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Sotto questo titolo comprendiamo i secoli che vanno all`incirca dal

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Sotto questo titolo comprendiamo i secoli che vanno all`incirca dal
I PROBLEMI DELL'ORIGINE DIVINA E DELL'AUTORITÀ DELLA SCRITTURA
DAI DOTTORI MEDIEVALI FINO AL CONCILIO DI TRENTO
Sotto questo titolo comprendiamo i secoli che vanno all'incirca dal VII-VIII
fino al XVI, e che non registrano di per sé approfondimenti di grande rilievo
per il nostro problema, se si eccettuano alcune analisi della Scolastica.
Il punto di vista dei medievali fino alla Scolastica
Anche per i dottori medievali fino al secolo XII, come per i Padri, il punto
di vista con cui guardavano alla Scrittura non è precisamente quello del
nostro trattato. In continuità con la tradizione dei Padri, la Scrittura appare
per essi come un tesoro racchiudente una ricchezza senza limiti. In essa, come
aveva già detto Ireneo, « niente è senza significato» (Adv. Haer., IV, 18,2: PG
7,1025), «niente v'è che non contenga qualche mistero » (S. Bernardo, Super
Missus est, 1,1: PL 183,555.); « non v'è pagina del libro sacro che non porti
testimonianza per il Verbo Incarnato » (Eriberto Di Losinga, Sermo 1,).
Di conseguenza il problema principale era quello di ordinare, inventariare
e distinguere, con l'aiuto della dottrina dei quattro sensi, le ricchezze
contenute nei libri sacri, e spiegare il rapporto di tutti gli elementi col Cristo.
Il problema della origine divina dei libri sacri e della valutazione
dell'apporto umano non si poneva dunque per essi in maniera esplicita.
L'autorità della Scrittura era ritenuta un dato fondamentale e indiscutibile, e
mancava lo stimolo per confrontare le asserzioni della Bibbia con i dati della
storia e della scienza, che non venivano elaborati in maniera autonoma e
rigorosa. Perciò questi scrittori si limitano ad affermazioni generali sulla
divinità della Scrittura che ricalcano quelle già consacrate dei secoli
precedenti. In particolare si sente l'influsso di Sant'Agostino, di san Girolamo
e di san Gregorio.
Gli autori principali di questo periodo sono soprattutto Cassiodoro, Isidoro
di Siviglia, Beda il Venerabile, Rabano Mauro.
Il periodo della prima Scolastica: san Tommaso e il problema della profezia
Con il sorgere della Scolastica e l'inizio di una elaborazione concettuale dei
temi teologici, assistiamo al sorgere di alcuni dei motivi che saranno poi
ripresi nei secoli seguenti quando il problema dell'origine divina dei libri
sacri sarà fatto oggetto di esame esplicito.
Così troviamo nell'opera di Scoto una delle prime elaborazioni un po'
ampie degli argomenti per cui le Scritture sono da ritenersi ispirate.
Ma è soprattutto nei dottori della incipiente scuola domenicana,
Sant'Alberto Magno e principalmente san Tommaso, che assistiamo a un
acuirsi dell'interesse per l'analisi dei rapporti tra azione divina e umana nel
caso del profeta, che presenta tante similitudini con quello dello scrittore
sacro.
Sant'Alberto Magno espone in quanti modi si possono vedere le cose
divine, e distingue tra visione corporale immaginaria e intellettuale.
San Tommaso, sempre mantenendo al centro dell'interesse il modo di
conoscere del profeta, indaga diffusamente sul modo dell'azione divina ed
umana in questo tipo di carisma. Data l'importanza assunta dalle sue
riflessioni nel rinnovato interesse per il problema dell'ispirazione a partire
dalla fine del secolo scorso e fino ai nostri giorni, è bene vedere un po' più da
vicino il contributo di san Tommaso a questa dottrina.
Quali sono le fonti di san Tommaso nel trattato della profezia? Egli ha
presente specialmente Sant'Agostino, i trattati scolastici della profezia
precedenti a lui, in particolare quello di Sant'Alberto Magno, e conosce pure
Avicenna e Maimonide, i quali hanno studiato i diversi gradi della
cognizione profetica. La materia della profezia viene trattata da san Tommaso
in più luoghi: nei commentari: il commento ad Isaia, 1,1; 6,1 (scritto negli anni
1256-1259); il commento alla prima lettera ai Corinti c. 14, alla seconda ai
Corinti 12,1, alla lettera agli Ebrei 1,1; 11,32 (anni 1259-1265). Nelle
Quaestiones disputatue de veritate XII, una questione intera è dedicata alla
profezia (aa. 1256-1259). Nella Summa contra Gentiles tratta della profezia a
proposito dei carismi (III,154; aa. 1259-1264), e infine nella Summa Theologiae
dedica alla profezia numerose questioni, sempre nel contesto dei carismi
(II-II, qq. 171-174; aa. 1270-1271).
La profezia è per lui soprattutto la cognizione di cose che superano la
ragione naturale (essa non appartiene né ai carismi di loquela né a quelli di
azione, ma a quelli conoscitivi). La causa di tale cognizione superiore è
dovuta allo Spirito Santo. San Tommaso si ferma particolarmente a descrivere
il modo secondo cui essa avviene. Nota come si richiede sempre un lume
soprannaturale, e spesso anche l'infusione di nuove specie conoscitive nella
mente del profeta. È a questo proposito che quasi di passaggio accenna a
coloro che hanno scritto i libri sapienziali, parecchi dei quali parlano di cose
note naturalmente, ma sotto un lume speciale che permette loro di giudicare
infallibilmente di ciò che scrivono. È a questo accenno, che apre uno spiraglio
sul problema dell'attività umana dell'agiografo, che si ritornerà volentieri
negli ultimi 70 anni per approfondire i problemi connessi con gli aspetti
umani dei libri sacri.
È opportuno notare che esistono differenze tra il modo con cui san
Tommaso affronta questi problemi e il nostro. Al centro della sua attenzione
sta la " profezia ", che per lui è soprattutto un carisma conoscitivo: a noi
interessa invece l'agiografo soprattutto in quanto è veicolo di un dato
messaggio, con i problemi di composizione letteraria che vi si connettono.
Tuttavia vi sono, tra gli altri, due elementi particolarmente importanti della
dottrina tomistica che hanno favorito un ripensamento dei nostri problemi. Il
primo è l'applicazione del concetto di strumentalità agli autori umani sotto la
mozione divina. In realtà san Tommaso non ricorre molto sovente a questo
concetto nei luoghi sopra accennati, tuttavia lo congiunge regolarmente
almeno una volta con ciascuna delle tre categorie in cui egli divide i carismi.
Parlando dei carismi in genere dice che in essi « homo fit instrumentum Dei »
(q. 172, a. 4c, ad 1). Lo stesso viene detto a proposito della « gratia sermonis »
(q. 171, a. lc) e per il carisma dei miracoli (q. 178, a. 1, ad 1). L'idea della
strumentalità umana è dunque in qualche modo soggiacente a tutto il
trattato, benché non sia esplicitamente ricordata molte volte nei casi singoli.
Ad essa si volgeranno gli scolastici susseguenti, in particolare verso la fine
del secolo XIX, per un approfondimento ulteriore dell'analisi dell'operazione
divina e umana nell'atto ispirativo.
Altro elemento importante è la distinzione, cui sopra si è accennato, tra
acceptio rerum e iudicium de rebus acceptis, con cui si distinguono i due elementi
della cognizione profetica, il primo dei quali non è sempre necessario. È così
possibile porre sotto la categoria " profetica " intesa in senso largo anche quei
libri in cui appare chiaramente l'attività umana dello scrittore nel raccogliere
il suo materiale (q. 173, a. 2c, ad 1). Quando il problema dell'attività umana
nella composizione dei libri sacri entrerà sempre più nelle preoccupazioni dei
teologi, ci si ricorderà di questa distinzione di san Tommaso per applicarla
alla risoluzione delle difficoltà nate in tempi moderni.
Il Concilio di Trento e l'estensione dell'ispirazione
Nel periodo seguente non si hanno approfondimenti degni di rilievo sul
nostro problema. Si riprende e si commenta la dottrina sulla profezia esposta
da san Tommaso.
In questo periodo è importante ricordare l'attività di alcuni Concili che,
senza entrare direttamente nella nostra questione, tuttavia codificano in
maniera definitiva alcune espressioni che finora avevamo trovato solo nella
patristica e nei teologi medievali.
Tra essi è importante soprattutto il Concilio di Firenze (1438-1445) che nel
Decreto pro Armenis riporta l'espressione « Dio autore del Vecchio e Nuovo
Testamento » (EB 47).
Il Concilio di Trento non si trova di fronte ad errori riguardanti l'origine
divina dei libri sacri e la loro autorità. Questi punti anzi sono tra i capisaldi
della riforma protestante. Il Concilio perciò, nelle sue affermazioni
programmatiche, si limita, per quanto riguarda il nostro problema, ad
affermare la fede della Chiesa nei libri sacri dell'Antico e del Nuovo
Testamento « poiché un solo Dio è autore di entrambi » (EB 57). Si è già
notato sopra il valore da dare a questa espressione, che il Concilio di Trento
riprende semplicemente da quello di Firenze.
Si vede quindi come non è ancora attuale il problema della modalità della
partecipazione umana alla scrizione: su di esso il Concilio tace. È il problema
del canone che è al centro dell'attenzione, a causa di alcune negazioni dei
protestanti, e su di esso si esprime esplicitamente il Concilio (EB 57 60).
Ciò che è importante ritenere per il trattato sull'ispirazione è la dottrina
sulla estensione totale dell'ispirazione, che sarà ripresa e chiarita nei Concili
seguenti. Il Concilio Tridentino, dopo aver dato l'elenco completo dei libri
ispirati (EB 58-59), aggiunge: « Si quis autem libros ipsos integros cum
omnibus suis partibus... pro sacris et canonicis non susceperit, anathema sit »
(EB 60).
Si noti che il Concilio ha dato al canone definitorio la massima estensione:
tutte le parti di tutti e interi i libri. Non importa quindi se il contenuto di una
parte di un libro ispirato sia non strettamente religioso o non connesso con la
fede o detto per transenna (obiter dictum) ecc., quindi non indispensabile
all'argomento principale inteso dall'agiografo.
Il Concilio Vaticano I ripeterà il canone di Trento e lo illustrerà, aggiungendo
che i libri sacri sono " ispirati ": « Si quis Sacrae Scripturae libros integros cum
omnibus suis partibus..., pro sacris et canonicis non susceperit, aut eos
divinitus inspiratos esse negaverit: anathema sit » (EB 79).
L'espressione si ritrova nel Vaticano II: « ...tutti interi i libri sia del Vecchio
che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti » (Dei Verbum, n. 11). Per
l'insegnamento dei Pontefici recenti si veda specialmente la Providentissimus
(EB 124s.).
Queste dichiarazioni del Magistero ecclesiastico non sono che la
conferma della tradizione divino-apostolica e patristica. Gesù stesso
afferma solennemente che non si deve trascurare neppure un solo iota e
neppure un solo apice della legge (cfr. Mt. 5,18; Lc. 16,17). In Gv. 10,34,
Gesù fonda la sua argomentazione su due parole di Sal. 81[82],6 («siete
degli dèi »); in Gv. 13,18 Gesù scorge una predizione in alcune parole del
Sal. 40[41],10 e l'applica a Giuda (« colui che mangia il mio pane alzò
contro di me il piede »). Gli apostoli sull'esempio del divin Maestro, non
hanno fatto alcuna distinzione tra parti principali e parti secondarie della
Scrittura. San Paolo (1 Cor. 9,8-10) cita Deut. 25,4: « Non mettere la
museruola al bue che trebbia », dicendo espressamente che non si tratta
di parola umana; in Rom. 9-11 riporta i passi più svariati dell'A.T.,
benché brevissimi e in apparenza trascurabili, introducendoli spesso con
le formule: « Sta scritto » o simili, che designano l'autorità divina del
brano citato. San Giovanni (Gv. 19,36) riferisce una prescrizione
riguardante l'agnello pasquale: « Non gli romperete le ossa » (Es. 12,46),
chiamandola " Scrittura " e applicandola a Gesù.
I Padri non hanno mai distinto, nei libri ispirati, parti ispirate da parti
non ispirate; anzi protestano la massima venerazione anche per parti
minime, che in apparenza sembrano insignificanti. Le loro espressioni in
proposito sembrano talora persino esagerate.
Concludendo si può affermare che la dottrina della Chiesa si è espressa
chiaramente a favore della estensione totale dell'ispirazione dei libri sacri. Per
questo sarà respinto anche in seguito ogni tentativo di spiegare certi punti
difficili della Bibbia ammettendo che essi siano in qualche modo esclusi dal
carisma della ispirazione. Le prese di posizione di Trento non produssero
tuttavia per il momento un nuovo sviluppo delle ricerche teologiche
sull'ispirazione. È invece a partire dalla fine del secolo XVI che, in parte per le
controversie suscitate dell'atteggiamento dei protestanti rispetto ad alcuni
libri della Scrittura, in parte per il sorgere delle obiezioni razionalistiche, il
problema dell'origine divina dei libri sacri e della loro autorità incomincia a
porsi al centro dell'attenzione dei teologi, e a favorire lo sviluppo di un
trattato centrato sul tema dell'ispirazione.
DOPO IL CONCILIO DI TRENTO: PROBLEMI SULLA NATURA
DELL'ISPIRAZIONE E SULLA ORIGINE DIVINA DEI LIBRI SACRI
Nel periodo che segue il Concilio di Trento assistiamo al crescere
dell'interesse per i problemi connessi specificamente con l'origine divina del
libro sacro. I motivi sono molteplici. Da una parte i protestanti, pur
riaffermando energicamente il carattere divino della Bibbia, avevano escluso
dal canone alcuni libri che di fatto, oltre che ad essere assenti dal canone
ebraico dopo il secolo I, presentavano aspetti umani molto marcati, come il
Secondo libro dei Maccabei, che appare esteriormente come il semplice
riassunto di un'opera precedente (cfr. 2 Mac. 2,19-37). Era naturale che nello
sforzo di difendere la canonicità di libri come questo i teologi cattolici si
ponessero il problema dei vari modi secondo cui l'influsso ispirativo può
essere presente nella composizione dei diversi libri biblici, dando così origine
a teorie sulla natura dell'atto ispirativo. Inoltre i teologi protestanti avevano
elaborato anch'essi una nozione dell'ispirazione che tendeva a sottolineare in
maniera radicale il carattere divino anche degli elementi esterni dei libri sacri,
suscitando prese di posizione dei teologi cattolici sugli stessi argomenti.
Infine bisogna ricordare il sorgere della ricerca scientifica all'inizio del secolo
XVII, che incominciò a porre i dati della Scrittura a confronto con i dati delle
scienze positive, stimolando la ricerca sui condizionamenti umani a cui
poteva essere sottoposto il libro sacro.
Due nomi emergono in questo periodo, e possono essere presi come
rappresentativi di due mentalità dominanti: Domenico Bañez e Leonardo
Lessio.
Bañez e la " dettatura verbale "
Nell'impostare commento alla prima parte della Somma Teologica, D.
Bañez viene ad esporre i vari modi secondo cui può essere l'espressione che
uno scritto è composto « per ispirazione divina ». Ciò può, secondo Bañez,
voler significare tre cose:
1) o che ciò di cui si tratta nello scritto era ignoto all'autore, e gli è stato
rivelato da Dio;
2) o che tali cose erano già note allo scrittore, ma che egli si è messo a scriverle
per una mozione speciale divina e con una certa assistenza Spirito Santo;
3) o che le cose rivelate oppure conosciute naturalmente, ma per cui v'è una
mozione divina affinché siano scritte, vengono suggerite e quasi dettate
anche quanto alle singole parole.
Non è molto chiaro in Bañez se egli intenda parlare di tre forme di fatto
presenti in diversi libri. Egli si pronuncia però quanto alla seconda forma, che
non pensa essersi di fatto realizzata, benché in sé non gli appaia contraria alla
fede. Pur ammettendo che la Scrittura contiene in parte anche cose che
possono essere note per la semplice esperienza o la ragione umana, si affretta
ad aggiungere che, per evitare ogni falsità, è necessario che lo Spirito Santo
detti ogni parola. A conferma di ciò porta passi biblici e patristici che
sottolineano la dipendenza dello strumento umano da Dio. Non nega la
possibilità in astratto che la scelta delle parole sia lasciata talora alla scienza e
alla diligenza dello scrittore sacro. Ma teme che tale opinione non sia
abbastanza sicura, e che ammettendola non si riesca più a distinguere tra la
Scrittura e le definizioni dei Concili . Questa spiegazione dell'ispirazione
come di « dettato singole parole » (dictatio verbalis), diviene comune presso
non pochi teologi, specialmente domenicani, fino al secolo XVIII.
Essa viene tuttavia interpretata in modi diversi. Secondo alcuni parlare di "
dettato " non è che un modo per indicare la mozione e la elevazione della
facoltà dello scrittore in quanto tale, secondo il modo con cui è intesa la
mozione propria della grazia efficace. Altri intendono la dottrina in senso più
materiale, riferendosi a una consegna delle singole parole. Comunque intesa,
e pur tenendo conto di una certa fluttuazione terminologica in Bañez (che,
non differenziandosi in ciò da san Tommaso, parla talora di " ispirazione " e
talora di " rivelazione " nello stesso contesto), la presa di posizione di Bañez
ha messo in luce la necessità di definire in che cosa consista precisamente la
mozione ispirativa, e ha insistito sulla necessità di non sottrarre all'azione
divina anche le singole espressioni della Scrittura sacra. Ciò è importante per
rendersi conto della cura con cui la tradizione patristica ha sempre
considerato anche le minime sfumature del linguaggio. Tuttavia, interpretata
in maniera troppo materiale, la teoria non sembrava lasciare posto per una
reale attività umana dello scrittore, rendendo assai difficile la spiegazione
della diversità di linguaggio e mentalità esistente tra gli scritti sacri. Per
questo non pochi teologi, insoddisfatti, si volsero verso altri tipi di
spiegazione.
Lessio e la distinzione tra rivelazione e ispirazione
Le opinioni assai divergenti del teologo di Lovanio Leonardo Lessio
appaiono chiaramente in tre sue proposizioni che gli furono censurate
dall'Università di Lovanio nel 1507:
1) Perché un libro sia considerato Scrittura sacra, non è necessario che le
singole sue parole siano ispirate dallo Spirito Santo;
2) non è necessario che le singole verità e proposizioni siano ispirate
immediatamente dallo Spirito Santo allo scrittore;
3) se di un libro (come forse è il caso per il 2° dei Maccabei) scritto per
opera dell'uomo senza l'assistenza dello Spirito Santo, lo Spirito Santo
testifica in seguito che ivi non v'è nulla di falso, esso diviene Scrittura
sacra.
Da questi tentativi incerti di chiarire la natura dell'atto ispirativo appare lo
sforzo di adeguarsi alla diversità dei libri biblici, in alcuni dei quali l'azione
dello scrittore umano appare preponderante. Tuttavia le obiezioni fatte al
Lessio, di minimizzare così l'aspetto divino dei libri sacri, lo portano a
formulare una distinzione che avrà notevole importanza in seguito, ossia la
distinzione tra rivelazione e ispirazione.
Mentre la rivelazione si riferisce alla manifestazione di verità fatta allo
scrittore sacro da parte di Dio, la seconda si riferisce alla peculiare mozione
dello Spirito di Dio che muove lo scrittore a scrivere determinate cose e lo
assiste in quest'opera. Giustamente Lessio esclude la necessità di una
rivelazione delle singole parole o anche di proposizioni, nel caso in cui lo
scrittore le abbia già acquisite con la propria ricerca: ma altrettanto non si può
dire dell'ispirazione, che è la condizione necessaria perché ogni elemento del
libro si possa ricondurre all'autorità divina.
Le considerazioni introdotte dal Lessio, così come quelle del Bañez, si
ritrovano con correzioni e specificazioni in teologi successivi.
In alcuni teologi tuttavia l'esigenza di tender ragione all'aspetto umano dei
libri sacri, che allora si veniva manifestando grazie alle ricerche critiche
incipienti, porta gradualmente a una concezione dell'ispirazione che perde il
contatto con i dati della rivelazione.
Altri postulavano un aiuto dello Spirito Santo limitato alle cose dottrinali o
ad esse connesse, o insistevano sulla sufficienza di una pura assistenza
divina che preservi dagli errori.
In tutti questi tentativi è palese lo sforzo di adeguare la spiegazione
dell'atto ispirativo alle concrete difficoltà in cui si dibatteva l'esegesi: ma
risulta pure la carenza di visuale storico-salvifica in cui la natura dell'atto
ispirativo non sia vista come un puro fenomeno psicologico da analizzarsi in
se stesso e da ridursi ad alcuni pochi elementi, ma sia collocata nel quadro
della manifestazione divina di Dio nella storia del suo popolo.
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