navigabile, metodi
tradizionali per organizzare sia i dati sia l’esperienza umana del mondo, sono diventate
due forme presenti in quasi tutti i campi di new media. La prima è il database, impiegato
per immagazzinare qualunque tipo di dati, dalle statistiche finanziarie ai videoclip ed è
completamente diverso da una tradizionale archiviazione di documenti: permette di
accedere, classificare, riorganizzare milioni di registrazioni nel giro di pochi minuti,
34
Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS
Cambridge, Massachussetes 2005
35
Da “ Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge,Massachussetes 2002
contenendo vari tipi di media. Queste forme si estendono alla cultura in generale. Allo
stesso tempo il database diventa la nuova metafora che concettualizza la memoria
culturale individuale e collettiva, una raccolta di documenti, oggetti ed altri fenomeni ed
esperienze, rappresenta un nuovo modo di strutturare la nostra esperienza per noi stessi e
il mondo anche se diversamente dalla lettura di un romanzo, dalla visione di un film.
Ma è su Internet che la forma database ha conosciuto il massimo successo; la pagina web
è un elenco di elementi separati. Dalla pagina personale, ad un motore di ricerca, ad una
stazione radiofonica, o ad un sito dedicato a un personaggio storico o noto, o ad un
fenomeno. In più il fatto di poter sempre cambiare e aggiungere dati contribuisce alla
logica anti-narrativa del Web. Ma come ci si può aspettare una narrativa coerente se il
materiale continua a cambiare?
Nel mondo dei new media di solito la parola narrazione viene usata accanto alla parola
interattiva. L’utente della narrazione attraversa un database seguendo dei link secondo il
percorso definito dal creatore. Una narrazione interattiva si può quindi intendere come la
sommatoria di più traiettorie che attraversano un database, e la narrazione tradizionale
come una delle tante possibilità di un’ipernarrazione. Quindi una serie di dati presi da un
database potrebbe essere una narrazione?
Tuttavia per avere una narrazione dobbiamo avere: attore o narratore, il testo la storia la
fabula, e i suoi contenuti legati da causa effetto, causati o vissuti dagli attori.
I testi nella rete seppur collegati fra loro, o meglio “linkati” tra loro, hanno una propria
autonomia semantica, possono esistere a prescindere dal loro collegamento con un testo X
oppure assumono un significato preciso all’interno di una propria relazione ipertestuale.
Nell’operazione della lettura questo non è una novità, difatti se stiamo studiando un film
come La madre di Pudovkin possiamo imbatterci nello scrittore Gorkij dal cui libro il
film è tratto, vorremmo certamente saperne di più ma questo implica (per chi non l’ha
letto) una ricerca che richiederebbe del tempo. Se usiamo un motore di ricerca, ad
esempio Google, possiamo trovare nel testo dedicato al regista il collegamento allo
scrittore e da li ampliare la nostra ricerca su altri testi che parlano di letteratura russa,
nonché di storia della nazione russa. Un sito come Wikipedia ne è l’esempio più
emblematico.
Il database alla base in questo caso soddisfa la nostra esigenza di conoscenza offrendo
una traiettoria molto più ampia di lettura, nel tempo di un click, “La differenza sta nel
fatto che, finora, l’ipertestualità era un evento mentale, una relazione testuale che si
compiva nell’atto della lettura, nell’ordine delle associazioni del lettore, mentre oggi è
possibile renderla evidente in un testo che, come il World Wide Web, segnala con
chiarezza la presenza degli agganci testuali, delle relazioni tra testo e testo.”36
L’enciclopedia personale o domestica, cartacea o mentale era il nostro archivio di
riferimento, una volta digitalizzata il computer ne assume il testimone.
Sempre più biblioteche ricorrono alla digitalizzazione del loro materiale, messo a
disposizione sul loro portale, ma anche i motori di ricerca offrono la lettura integrale di
molti testi, noi tendiamo a registrare i nostri lavori, i nostri dati sulla memoria di un
computer. Sembra che la cultura stia andando verso una decodifica in bit, verso
un’informazione immateriale che viene scambiata e consumata relegando all’oblio tutto
ciò che non avrà un’esistenza digitale. E’ l’economia stessa del tutto e subito a dettare il
cambiamento; gli archivi informatici sono meno succubi al passare inesorabile del tempo
e alla degradazione materiale, in più sono velocemente consultabili. Se i libri nelle
biblioteche o i ricordi nella nostra mente possono col tempo deteriorarsi, la rete offre una
memoria globale esposta a tutti. I mezzi che abbiamo per registrare e memorizzare
offrono così un valido supporto a questo bisogno direi quasi ansiogeno. Se per Benjamin
“uno dei compiti principali dell’arte è stato da sempre quello di generare esigenze che
non è in grado di soddisfare attualmente”37 figuriamoci la tecnologia.
De Chirico con la sua pittura metafisica può essere definito profetico; “al mondo non
resterà che aggirarsi nei musei e nei ricordi della propria storia”38 diceva parlando della
sua poetica di riproposizione dell’elemento antico e classico in dei contesti moderni e
asettici dal cui impatto ne scaturiva il senso di straniamento. Con i nuovi media questo
museo in cui ci aggiriamo ha la forma del database e ha ben poco di perturbante, anzi per
Manovich è “una nuova forma simbolica dell’era dei computer o un nuovo modo di
strutturare la nostra esperienza per noi stessi e per il mondo.”39
E’ proprio a partire da un progetto di digitalizzazione di un’immensa biblioteca di libri
che ha preso piede il progetto “Mylifebits” della Microsoft, che dall’idea di digitalizzare
dei documenti si trasformò nell’archiviazione di una vita. Un suo dipendente Gordon Bell
incaricato di creare questo sistema iniziò con l’immagazzinare tutti i suoi documenti per
lavorare meglio, sino a immagazzinare qualsiasi cosa un computer potesse codificare.
36
da “Internet, memoria e oblio”di Lorenzo De Carli Bollati Boringheri Torino 1997, pag. 18
Da “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”di Walter Benjamin Torino Einaudi
1991
38
Da “Arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze” De Chirico citato in di Renato Barilli
FELTRINELLI 2005
39
Da “Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich 2005MIT PRESS Cambridge,Massachussetes pag.
274
37
Così tutta la sua vita per qualche anno venne registrata in questo enorme archivio,
telefonate, foto, dialoghi e con il supporto di una “sensecam” la registrazione di qualsiasi
cosa possa succedere nella vita di un individuo era completa.
Nel caso in cui il sig. Bell avesse voluto ricordarsi di una discussione avuta un giorno di
aprile con un suo amico doveva solo digitare il nome dell’amico o il giorno, per avere
informazioni su quella discussione o sull’amico con relativa foto.
Detto così questo database sembra non molto lontano dall’essere un piccolo rimpiazzo
della nostra mente, una memoria al nostro servizio forse anche più ampia e precisa. “il
richiamo dell’informazione totale, appena lo richiediamo.”40
Un’estetica della rimediazione
Verso la fine degli anni ottanta Mario Costa scrive L’estetica dei media partendo da
alcune domande chiavi sul ruolo dell’avanguardia, delle tecnologie e come l’arte arriva a
fruire i cambiamenti tecnologici soprattutto quelli dovuti alle nuove tecnologie “elettroelettroniche” seguendo due direzioni principali di ricerca: come le tecnologie trasformano
le tecniche tradizionali, e come le tecnologie ricercano e possono trovare una loro
specificità estetica, naturalmente tutto nell’ambito di un’ipotesi che verrà sviluppata col
tempo da altri teorici che vedremo di seguito.
Costa sostiene che la tecnologia è sempre stata molto legata alla scoperta scientifica; ad
ogni suo passo corrisponde un passo nella conoscenza, per questo la nostra
contemporaneità è così legata alla tecnologia, influenzandone anche l’arte che ha
incorporato la scienza sino ad esserne trasformata nell’essenza e nel destino: “non si è
trattato tanto di quella vicendevole compenetrazione tra l’arte e la scienza nella quale
Benjamin era inclino a credere, ma di un pesante condizionamento della scienza
sull’arte”.
41
I movimenti d’avanguardia dal dadaismo alle neo-avanguardie, dal
surrealismo alle pratiche situazioniste sono andati in cerca di un contatto con una nuova
situazione dell’uomo legata ai nuovi tempi attraverso strategie di dissoluzione del
soggetto o sistemi di equilibri altamente elastici e fluttuanti. “Non c’è aspetto della
antropologia contemporanea di cui non si possa trovare nel lavoro dell’avanguardia un
40
10 Baratti Martina articolo su Vertici Network di Psicologia e Scienze affini on-line. fonte internet:
http://www.vertici.com/rubriche/articoli.asp?cat=RECE
41
Da “ L’estetica dei Media. (tecnologie e riproduzione artistica)” di Mario Costa, Capone Editore
Lecce1990 pag. 9
presentimento, una sperimentazione preventiva, un esercizio di domesticazione.”42 Gli
artisti d’avanguardia sono fra i primi che riescono a vedere le possibilità specifiche delle
nuove tecnologie e le loro ibridazioni. Quando infatti nella storia dell’arte si passa a
parlare di avanguardia deve essere successo qualcosa di inedito tale da affermare la
presenza di un fenomeno nuovo, ma è difficile rintracciare i motivi per cui nasce
un’avanguardia, Costa sostiene che ad ogni cambiamento tecnologico di un ambito
sensoriale specifico si accompagna un cambiamento artistico legato a quel campo: “tutto
quanto il fenomeno dell'avanguardia, vale a dire la storia dell'arte dell'ultimo secolo fino
agli anni Settanta, è tutto dominato e indotto dall'avvento delle tecnologie.”43
L’immaginario diviene forma delle tecnologie a cui è strettamente legato e l’irruzione
nell’immaginario artistico avviene secondo Costa attraverso quattro modi che egli
riferisce alla letteratura ma che possono essere ben assimilati a tutte le forme di
produzione artistica: dapprima la letteratura imita le procedure scientifiche; Costa fa
l’esempio di Brecht che giustifica gli effetti di straniamento nel suo teatro con
l’atteggiamento scientifico di essere diffidenti di fronte ai fatti ovvi. In seguito i
mutamenti investono il campo del contenuto, della “significazione del medium
letterario”44 nell’ibridazione con altri medium; da qui la scrittura attraverso il flusso di
coscienza diviene la trasposizione nel romanzo della tecnica cinematografica. A questo
punto può iniziare il passo verso la crisi del mezzo letterario attraverso la contaminazione
materiale del libro che attraverso la scrittura, la pagina, la copertina insinua altri
“congegni significanti” per poi arrivare ad un suo superamento quando ciascuna delle
componenti è prodotta da diverse tecnologie che generano forme e modi di significazioni
diversi; l’artista con la sua originalità vi sopraggiunge quando la logica della sequenza lo
richiede.
Le nuove tecnologie generano nuovi prodotti artistici e nuove forme di sensibilità che
nell’artista si esplicano attraverso l’approfondimento delle possibilità delle nuove
tecnologie verso la creazione di nuovi significati e nuovi modi di significazione, e la
ricerca dei nuovi comportamenti “estetico-antropologici” dovuti alla fruizione dei
dispositivi tecnologici. Quest’ultimo aspetto è quello su cui operano gli artisti che Costa
definisce “artisti della comunicazione” che operano su una base di arte e tecno-scienza
42
Da “L’estetica dei Media. (tecnologie e riproduzione artistica)” di Mario Costa, Capone Editore 1990
Leccepag. 11
43
Dall’
intervista a Mario Costa sul libro “sublime tecnologico” fonte internet:
http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/c/costa.htm
44
Da “L’estetica dei Media. (tecnologie e riproduzione artistica)” di Mario Costa, Capone Editore
Lecce1990 pag. 13
elaborando una estetica della comunicazione (che Manovich chiamerà con caratteristiche
diverse Infoestetica) i cui principi fondamentali sono: l’evento come processo interattivo
in un flusso spazio-tempo, quindi estetica dell’evento che si realizza tramite un
dispositivo tecnologico che mette in comunicazione spazi diversi, avviene in tempo reale,
attraverso la simultaneità e origina il sentimento non del bello ma del “sublime”: “non
nasce dall’oggetto né dalla forma ma da una disposizione dello spirito che trova in ciò che
è assolutamente grande (la possibilità assoluta delle tecnica) un angoscioso sgomento e
assieme ad una ammirata contemplazione”45 verso un soggetto che secondo Costa si
ritrova sopraffatto dal venir meno di tutte le caratteristiche fondamentali dell’arte
tradizionalmente intesa. Lo stile, già un territorio controverso per l’arte tradizionale
diviene una nozione priva di senso, appartenente al vecchio apparato categoriale dell’arte:
“Appartiene alla preistoria l'artista che si esprime con lo stile, che pone, come momento
fondamentale e dominante del suo lavoro, l'espressione di se stesso, del proprio io, se è il
caso, del proprio sentimento; è l'artista che tende assolutamente alla proprietà esclusiva
dell'opera. Molti artisti tecnologici hanno già superato, nei fatti, tutto questo.”46
Antonio Tursi nel suo libro “Estetica dei nuovi media” edito nel 2007 tenta di delineare e
rispondere alle domande che gli estetologhi si sono chiesti da qualche decennio a questa
parte nel dialogo tra Estetica e Mediologia verso domande come “che ne è dell’opera
d’arte nell’epoca della sua digitalizzazione? E che ci dice oggi il termine bellezza?” 47
Baudrillard nel suo “ La sparizione dell’arte” del 1988 spiega le commistioni tra arte e
informazione dando la raffigurazione della modernità come un’infosfera, un groviglio di
informazioni, in cui tutte le utopie si compiono anche quella dell’arte; lo stadio è quello
di una estetizzazione del mondo in cui l’arte data per deceduta è invece presente in ogni
ambito, questo per la rivoluzione digitale e l’informazione mediatica. “Si dice che l’arte si
smaterializzi. È esattamente il contrario: l’arte oggi è passata ovunque nella realtà. È nei
musei, nelle gallerie, ma altrettanto è nei detriti, sui muri, nelle strade, nella banalità di
45
Da “L’estetica dei Media. (tecnologie e riproduzione artistica)” di Mario Costa, Capone Editore
Lecce1990 pag. 19
46
Dall’intervista a Mario Costa sul libro “sublime tecnologico” fonte internet:
http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/c/costa.htm
47
Anche se Costa nel suo libro a proposito del bello preferisce dire che : “Il carattere proprio dell'arte non è
il bello. Il carattere proprio dell'arte è il significato. Tanto è vero che esiste un'estetica del brutto, tanto è
vero che esiste molta arte che non è bella per niente. L'arte è, sostanzialmente, significato. Quindi, io
preferisco mantenere ferma la differenza tra pratiche artistiche, preferisco sostenere che ogni pratica veicola
un certo tipo di senso, un certo tipo di significato e problematizzo i prodotti così come di volta in volta mi si
offrono.”
ogni cosa”.
48
Ma questo punto non deve essere un punto d’arrivo se non siamo dei
romantici attaccati all’idea dell’aurea ma un punto di partenza da ribaltare se possibile.
Baudrillard sostiene che l’arte e i media viaggiano sullo stesso destino, ovvero quello di
annullamento dello spazio e del tempo (just in time) in cui l’arte vi è trascinata nel flusso
senza possibilità di trattenersi. Vi si annulla. Vi è una critica aspra nei confronti dell’arte
che sembra essere dominata dalla tecnica che in questo caso sembra possedere aspetti
demoniaci.
Al contrario chi attribuisce all’arte e all’artista un ruolo predominante all’interno del
contesto sociale e mediale è McLuhan in quanto l’aspetto mediale dell’arte, il suo essere
technè è centrale nell’osservazione e raffigurazione del mondo. Quando un nuovo
medium appare si riconfigura tutto l’ambiente mediale precedentemente impostato,
questo non vuol dire annullamento ma mediazione tra il vecchio e il nuovo e definizione
certa di quello precedente: “la vera forma della radio è stata rivelata dalla televisione. La
forma vera delle televisione si è resa manifesta soltanto dopo l’invenzione del computer.
La forma del computer è già possibile comprenderla meglio perché siamo entrati nel
mondo delle Reti. La forma delle Reti, invece, non è ancora visibile, perché non c’è
nessun medium più avanzato delle Reti.”49 L’artista mediando fra i medium anticipa i
nuovi scenari sociali: “essi raccolgono il messaggio della sfida culturale e tecnologica
decenni prima che essa incominci a trasformare le società”50.
I suoi continuatori dichiarati, Derrick De Kerckhove e David Bolter seguono questa
funzione dell’artista, anticipazione e mediazione. Per il primo l’arte compromessa con le
nuove tecnologie diventa fruibile, è un’arte che allaccia relazioni in cui il fruitore è un
coautore non riconosciuto. Per il secondo dalle pagine di Remediation tratteggia il ruolo
soprattutto di mediazione che ha l’artista con l’arte e i nuovi media, in un’operazione
visibile. L’esperienza estetica diviene interattiva e visibile. Tanto da coinvolgere tutti nel
processo creativo. È questo che Castells cerca di dire nei suoi collegamenti con la rete. I
nuovi strumenti di comunicazione rispondono all’esigenza di espressione e creazione,
tuttavia altamente individualizzante. La rete da la possibilità di collegare queste
individualità che possono non riuscire a comunicarsi, verso una creazione collettiva e
48
Da Baudrillard in “ La sparizione dell’arte” del 1988 citato in “ Estetica dei nuovi media. forme
espressive e network society” di Mario Tursi, Costa e Nolan editore Milano 2007
49
Da “ Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Derrick De Kerckhove citato in di
Mario Tursi Costa e Nolan editore Milano 2007
50
Da “Gli strumenti del comunicare” di Mc-Luhan il Saggiatore Milano 1995
democratica. “ l’arte, sempre più un’espressione ibrida dei materiali virtuali e fisici, può
essere un ponte fondamentale tra l’io e la rete”51.
Lev Manovich si situa all’interno della creazione artistica, essendo lui stesso un
programmatore-artista-teorico, definendo una infoestetica
che si riferisce alle nuove
pratiche culturali contemporanee che possono essere capite come responso alle nuove
priorità della società d’informazione: dare un senso all’informazione, lavorare con
l’informazione e produrne conoscenza. Dando molto peso al mezzo cinematografico egli
afferma un’estetica del montaggio che ha nella selezione e nella composizione le sue due
operazioni fondamentali. Il database diviene la base per una scelta e una successiva
integrazione di parti in modo nuovo e originale, come il remix e il DJ.
Nel 1999, quasi dieci anni dopo il libro di Mario Costa, Jay David Bolter e Richard
Grusin scrivono Remediation. Understanding new media
per l’edizione italiana
Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi con lo scopo di
esplorare le trasformazioni che i nuovi media apportano sui vecchi e viceversa sostenendo
una pluralità di forme mediali che diviene centrale nella cultura mediale in America come
in Europa. I principi estetici sostenuti da Bolter e Grusin sono quelli dell’immediatezza,
ipermediazione e rimediazione. L’immediatezza è la capacità del medium di rendersi
trasparente, ovvero di farsi percepire con immediatezza percettiva, priva di mediazioni e
interfacce. La più alta immediatezza si ritrova nella realtà virtuale ma è presente anche
nell’esigenza di usare immagini digitali che siano più realistiche e dal vivo come se, ad
esempio nel cinema, le immagini in cui sono presenti elaborazioni al computer,
animazioni e controfigure computerizzate siano girate dal vero. La realtà virtuale come la
grafica tridimensionale e l’interfaccia del computer GUI trasformano la tecnologia
digitale trasparente: “ un’interfaccia trasparente dovrebbe essere in grado di cancellare se
stessa, in modo tale che l’utente non sia consapevole del fatto che sta confrontandosi con
un medium, ma si trovi piuttosto in una relazione immediata con i contenuti di quel
medium.”52
Non è una novità, questo bisogno di immediatezza risale dalla prospettiva rinascimentale
che con la tecnologia della camera oscura arriva a compimento, e quindi successivamente
con la fotografia, il cinema, la televisione. La fotografia in quanto, introducendo la
51
Da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Milano 2002
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard
Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002pag. 46
52
prospettiva lineare attraverso un processo di automazione, elimina apparentemente
l’artista posto fra la realtà e il fruitore e lo fa attraverso la meccanica e la chimica; nelle
immagini sintetiche è sopperito dall’algoritmo.
Ma non si tratta di una vera e propria presa in giro per lo spettatore, per immediatezza si
intende qualcosa che accomuna varie forme e pratiche culturali in cui vi è un punto di
contatto tra il medium e ciò che viene rappresentato.
L’ipermedia
è quel medium che offre l’accesso a diversi media, immagini, suoni,
animazioni, video e per ipermediazione si intende quello stile frammentato, eterogeneo
“che enfatizza il processo o la performance piuttosto che l’oggetto artistico compiuto.”53
Prendiamo come esempio lo stile a finestre dell’interfaccia del computer; se apriamo
diverse finestre nello stesso momento notiamo che lo spazio non è unificato a seconda di
un punto di vista ma ogni finestra definisce quello verbale o visuale. L’interfaccia non
cerca di nascondere se stessa, il suo linguaggio risiede per l’appunto nella continua
dimostrazione dei suoi contenuti all’utente nella varietà delle sue finestre. In questo caso
l’immediatezza viene a cadere: “ Se la logica dell’immediatezza porta a cancellare o a
rendere automatico l’atto di rappresentazione, la logica dell’ipermediazione riconosce
l’esistenza di atti di rappresentazione multipli e li rende visibili. Dove l’immediatezza
suggerisce uno spazio visuale unificato, l’ipermediazione ne offre uno eterogeneo[…]
un’entità costituita da finestre[…]come la ricchezza sensoriale umana.”54
Logica già presente nel collage e nel fotomontaggio delle avanguardie in cui la
costruzione dell’opera è resa palese dagli oggetti che occupano tutto lo spazio, sino ad
arrivare al World Wide Web in cui lo stile a finestre è centrale come la sostituzione da un
medium ad un altro, nel senso che quando clicchiamo su di un collegamento si apre uno
spazio che può occupare l’intero schermo o anche una piccola parte e può essere testo
scritto o filmato.
Marshall McLuhan in Understanding Media sottolinea come il contenuto di un medium è
sempre un altro medium ovvero come un medium può essere ripresentato all’interno di un
altro. Questa pratica che è fondamentale nei nuovi media viene chiamata da Bolter e
Grusin come rimediazione. Usando le parole di Manovich la digitalizzazione rende
possibile la codifica e la transcodifica dei materiali provenienti da altri media nel medium
computer che non si contrappone agli altri ma “il computer diventa un nuovo modo di
53
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi Jay David Bolter e Richard
Grusin” Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 36
54
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard
Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 59
ottenere accesso a questi materiali d’archivio come se il contenuto dei vecchi media si
potesse semplicemente trasferire su di uno nuovo.”55
Con i loro predecessori i nuovi media sono in costante dialettica riproponendo
caratteristiche che li appartengono e influenzandoli a loro volta. Sia le applicazioni
digitali che seguono la logica dell’immediatezza sia quelle ipermediate sono atti di
rimediazione, in quanto le prime per far scomparire la sensazione del mezzo si devono
continuamente riferire a quello stesso mezzo di cui vorrebbero la trasparenza, come i
videogiochi con il cinema; in quanto alle seconde, la presenza di molti media in un solo
flusso di media rende comunque unico quest’atto estetico all’attenzione del fruitore.
I media dunque si presentano agli occhi dei new media come un enorme materiale
d’archivio in attesa di essere rimediato, e questo non prescinde dalla realtà in quanto
“nonostante il fatto che tutti i media dipendono da altri media all’interno di cicli di
rimediazione, la nostra cultura ha bisogno di riconoscere che tutti i media rimediano il
reale. Così come non è possibile disfarsi della mediazione, non è possibile disfarsi del
reale”56 a volte riformandolo.
55
Da Jay David Bolter e Richard Grusin “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e
nuovi” Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 73
56
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard
Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 83
La rimediazione nel cinema e nella tv
L’emergere dei nuovi mezzi di comunicazione ha chiamato in causa direttamente la
forma d’arte più popolare del ventesimo secolo ovvero il cinema, e ciò è avvenuto
attraverso l’incorporazione da parte di questo della grafica digitalizzata e di espedienti di
grafica digitale per ridisegnare i film con una struttura narrativa lineare. Bolter e Grusin
in Remediation partono dal cinema d’animazione come un esempio in cui l’introduzione
delle tecnologie digitali ha portato alla proliferazione dei film tradizionali. Perché molto
spesso ritenuto soprattutto all’inizio un genere poco “serio” orientato ad una precisa
fascia di utenti, i film d’animazione soprattutto quelli prodotti dalla Disney rimediano
“all’indietro” leggende, miti, fiabe, classici della letteratura, come anche le pratiche
cinematografiche con la simulazione di carrelli o movimenti della macchina da presa
tipici dei film d’azione e rimediando generi come il musical.
Con Toy Story del 1995 si arriva al primo lungometraggio interamente generato con
l’animazione computerizzata, ma che nonostante questa novità secondo Bolter “prende a
prestito il potere grafico dei media digitali ma ne rimuove la promessa (o minaccia)
dell’interattività”57; il film infatti si mantiene nei canoni della linearità narrativa,
probabilmente dovuto a logiche economiche delle majors; per Bolter e Grusin quello che
il cinema d’animazione ha acquisito nell’incontro con le nuove tecnologie è stata una
maggiore consapevolezza dei suoi modi d’espressione degni di competere con il realismo
hollywoodiano.
La logica dell’immediatezza che caratterizza la rappresentazione hollywoodiana non è
stata completamente eliminata, ma all’interno di questa la grafica viene incorporata
secondo sia la logica dell’immediatezza sia quella dell’ipermediazione. In molti film
d’azione la grafica è molto visibile, gli effetti speciali sono resi in modo che lo spettatore
rimanga abbagliato dal procedimento in cui è reso l’effetto. In altri come ad esempio
“Jurassik Park” le creature generate al computer sono rese in modo iperrealistico tanto
che il confronto con le riprese dal vero è ampliamente superato. L’immediatezza e la
trasparenza operano nelle produzioni cinematografiche che usano i mezzi digitali in
simbiosi nello spettatore come succedeva per il cinema d’attrazione in cui la percezione
del mezzo essendo una novità era riconosciuta da subito, tuttavia rimaneva lo stupore per
l’effetto di realtà che immetteva nelle platee. Bolter e Grusin considerano Hitchcock
57
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard
Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 179
come uno dei precursori di questa logica in quanto in film come Vertigo, la donna che
visse due volte ci sono alcune scene che non seguono la logica della trasparenza: quella
della vertigine in cui la tecnica track out e zoom in sposta per un attimo l’attenzione del
pubblico verso il mezzo, quella del sogno e della pazzia in cui i livelli di rappresentazione
si fondono. Negli anni Cinquanta la sensazione dell’ipermediazione poteva essere
associata ai disturbi mentali, oggi questa tecnica sembra normale.
La stessa cosa accade per la televisione che ha bisogno di rimediare in quanto, a dispetto
del cinema ha avuto sempre il bisogno di rimediare altri media. Primo fra tutti il cinema
stesso. Iniziando col rimediare i classici generi cinematografici, col tempo ha iniziato a
trasmettere i film già passati sul grande schermo per poi trasformarsi in un vero e proprio
cinema privato domestico.
Ha elaborato col tempo i suoi stili di trasparenza, legati alla fruizione del pubblico; le sue
esigenze diventano la componente estetica, la televisione deve essere in continuo
aggiornamento e contatto con l’emotività, tale da catturare l’attenzione in modo rapido e
costante. Così la pretesa di una ripresa dal vero diventa il marchio di garanzia, e
proliferano programmi denominati reality, verso cui lo spettatore più che guardare,
osserva con occhio da voyeur. Tutta questa immediatezza è però strettamente legata ad
una forte ipermediazione in quanto la grafica e la superficie dello schermo sta diventando
molto simile a quella di un computer. “Paradossalmente lo stile a finestra tipico del
computer è più evidente in quei programmi che offrono una visione trasparente degli
eventi in diretta. Dal momento che i telegiornali vogliono proporre il maggior numero di
notizie nel minor tempo possibile, essi tendono a riempire lo schermo, evidenziando il
potere della televisione di cogliere gli eventi. Questo atteggiamento porta a quello che
può essere chiamato “look CNN” ”58.
Quando a questo punto ci accingiamo ad analizzare il lavoro di Lev Manovich “Soft
Cinema. Navigating the database” possiamo iniziare a parlare a livello estetico di una
rimediazione alla Bolter e Grusin, in quanto se le basi dell’ infoestetica manovichiana
sono quelle della realizzazione di un nuovo prodotto attraverso la combinazione di
elementi presi molte volte da altri medium, i punti di contatto con i due teorici sono molto
numerosi, ma vediamo in particolare come si svolge questo progetto.
58
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard
Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 222
Progetto Soft Cinema
Il progetto Soft Cinema unisce le possibilità creative nell’intersezione di software,
cultura, cinema e architettura. Le sue manifestazioni includono film, visualizzazioni
dinamiche, installazioni guidate dal pc, design d’architettura, cataloghi stampati, e DVD.
In parallelo il progetto investiga come le nuove tecniche di rappresentazione del cinema
software possono essere spiegate a indirizzare le nuove dimensioni del nostro tempo,
come la crescita delle megalopoli, la nuova Europa e gli effetti delle tecnologie
d’informazione sulla soggettività.
Nel cuore del progetto c’è il custom software e media database. Il DVD comprende tre
progetti: Mission to Earth, Absences, Texas, e in ognuno il software monta i film
scegliendo gli elementi da un database usando il sistema di regole definito dall’autore.
Lev Manovich, l’autore del “Linguaggio dei Nuovi Media” (The MIT Press, 2001) è
considerato da molti come un continuatore di Marshall McLuhan con la più suggestiva e
la più estesa storia dei media è un professore di Arti Visuali dell’università di California,
San Diego, e un ricercatore all’Istituto della California per le Telecomunicazioni e
l’Informazione Tecnologica, si è unito con il designer Andreas Kratky, DJ Spooky,
Scanner e George Lewis per creare il progetto Softcinema.
Sebbene i tre film presentati sul dvd si riferiscono al familiare genere di cinema il
processo con il quale essi sono stati creati e il risultato estetico appartengono di gran
lunga all’età del software e dimostrano tutte le possibilità del software cinema in cui la
soggettività umana e le scelte variabili fatte dal software custom si combinano a creare
film che corrono senza fine senza mai esattamente ripetere la stessa sequenza d’immagini,
il layout dello schermo e la narrativa: “Soft Cinema consiste in un programma composto
da un grande database che contiene videoclip, animazione, musica, voce fuori campo che
corre su ogni immagine in ogni momento per quattro ore, cinque ore di musica
selezionate in parte da me ed in parte da DJ Spooky. Tutti i video sono girati in posti
differenti, e ognuno risponde a dieci parametri differenti sia a livello formale e semantico;
così per esempio una locazione geografica, una città, che sia Los Angeles e Buenos Aires,
e a livello matematico il calcolo e i livelli di contrasto, la luce, il tema, il punto di vista
della camera, che sia una veduta cittadina o una videocamera su un mezzo di trasporto.
C’è un software separato che offre tutti i tipi di sequenze e clip per costruire ad esempio
una sequenza con dei particolari movimenti di macchina quando ciò viene richiesto.”59
“Mission to Earth” il primo, può essere considerato un fantasy che descrive l’esperienza
dell’immigrante. Adotta le scelte variabili e il layout multiframe del sistema softcinema
per rappresentare l’identità variabile della protagonista, qui il database di riferimento è
meno ampio di quello di Texas.
“Absences” è una narrazione lirica in bianco e nero che si basa su algoritmi normalmente
spiegati nelle applicazioni di sorveglianza militare e civile a determinare il montaggio
video e audio, la narrazione è visualizzata attraverso delle strip e la narrazione salta dal
passato, presente e futuro attivando nello spettatore dei collegamenti mentali soggettivi.
“Texas” è un database narrativo che assembla i suoi suoni, immagini, narrazioni, le
identità dei suoi caratteri da un database multiplo. A differenza di “Mission to Earth” il
suo database è molto più grande.
Tutti i film sono programmati in modo che non ci sia una singola versione. Tutti gli
elementi, includendo lo schermo, le immagini e la loro combinazione, la musica, la
narrazione e la lunghezza, sono soggetti a cambiamento ogni volta che il film è visto e
caricato. Lo sviluppo di Soft Cinema fu reso possibile dalle commissioni di ZKM Centro
per l’Arte ed i Media e il BALTIC, il centro per l’Arte Contemporanea. I film e le
installazioni che sono state esibite nei musei, gallerie, festival, in tutto il mondo, incluso
ZKM, Karlsruhe; l’ ICA, a Londra; SENEF in Seoul; l’ ICC a Tokyo; il DEAF a
Rotterdam, il Transmediale a Berlino; e il Chelsea Art Museum a New York.
L’interfaccia già dall’apertura del DVD si presenta come un quadro simile a Mondrian,
in cui navigare fra gli elementi.
In “Mission to heart”, la protagonista mostra ciò che vede, sente, pensa e ricorda in
riquadri diversi che compongono il rettangolo dello schermo. Ogni riquadro è di diversa
forma, ve ne è uno centrale un po’ più grande in cui si svolge l’azione o quello a cui la
voce narrante si riferisce e gli altri più piccoli in cui ci sono altre immagini o soluzioni e
animazioni grafiche. Quello che è raffigurato in un riquadro piccolo in un altro momento
può apparire in quello grande, ma questo processo è molto più evidente in Texas che in
Mission to Heart. Quello che si percepisce è una scelta di punti di vista. Possiamo parlare
di una frammentazione e dispersione della soggettività, in diversi riquadri e questo non
significa che sia una perdita o che si subisca una sensazione di spaesamento ma un
59
Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS
Cambridge, Massachussetes 2005
arricchimento d’informazioni da scegliere, tutte di alto valore estetico che possono
cambiare la percezione che la voce narrante ci suggerisce.
Il più delle volte il progetto si apre con una musica che percorre quasi tutto il progetto e
con l’immagine dell’acqua su un vetro o della protagonista immersa nei suoi pensieri. La
storia si basa sul racconto in voce fuori campo di una donna arrivata sulla terra da un
paese più arretrato del nostro di venti anni circa per degli studi della durata di un anno o
poco più. Ma la sua permanenza si prolunga in quanto non le viene dato nessun permesso
per tornare indietro su alpha1. Questa situazione la lascia in una condizione di incertezza
in un posto che non le appartiene, a pensare a ciò che senza di lei continua a vivere su una
terra che una volta era la sua casa. Ciò è molto simile dice la voce: “ al comune
sentimento di un qualsiasi emigrante”.
Questa sensazione è resa oltre che dalla frammentazione del video, dalle immagini
(nonché dalla suggestiva colonna sonora di DJ Spooky) che rappresentano spazi asettici,
persone che lavorano al computer in solitudine, foto di una Russia che non esiste più.
Si sente in questa storia l’esperienza personale di Manovich, emigrato in America dalla
Russia; non a caso il compagno della protagonista è un artista e i suoi disegni
appartengono alla stesso Manovich. Forse questo progetto è la sua stessa ricerca
d’identità e di memoria, ed è intriso di malinconia come lo stato d’animo di ogni persona
lontana dalla propria terra.
Gli spazi sono oltre a quelli della memoria con foto della vecchia Russia e dei suoi centri
di ricerca spaziali, quelli di una moderna metropoli, centro di raccolta delle esperienze
umane più disparate quindi dense di racconti diversi e sensazioni diverse.
La nuova soggettività diversa, frammentata, ma unica. Come unica è l’esperienza del Soft
Cinema in se stesso. Le sequenze in cui la narrazione viene distribuita vengono riproposte
a random secondo le regole che lo stesso Manovich ha programmato su di un database di
sequenze. All’interno di queste le stesse immagini nei riquadri cambiano ogni volta per
dare sempre una diversa emozione o sensazione del film.
In realtà la narrazione è una sola, ma non ha una vera e propria cronologia di eventi, ciò
che racconta sono i moti interiori della protagonista; ogni sequenza infatti è costituita
dalla voce fuori campo e dalla musica o solo da quest’ultima, la voce descrive la storia
della protagonista, le sensazioni e i suoi ricordi. Tutte le sequenze possono essere fine o
inizio del racconto. Le combinazioni possono essere persino calcolate attraverso un
calcolo numerico.
Le immagini nei riquadri sono sequenze di vita lavorativa quotidiana, di spazi aperti,
scorci di megalopoli, piani della protagonista nello spazio, foto, cartine geografiche,
soggettive, soluzioni grafiche. Le sequenze possono essere così descritte:
Il carwashing in cui la protagonista Inga pensa alla sua infanzia per le sensazioni che quel
posto riesce e infonderle e la storia del suo arrivo sulla Terra da Alpha-1, un pianeta che è
circa venti anni dietro culturalmente e tecnologicamente.
La situazione di emigrante raccontata attraverso le camminate di Inga nella metropoli e
gli spostamenti soprattutto in metropolitana, e nei centri commerciali.
Il racconto della sua missione attraverso la diretta osservazione degli spazi e delle
situazioni urbane descritti nei giornalieri (daily report) da spedire.
La triste storia d’amore con un artista a sua volta immigrante raccontata attraverso la
visione di spazi che denotano una mancanza.
Il racconto della sua infanzia nella città in cui abitava legato alla pubblicità di un prodotto
sotto il quale risiedeva una tattica commerciale.
L’ arrivo della fine della sua missione e la sua indecisione a lasciare il posto che intanto è
diventato come una casa anche nella situazione di non luogo.
Più che la narrazione ciò che cambia è la parte visuale che si rapporta sempre
diversamente con la voce fuori campo. Ogni immagine ha un’accezione diversa se
riproposta in diversi contesti e il fruitore deve rapportarsi a queste immagini dando dei
significati sempre diversi e diverse sensazioni. Ma è lo stesso Manovich che spiega il suo
progetto attraverso dei nuclei concettuali, nella parte finale del DVD nella sezione
intervista, in cui chiarisce brevemente ma efficacemente, con l’esempio di Texas in
particolare, il funzionamento e il significato di Soft Cinema.
In Texas la voce viene ripetuta ogni venti o quaranta minuti, ma la selezione delle clip, e
la musica da background è tutto selezionato dal software, in questo lavoro si rivela
maggiormente la rimediazione dei medium tradizionali, ciò viene anche spiegato
nell’intervista: “Per quanto riguarda il layout, alcune delle influenze vengono da
Mondrian o dalle graphical use interface (GUI) ; oggigiorno interagiamo con schermi che
sono divisi in finestre multiple che hanno forme differenti, ed è importante rendere
simmetricamente la differenza con un’idea di cinema che si fonda sulla singola immagine
che occupa lo schermo intero. Altre influenze vengono guardando la tv ed in particolare
le notizie finanziarie e i programmi di news. La tv finanziaria di Bloomberg ha un layout
simile, cosi per esempio l’annunciatrice è nella finestra principale, poi ci sono delle
informazioni stock nelle strisce scorrevoli, poi ancora grafici e classifiche. Cosi il
progetto è nato da un’idea di cinema che sorgesse dall’uso di questo tipo di layout
televisivo e dalle GUI per un cinema che rappresentasse un avanzamento nell’estetica.
Un'altra cosa è il loop e le strisce in cui inserire dei pezzi della narrazione su qualcosa che
accadrà dopo nella storia o che è già successo”60.
In Texas troviamo una collezione di piccole storie (creata per esibizioni sul future cinema
del 1998) che sono accadute veramente in Texas anche se alcune delle riprese fanno parte
delle serie chiamate global-mix girate in altri posti, come la sequenza denominata
Amburgo, o alcune immagini che ritraggono persone che guidano la macchina, o gente
che lavora al computer perché inerenti alle storie di Texas che si basano su di un
programmatore, su un incidente, su ciò che gli psicologi identificano con crash sindrome,
e su una ragazza che il programmatore incontrava regolarmente nella zona chill out del
palazzo in cui lavorava. Non c’è realmente bisogno che il posto raffigurato sia quello del
titolo. Il luogo è per lo più un luogo interiore.
Manovich separa la storia in diverse piccole parti di approssimativamente due minuti e il
programma software crea un nuovo layout all’inizio di ogni frammento.
Cosi se si guarda una sequenza e lo schermo diventa bianco, il software sta provvedendo
a generare un nuovo layout.
Per quanto riguarda la narrazione Manovich fa riferimento a chi nella storia della
letteratura ha dato il via a nuove forme di narrazione che pur riferendosi al reale
raffigurano dei moti interiori come fu per il flusso di coscienza di Joyce e Proust e le
rapporta alle nuove tecnologie: “la questione è quale potrebbe essere la connessione tra
ciò che si vede nello schermo e la storia narrata. Posso dire che vorrei questo particolare
video in questa parte della storia o posso lasciare che il programma selezioni a random la
clip sulla voce off. L’intento è creare qualcosa che sia nel mezzo così alcune decisioni
sono a random. È sperimentare i diversi modi in cui usare il sistema, per esempio nella
selezione delle immagini nelle finestre grandi piuttosto che in quelle piccole.
In futuro si continuerà approfondendo questo sistema nel proporre più edizioni a seconda
del suo uso, rendendo visivamente ciò che avviene nella nostra mente quando
selezioniamo dei ricordi, immagini, suoni. Infatti quello a cui si mira è la
rappresentazione della soggettività in altri modi, continuando sulla corrente letteraria
60
Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS
Cambridge, Massachussetes 2005
novecentesca di Proust ad esempio o Faulkner, o James Joyce che diede il via al
monologo interiore e al flusso di coscienza”61.
61
Dal DVD “SOFT CINEMA. Navigating the database” di Lev Manovich e Andreas Kratky MIT PRESS
Cambridge,Massachussetes 2005
Estetica del liquido
In uno dei capitoli finali del loro libro Remediation, Bolter e Grusin arrivano a definire il
processo di mediazione e rimediazione come una convergenza inevitabile dei media.
Questo significa che nessun medium esclude l’altro ma che ognuno può incorporare
quello che preferisce. La frase in cui dicono che “la convergenza è costituita dalla
rimediazione di almeno tre tecnologie estremamente importanti: il telefono, la televisione
e il computer” sembra lo spot pubblicitario di un prodotto che, a distanza di otto anni
dall’uscita di questo libro, arriva sul mercato americano (data odierna 2007) l’I-PHONE
della Apple che le incorpora tutte.
È vero inoltre che la rete potrebbe pervadere le nostre vite con l’arrivo dell’informazione
che cerchiamo in ogni momento tramite anche un messaggio di testo sul cellulare, la
convergenza di tutti i media porta ad un flusso di informazioni costante. Nozione quella
di flusso ampliamente familiare; lo stesso si è detto anche per l’avvento del cinema e
quello della televisione. Tuttavia ciò che i due studiosi sembrano sospendere in questo
discorso sia il concetto di database; riprendendo le parole degli editor di Wired che nel
1997 in un articolo sulla convergenza dicono che la logica del flusso è quella che ci
pervaderà e non quella dell’archivio che ha poco a che vedere con i nuovi media collegati
fra loro, tralasciano il fatto che parlando del flusso delle informazioni e del controllo
totale su queste che la rete dovrebbe avere, dimenticano di dire che tutto ciò deve essere
preventivamente situato e immagazzinato in una grande memoria che ci contiene e che
addirittura potrebbe finire per controllarci: “oppure può accadere che sia il medium a
controllare l’utente”62 con la miriade di informazioni che vengono spinte o letteralmente
sbattute in faccia all’utente.
Già da tempo lo spazio intorno, le strade, la città, i centri commerciali, sono in comune
relazione tra loro e con noi stessi, per Bolter e Grusin ciò avviene con una sorta di
rimediazione tra questi spazi e i medium; partendo dai parchi di divertimento americani
come Disneyland. I due analizzano in che modo un parco possa rimediare città, cinema,
televisione, nell’esempio particolare il parco nasce da un accordo fra Disney e la
televisione americana ABC che doveva trasmettere gli eventi realizzati e proporre i
vecchi lungometraggi della casa produttrice quando il parco non trasmetteva eventi. In
62
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard
Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002
più se nell’infanzia almeno una volta si doveva visitare il parco, con la stessa logica
dell’unicità, i lungometraggi della Disney uscivano nelle sale una volta all’anno. Tutto
contribuiva al senso dell’esperienza unica e irrepetibile. Con il tempo il parco ha preso
sempre più la forma della città, imitandone e ampliandone gli stimoli sensoriali, musica,
luci, cartelloni. La città si presenta come un contenitore in cui il medium deve avere la
sua visibilità e “sebbene in Europa i centri delle città sono ancora spazi estremamente
mediati, negli Stati Uniti sono i centri commerciali ad avere assunto questa funzione”63.
Centri commerciali, stazioni ferroviarie ed aeroportuali, stadi, metropolitane, parchi di
divertimento dimostrano tutti il loro carattere di ipermediazione e di amalgama dei vari
media nel loro essere luoghi attivi durante il giorno e non-luoghi una volta cessate ogni
attività commerciale o funzionale. Proprio la loro caratteristica di ipermediazione fa
assumere al ciberspazio per Bolter e Grusin l’associazione con il non-luogo.
Ci sono artisti-architetti che optano proprio per questo assunto dello spazio tra
rimediazione, nuove tecnologie e soprattutto a metà tra la logica del flusso e quella del
database.
Rem Koolhaas definito come uno dei precursori della nuova architettura nel 1989
progetta un edificio per la città di Karlsruhe in Germania che può essere associabile ad
una mediateca, il Zentrum fur Kunst und Medientechnologie. Il progetto consta di una
grande apertura, di uno spazio centrale vuoto da utilizzare per qualsiasi evento, in rispetto
alla sua poetica dello svuotare lo spazio architettonico, svuotarlo della sua interiorità.
Nell’affrontare questi temi Tursi collega questa nuova idea dello spazio a quella fornitaci
dall’utilizzo dei nuovi media che ci danno un'altra idea di contenitore e di soggetti e
oggetti che fruiscono lo spazio. Il movimento è dato nel vuoto non nel pieno di strutture
statiche e fisse, in quello che Koolhaas lascia aperto a rigenerazione tramite soluzioni
formali e non pienamente strutturali. A livello pratico questo edificio ha uno spazio
tecnologicamente attrezzato che permette la fruizione di schermi e spazi scenici in diversi
piani a seconda delle richieste, nell’altra facciata si combinano due flussi, quello degli
ascensori e quello orizzontale dei treni. In questo modo, dice Tursi egli riesce a
combinare la forma a elenco con l’architettura: “ una poetica questa corrispondente del
tutto a una delle forme culturali dominanti l’epoca della digitalizzazione: il database; il
progetto ZKM è un elenco, le sue facciate sono figurativamente, costituzionalmente e
63
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard
Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002 pag. 205
funzionalmente eterogenee e pur si amalgamano”.
64
La fusione è la parola chiave nello
spazio di Koolhaas in cui convivono musei di arte contemporanea, mediale, un teatro, una
biblioteca, delle sale per le conferenze, la produzione musicale, video e realtà virtuale.
Nonostante sia giudicato comunque un esteta freddo e poco definito nella realizzazione di
questa poetica, secondo Tursi è proprio questo elemento che contribuisce a definirlo come
un data-architetto: “ la decostruzione da lui operata risponde perciò in profondità alle
dinamiche del database, il quale niente concede a estetismi di maniera. La matrice di un
database è fredda, poco definita. Sta all’osservatore tracciare linee di pertinenza,
collegare i puntini disponibili”65. La sua teoria dell’amalgama corrisponde a quella di un
database di far convivere e interagire elementi diversi, “elencare, può apparire verbo
appropriato per definire l’estetica citazionista del Post Modernism.”66
Uno dei continuatori possiamo ritrovarlo in Novak, anche se più che architetto egli
sembra essere un artista visivo, tuttavia la linea di demarcazione non sempre è così
precisa tra le due cose, e la sua estetica del flusso o del liquido. Ciò che Koolhaas aveva
preannunciato con l’amalgama, Novak lo esalta con la scelta di una forma che più
risponde alle esigenze della modernità, quello di uno spazio come il ciberspazio (“il
ciberspazio è architettura; il ciberspazio ha architettura; e il ciberspazio contiene
architettura”67) in cui l’informazione, la sostanza viaggia, si trasforma, transita
continuamente: “il paesaggio ottenuto da questa visualizzazione completamente
spazializzata dei dati caratterizzato da un dinamismo straordinario e inimmaginabile
permette di realizzare e potenziare compiutamente alcune delle caratteristiche ricercate
dall’architettura più recente: transitività, superamento delle tipologie, continuità,
commistione organico-inorganico”.68
64
Da “Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi Costa e Nolan editore
Milano 2007 pag. 144
65
Da “Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi Costa e Nolan editore
Milano 2007 pag. 144
66
Da “Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi Costa e Nolan editore
Milano 2007 pag. 145
67
Dall’ intervista a Marcos Novak fonti internet:
http://www.teknemedia.net/magazine/dettail.html?mId=553
68
Da “ Estetica dei nuovi media. forme espressive e network society” di Mario Tursi Costa e Nolan editore
Milano 2007
Capitolo terzo
Narrazione e database.
Ipertesto, interattività, videogame.
L’identità dell’opera nell’epoca della sua digitalizzazione ha occupato le ricerche di molti
studiosi in vari campi culturali ma soprattutto quelli mediali e informatici. Molti studi
sono stati fatti attorno l’impatto dei nuovi media sulla produzione artistica, e molti autori
hanno iniziato a interrogarsi sulla concezione di opera d’arte e di autorialità del prodotto,
passando alla concezione di testo e narrazione.
La narrazione proposta dai nuovi media per la maggioranza di questi studi non ha una
traiettoria prestabilita in quanto si fonda sulla scelta interattiva dell’utente o dell’autore
fra elementi singoli, presentati in momenti diversi dando un’altra forma e significato a
questi elementi e alla narrazione. Un significato soggettivo e aperto fra elementi scelti da
un database di opzioni.
Coi nuovi media prende forma pienamente la realizzazione di questo progetto che da un
secolo si profila nella teoria e nella pratica artistica del novecento.
Molti testi sono stati scritti sui nuovi media dopo il libro di Manovich, (“Il linguaggio
dei nuovi media”) tuttavia esso rimane un punto valido di partenza ma data la sua
lungimiranza anche di arrivo.
Manovich parte con l’affermare che un primo cambiamento è dato dal cambio di ruolo tra
ciò che è sempre stato definito come narrazione e ciò che viene definito come
descrizione: “ se le culture tradizionali offrivano narrazioni ben definite (miti, religioni) e
scarse informazioni, oggi abbiamo troppa informazione e poche narrazioni capaci di
integrare il tutto. Bene o male, l’accesso all’informazione è diventato un’attività chiave
nell’era digitale.”69 La nuova narrazione per Manovich ha la forma di un database, che
essendo principalmente una raccolta o un magazzino di dati da cui l’utente richiama
69
da “ Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 pag.
271
l’informazione sembra avere poco a che vedere con il concetto di narrazione che è quello
di uno svolgimento con un inizio e una fine. Sembra così che narrazione e database siano
“nemici naturali”70 tuttavia non è del tutto così. La narrazione lineare diventa una delle
possibilità che il database offre all’utente. Se infatti nella lettura di un romanzo dobbiamo
capire la logica sottintesa al testo, lo stesso avviene quando siamo di fronte a delle
interfacce che hanno lo stesso database alla base; Manovich chiama questa logica
dell’algoritmo e la narrazione diventa interattiva perché sommatoria di interfacce diverse
per uno stesso contenuto, diverse traiettorie che portano ad un database. Ma questo
processo può essere definito propriamente narrazione? In poche parole quando
navighiamo sul Web, e siamo immersi nella lettura e visione saltando da una pagina
all’altra stiamo compiendo una narrazione? Non sempre.
Se prendiamo l’esempio di alcune narrazioni sul web che volutamente si presentano come
esperimenti di ipernarrazione, vedremo di seguito Afternoon, il più grande esempio di
database ovvero il World Wide Web, non è un narrazione. Tutti gli elementi che lo
fondano contribuiscono alla sua logica anti-narrativa. I siti web sono in continua
espansione, si presentano come elementi singoli, collegati e in continua modificazione
all’interno di questi. Questo non vuol dire che la forma database non influisca sulla
narrazione, ne modifica uno dei suoi aspetti creando delle nuove narrazioni che
continuano ad affiancarsi a quelle tradizionali che, a discapito di chi all’inizio ne aveva il
terrore (come Montale, Calvino, Primo Levi) non vengono distrutte ma anzi convivono e
interagiscono favorevolmente con i nuovi media. A volte la narrazione lineare è alla base
di molte narrazioni interattive in quanto il database alla base è comunque finito e creato
da un autore che ne ha previsto tutte le traiettorie; questo è il caso dei videogame. Ma
diamo uno sguardo alle diverse teorie che comprendono anche il concetto di testo, di
scrittura, di autore. Domenico Fiormonte nel suo libro “Scrittura e Filologia nell’era
digitale” traccia un percorso storico in quattro fasi sul rapporto tra testo, scrittura e
tecnologia non dimenticando il rapporto tra l’emergenza delle nuove tecnologie con
diversi fattori come la politica, il mercato, la società, prospettando per questo rapporto
vasto e in continuo cambiamento dei risvolti imprevedibili. Quello a cui mira è
sottolineare come cambiando il rapporto tra testo, narrazione e tecnologia cambi anche la
concezione dell’identità.
70
da “ Il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 pag.
281
Verso la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta si instaura la prima fase in
cui le prime informazioni testuali in formato elettronico iniziano a circolare, ma è una
ricezione puramente passiva in quanto sono solo delle schermate con il testo che non si
possono modificare. L’elaborazione teorica sugli effetti del computer sulla scrittura viene
frenata e rallentata dal fatto che le competenze per essa devono essere interdisciplinari, e
spesso non sono complete. La seconda fase vede l’impatto forte dell’uso del computer in
tutti i campi, come quello letterario e accademico e la creazioni di libri che seguono
l’ispirazione di un ipertesto. Non mancano i riferimenti alle avanguardie di inizio
novecento come il Futurismo, la Pop Art, Duchamp e il Dada.
Fra la seconda e la terza tappa vengono distinti due usi di utilizzazioni delle applicazioni
del computer: l’uso scientifico e accademico e quello di intellettuali e scrittori. In
entrambi sebbene l’informazione venga usata in banche dati o fogli elettronici e di
videoscrittura ciò che rimane al centro è il testo. Da qui Fiormonte fa scaturire uno dei
suoi problemi principali quello legato alla funzione dell’autore e dell’opera nell’era
informatica. Se ad esempio il plagio è sempre stato presente in letteratura, in modi e
filosofie diversi con i nuovi media esso diviene contaminazione nel “nuovo spazio della
scrittura” come dice Bolter. Fiormonte risale alla creazione della legge del copyright
formulata dal filosofo Ficthe e adottata per la prima volta dalla Germania nel settecento,
ponendo le basi dell’idea di autorialità in tutta la cultura occidentale arrivando al concetto
di soggettività nell’autore che nel momento dell’ispirazione cerca nella scrittura un modo
per scavare a fondo nel proprio essere.
Con l’arrivo di un testo fluido quale quello digitale si arriva alla messa in crisi di questo
rapporto dell’autore con l’opera: “ed è proprio la fluidità e la manipolabilità del testo
elettronico che mette in crisi le leggi occidentali, sul copyright, impegnando giuristi e
legislatori nella definizione di un diritto d’autore che si applichi alla plurivocità
dell’opera digitale”71.
Il copyright diviene per Fiormonte quindi un criterio di valutazione dell’autenticità
dell’opera, un fattore di originalità dell’autore e quindi della sua stessa soggettività o
identità che viene messa in crisi.
Se infatti un testo può essere manipolato dall’autore inserendovi parti non proprie ma che
diventano integranti dell’opera, o nello stesso tempo altri possono modificarlo, si può
ancora parlare di autore? Che identità avrà questo autore?
71
da “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 2003
Fiormonte cita Picchi discutendone i risvolti legislativi, che partendo dall’equivalenza di
testo cartaceo e documento informatico, passa alla coesistenza di diversi diritti d’autore
indipendenti in uno stesso supporto virtuale, mettendo in “pericolo violazioni sia di diritto
morale che di quello patrimoniale”72 favorendo l’identificazione dell’originalità “che
diventa a geometria variabile”73 . Se l’identità dell’autore è indefinita lo è allo stesso
modo quella dell’uomo contemporaneo in quanto si ritrova a misurare la propria
creazione, memoria con supporti diversi e fluidi, che minano i concetti di autorship. Per
Fiormonte la nuova etica potrebbe essere rappresentata dal copyleft e dalle comunità
peer-to-peer, entrambe basate sulla non proprietà del patrimonio intellettuale da parte di
poche persone, ma sulla loro
disponibilità per fini non commerciali e la
democratizzazione del sapere.
Il fruitore diventa oltre che lettore interattivo, coautore, implicato nel processo di
creazione. Questo non deve portare per Fiormonte ad una paura verso la scomparsa del
testo perché una sua estremizzazione potrebbe portare ad una condanna morale verso
l’uso dei nuovi media. Anche Landow sostiene che : “La nostra sensazione che l'autore
sia diverso in un ambiente elettronico è assolutamente giusta, perché penso che le nostre
nozioni di autorialità, il nostro timore della collaborazione, molte delle nostre concezioni
sul diritto d'autore e la proprietà dell'autore derivino direttamente dal mondo della stampa
… evidentemente è una questione di definizione culturale e di decisione economica per le
quali ci siamo abituati a un determinato concetto dell'autore forte; ciò è stato necessario
fino ad ora, ma penso che falsifichi la realtà in molti modi.”74
Nella quarta fase viene ampliato il concetto di ipertesto e ipermedia, che coniato da
Nelson nel 1967 ebbe una fortuna tale che Tim Berners-Lee la inserì nella definizione di
protocollo di comunicazione HTTP e linguaggio HTML e Genette le diede una
definizione non lontana da quella di una letteratura: “chiamo ipertesto un testo derivato da
un testo anteriore tramite una trasformazione semplice, indiretta che chiameremo
imitazione”75chiarendo ciò che potrebbe risultare essere la novità.
72
da Picchio 2000 citato in “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati
Boringheri Torino 2003
73
da Dreier 2000 citato in “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati
Boringheri Torino 2003
74
da intervista a Gorge P. Landow fonti internet:
http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/landow.htm
75
da Genette 1982 citato in “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati
Boringheri Torino 2003
Secondo Fiormonte i principi di ipertesto sono quelli legati all’idea di interattività, non
linearità, associazione /incastro/ collage, itinerario nel senso di navigazione, processo nel
senso di un fenomeno dinamico senza grandi fratture, apertura. Questi principi, aggiunge,
chiariscono il concetto di ipertesto e delle sue relazioni con tutta l’arte contemporanea dal
collage, l’arte interattiva nel teatro ad esempio e il romanzo combinatorio. Nei nuovi
media l’interattività diviene potenzialità per la collaborazione degli utenti e quella di
reperire informazioni da un sistema, ma “questa pluralità di significati …rischia di farci
perdere di vista un’importante caratteristica dell’opera digitale. Quella della riduzione
della distanza tra autore e fruitore ”76 che si riduce tanto da non percepire nessuna guida
nella lettura di una narrazione che perde il suo godimento. Per Fiormonte l’ipertestualità
uccide il piacere della narrazione, è questo il conflitto tra informatica e narrazione; se non
c’è narrazione lineare non c’è il processo di identificazione e di interpretazione, e questa
forma di comunicazione non si compie “lanciando una sfida alla maniera in cui l’uomo
attraverso forme e strutture determinate ha saputo e dovuto fino a oggi costruire la sua
identità”77. Se per Eco questo potrebbe incentivare la produzione e l’uso delle narrazioni
tradizionalmente intese, per Landow, Joyce il libro non ha più nessun futuro, ma è ancora
troppo presto per poter definire appieno gli effetti.
Negli anni settanta Theodor Holm Nelson conia il termine ipertesto partendo dal concetto
di letteratura, il suo progetto Xanadu si proponeva di dare una nuova forma di letteratura
attraverso una nuova forma di archiviazione dei dati e una rete: “per ipertesto intendo
semplicemente la scrittura non sequenziale”78 ovvero un testo in cui saltare da un brano
all’altro, tornare indietro inserendovi note, varianti visibili a tutti. Con il computer Nelson
trova la completa realizzazione del suo progetto: “ci sarà solo un grande deposito e ogni
cosa sarà ugualmente accessibile. Questo significa che differenti artisti e libri saranno
piuttosto diverse versioni di una stessa opera con differenti percorsi al proprio interno per
lettori differenti.”79 Nelson sebbene parli di riconfigurazione del testo, dell’autore, del
racconto non esclude che l’ipertesto si misuri positivamente con la dimensione della
letteratura.
76
da “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 2003 pag.
85
77
da “ Scrittura e filologia nell’era digitale” di Domenico Fiormonte Bollati Boringheri Torino 2003 pag.
86
78
da “Literary machines. Il progetto Xanadu” di Theodor Holm Nelson, Muzzi Editore Padova 1992
79
da “Literary machines. Il progetto Xanadu” di Theodor Holm Nelson, Muzzi Editore Padova 1992
Negli anni novanta George P. Landow nel libro “Ipertesto. Il futuro della scrittura.”(1992)
affronta temi come autore, narrazione e riconfigurazione del testo analizzando i narratori
ipertestuali della prima generazione tra cui Michael Joyce, che affidava i propri lavori a
supporti quale i cd rom che venivano caricati sul computer e con cui il lettore aveva un
rapporto di interazione.
Uno dei primi lavori riguardo un ipertesto è Storyspace creato da John Smith, un noto
professore di informatica negli USA, Jay Bolter, un teorico della tecnologia
dell'informazione e l'autore di Turing's Man e di Writing Space e il già citato Michael
Joyce, romanziere e narratore di ipertesti noto perché primo scrittore di ipertesti di alto
livello. Storyspace è un sistema per creare degli ipertesti che ha come grande vantaggio la
facilità di fare link e creare un modello di rete più vasto; molti dei siti Web letterari e
culturali che sono stati creati all’inizio in America si basano su Storyspace che li esporta,
a sua volta, in HTLM. Il secondo lato positivo di Storyspace è che offre una visione
molto più ampia e completa dell'ipertesto che si sta realizzando.
Afternoon di Michael Joyce è uno dei primi e più famosi esempi di narrativa interattiva e
si sviluppa attraverso una semplice narrazione ( in un pomeriggio lo scrittore Peter crede
che la moglie e il figlio siano morti quella mattina) attraverso un labirinto in cui il lettore
è sviato dalla narrazione lineare in una serie di ripetizioni e flashback che rivelano sempre
nuovi dettagli. Il lettore può decidere che percorso scegliere, se cliccare sul menu o su dei
link all’interno della narrazione corrente. Il database alla base è molto vasto ma il lettore
non se ne accorge perché impegnato nella lettura; Bolter di questa opera scrive: “ il
diagramma che rappresenta lo spazio di scrittura contiene più di cinquecento episodi e
oltre novecento nessi, il lettore non percepisce mai questa struttura diagrammatica ma
vive piuttosto un’esperienza monodimensionale dell’opera, dal momento che segue i
percorsi che portano da episodio a episodio.”80
Per Landow l’ipertesto è prima di tutto un'altra forma di testo “che permette al lettore di
abbracciare o di percorrere una grande quantità di informazione in modi scelti dal lettore
stesso, e, nel contempo, in modi previsti dall'autore… e che permette una lettura
multilineare: non una lettura non lineare o non sequenziale, ma una lettura
multisequenziale”81 la cosa importante non è capire se l’ipertesto è un sottoinsieme di un
testo narrativo lineare, un suo ampliamento o viceversa, per Landow la questione si basa
80
da J. Bolter citato in “Le arti multimediali digitali” di Andrea Balzala e Anna Maria Monteverdi nel
saggio New Media e narrativa di Antonio Caronia Garzanti Milano 2004
81
da un intervista a Gorge P.Landow fonte internet:
http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/landow.htm
sulla tecnologia d’informazione in uso: “È chiaro che quando si comincia a scrivere un
testo strutturalmente semplice si tratta - in genere - di un testo lineare. Tuttavia, appena
un autore comincia a sviluppare registri più complessi in testi scritti a mano o stampati, ci
si ritrova a confrontarsi con cose simili a note a piè di pagina o alla glossa ordinaria nelle
Bibbie medievali, in cui si cerca di rendere possibile l'aggiunta di ulteriori informazioni
ad un testo lineare. È quasi una questione di sofisticazione! Non si tratta tanto di una
questione di semplicità del testo, quanto quasi di un avvicinamento del testo al lettore.”82
Con il world wide web l’interazione nella narrazione si configura non solo come una
traiettoria diversa su dei contenuti dati dall’autore e quindi riconducibili ad una linearità
ma anche alla costruzione della stessa narrazione; l’interattività era già presente nei
giochi di ruolo come Dungeons and Dragons in cui la narrazione si sviluppa attraverso
una serie di regole in un universo prestabilito, con personaggi con compiti e virtù vari,
che affrontano delle situazioni scelte dai giocatori che in questo modo sviluppano una
trama. È una forma di narrazione gestita collettivamente, una creazione collettiva o quella
che Fiormonte chiama opera collettiva.
Il videogame diviene, non solo per Manovich uno degli esempi più emblematici della
narrazione interattiva. Janet Murray nel suo Hamlet and the Holodeck edito dalla MIT
press, li considera uno dei più promettenti formati della narrativa digitale; essi incarnano
appieno le quattro proprietà che caratterizzano l’arte narrativa al tempo del digitale,
ovvero: proceduralità, partecipazione, spazialità ed enciclopedismo. L’ultima soprattutto
rappresenta la crescita esponenziale della capacità di memoria e delle strutture per
immagazzinare i dati. Il videogame si basa su un grande database costruito dall’autore in
cui le scelte portano ad altre scelte, che devono portare ad una precisa situazione, e si
prefigura come a metà strada tra lo stato d’immersione in cui si è lasciati trascinare dal
ruolo, dal desiderio di agire per vedere i risultati ottenuti (agency), dal cambiamento dello
stesso personaggio e dal “games as a symbolic drama”83 ovvero dal ruolo dell’autore e
delle normative sulla narrazione.
L’autore crea qualsiasi norma secondo cui qualsiasi situazione e qualsiasi oggetto è
programmato a svolgere una funzione ed un avanzamento nella storia: “ scrivere le regole
per il coinvolgimento dell’attore interattivo, le condizioni secondo le quali le cose
82
da un intervista a Gorge P. Landow fonte internet:
http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/l/landow.htm
83
da Janet Murray in “ Hamlet and the Holodeck. The future of narrative in ciberspace” MIT PRESS
Cambridge, Massachussetes 1998
accadranno in risposta alle azioni dei partecipanti”84 Murray propone così uno sguardo su
un mondo che, essendo rivolto ad un pubblico giovane a scopi ludici, deve essere trattato
con la massima scientificità e competenza, prefigurando un futuro in cui i nuovi Omero e
Shakespeare saranno story-tellers con competenze informatiche.
84
da Janet Murray in “ Hamlet and the Holodeck. The future of narrative in ciberspace” MIT PRESS
Cambridge, Massachussetes 1998
Cinema e videogame.
Percorsi possibili all’interno dell’universo di dati.
Quando i videogiochi sono entrati di diritto nell’olimpo dei prodotti commerciali ad alta
fruizione e l’interesse si è fatto più importante verso questo mezzo ludico, l’industria
cinematografica ha iniziato a strizzare l’occhio all’industria del videogioco che già da
prima aveva preso in prestito dei caratteri fondamentali del linguaggio cinematografico
nello sviluppo dei giochi.
Più la grafica diventava elaborata, più le ambientazioni divenivano sofisticate, e più la
realtà veniva emulata; ma quale realtà? Quella cinematografica.
Il cinema infatti è sempre stato d’esempio al mondo dei videogiochi, i successi al
botteghino si tramutavano in successi di vendite del gioco anche se non così tante volte
succedeva il contrario, e oltre alle ambientazioni quello che veniva trasposto era la
narrazione: “Non tutti i nuovi oggetti mediali sono esplicitamente dei database, i
videogiochi per esempio vengono percepiti dai loro utenti come narrazioni”85.
Narrazioni che secondo Manovich mascherano l’altra faccia del database, ovvero
l’esecuzione di un algoritmo, per vincere si deve eseguire un algoritmo. Man mano che si
gioca, l’utente scoprendo il meccanismo di funzionamento del gioco discopre l’algoritmo
alla base.
Sembra riduttivo portare la logica del videogioco ad una semplice attività di problem
solving, difatti lo stesso Manovich più avanti aggiunge “ non tutti gli oggetti mediali
seguono esplicitamente la logica del database nella loro struttura, ma al di la delle
apparenze sono tutti database”86 in quanto se prendiamo il concetto di narrazione anche
nell’ottica della fruizione attiva dell’utente la narrazione interattiva sarà il risultato di più
traiettorie che attraversano un database. I dati non esistono di per se ma devono essere
generati o digitalizzati da altri medium preesistenti che poi vanno ripuliti, organizzati,
indicizzati. L’era del computer ha creato un nuovo algoritmo culturale: realtà, media, dati,
database.
Ma ritorniamo alle influenze del cinema sui videogiochi, molte volte gli stessi attori in
carne e d’ossa si offrono a dare in prestito la loro voce, o la loro immagine digitalizzata
per lo più per giochi d’azione; Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger, Bruce Willis
85
da “il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 pag.
277
86
da “il linguaggio dei nuovi media” Lev Manovich MIT PRESS Cambridge, Massachussetes 2002 pag.
281
o nei giochi gangster come Mafia o il Padrino in cui la scalata ai vertici della cupola di
un bandito di strada è alla base per altre variazioni sul tema, in più le tecniche
cinematografiche come il rallenti, il montaggio, la musica, lo spostamento della mdp sono
usate dal game design per aumentare la suspence, creare rilassamento e sospensione,
l’effetto sorpresa o la spettacolarizzazione di questi “film interattivi”.
Sebbene Federica Grigoletto ritrova nell’interattività dei videogiochi la componente di
differenziazione più grande col cinema, non esita a dire che “ogni livello si presenta come
una mini narrazione all’interno del plot principale e l’obiettivo rimane comunque lo
stesso: indurre lo spettatore/giocatore alla sospensione dell’incredulità per fare in modo
che non si ricordi di guardare un film o giocare a un videogame, ma percepisca
fortemente il senso dell’essere là.”87
Quindi il videogioco per ergersi al pari di altre forme d’intrattenimento ha preso molto
dal cinema; se prendiamo infatti intere sequenze spettacolari in cui l’unica azione del
giocatore è quella dello spettatore incantato dalla straordinaria bellezza della grafica
possiamo parlare di un altro passo avanti verso quel mito del cinema totale di Bazin nel
suo Che cos’è il cinema? o un passo indietro verso il cinema delle attrazioni e nelle
visioni immaginifiche di Melies.
Dopo circa dieci anni, ovvero negli anni novanta, il cinema inizia a prendere dalla logica
del videogame alcune caratteristiche più o meno velate. E non parlo di effetti speciali,
personaggi reali e virtuali in una stessa scena, o di storie, ma del tipo di narrazione e del
ritmo. “ Il doppio finale di Sliding doors o i diversi stravolgimenti narrativi di Lola corre
rappresentano espedienti narrativi che non aggiungono diverse possibilità di scelta allo
spettatore, il film è tutto li e si esaurisce nella messa in scena di un’apparente nonlinearità.”88
Ricadono nella logica della rimediazione anche i videogame. I rapporti anche se profondi
non si esauriscono del tutto con il cinema, Bolter nel suo Remediation argomenta che
anche i videogiochi rimediano gli altri media, a partire dai primissimi giochi di società da
tavolo per arrivare alla storia e al racconto delle guerre in ogni epoca. Molti videogiochi
non sono prettamente narrativi, mettono “in scena” la rappresentazione di sport ( uno dei
primi videogame era la rappresentazione minimal di un campo da tennis, ora si è passati
al rally o lo snowboard) sotto forma di trasposizioni televisive dell’evento; “i videogiochi
87
da “Videogiochi e cinema, interattività, temporalità, tecniche narrative e modalità di fruizione” Federica
Grigoletto CLUEB Bologna 2006
88
da “Videogiochi e cinema, interattività, temporalità, tecniche narrative e modalità di fruizione” Federica
Grigoletto CLUEB Bologna 2006
illustrano al livello più elevato il processo attraverso il quale il computer è diventato un
bene di consumo di massa.”89
Tra il videogame e il computer c’è un processo di rimediazione reciproca; per alcuni versi
l’interfaccia del desktop agli inizi degli anni ottanta era molto più sofisticata graficamente
dei giochi. In seguito la grafica di questi ha influenzato il computer quando i videogame
sono entrati in commercio e hanno avuto un grosso successo commerciale per la loro
capacità di immersione dovuta al miglioramento della resa grafica. Il realismo fotografico
all’inizio non era per niente un obiettivo; in uno dei più famosi Pong la grafica semplice
ed essenziale è formata da due piccole linee divise da una linea tratteggiata che
rappresentavano due giocatori di tennis in un campo che non dovevano lasciarsi sfuggire
quell’insieme di piccoli quadratini che rappresentava la palla. Lo scopo non era
confondere l’utente facendogli credere al realismo di un campo da tennis tuttavia l’effetto
era riuscito.
Col tempo l’evoluzione della grafica in 3D, e la possibilità di cambiare durante il gioco il
punto di vista, i videogame hanno iniziato a rimediare non solo il computer ma anche film
e televisione, ma come già detto più che la televisione i computer games rimediano il
cinema: sequenze intere di video vengono inserite nel gioco, film o saghe vengono prese
come esempio ma soprattutto la struttura narrativa è presa in prestito. Il risultato del
processo di rimediazione è uno scambio dialettico tra trasparenza e ipermediazione, che si
basa sul concetto di presenza; la riproduzione digitale può richiamare lo scenario di un
film, e l’immersione che ne deriva può far sentire l’utente come uno dei protagonisti
dell’universo filmico; ma tutto ciò è strettamente connesso all’idea del medium cinema,
l’utente riconosce il film, decide di entrare nel videogioco e vi si immerge. Dalla
televisione invece, nonostante le consolle siano collegate al monitor, l’interattività è stata
l’elemento che ha maggiormente distaccato il videogame dal flusso televisivo. Lo spazio
cambia e diventa navigabile e fruibile, ed è continuamente sorvegliato da un’attenzione
attiva. Tuttavia se in televisione un format arriva ad avere un successo popolare può
diventare un videogioco; prendiamo ad esempio Chi vuol essere milionario? Preso
dall’omonimo show televisivo ne rispetta anche la grafica. O chi non potrebbe
riconoscere nel gioco The Sims (EA 2000) situazione da soap opera o da Grande Fratello?
Per quanto riguarda la narrazione nei videogame il discorso si complica; molti giochi
d’avventura richiamano la letteratura e possono essere considerati come delle vere e
89
Da “Remediation. competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi” Jay David Bolter e Richard
Grusin Edizioni Guerrini Studio Milano 2002
proprie narrazioni, tuttavia non tutti i giochi rappresentano delle narrazioni ma soprattutto
rimangono sempre dei videogiochi, non puntano a essere qualcosa altro, costituiscono
comunque un genere a se stante.
Ma dove viene situato il legame, le differenze con il cinema? dall’estetica, dal livello
testuale o dall’esperienza offerta all’utente?
Il genere prima di tutto è un punto di contatto: “la maggioranza dei giochi orientati al
cinema occupano i territori familiari delle generiche categorie di cinema come i film
d’azione, d’avventura, horror, fantascientifici, e bellici”90, molti dei quali caratterizzati da
un’ambientazione alla Blade Runner come Silent Hill.
All’inizio e alla fine ogni gioco ha la sequenza d’apertura e chiusura con i titoli, proprio
come avviene nel cinema, ma nello stesso tempo queste sequenze sono ben separate dal
gioco, magari da una grafica molto più elaborata, tale che sia riconoscibile che quella
sequenza esclude l’interattività.
Cosa succede quando il cinema ricomincia da capo? eXistenZ.
In eXistenZ di Cronemberg la trama del film si sviluppa in una sorta di scatola cinese, la
realtà del videogioco al suo interno divisa, è contenuta nella realtà che si rivelerà di un
altro gioco (traScendenZ), che è contenuta nella realtà ultima, ovvero quella in cui finisce
il film. Ogni personaggio si rivela con una doppia personalità, molti sono dei falsi attanti,
e intervengono nella trama apportando dei cambiamenti significativi, sin dal principio.
Siamo all’inizio del film in cui viene presentata la situazione, in una stanza che ha tutte le
caratteristiche di una chiesa (americana) di campagna dismessa e si scatena l’azione
facendo partire la narrazione come ci viene presentata nel film.
La stanza in sé come detto sopra ha qualcosa di mistico, nonché di perturbante data la
forte componente asettica, c’è il palchetto da cui Allegra Geller parla ai suoi ascoltatori
seduti attenti nelle panche poste al di sotto dell’ “altare” che ha la forma di semicerchio a
cui alcune persone vi accedono solo quando è venuto il momento di provare il gioco, in
più Allegra quando inizia a introdurre il gioco, la mdp passa dalla figura intera a un primo
piano come ad incorniciarla per dare la sensazione che stia parlando da un pulpito. E’
l’iniziazione ad una nuova religione, il nome di entrambi i giochi ne rileva lo scopo:
90
da “Screen Play. Cinema/videogames/interfaces” edit by Geoff King and Taya KrzywinskaWallflawor
Press London 2005
l’esistente deve andare oltre la realtà per accedere ad un al di là, per l’appunto
trascendentale.
Il ragazzo che entra con tutta l’aria di un patito dei videogame e del Pod innanzitutto si
rivelerà invece un nemico di Allegra pronta ad ucciderla all’inizio del viaggio virtuale in
eXistenZ, “morte al demone Allegra Geller, morte ad Antenna research” e non è il solo,
da questo punto Ted Pikul avrà il compito di proteggerla anche da persone interne ad
Antenna, la casa di produzione dei giochi. Da qui si sviluppa l’azione, Ted e Allegra
iniziano a scappare senza una meta o una spiegazione ben precisa. Ted decide di
proteggerla, Allegra deve salvare il gioco, per lo meno questo sembra lo scopo iniziale.
Tuttavia con l’avanzare della trama e del ritmo gli scopi e le persone cambiano. Ad ogni
stazione vi è un pericolo da cui fuggire; arrivano infatti ad un distributore di benzina dove
Ted tenta a farsi installare una bioporta, l’addetto al distributore dopo aver riconosciuto la
game designer con reverenza si rivelerà anch’egli nemico e tenterà di ucciderla per
incassare la cospicua taglia su di lei e sul gioco. Gas per un momento parla con Ted sulla
concezione di realtà, la sua, quella del lavoro ad un distributore, non è cambiata
veramente con i giochi ma “solo al più patetico esteriore livello di realtà”. Questa frase è
solo uno degli indizi sulla finzione di quello che vediamo, oltre a frasi come “intanto ci
stanno già giocando tutti”91 Allegra e Ted iniziano a tastare qualsiasi oggetto per sentirne
il tessuto ed il rumore, come se dovessero verificare l’autenticità, infatti la mdp indugia
molte volte su queste azioni anche con dei particolari. Inoltre alcuni elementi entrano ed
escono da queste due realtà creando degli effetti stranianti per il pubblico: la pistola
costruita con lo scheletro di un anfibio la ritroviamo all’inizio, poi nel gioco eXistenZ
sotto forma del piatto speciale nel ristorante cinese nella foresta, e alla fine nelle mani del
dottore.
“La straordinaria pistola organica di carne e ossa attraversa tutto il film, è la stessa che
all’inizio ferisce Allegra, poi nel ristorante cinese viene assemblata da Pikul… per
uccidere il cameriere, il quale la ferisce facendola sanguinare. Quindi ricompare nel
retrobottega dell’emporio dei giochi sotto la branda di D’Arcy Nader e, nella resa dei
91
in eXistenZgioco Ted e Allegra devono scoprire i piani di Yevgeny Nourish, ritornano nella fabbrica di
Pod e li Ted inizia a sentirsi perso nella trama del gioco “procediamo improvvisando continuamente, in
questo informe mondo le cui regole e obiettivi sono sconosciuti apparentemente indecifrabili per non dire
che forse nemmeno esistono…è la descrizione di un gioco che non troverà un mercato” in quanto non
esistendo una trama lineare da seguire nessuno si avventurerebbe per sentirsi smarrito. Ma Allegra risponde
con quella frase, emblematica visto che apparentemente solo loro due ci giocano, in realtà vedremo alla fine
molti di più (o forse tutti?).
conti finale sulla collina, nelle mani di Kiri Vinokur…potrebbe costituire una sorta di
manifesto estetico del film.”92
Il rettile anfibio a due teste da cui è composta compare in tutti e due livelli di realtà.
Quando alla fine il senso salta e le due realtà si confondono, i personaggi del gioco
entrano nel livello di realtà che ritenevamo autentico.
Il dottore che li aiuta nello chalet ripresenta la pistola che un cane ha preso nel ristorante
cinese del gioco “il mio cane mi ha riportato questa”, lo stesso identico cane che riporta la
stessa pistola al cassiere del negozio di elettronica “il suo cane mi ha riportato questa” e
che stranamente (anche se non del tutto visto che la fine è aperta a qualsiasi
interpretazione) compare alla fine quando tutto si rivela un gioco e per l’ennesima volta è
portatore di armi.
Se l’intero film con la “ sua struttura narrativa, le situazioni, gli ambienti, i personaggi
ricordano spesso quelli del videogioco”93 gli elementi di continuità nella narrazione, come
il cane, la pistola o la pettinatura di Allegra94 possono essere equiparati a dei link che
stimolano il collegamento mentale da una sezione all’altra della narrazione, il
collegamento non è immediato e interattivo, ma risulta semplice se col telecomando si
torna indietro.
Questo film oltre a parlare di tecnologie, realtà virtuale, e protesi tecnologiche offre una
riflessione sul cinema. Strutturato come un videogame il film rimane un film, ovvero
Cronemberg non vuole forse mostrare ciò che potrebbe accadere in un futuro nel campo
delle simulazioni a scopo ludico, ma forse cerca di mostrare ciò che potrebbe accadere
all’interno dell’universo cinematografico. Gli utenti di traScendenZ non partecipano ad
un gioco ma ad un film tanto la resa è reale, chi viene eliminato, ne rimane spettatore,
proprio come noi e quando all’ultima scena ci viene puntata la pistola e si presume parta
il colpo, siamo fuori dal gioco ovvero dal film.“Nel film di Cronenberg la
rappresentazione del gioco diviene infine metafora stessa del cinema: il regista, come
Allegra, allestisce per noi un videogame che nella sua irrealtà - o virtualità - ci costringe
a 'giocare', assecondandone le regole - altrimenti non vivremmo l'incanto della narrazione
92
da Pier Luigi Cappucci “Giocare per vivere. eXistenZ” pubblicato nel libro Michele Canosa ( a cura di)
David Cronemberg:la bellezza interiore Le Mani 2005
93
da Pier Luigi Cappucci “Giocare per vivere. eXistenZ” pubblicato nel libro Michele Canosa ( a cura di)
David Cronemberg:la bellezza interiore Le Mani 2005
94
Per non perdersi nei vari livelli, anche i capelli di Allegra sono sistemati in tre modi diversi; ricci nel
livello eXistenZ, ricci e lisci nel livello traScendenZ e completamente lisci nel livello “realtà”.
- ma nel continuo riferirci alla nostra realtà di spettatori - quella vera, oggettiva, non
irreale e proiettata dentro lo schermo-. 95
Il senso del film, e la sua stessa costruzione sono continuamente interrogati dai
personaggi stessi del film; il gioco eXistenZ ha bisogno di diversi utenti altrimenti ci si
riduce ad essere turisti in un film, la stessa costruzione dei dialoghi, è una sceneggiatura
già scritta, a cui il personaggio deve adattarsi e farsi trasportare da questa, la trama non
procede oltre se non viene rispettato il dialogo (“devi partecipare al gioco per scoprire
perché partecipi al gioco…è il futuro Pikul”) e il personaggio va in loop, ovvero in
ripetizione continua, come la trama del film che ripete con alcune differenze il tema
scenografico della chiesa all’inizio e alla fine, e l’uccisione del game designer.
Il gergo cinematografico è presente nei dialoghi stessi, quando Allegra cerca di
convincere Gas a non farsi uccidere chiede: “ma non ci vai mai al cinema?” come a dire
non puoi uccidere adesso il protagonista, il film cesserebbe, ma lui ribatte: “La tua
sceneggiatura mi piace, voglio una parte anch’io” ovvero se ti uccido avrò più rilievo che
una semplice comparsa. Gli attori diventano entità autonome, dotate di un forte
individualismo, non esitano a cambiare continuamente ruolo e livello per apparire nella
trama, ovvero per esistere.
Alla fine quando alcuni dei personaggi ritornano in scena Ted quasi si ribella, “Che ci fa
qui questo personaggio? è il cassiere del negozio di elettronica”.
Il tema non è nuovo, Pier Luigi Capucci ricorda nel suo saggio “Giocare per vivere.
eXistenZ” (pubblicato nel libro Michele Canosa David Cronemberg:la bellezza interiore
Le Mani 2005) Pirandello e il suo “Personaggi in cerca d’autore”. Qui tuttavia vi sono le
nuove tecnologie che come afferma Castells hanno enfatizzato l’individualismo di inizio
novecento e nel cinema gli stessi attori con coscienza tecnologica si autodistruggono l’un
l’altro come in videogioco o gioco di ruolo per affermare la loro esistenza.
Gas infatti arriva a definirsi come un Dio, è un meccanico, e il Dio-giocatore, in un altro
gioco di Allegra altro non è che un meccanico che costruisce il proprio mondo; come non
pensare alle recenti costruzioni di realtà virtuale in rete come second life.
Inoltre Allegra quando spiega l’entrata nel gioco eXistenZ a Ted, usa la terminologia
cinematografica: “può essere uno stacco netto, una dissolvenza, un morphing” e proprio
uno stacco netto avviene tra la scena dell’amplesso nel retrobottega del negozio di
elettronica e il vivaio di trote dove inizia un'altra sequenza, ma l’audio è per alcuni
95
da “eXistenZ di D. Cronenberg: giocare per vivere lo statuto dell'immagine fra tensione realista e realtà
virtuale” Comunicazione Filosofica n. 11 ottobre 2002 a cura di Cristina Boracchi.
secondi quello della scena precedente e si impone sul viso di Ted per farci intuire come si
è conclusa la scena precedente. In fondo siamo sempre in un film.
La scenografia sembra essere criticata dagli attori verso il regista, soprattutto la scelta di
rendere tutta l’ambientazione del film asettica senza particolari per dare l’impressione di
essere in un gioco, Ted dice infatti: “non sono sicuro che qui dove siamo sia una
situazione reale, anche qui sembra un gioco e tu inizi a sembrare un personaggio del
gioco” facente parte dell’arredamento.
La scena finale del ritorno alla “realtà” tutti gli attori si trovano in cerchio (anche il cane!)
a discutere sui loro ruoli e la recitazione, sullo sviluppo della trama e i colpi di scena,
nonché dei momenti di noia, e non mancano le critiche; lo stesso disegnatore o regista del
gioco si sente a disagio dalla trama da lui pensata e dal tema anti-game designer che è
stato sottolineato dagli attori.
La rana-salamandra-lucertola una delle chiavi del film o uno dei link dell’ipertesto gioco,
è per Allegra un segno dei tempi, quello della combinazione genetica, ma essendo
completamente un’animazione può essere l’emblema delle nuove tecnologie nel cinema
come la computer graphic, l’animazione in 3D, il connubio di realtà fotografica e realtà
simulata.
L’attacco al database
“Smetti di giocare, se ci riesci, vuol dire che sei libero.”
Tutto il genere cyberpunk nel cinema nella letteratura e nei fumetti offre un vasto
repertorio di come la tecnologia pervaderà in un futuro indefinito, città e uomini, offrendo
la metafora di ciò che già c’è o la paura e le visioni di ciò che potrebbe essere.
Caratterizzati da scenari apocalittici in cui qualcuno è in lotta col sistema che di solito è
rappresentato dalle multinazionali che producono tecnologia, o dalla tecnologia stessa
(vedi la trilogia Matrix), la storia si muove all’interno di una narrazione non lineare,
attraverso salti temporali, spaziali in luoghi periferici. Sembra che la logica del database
pervade ogni aspetto di questi film; ma come? Attraverso lo spazio, il tempo ed i
personaggi, e infine nella memoria.
In film come Blade Runner, Strange Days, Matrix lo spazio per lo più ostile, non offre ai
personaggi un senso di comunione con l’ambiente circostante.
Si entra ed esce da una zona e lo si dichiara, non c’è una vera e propria continuità , le
zone seppur collegate e facenti parte di una stessa realtà o città sono autonome in se
stesse, i protagonisti devono superare dei livelli, delle prove, o nel minore dei casi solo
una perquisizione ad alta tecnologia per accedervi. Questo rende la percezione dello
spazio alquanto indeterminata, non riusciamo a capire se esiste realmente; in eXistenZ il
salto da un luogo all’altro, reale o virtuale, verso la fine del film ci proietta in uno spazio
che non riconosciamo più come reale, ovvero siamo in dubbio su tutto ciò che vediamo,
se effettivamente la realtà di trasCendenZ sia quella reale o un altro livello del
videogioco,in quanto la copia è l’esatta riproduzione di quella che dovrebbe essere la
realtà, come quando diciamo che anche la nostra realtà è solo il frutto personale delle
nostre percezioni. Smarrimento provato non solo da noi spettatori ma anche dai
personaggi stessi del film; nella scena finale quando il vero ideatore del videogioco è
minacciato, un giocatore che si è prestato al test dice “ ditemi la verità, siamo ancora nel
gioco?” In Matrix vi è la separazione tra lo spazio reale, mondo delle macchine e della
città di Zion, e quello virtuale o quello di Matrix in cui gli “scollegati” entrano ed escono
attraverso la linea telefonica in qualunque parte dello spazio matrix come i protagonisti di
un videogioco. Un videogioco è ancora una volta alla base del film Nirvana. Lo spazio di
Solo, il protagonista del videogioco che da il nome al film, è fortemente delimitato, vi si
aggira superando inconsapevolmente vari livelli incontrando le difficoltà poste dal
creatore Jimi, ritrovandosi dopo ogni morte nella soffitta in legno in un quartiere cinese.
Il database progettato da Jimi diventa più che un labirinto, più che una rete, una prigione.
La grande città di Nirvana, chiamata “agglomerato del nord” fra degrado e confusione
urbana è divisa in zone nettamente separate: Marrakech, Shangay Town, Bombay City, le
sopraelevate, in cui i protagonisti si muovono spinti in una catena di collegamenti da un
posto ad un altro verso degli scopi precisi: la ricerca di Joystick, Lisa, la ricerca di un
virus indiano. Bombay city l’ultimo livello, si trova nel sottosuolo, i protagonisti devono
scendere accanto alle caldaie che servono a riscaldare la città in superficie attraverso un
ascensore la cui ultima destinazione è la città sotterranea, che appare diversa da tutte le
altre; ogni città è un mondo a se con le sue regole e religioni, che convive però
inevitabilmente con gli altri come i livelli in un videogioco o le pagine della rete Web.
Solo il protagonista del gioco Nirvana, vedrà dietro l’armadio, dal fondo della tana del
Bianconiglio, il limite del suo mondo.
Nirvana, di Gabriele Salvatores uno dei pochi film italiani ad alto coefficiente
tecnologico, che prendo in considerazione è da ritenere emblematico, ( nonostante troppe
ovvie soluzioni o scenografie alla Blade Runner) non solo per il caso di Solo, il
personaggio del videogioco che dopo aver assunto una coscienza preferisce la distruzione
piuttosto che la vita in un database di scelte finite, o per il tema della tecnologia nel futuro
e i suoi effetti, della coscienza e del corpo, ma anche per la stessa costruzione diegetica
del film.
Il film si costruisce su più livelli, narrativi e temporali. Diversi nuclei a se stanti sono
collegati attraverso il montaggio e il filo della narrazione che comunque non si perde.
Abbiamo la situazione di Solo nel videogioco che supera vari livelli mentre tenta di
convincere Maria la prostituta italiana, della realtà del videogioco; la ricerca di Jimi di un
modo per cancellare il gioco dall’Okosama Star; l’inseguimento e la conoscenza dei suoi
aiutanti; la storia di Joystick e di Naime e la sua breve relazione con Jimi; la separazione
tra Lisa e Jimi, e il “volo” per entrare nella banca dati della multinazionale informatica in
cui il gioco è custodito. Reale e virtuale, passato, presente e futuro, e ripetizione
dell’uguale.
Il film inizia con un rewind sul viso sgranato di Lisa, su una sua registrazione che ha
lasciato a Jimi prima di lasciarlo, poi la voce narrante fuori campo di Jimi inizia a
raccontare ciò che succederà sino al momento del volo nel Chelsea hotel, seguita da una
scena di Solo che frastornato all’inizio del gioco sembra essersi svegliato da un lungo
sonno, quello della non consapevolezza.
I salti temporali non sono inusuali nella storia del cinema, anzi fanno parte del suo
linguaggio, nonché dei modi in cui una storia può essere narrata, molte avanguardie e
registi più recenti come Lynch ma soprattutto Tarantino hanno tentato di far cadere la
sensazione della narrazione proponendo salti di tempo e di senso. Tuttavia in questo film
il salto temporale che abbiamo di fronte è sull’atemporalità, ovvero su un mondo quello
del videogioco, in cui la percezione dello spazio e del tempo viene a cadere nell’eterno
ritorno; Solo ha la sensazione di aver detto o sentito quelle frasi da Maria molte volte ma
effettivamente non sappiamo quante. In questo è molto più simile a eXistenz, in cui venti
minuti del gioco si trasformano in giorni, e meno a Matrix in cui il calco della realtà è
totale. Inoltre in Nirvana l’altro nucleo di narrazione, la storia di Lisa si fonda su quello
della memoria, e quindi non abbiamo un’azione che si svolge ma che viene ricordata
attraverso filmati, voci fuori campo, evocata e immaginata da Jimi, da Naime attraverso
la memoria che Lisa ha lasciato e durante il tentativo del sistema dell’Okosama Star di
bloccare il volo nel database. “E’ come se tu mi avessi chiusa in uno dei tuoi mondi” dice
Lisa in una sua registrazione, un cassetto che si apre nella memoria di Jimi e nel film, e la
troverà alla fine in Bombay city “nelle viscere dell’agglomerato dove la ragione non serve
più, passato presente e futuro danzano insieme”96 nella forma di un microchip ayurvedico,
un database di ricordi, suoni, odori della sua vita passata, creato alle soglie della morte.
La protesi della mente di Lisa diviene così immortale pronta ad essere rivissuta.
Salvatores in un’intervista dice: “C'è una coincidenza in molte filosofie orientali, nel
buddismo, nell'induismo ed è il concetto della reincarnazione per cui l'uomo è costretto a
rinascere in un ciclo continuo di vita e di morte da cui riesce a staccarsi solo se raggiunge
la pace assoluta del Nirvana: il personaggio di un videogioco, in fondo, ripete
costantemente la sua vita dall'inizio alla fine, è costretto a rifare in eterno le stesse
esperienze.”97
Lo scopo del film si profila quindi come l’arrivo a Lisa sottoforma di una base dati
portatile e l’entrata in un altro database, quello della Okosama Star da cui dovrebbe essere
cancellato il gioco, sia Solo che Jimi impigliati in una vita che non ha sbocchi, tentano di
sovvertire il sistema tentando un attacco al database, ma Solo non può andare oltre le
scelte programmate dal game design e Jimi non può sovvertire il sistema; tutti e due
troveranno l’oblio.
96
97
da “Nirvana” di Gabriele Salvatores, Cecchi Gori produzione 126’ Italia 1996
da un intervista a Gabriele Salvatores su http://www.delos.fantascienza.com/delos19/nirvana.html
Il film finisce con un rewind anche questa volta come nell’inizio, ma a rivedere tutto il
film con gli occhi di Naime che ritorna in rete. E la scritta “Naime on line” annuncia
l’inizio di qualcos’altro, tutto si riavvolge e forse riparte dalla stanza ben arredata di Jimi
pronti ad una nuova partita.
Capitolo quarto
Tutti all’interno di un database.
La società in un database: potere e controllo.
La rivoluzione digitale, ha dato avvio a numerose discussioni in ogni campo di studio e di
lavoro; non solo ha sollevato il problema dell’identità dell’opera d’arte, e quale nuove
forme culturali può apportare ma molti studiosi si sono chiesti in che modo altri settori
della vita quotidiana possono aver subito variazioni, come l’economia, la politica, il
sistema dei media ecc… e fra questi ha portato alla ribalta la questione della sorveglianza,
sollevando il problema della privacy e sottolineando i coinvolgimenti politici del
“monitoraggio” sociale, dovuto ad una stretta collaborazione con le nuove tecnologie, ad
un aumento esponenziale della capacità di memoria e quindi di contenimento, scambio e
reperimento delle informazioni.
Nel 1988 lo studioso australiano Roger Clarke, coniò il termine “dataveillance” (data
surveillance) parlando di difesa della privacy. Se fino a pochi anni fa la sorveglianza,
rivolta ad una persona o alla massa (gruppo di persone) era svolta con tecniche che
presupponevano scarso equipaggiamento tecnico adesso si è passati ad un controllo
sistematico; insieme alla sorveglianza fisica che comprende quella visuale e quella
d’ascolto, si aggiunge quella che si attua attraverso la comunicazione e quella elettronica,
ma soprattutto quella legata al sistema di dati personale (personal data systems) che viene
usata sistematicamente nel monitorare e nell’investigare azioni e comunicazione di una
persona identificata o di un gruppo di persone. Di solito viene usata quando vi è un
motivo particolare o per azione deterrente riguardo alcuni comportamenti e viene
effettuata attraverso l’incrocio di diversi database.
I nostri dati sono posseduti non solo dagli uffici della pubblica amministrazione, ma
anche nelle banche, nelle università, nella rete ospedaliera, nelle biblioteche, e i nostri
spostamenti, le nostre azioni, i nostri acquisti sono rintracciabili da ciò che usiamo per
compierli: carte di credito, telefonini, badge. Accanto a tutto ciò in questi spazi e nelle
strade molto spesso siamo sorvegliati da telecamere.
Alcuni artisti di un gruppo con sede a New York hanno elaborato alcuni progetti per
criticare questa forma di sorveglianza ritenuta pervasiva, che lede la privacy di un
normale cittadino, attraverso la messa in scena di opere teatrali dinanzi le telecamere e
SVEN un sistema basato su un algoritmo che consente di indicare tramite telecamere
installate per le strade persone che assomigliano alle celebrità (invece che a criminali o
terroristi, come accade nel caso delle vere telecamere di sorveglianza) individuando i
passanti e le loro caratteristiche mentre un’altra applicazione usa queste informazioni per
creare immagini simili a quelle dei video musicali. Il risultato viene proiettato su di un
monitor.
Alcuni fatti di cronaca e attualità possono essere degli esempi probanti di questa parte
della dissertazione tesa a dimostrare come le nuove tecnologie entrate di diritto nella vita
di tutti i giorni a volte si rivelano un’arma a doppio taglio; ovvero se il computer offre
illimitate possibilità di creazione e facilità di lavorare e reperire informazioni, il database
come abbiamo visto ci offre la possibilità di avere informazioni e dati che richiamiamo
subito per poi ricreare, nello stesso tempo i nostri dati in un enorme database globale
possono essere processati allo stesso modo, scambiati e usati da agenzie governative, per
la sicurezza, ma anche per questioni commerciali e quindi da privati anche senza il nostro
diretto consenso o conoscenza.
L’uso delle tecnologie nella vita quotidiana ci rende dipendente da rapporti sempre più
incorporei ovvero slegati da un rapporto diretto vis a vis, e la nostra identità sembra
essere delineata nei database, questo perché le banche, gli uffici, le università richiedono
un’iscrizione con tutti i nostri dati e la rete spesso richiede l’utilizzo dei dati personali per
scopi commerciali pena l’avanzamento della navigazione o l’uso del servizio, e ad un
livello generale in questo sistema dei media, il controllo dell’informazione, il database di
tutte le informazioni di tutti i cittadini rappresenta un potere molto forte se controllato.
Nella Cina in cui vige una dittatura comunista aperta ai mercati capitalistici occidentali,
l’uso di Internet è l’emblema del controllo che il governo autoritario attua sulla
popolazione; non solo vengono registrati tutti i movimenti di un utente nella Rete e
sottoposti al controllo ma vengono posti dei filtri potenti sugli accessi per determinare
l’inaccessibilità ad alcuni siti che potrebbero contenere contenuti ma anche solo parole
contrarie al regime. Valgono a poco le proteste degli studenti per una maggiore libertà
dell’uso della rete represse violentemente. La libertà di parola è naturalmente
compromessa, chi osa creare contenuti illegali incorre a gravissime pene, molti
intellettuali devono emigrare all’estero per poter gridare l’ingiustizia e usare i nuovi
media come mezzo per esprimere la loro idea.
Se la Cina usa la sorveglianza della rete ad azione deterrente, in un governo democratico
dove la libertà di parola ed azione è un diritto acquisito l’accumulo dei dati avviene per lo
più attraverso la burocrazia per la delineazione di un profilo di ogni cittadino, a cui si
aggiunge il segno che ognuno lascia con ogni suo movimento che è registrato da tracce
elettroniche e telecamere.
Le nuove tecnologie servono ad aiutare questi flussi d’informazione e a incrociarli; i
detentori di questi possono così avere il controllo su questi dati, ma per quale scopo?
Se prendiamo alcune notizie di recente attualità italiana la situazione sembra problematica
e sconfortante; il caso SISMI esploso qualche tempo fa ci porta a pensare come l’attività
di archiviazione e sorveglianza possa persino mettere in discussione la stessa idea di
democrazia: controlli e schedature di privati cittadini, colpevoli solo di aver espresso le
proprie opinioni come giornalisti, opinionisti, sindacalisti oppure magistrati che
potrebbero risultare scomodi, e soprattutto altri funzionari dello Stato, sono stati eseguiti
dai servizi segreti per non si è chiarito bene quale scopo. Di sicuro è il controllo e la
capacità di tenere in pugno qualcuno nel caso in cui il proprio dossier dovesse
rappresentare un motivo di discredito della persona.
Un caso del genere, scrive Giuseppe D’Avanzo giornalista di Repubblica, in un articolo
che è stato un vero tam tam nella rete, “In qualsiasi altro - appena decente - Paese
dell'Occidente, che un premier sia spiato da una grande azienda privata di
telecomunicazioni sarebbe una notizia coi fiocchi. "Terrebbe" la prima pagina per
settimane. Scatenerebbe la curiosità preoccupata dell'opinione pubblica. Solleciterebbe il
Parlamento a interrogarsi. Magari convincerebbe quelle distratte aule vocianti a istituire
addirittura una commissione d'inchiesta. In un qualsiasi altro Paese dell'Occidente
accadrebbe di tutto tranne che la notizia coi fiocchi diventasse una notiziuccia presto
seppellita da una coltre di silenzio.”98 Per lo meno ci rimane la rete. Il web in queste
situazioni diventa territorio dove l’espressione e la ricerca di verità trovano un territorio
fertile. Per questo internet diventa territorio conteso degli stati la cui architettura aperta,
fluida e orizzontale rappresenta – addirittura- un pericolo, o comunque uno spazio da
gestire e controllare.
98
(fonte web: http://www.comincialitalia.net/interna.asp?id_tipologia=2&id_articolo=899)
Le società cambiano attraverso cambiamenti politici e conflitti. Se il web diventa un
territorio conteso lo è per il fatto che è diventato un media usato dalla società per svolgere
qualunque attività, e sia i movimenti sociali che quelli di potere, lo useranno per
informare, organizzare dominare e opporsi. Castells nel suo Galassia Internet individua
in questo territorio, in cui possono avvenire delle trasformazioni, quattro aree di
convergenza e attrito delle forze sociopolitiche e il loro conflitto. I movimenti sociali o
chiunque voglia far sentire la propria voce usa internet: sindacalisti, ambientalisti, donne,
diritti umani, movimenti religiosi, “il cyberspazio è diventato un agorà elettronica globale
dove la diversità del malcontento umano esplode in una cacofonia di accenti.” 99
Ci sono delle ragioni per cui i movimenti sociali si affidano alla rete. Primo fra tutti è che
molto spesso l’informazione nei canali tradizionali
è altamente filtrata e lo spazio
riservato all’espressione libera è quasi inesistente. Poi i movimenti sociali sono mobilitati
attorno a valori culturali, che identificano una classe o comunque un gruppo sociale che si
riconosce intorno a questi. L’uso di internet aiuta la comunicazione dei movimenti sociali
che possono aprirsi a largo raggio verso una maggiore mobilità ampliando la fetta di
pubblico.
Oggi i partiti politici di massa esistono in quanto macchine messe in moto per le elezioni,
i sindacati si organizzano burocraticamente come le grandi corporation o agenzie statali, i
pochi gruppi che si mobilitano lo fanno come coalizioni libere che possono apparire
neoanarchiche.
A Seattle nel 1999, un gruppo di persone in rete dopo un dibattito acceso che durò giorni
attorno alla riunione della World Trade Organization che discuteva di scelte geopolitiche
per una globalizzazione senza rappresentanza, si organizzò più o meno spontaneamente
per una manifestazione pacifica che avrebbe dovuto bloccare questa riunione. Dopo il
polverone alzato da questa azione tutti i media si interessarono ma fu internet lo spazio in
cui questo dibattito continuò e si espanse per tutto il mondo creando forum di discussione
ed un movimento vero e proprio che per la sua natura fluida, essendo nato nella rete, non
ha un’organizzazione vera e propria e non si può imbrigliare tanto facilmente. Così
nacque il movimento dei no-global, poi new global.
Questi movimenti dipendono da internet quindi sia perché nascono dalla rete, sia perché
ne dipendono per il loro bisogno di “globalizzazione” ovvero di coalizione con il più
ampio numero di persone possibili disperse in ogni angolo del globo, partendo dalle
questioni locali a quelle globali.
99
da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Editore Milano 2002
A livello locale la rete è stata molto utile nella costruzione di reti civiche di città come
Amsterdam o Bologna che diventate bacheche elettroniche sempre aggiornate permettono
a tutti i cittadini di accedere alla vita cittadina. Infatti uno Stato democratico che mette a
disposizione informazioni politiche e rende interattivo il confronto con le istituzioni
potrebbe rendere il concetto di democrazia tangibile, ovvero di un popolo che controlla
l’operato dello stato.
Ma nei fatti il confronto con i cittadini non è poi cosi chiaro. Le informazioni date sono
poche e l’interattività non va oltre alla bacheca elettronica, cercare un’informazione sul
sito dei ministeri potrebbe dire perdersi in un labirinto.
La televisione, la radio e i giornali rimangono tuttora i canali preferiti dalla politica in
quanto privilegiano un’attenzione passiva da uno a molti, forse per il carattere di
incapacità della politica di offrirsi quale reale confronto con il popolo. Quello che
Castells lamenta è infatti una crisi della democrazia e della politica, basata sull’immagine
del candidato a cui si deve dare fiducia, e i media rappresentano l’intermediario adatto
quando il consenso può venire dall’immagine che il candidato riesce a far trasparire ai
cittadini. Internet cosi si ritrova ad essere un canale orizzontale, poco controllato, a cui si
rivolgono i giornalisti indipendenti, o anche quelli che scrivono per una nota testata
hanno poi il blog personale in cui approfondiscono eventi e pareri in un confronto con il
lettore. Per Castells internet si rivela quindi un mezzo efficace affinché la democrazia si
dimostri o per lo meno ne può contribuire alla costruzione.
Ma se questa agorà viene posta sotto controllo si può ancora parlare di democrazia o
possiamo iniziare a parlare di un futuro alla Big Brother?
Gli Stati Uniti, genitori di Internet e il cui primo emendamento è quello della libertà di
parola, è fra le prime nazioni che cerca costantemente di imbrigliare e porre sotto
controllo la rete sin dal governo Clinton, attraverso la repressione della pedofilia, per
arrivare al governo Bush, che ha varato una serie di leggi che sono al limite del diritto
della privacy, estese per tutta la popolazione in ogni aspetto, nel nome della sicurezza
nazionale soprattutto dopo la guerra in Iraq e l’avvento di un terrorismo non controllato.
D’altronde “ il controllo dell’informazione è sempre stato l’essenza del potere statale
nella storia”100 quindi anche il concetto di privacy può essere violato? Le nuove
tecnologie considerate per la libertà si affiancano a quelle di controllo. Nel libro di
Castells vengono analizzate quelle attuate nella rete:
100
da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Editore Milano 2002 pag. 162
“esistono tecnologie di identificazione, sorveglianza, e d’indagine. Tutte si fondano su
due assunti: la conoscenza asimmetrica dei codici nel network e la capacità di definire
uno spazio specifico di comunicazione suscettibile di controllo.”101
Per quanto riguarda la rete quindi l’accesso di un utente viene segnalato da un indirizzo
IP dato dal server a cui ci si connette che ha l’identità di quell’indirizzo, spesso infatti
governi, tribunali chiedono queste informazioni al provider per poi seguire giorno e notte
i movimenti sulla rete di un utente o per identificarlo nel caso di un reato.
In teoria queste informazioni dovrebbero rimanere taciute per garantire l’anonimato
anche se spesso vengono richieste o comprate dal mercato che richiede informazioni sui
singoli utenti per delinearne un profilo a cui rivolgere richieste di vendita. Ma la
questione principale è che se il punto di accesso è limitato da filtri e i provider controllati
dai governi, il controllo può diventare totale.
In una dittatura i filtri nell’accesso e i controlli e gli accordi del governo con i service
provider sono destinati al controllo e alla soppressione di qualsiasi forma di malcontento
e focolaio di rivolta, in questo modo ogni utente quando accede è controllato e può essere
risalito sino al domicilio. Ma in una democrazia dove la libertà di pensiero e parola è
garantito dalla legge, i governi tentano di accedere al profilo dell’utente e ai suoi dati nel
caso in cui si sia verificato un reato come la pedofilia ma soprattutto per questioni
politiche ed economiche. I singoli partiti avendo un database di informazioni sui profili
della popolazione possono indirizzare la campagna politica a seconda dei gusti e dei
bisogni dei cittadini. Ma ancora di più, nei paesi democratici la tirannide sembra essere
diventata quella economica. I profili degli utenti sono infatti molto ambiti da ogni
impresa per questione di marketing e di vendita del prodotto che può avvenire in maniera
mirata sia online che offline. Se prendiamo il servizio di mail che Google mette a
disposizione possiamo notare come le email o meglio lo spam che arriva giornalmente sia
abbastanza mirato sul gusto dell’utente o sugli argomenti di conversazione che intrattiene
con i suoi contatti. Se abbiamo spedito un’email ad un amico parlando di un concerto,
poco dopo ci arriverà un’email con un collegamento al sito in cui è possibile comprare
biglietti online. È senza dubbio più che un problema di libertà un problema di privacy.
Come ammette Castells è anche un problema di censura che potrebbe interiorizzarsi; se
infatti sappiamo di essere osservati nel momento in cui parliamo in rete, navighiamo,
potremmo non comportarci liberamente una volta che siamo consci che “non è il grande
fratello, ma una moltitudine di piccole sorelle, agenzie di sorveglianza ed elaborazione
101
da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Editore Milano 2002 pag. 163
delle informazioni che registrano per sempre il nostro comportamento e formano un
database che accompagna la nostra vita a partire dal DNA e dalle caratteristiche personali
(la nostra retina, le nostre impronte digitali come contrassegni digitali).” 102
David Lyon professore di sociologia alla Queen’s University di Kingston, nell’Ontario,
nel suo libro La società sorvegliata che continua la ricerca cominciata con L’occhio
elettronico del 1994 in cui già evidenziava il ruolo delle tecnologie digitali nella gestione
dei dati raccolti intorno alla popolazione, delinea uno dei caratteri principali della
postmodenità e si chiede principalmente se la società dell’informazione possa essere
definita una società sorvegliata. Questo cosa significa e come potrebbe accadere?
Principalmente attraverso la moltiplicazione di
agenzie che monitorano il settore
lavorativo, la posta elettronica, la navigazione in rete, le pratiche di consumo.
L’inserimento di Pin, password, schede con striscia magnetica, telecamere sono entrati a
far parte della prassi quotidiana.
La permeabilità tra settori privati, economici, e pubblici è data dalla connessione di flussi
d’informazione raccolti in banche dati connesse tra loro.
La Gran Bretagna si è affermata come uno dei paesi più all’avanguardia nella messa a
punto di tecnologie di sorveglianza basate sulla ricognizione visuale. Nel centro di
Londra le targhe delle auto sono monitorate da potenti telecamere in grado di risalire alla
vettura e quindi al proprietario individuando eventuali disarmonie per la sicurezza
pubblica; se per esempio la macchina risulta rubata o si attarda per molto tempo nel
centro può essere fermata per un controllo.
“We are spending £ 80 million watchig over you” recitava il famoso slogan di un
manifesto che pubblicizzava l’installazione di telecamere a circuito chiuso nella
metropolitana londinese.
L’immaginario letterario e quello cinematografico – si pensi a Nemico pubblico, Crimini
invisibili e Minority Report – hanno manifestato la crescente preoccupazione riguardo la
diffusione delle pratiche di sorveglianza, aiutate dalle nuove tecnologie.
La complessa rete di tecnologie e informazioni supporta la società del ventunesimo
secolo, il sogno di informatizzare ha percorso diverse regioni per diversi periodi ed è
sempre più in crescita e siccome le sfere sociali, politiche economiche e culturali sono
implicate nella crescita economica e tecnologica per Lyon la società dell’informazione
diventa una società sorvegliata.
102
da “Galassia Internet” di Manuel Castells Feltrinelli Editore Milano 2002 pag. 172
Per lui società sorvegliata è principalmente una società in cui la vita e i suoi movimenti
diventano trasparenti, e tutti i movimenti vengono registrati in degli insiemi di dati
posseduti da agenzie con lo scopo di influenzare la vita stessa. Verifica vocale, impronte
digitali, scansione della retina, sono dispositivi che si stanno diffondendo sempre di più
nel settore privato ma soprattutto pubblico.
“Tali società prestano ai dati un’attenzione più sistematica e intensa di quella dedicata
loro da qualunque altra società che storicamente le ha precedute.” 103
Lo scenario ipotizzato da Lyon che potrebbe sembrare catastrofico o per alcuni versi
distopico ma che respinge la tesi di cospirazione delinea un’ “orchestrazione sociale” in
cui le infrastrutture per l’informazione create e interconnesse con altri sistemi operano a
seconda degli stati nazionali e del loro sviluppo tecnologico e dettati costituzionali, in
modo poco percepibile, per agenzie addette al monitoraggio. Monitoraggio che diviene
un fenomeno sociale generalizzato in cui “la gente comune di solito collabora” 104 per
disinformazione, paura del terrorismo o della criminalità urbana.
Per prima cosa società dell’informazione si intende una società che si regge su un ampio
apparato burocratico, e sulla raccolta e registrazione di dati personali.
“Modernità significa fare affidamento sull’informazione e la conoscenza, al fine di
generare e mantenere il potere. E poiché la maggior parte dell’informazione è costituita
da dati personali…”105 il modo per ottenerli è attraverso la sorveglianza. Ecco spiegato il
concetto di società dell’informazione sorvegliate.
I diversi settori in cui avviene la raccolta di dati con le nuove tecnologie si collegano l’un
l’altro. Questo secondo Lyon parte da lontano, quando le tecniche di sorveglianza per la
sicurezza di uno stato vennero adoperate anche nel contesto economico-capitalistico. Le
aziende hanno esteso le ricerche di mercato a vere e proprie raccolte di dati relative ai
consumatori, agli addetti delle proprie aziende e alle aziende concorrenti. Vi è un calcolo
del rischio secondo cui è permesso che diversi database collaborino grazie anche alla
potenza di calcolo e memoria delle nuove tecnologie per una ricerca.
Sul posto di lavoro la sorveglianza si è smaterializzata e dipende dalla rete, in quanto il
lavoratore flessibile è sempre più spesso un lavoratore ad orari elastici e dipendente dalle
nuove tecnologie. Il controllo della posta di un dipendente sul posto di lavoro è diventato
normale, quello che più stupisce è la ricerca nei database delle informazioni relative ad un
103
da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag. 38
da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag. 40
105
da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag. 41
104
possibile dipendente una volta che viene presentato un curriculum, oppure il controllo sul
posto di lavoro attraverso telecamere o webcam attraverso le quali un datore di lavoro
anche se lontano può tenere sotto controllo l’operato del suo ufficio. Quindi telefono,
casella email, uso di internet possono essere monitorati nel nome dell’efficienza del
lavoro.
Per quanto riguarda il consumatore il discorso è più complesso. Quello a cui si rivolgono
le aziende è un mercato distinto fatto di piccole nicchie in cui il consumatore è
personalizzato. Spesso carte di credito e acquisti in rete o nei negozi lasciano una scia del
consumatore che diviene accessibile per crearne un profilo ed inserirlo in delle nicchie di
mercato.
La distanza si è sempre più affievolita i flussi comunicativi su cui viaggiano i dati si sono
allargati ad una situazione planetaria, hanno subito il processo di globalizzazione
economica; nella rete “identificare, classificare, standardizzare, ordinare e controllare
sono azioni che sintetizzano anche gli scopi degli operatori di mercato che, ora più che
mai pensano glocalmente”106 anche quando effettuiamo un accordo, un contratto o anche
quando compriamo un biglietto aereo attraverso internet.
Il database diviene la forma dell’attendibilità per le agenzie “la credibilità del
consumatore può essere misurata tramite essi”107 e l’agenzia si regola in base a questo, il
controllo sarebbe parte di tutto il complesso mediale che tende a valorizzare un’elite di
consumatori e il consumismo in se stesso rappresentato per lo più dall’accumulazione di
beni e di dati.
Per questo il database diviene una forma sociale rappresentativa, del consumismo e del
modo in cui un fruitore viene spinto a consumare di più secondo il suo profilo dato dalla
raccolta, incrocio dei suoi dati fra dati pubblici e registrazioni dirette e spesso solo le
multinazionali possono permettersi tecniche simili. In internet questo avviene per il fatto
che ogni impiego di internet è tracciabile persino per quanto tempo un utente rimane
sopra un sito.
Questo principio su cui si basa l’idea della società e del progresso non deve sembrare del
tutto negativo. I servizi alla popolazione sono progettati e forniti attraverso questo stesso
procedimento come anche l’assicurazione dei diritti. Tuttavia le si da una connotazione
negativa. Questo perché il termine “società sorvegliate” nasce negli anni ottanta da
studiosi quali
106
107
Gary T Marx e David H Flaherty che ipotizzarono una maggiore
da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag.138
da “ La società sorvegliata” di David Lyon Feltrinelli editore Milano 2002 pag.126
pervasività dello stato nella vita privata del cittadino e preoccupazione verso la protezione
delle informazioni e della privacy anche da parte delle agenzie commerciali.
Certo che quando guardiamo un film come Minority Report, non possiamo non notare
come John Anderton ricercato per la previsione di un omicidio, sia rintracciato facilmente
da tutto il sistema di sorveglianza che una volta letta la retina invia le informazioni del
luogo in cui si trova e come in ogni negozio e metropolitana la pubblicità diventa
personalizzata da chiamare persino per nome il povero John. Ma siamo in un futuro
ipotetico, che Spielberg ha creato con il contributo anche di scienziati e studiosi del MIT
per renderlo più fattibile. Se ci spostiamo alla contemporaneità di un film come Nemico
Pubblico la previsione di un futuro possibile sembra già essere realtà. Il protagonista, un
"uomo che sa troppo", viene perseguitato dal National Security Agency allo scopo di
prendere le informazioni che lui possiede inconsapevolmente e neutralizzarlo. Ma non è
neanche cosciente dell’armamentario tecnologico che si mette in moto per dargli la
caccia. La sua vita diventa sorvegliata nella casa, nelle strade, nei vestiti, banche, negozi,
strade, aree di servizio, video di sorveglianza, osservato dall’alto da un satellite, vedrà
prima di capire cosa succede, eliminata la sua vita.
Esempio che condanna abusi ed invadenza attraverso la tecnologia nella vita privata ci fa
porre delle domande legittime; quanto la nostra vita quotidiana è lontana?
La società in un database: il weblog.
Da qualche anno a questa parte sia tra i surfers più accaniti, tra programmatori e web
designer, ma anche tra chi mastica poco di informatica ma usa Internet regolarmente, è
scoppiato il fenomeno del weblog. Il genere, se di genere si può parlare, sta evolvendo
velocemente e la sua definizione è ancora sottoposta a discussioni tra chi lo definisce
diario di bordo o introspettivo, chi una prova di libero giornalismo, chi un’evoluzione
dello stesso principio delle newsgroup o delle community con forma diversa. Quando i
primi patiti del computer iniziarono a capire la complessità e la potenzialità di internet
nella metà degli anni novanta erano in pochi quasi interdetti di fronte alla mole di notizie
allarmistiche che i media proponevano ad ogni cambiamento o piccolo passo avanti visto
come una rivoluzione. Accanto a teorie di un certo peso come quelle di Pierre Levy e
Derrick De Kerckhove si iniziò a parlare di cyberspazio dovuto anche al romanzo del
1984 di Gibson Neuromancer e molti entusiasti preconizzavano un futuro pregnante di
tecnologia in ogni aspetto della vita mentre molti altri un po’ più scettici erano
preoccupati dalla potenza della tecnologia in grado di surclassare ogni aspetto umano.
Parlare della rete era quindi complicato sia per una non conoscenza dell’argomento, sia
per la velocità con cui avvenivano i cambiamenti, sia perché i media molto spesso
filtravano notizie negative non supportate da spiegazione sufficiente. Anche i weblog
quindi hanno sofferto di questi fraintendimenti.
Prima di tutto si deve ripercorrere un po’ di storia del blog nel web.
Giuseppe Granieri in Blog generation definisce il primo weblog come la prima pagina
web concepita da Tim Bernes-Lee in cui vi era una raccolta di pagine di rete con gli
ultimi aggiornamenti in cima. Questo fu l’esempio per “What’s new page” della Netscape
che svolgeva lo stesso compito. Più avanti con l' esplosione del web, apparvero molti altri
weblogs. Tra i primi weblog ricordiamo “Scripting News” di Dave Winer, “Slashdot” di
Rob Malda che è sempre stato uno dei riferimenti maggiori perché popolare soprattutto
tra i primi nerd che si confrontavano su argomenti legati alla tecnologia e alla
programmazione, e “CamWorld” di Cameron Barrett in cui l’autore nell’ultimo post
scrive per l’appunto sull’essenza e la storia del suo blog che quest’anno compie dieci
anni. “ Come vedi, CamWorld parla di me. Parla di chi sono io, cosa conosco, e cosa
penso. […] CamWorld è un esperimento nell’espressione del proprio io. E l’esperimento
non è finito. […] Weblogs comunque sono disegnati per il pubblico. Hanno una voce.
Hanno una personalità. Semplicemente sono un’estensione interattiva di chi sei.”108
Il gusto personale dell’autore ha sempre condizionato commenti e scelta di collegamenti
che hanno permesso la creazione di una fetta considerevole di pubblico attorno ad alcuni
siti che sono diventati popolari proprio per il gusto personale dell’autore che molto spesso
aveva creato quella pagina senza prospettarne l’importanza ma solo per avere ciò che
avrebbe voluto vedere o leggere nel web.
Il boom dei blog agli inizi del Duemila si ebbe quando programmatori e web designer
lanciarono delle piattaforme che offrivano questo servizio ( Blogger, Edit This Page)
anche a chi non aveva delle conoscenze informatiche approfondite. Verso il Duemila si
contarono almeno mezzo milione di blog in cui le conversazioni tra utenti e i link ad altri
blog divennero i principali elementi. In seguito si vide l’approdo di professionisti
dell’informazione che usano il blog per approfondire il loro lavoro, o giornalisti che
tentano un’informazione alternativa e politici che cercano una maggiore visibilità o un
confronto con gli elettori.
Ma cos’è un weblog? Al momento c'è un generale consenso su alcuni elementi comuni
che caratterizzano un weblog. Gli elementi condivisi sono principalmente: la personalità
dell’autore che si riflette nell’architettura del sito e nei commenti di cui ha responsabilità;
i link a contenuti extra o all’interno del sito stesso, e ad altri blog; l’archiviazione dei
contenuti che non sono più in prima pagina; l’aggiornamento continuo che pone gli ultimi
interventi in cima.
Come scrive Granieri essendo figli della rete, i weblogs non sono una cosa
completamente nuova: “osservati da un punto di vista meramente strumentale, sono solo
il modello più semplice di sistema per la gestione dei contenuti. […] lo schema di una
piattaforma base per blogging, potrebbe ridursi ad un modulo per l’inserimento dei testi
in un database e ad un modulo di output che li estrae e li visualizza in una pagina web.”
109
Quindi sarebbe difficile definire tutti i blog dal loro contenuto, in primo luogo possiamo
considerarli un database di testi o come accade più spesso di oggetti multimediali di un
108
“You see, CamWorld is about me. It's about who I am, what I know, and what I think [...]CamWorld is
an experiment in self-expression. And that experiment is not over. [...] Weblogs, however, are designed for
an audience. They have a voice. They have a personality. Simply put, they are an interactive extension of
who you are.”da http://www.camworld.com
109
da “Blog Generation” di Giuseppe Granieri Gius. Laterza & Figli prima edizione Roma 2005 pag.25
blogger che suddivide il blog stesso in sezioni tematiche, molto raramente un blog segue
una linea redazionale unica.
Sono stati considerati dei diari personali anche dall’etimologia inglese log ovvero diario.
Battezzati diario di bordo, poi diario intimo o intellettuale, per lo più ciò che viene scritto
è si la propria esperienza, ma più in generale ciò che qualcuno ha semplicemente da dire.
Per Granieri essi non sono giornalismo, anche se chi scrive è accreditato all’Ordine dei
giornalisti e neanche un genere letterario, anche se raccontano storie: “ I weblogs in fondo
sono l’approdo più semplice e naturale per tutti i materiali destinati alla condivisione e
alla pubblicazione, […] interagendo con facilità con altri strumenti della nostra vita
quotidiana, come i telefonini cellulari e le macchine fotografiche digitali, ad esempio.”110
Dello stesso parere sembra essere anche Rebecca Blood che firma l’introduzione a We’ve
got blog una raccolta di interventi di scrittori del web che hanno espresso la loro idea
sull’argomento: “ un weblog è definito, questi giorni, dal suo formato: una pagina
aggiornata continuamente con la data di pubblicazione e i commenti situati all’inizio, ma
questo ti dirà tutto quello che hai bisogno di sapere.”111
Il motto diventa “ Linka con commenti, aggiorna frequentemente” visto che derivano dal
Web la loro espressione e moltiplicazione dipende dai link.
Questo porta a pensare ai blog come una narrazione in se stessa ma che si pone all’interno
di una più vasta traiettoria narrativa propria della rete e del database; “il risultato è che
nessuno legge un solo weblog, poiché si tratta di un solo nodo in un’opera collettiva e
ipertestuale che tende a configurarsi come un sistema di contenuti”112.
Chi scrive trova l’opportunità di rendere pubblico ciò che scrive se si sente uno scrittore,
e chi legge oltre a trovare ciò che gli interessa o dei consigli anche per questioni
lavorative, è comunque affascinato dalle idee, e dai punti di vista altrui. La possibilità di
avere sempre più informazioni è data dalla disponibilità di link che il sito offre.
Derek M. Powazek in un “opinione personale” scrive sempre in We’ve got blog: “Sono
pieni di link. Sono anche pieni di vita. Guarda Tom che ci racconta sulla sua relazione
amorosa o Jack ci racconta le sue storie. Sono gente reale che mette online le sue vite.
Diario. Weblog. Blah. Puoi chiamarlo come vuoi. Solo continua a farlo.”113
110
da “Blog Generation” di Giuseppe Granieri Gius. Laterza & Figli prima edizione Roma 2005 pag.29
“a weblog is defined, these days by its format: a frequently updated webpages with dated entries, new
ones placed on the top—but that won’t tell you everything you need to know.” da “ We’ve got blog”
A.A.V.V. introduzione di Rebecca Blood pag. ix
112
da “Blog Generation” di Giuseppe Granieri Gius. Laterza & Figli prima edizione Roma 2005 pag. 37
113
“ They’re of full of link. They’re also full of lives. Look at Tom tell us about his love life, or jack tells
his stories. these are real people, putting their lives online. Diary. Weblog. Portal. Blah. You can call it
111
Sempre la connessione e la visibilità attraverso i link contribuiscono a promuovere un
weblog da un altro, a renderlo più visibile e popolare. La paura per molti è sempre stata
come si può discernere qualcosa di buono e qualitativo se ognuno può pubblicare
qualsiasi cosa sullo stesso piano. Oramai pochi utenti non hanno il proprio spazio con un
blog o un vero e proprio weblog tematico, sul cinema, sulla politica ecc…ma come si può
differenziare quello che vale da quello che rimane chiuso ad un circolo di amici?
In internet, data l’architettura orizzontale e la tendenza democratica, per i weblog vige la
regola meritocratica; ovvero un weblog emerge dal numero di link che un weblog
possiede e da quanti lo inseriscono nel proprio. La selezione dei contenuti avviene dai
lettori che possono contestare immediatamente ricevendo una risposta e creando così una
grande conversazione attraverso la quale intessere anche rapporti d’amicizia o comunque
di conoscenza.
Un weblog non ha quasi mai intenti commerciali, l’economia dei link è considerata
l’unica moneta. Quindi nei weblog si trovano contenuti di qualità nonostante l’assenza di
controllo centrale grazie al continuo processo di revisione della comunità, che avviene
dopo la pubblicazione e perché contributi buoni possono essere pubblicati, letti e citati
senza correre il rischio di essere ammassati indistintamente con contenuti di minore
qualità.
In questo caso è la gente che decreta il successo di un blog, la sua visibilità, il suo valore.
Un bell’esempio di democrazia.
whatever you want. just don’t stop doing it.” da “ We’ve got blog” A.A.V.V. pag. 6 di Drek M. Powazeck
Fly UP