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Riflessi linguistici delle differenze di genere
Linguistica generale I e II Nicola Grandi e Vermondo Brugnatelli a.a. 2003/2004 Riflessi linguistici delle differenze di genere (nel sistema della lingua e nei suoi usi sociali) 1. Riflessi all'interno del sistema : la "distinzione grammaticale dei generi". 1.a Aspetti diacronici 1. Il «genere grammaticale» in indeuropeo 2. Tipologie della nascita dei «generi grammaticali» 3. Il «genere grammaticale» in camito-semitico L'argomento di questo corso affronta una delle funzioni cruciali della lingua, quella del suo rapportarsi con la realtà «extralinguistica». Benché non siano mancate correnti di pensiero, soprattutto in ambito strutturalistico, che hanno tentato di presentare descrizioni linguistiche che prescindessero il più possibile da tutto ciò che, al di fuori del «sistema» linguistico, sfugge ai tentativi di descrizione sistematica, è evidente che lingue «ideali» consistenti solo in un insieme di rapporti più o meno complessi tra elementi astratti non esistono. Una lingua totalmente priva di riferimenti, sia di ordine semantico sia di ordine pragmatico, alla realtà esterna, non potrebbe esistere. Quantomeno, non potrebbe essere definita «lingua». Si tratterebbe, nel migliore dei casi, di un'improbabile entità metafisica, una potenzialità astratta destinata a non realizzarsi in atto. Una lingua presuppone l'esistenza di parlanti e l'esistenza di una realtà suscettibile di essere percepita e descritta, comunicata tra i locutori. Ovviamente, una lingua non contiene una proiezione immediata del mondo circostante quale esso è, ma rispecchierà piuttosto il modo di rapportarsi al mondo da parte dei parlanti. Di qui l'esistenza di categorie semantiche assai differenziate a seconda delle molteplici culture che delle varie lingue fanno uso. La distinzione dei due sessi è una categorizzazione della realtà che, in vario modo, è recepita da numerose lingue del mondo. Il primo aspetto che verrà qui esaminato sarà proprio quello relativo alle modalità di proiezione, all'interno di sistemi linguistici, di categorie formali correlate ai due generi riscontrabili nel mondo animale, e in particolare nella specie umana: la cosiddetta «distinzione grammaticale dei generi», nelle lingue che la possiedono. Esiste una nota teoria, conosciuta col nome di«ipotesi Sapir-Whorf», secondo la quale il rapporto tra rappresentazione del mondo e forma linguistica sarebbe così stretto da provocare considerevoli influssi nei due sensi: non sarebbero solo le rappresentazioni della realtà a condizionare le strutture linguistiche, ma anche, all'inverso, le strutture linguistiche condizionerebbero in misura rilevante il modo di rapportarsi con la realtà da parte dei parlanti. Per quanto questa teoria nel suo complesso trovi molti oppositori, e non si possa certo considerare dimostrata, limitatamente all'argomento che ci interessa sarà interessante notare come i sistemi linguistici, soprattutto là dove la «distinzione dei generi» è grammaticalizzata in modo esteso, possano svolgere un ruolo nell'accentuare la consapevolezza dell'esistenza oggettiva di due categorie “maschile” vs. “femminile”, estese «metaforicamente» anche al di là degli esseri animati. Altri e non meno importanti sono gli influssi che il sistema linguistico finisce per esercitare sulle concezioni che i parlanti hanno dei rapporti uomodonna nella società, soprattutto là dove asimmetrie nel sistema si scontrano con esigenze riconosciute di parità tra i sessi. Questo secondo aspetto della questione, cui si suole fare riferimento col termine di «sessismo linguistico», è entrato solo di recente nel dibattito linguistico ma ha già dato luogo ad interessanti ricerche nell'ambito di diverse lingue (inglese, tedesco, francese e anche italiano, benché con un certo ritardo rispetto alle altre lingue). Un ultimo aspetto, che non può essere trascurato in uno studio dei rapporti tra sessi e linguaggio, è quello sociolinguistico, e riguarda la variabilità linguistica legata al sesso del parlante. Dal momento che l'uso di determinate varietà di lingua può essere statisticamente correlato all'appartenenza dei parlanti a diversi gruppi sociali, soprattutto di recente si è provveduto ad investigare l'uso che i parlanti maschi e femmine fanno della lingua. Ovviamente quanto maggiore è l'integrazione tra i due sessi tanto minore sarà la variabilità. Ancor oggi esistono società tradizionali in cui ad una rigida separazione tra i sessi corrispondono macroscopiche divergenze linguistiche tra i due gruppi; invece nelle moderne società industrializzate la variabilità si limita di norma al solo uso statisticamente divergente di determinati registri linguistici. 1. Riflessi all'interno del sistema : la "distinzione grammaticale dei generi". Un settore delle lingue che è particolarmente sensibile alla proiezione di categorie «extralinguistiche» all'interno dei sistemi linguistici è costituito da quella parte della grammatica che più ha a che vedere con quello che Benveniste chiamava l' «apparato formale dell'enunciazione»1. Questo «apparato» non va confuso con la sostanza delle singole enunciazioni, appartenenti in quanto parole alla sfera della massima soggettività, che male si presta ad un'analisi linguistica, ma costituisce invece tutto quell' insieme di condizioni delle quali non può fare a meno qualunque atto di «enunciazione». Questo insieme di condizioni, in sé a prima vista non specificamente «linguistiche», finiscono però per costituire, in quanto di fatto indispensabili per l'esistenza di qualunque «enunciazione», e quindi di qualunque lingua, un insieme di dati di fatto correlati a parametri sufficientemente generali e dunque relativamente sistematizzabili. L'enunciazione, atto indispensabile per tradurre l'astratta «possibilità di lingua» in una realizzazione concreta della «lingua», comporta l'espressione, da parte del locutore, di almeno alcune «coordinate» che permettano di collocare l'atto di enunciazione nella realtà fisica esterna (chi parla; a chi è diretta l'enunciazione; quando questa avviene; dove, ecc.). Di qui la nascita di varie classi di elementi morfologici presenti in tutte le lingue del mondo (eventualmente con sfumature di significato ritagliate in modo diverso in lingue diverse): anzitutto i pronomi di prima e seconda persona, successivamente i numerosi indici di ostensione (pronomi dimostrativi, avverbi di luogo...) ed il sistema dei rapporti temporali relativamente al momento in cui l'enunciazione ha luogo. Come avremo modo di vedere più avanti nel dettaglio, càpita storicamente assai di frequente che il «cavallo di Troia» attraverso il quale si introduce in un dato sistema linguistico la distinzione dei generi sia proprio una delle categorie citate (in particolare la seconda, quella degli indici di ostensione). A riprova di ciò, basta osservare che le lingue del mondo che possiedono una distinzione dei generi in grado più ridotto (p.es. l'inglese), solitamente si limitano a distinguere questa categoria nei dimostrativi o nei «pronomi» (sia quelli di prima e seconda persona , sia quelli «di terza persona», la cui natura è assai più prossima ai dimostrativi che ai «pronomi»).2 1.1 Il «genere grammaticale» in indeuropeo Passando ora ad esaminare alcuni esempi di lingue dotate di una distinzione sistematica dei generi nella morfologia nominale, il primo ambito linguistico che si presta all'osservazione è quello 1 P. es. in: Problemi di linguistica generale II , Milano (Saggiatore), 1985, 96 ss. Un altro esempio a prima vista curioso ma che si inserisce in modo esemplare in queste considerazioni è il caso del basco, lingua in generale assolutamente priva di distinzione dei generi, che presenta un solo fenomeno morfologico correlato ai sessi: il «trattamento» del verbo a seconda del sesso dell'interlocutore, in cui traspare evidentemente la traccia dell'incorporazione di antichi pronomi di seconda persona di forma maschile / femminile: eman dik “egli lo ha dato” (parlando a un maschio) / eman din “egli lo ha dato” (parlando a una femmina). 2 indeuropeo. Qui le prime ricostruzioni proponevano addirittura una «protolingua» dotata di un sistema con tre generi, in cui accanto al maschile e al femminile, vi sarebbe stato fin dalle origini un neutro (propriamente «inanimato»), posto sullo stesso piano dei due generi portatori, semanticamente, di una differenza sessuale. Un penetrante studio di Antoine Meillet1 , pubblicato già a pochi anni di distanza dalla decifrazione dell'ittito (divulgata dopo la fine della I guerra mondiale), rimise in discussione questa immagine, proponendo una visione più scaglionata nel tempo, in cui in definitiva la distinzione di due generi, maschile e femminile, all'interno dell'«animato» appare un'innovazione relativamente tarda, mentre assai più antica doveva essere la distinzione tra animato e inanimato (poi «neutro»). Già fin dai primissimi studi successivi alla sua decifrazione l'ittito aveva presentato caratteristiche alquanto imbarazzanti per gli indeuropeisti che cercavano di collocarlo all'interno della famiglia indeuropea. Accanto ad alcune caratteristiche estremamente arcaiche, che non permettevano di dubitare della sua collocazione all'interno di questa famiglia, l'ittito presentava però divergenze anche notevoli in merito a diverse questioni di non poco conto. Per questo vi fu chi, come Forrer o Sturtevant, avanzò l'ipotesi che la lingua ittita fosse sì imparentata con le altre lingue indeuropee, ma non in quanto «figlia», al pari di queste ultime, della lingua-madre indeuropea, bensì in quanto «sorella» della stessa lingua «indeuropea», e facente parte, come questa, di una medesima famiglia «indo-ittita». Appoggiandosi oltre che sulla situazione dell'ittito anche su quella del tocario (anch'esso conosciuto solo agli inizi del 20° secolo) nonché dell'armeno (noto da tempo, ma a lungo ritenuto una lingua iranica e perciò poco studiato autonomamente), Meillet rileva come sia possibile avanzare un'altra ipotesi per rendere conto di questi fatti. Esistono infatti diversi tratti comuni a queste lingue che sembrano ignoti alla maggioranza delle altre lingue indeuropee, anche se la rispettiva posizione geografica può far escludere che si tratti di innovazioni comuni successive alla dissoluzione dell'unità indeuropea. 2 «Enunciata in termini storici, quest'ipotesi si traduce così: le lingue marginali si sarebbero staccate dal grosso della «nazione indeuropea» in un'epoca in cui l'indeuropeo comune possedeva certe forme che in seguito sarebbero scomparse e che, di conseguenza, non sarebbero state recate con sé dai gruppi staccatisi posteriormente.» (p.5) Ora, una siffatta ipotesi sembra in grado di render conto di numerosi fatti, e in particolare della situazione dei generi grammaticali, che proprio in ittito, come vedremo, si presentano in modo marcatamente diverso dalle altre lingue indeuropee. Riassumendo i dati sul genere grammaticale nelle altre lingue indeuropee, si osserva che: A- Qualunque tipo di tema nominale può in indeuropeo avere valore maschile o femminile. Il comportamento di gran parte degli aggettivi (p. es. lat. novus [tema in -o, masch.] /nova [tema in aµ, femm.], ecc.) potrebbe a prima vista far pensare che i temi in -o- fossero propri del maschile (e del neutro) e che quelli in -aµ- fossero propri del femminile. Tuttavia la comparazione mostra che esistono parecchi nomi femminili con temi in -o- (p. es. gr. nyos «nuora»; lat. [patula] fagus «faggio [frondoso]», e così tutti i nomi di piante) e che, viceversa, molti temi in -aµ- sono maschili (gr. políteµs “cittadino”, lat. agricola “contadino”, ecc.); quanto agli altri temi (in -i-, -u-, in consonante ecc.), è noto come in essi si possano trovare sia nomi maschili che femminili. 1 «Essai de chronologie des langues indo-européennes», Bulletin de la Société de Linguistique de Paris 32 (1931) pp. 128. 2 Tali tratti sono, ad esempio, la terminazione -r caratteristica di forme medio-passive del verbo, che si ritrova estesamente in ittito e tocario, e talvolta anche in armeno. Queste attestazioni fanno uscire dal loro isolamento le forme italo-celtiche come lat. loquor «parlo», amatur «è amato», ecc., dimostrando che non di innovazioni si tratta, bensì della conservazione di arcaismi. Lo stesso vale per la desinenza di 3. p. plurale caratterizzata da una -r- come lat. dixere (poi Æ dixerunt «dissero»), che ha ora chiare corrispondenze in tocario ed in ittito. E' di conseguenza abbastanza logico pensare di avere a che fare con «lingue marginali», nelle quali è facile ritrovare più estesamente tratti arcaici, non più conservati nel resto del territorio indeuropeo. B- Esistono diversi nomi che possono riferirsi sia ad esseri di sesso maschile che ad esseri di sesso femminile. Peer esempio il sanscrito gaúh\ = gr. boûs = lat. boµs designa a seconda delle circostanze bovini maschi o femmine. Sono solo mutamenti successivi che hanno portato alla fissazione di un genere, peraltro divergente, nelle lingue romanze (it. bue, solo masch.) e in quelle germaniche (ted. Kuh, solo femm.). Viceversa, nomi diversi afferenti allo stesso concetto tendono ad avere lo stesso genere indipendentemente dal tema di appartenenza: cfr. tutti i nomi per la «terra» in latino, che sono sempre femminili, sia humus (tema in -o), sia terra (in -aµ), sia tellus/telluris (antico tema in -s con rotacismo). C- Un’opposizione morfologica regolare tra significanti riferiti ad entità maschili e ad entità femminili si trova solo nel pronome dimostrativo ed in alcuni aggettivi. In questi casi, la differenziazione non risiede in particolarità della flessione ma sta solo nella scelta del tema (tema in -o per i maschili, tema in -aµ per i femminili). D- L’esame degli strati più arcaici dell’indeuropeo permette di stabilire che là dove si presentava la necessità di rendere esplicita una differenza di maschio e femmina si faceva ricorso anticamente a nomi differenti. Gli esempi sono molto numerosi, p. es. lat. mater f. / pater m.; taurus m. / vacca f., ecc. In sanscrito vi erano addirittura numerali di genere diverso come trayah\, catvaµr ah\ («3», «4»), femm. tisrah\, catasrah\. Essi presentano un «suffisso» *-sor, *-sr facilmente riconducibile all'identico «suffisso» presente, ad esempio, in termini come *swe-sor «sorella» (sanscrito svasar-, lat. soror) o lat. uxor “sposa”. È chiaro come questo «suffisso» provenga da un nome (con un significato di “femmina” o sim.) che entrava in composizione con ciò di cui andava specificato il sesso. Questo conferma il fatto che anticamente una distinzione riferita al genere naturale non veniva espressa in modo sistematico attraverso un genere grammaticale. E- La contrapposizione tra maschile e femminile in indeuropeo appare di natura ben diversa da quella della contrapposizione tra queste due classi da una parte e il neutro dall'altra. Un'opposizione tra un genere neutro/ inanimato ed uno animato è di solito caratterizzata, nelle lingue che la possiedono, da divergenze nella formazione del nominativo e dell'accusativo, solitamente identici e privi di marche nel neutro/inanimato, e invece differenziati e dotati di marche specifiche nell'animato (cfr. un aggettivo latino come facilis, facilem [rispettivamente nominativo marcato da una -s e accusativo marcato da una -m, per il genere maschile e femminile] / facile [nominativo uguale all’accusativo neutro. privo di marche], oppure, in russo, la contrapposizione tra un animato mal'c˚ik, mal'c˚ika [«ragazzo», nom. senza desinenza, accusativo in -a] a un inanimato stol [«tavola», nominativo = accusativo]). Al contrario, l'opposizione tra maschile e femm. in ie. è sostanzialmente caratterizzata solo dalla scelta del tema, non da differenze nella flessione. Come sintetizza Meillet: «Insomma, la distinzione del maschile e del femminile in indeuropeo non è che un accessorio. Essa non si manifesta né nel verbo, né nel pronome personale, né nel sostantivo, e neanche in tutti gli aggettivi. D'altra parte parecchie lingue l'hanno eliminata nel corso dell'epoca storica». (p.10) La perdita della distinzione dei generi nel nome, che ha avuto luogo in buona parte delle lingue iraniche e di quelle germaniche, è stata in esse preceduta sempre da una estensione a tutto il lessico della distinzione temi in -o- : maschili; temi in -aµ- : femminili. Viceversa, il comportamento delle lingue staccatesi più anticamente dall'unità indeuropea, presenta, per le epoche più antiche, una situazione ben diversa. In ittito, dove è nettamente marcata un'opposizione tra animato e neutro, non vi sono tracce di un femminile ed è difficile pensare, data l'arcaicità di questa lingua, che questa situazione faccia seguito ad una fase anteriore in cui tali caratteristiche sarebbero state assai sviluppate . Anche per l'armeno, lingua che fin dalle più antiche attestazioni si presenta priva di una distinzione formale dei generi, è difficile pensare che tale mancanza faccia seguito alla perdita di un sistema regolare ed esteso come è avvenuto, invece, nelle vicine lingue iraniche. Diversi nomi, come quello, p. es., della «nuora» nu, che in altre lingue indeuropee sono «femminili» in -aµ-, si presentano ancora come un tema in -o-, il che mostra che essi non sono passati attraverso una fase di regolarizzazione morfologica (confronta anche la situazione arcaizzante del lat. nurus rispetto all'it. nuora, in cui la terminazione è passata ad -a). Inoltre, gli aggettivi in o- hanno solo forme in -o- e non sembrano conoscere alcuna forma corrispondente in -aµ-, come invece dovrebbe avvenire se vi fosse stata una regolarizzazione sulla base dell'attribuzione dei temi in -o- alla categoria del maschile e di quelli in -aµ- a quella del femminile. Anche il latino, lingua che, come si è visto, appartiene a quel gruppo di dialetti indeuropei che si sono staccati relativamente presto dal resto dell'indeuropeità, presenta uno stato di cose in cui la regolare espressione dei due generi non è ancora pienamente attuata all'epoca delle prime attestazioni. É anzi risaputo che «in latino il femminile è in progressiva crescita in epoca storica, giacché vi si vede agna sostituire agnus feµmina». Numerosi sono in latino i temi in -o- femminili: per esempio i nomi di alberi, come faµg us (che nelle lingue romanze tenderanno invece a diventare poi maschili, come l'it. faggio) o il nome della terra, humus, che nelle lingue baltiche e slave ha invece ricevuto un suffisso di derivazione femminile: lit. z˚eme˘ , paleosl. zemlja. E, viceversa, sono tutt'altro che rari i nomi maschili in -aµ-, come scrıµb a o agricola «contadino». Un'estesa categoria di aggettivi, poi, quelli della terza declinazione, non mostra alcuna differenza di genere tra maschile e femminile: fortis , audax , i participi (ferens ), ecc. Analoghi fenomeni (aggettivi indifferenti al genere e corrispondenza solo parziale tra temi in -o- e genere maschile e tra temi in -aµ- e genere femminile) si riscontrano nelle lingue celtiche, il sottogruppo indeuropeo con le più strette affinità con le lingue italiche. Più contraddittoria la posizione del greco. Da una parte questo mostra già in partenza una situazione più evoluta del latino, per esempio nei participi che hanno un femminile in -aµ- (férousa «portante [f.]» accanto a féroµn «id. [m.]»). D'altra parte, però, sono ancora numerose le situazioni di indifferenza al genere, come nei comparativi (meizoµn “maggiore”, m. e f., rispetto al neutro meizon, analogamente a quello che vediamo, con altri morfemi, in latino: maior, m. e f. / maius , ntr.), o di maschili in -aµ-, come políteµs “cittadino” e temi in -oindifferenti al genere, come rhododáktylos “dalle rosee dita” [epiteto caratteristico dell'aurora, héoµs, femm.]. Questi indizi di antica indifferenza al genere sono tali da far pensare che il greco debba la conservazione delle categorie maschile e femminile alla nascita di un articolo determinativo differenziato secondo i generi (m. ho, f. heµ [< haµ]). È importante notare «il ruolo dell'articolo nella fissazione dei generi maschile e femminile. Là dove esistono due forme di articolo a seconda dei generi l'opposizione viene fissata in modo stabile, e finisce per durare anche se agli inizi era vacillante: è il caso del greco; essa si mantiene anche se per lo più non ha alcun senso: è il caso del francese. Là dove non vi è un articolo che tenga distinti i generi, la distinzione, per quanto netta fosse al principio ha la possibilità di esssere eliminata, ciò che è avvenuto in una parte dell'iranico» (p.15). Queste osservazioni di Meillet, ricavate da un'approfondita analisi storica, sul ruolo svolto dall'articolo (derivato da «indici di ostensione» come i dimostrativi) nell' introdurre una regolare differenziazione dei generi nel sistema grammaticale di una lingua, si accorda molto bene con quanto abbiamo osservato, al principio del capitolo, sul ruolo dell' «apparato formale dell'enunciazione” nella nascita della distinzione dei generi grammaticali. A conclusione dell'indagine della situazione delle diverse lingue indeuropee nei confronti della distinzione dei generi, Meillet rileva come le lingue che fin dagli inizi presentano il maggior grado di regolarizzazione della distinzione dei generi siano quelle che vanno dall'indo-iranico al germanico (comprendendo dunque anche le lingue baltiche e quelle slave), il che permette di affermare che «lo sviluppo della distinzione del maschile e del femminile era meno avanzata nelle epoche più antiche rispetto al momento in cui gli ultimi gruppi indeuropei si sono staccati. La distinzione ha progredito in indeuropeo tra una fase arcaica, rappresentata dalle lingue “marginali”, ed un periodo più recente, rappresentato dalle lingue centrali». Questo progredire, più accentuato nei gruppi dall'indo-iranico al germanico e meno accentuato nelle lingue comprese tra l'armeno e l'italico, è testimoniato anche dal fatto che spesso non vi è una concordanza completa nei morfemi femminili impiegati. Per esempio, negli aggettivi femminili formati su temi in -u-, come greco heµdeia (m.: hedús) “dolce” e sanscrito svaµdvıµ (m.: svaµdús), sia il greco che il sanscrito fanno uso di un suffisso *-yaµ- , ma il greco su di un “grado normale”1 [*-eu- ] e il sanscrito su di un “grado zero” [*-u-], e ciò fa escludere che queste due formazioni risalgano ad un'epoca «comune». Per venire, infine, alla ricerca delle cause che hanno dato origine al fenomeno della distinzione dei generi (una questione che è ancor oggi dibattuta e lungi dall'essere completamente chiarita), Meillet individua il punto di partenza nei dimostrativi. Anch'essi, per la verità, mostrano un'originaria indifferenza al genere per quanto riguarda i casi obliqui. Tuttavia, al nominativo e, forse secondariamente, anche all'accusativo, sembra che fin dalle epoche più antiche siano attestate due forme diverse per maschile e femminile (qualcosa come nom. *so/*saµ, accus. *tom/*taµm ). E' probabilmente questa distinzione di maschile e femminile, attuata nei dimostrativi con la contrapposizione di un tema in -o- e di uno in -aµ-, potrebbe aver fornito lo spunto per un'estensione della distinzione dapprima agli altri pronomi, e successivamente agli aggettivi, alcuni dei quali («di valore astratto, come quelli significanti “uno”, “intero”, “stesso”» ) possedevano già una declinazione di tipo pronominale. Un ruolo importante sarebbe stato inoltre rivestito dall'esistenza di alcuni vocaboli indicanti individui di sesso femminile e muniti fin dall'antichità di terminazioni in -aµ. Tale, ad esempio, il nome indeuropeo della “donna”, gr. guné (genitivo gunaikós), antico alto ted. quena, ecc., che pur non appartenendo alla categoria dei temi in -aµ-, pure al nominativo doveva avere una forma che terminava in -aµ. Tuttavia, decisivo sarebbe stato il ruolo dei nomi di agente, per i quali veniva usata fin dall'antichità una terminazione *-yaµ- [= *-ye´2; al “grado zero”: *-i´2 Æ *-ıµ], come dimostra l'accordo di due lingue agli estremi opposti dell'area indeuropea, il latino (p. es. masch. genitor, femm. genetr-ıµ-x ) e il sanscrito (p. es.: masch. janitaµ, femm. janitr-ıµ). Solo in un'ultima fase, che in molte lingue indeuropeee non appare ancora del tutto completata, si affermò il principio di far coincidere nomi indicanti esseri di genere femminile o maschile rispettivamente con temi in -aµ- o in -o-. 1.2 Tipologie della nascita dei «generi grammaticali» Lo studio di Meillet che ha impostato nelle sue attuali direzioni la ricerca della nascita dei generi nelle lingue indeuropee si accorda in larga misura con le osservazioni fatte in precedenza riguardo al ruolo che, nella nascita della categoria del genere, viene svolto dalle categorie grammaticali connesse con l'«enunciazione». Quest'indagine, infatti, basata sui dati storici disponibili per le lingue indeuropee, finisce per considerare verisimile l'ipotesi che il luogo da cui si è originata la differenziazione formale dei generi nei nomi vada individuato nei dimostrativi. Ma come, di fatto, avvenne questo passaggio? Lo studio di Meillet non può, al riguardo che rimanere nel campo delle ipotesi, come si è visto. Studi di tipologia del divenire linguistico hanno affrontato solo di recente la questione generale del modo in cui può avvenire l'estensione delle marche morfologiche di genere all'interno dell'intero lessico di una lingua. Il contributo che fin qui appare più significativo da questo punto di vista è stato fornito da uno dei «padri» delle moderne ricerche di tipologia linguistica finalizzate all'acquisizione di norme «universali»: Joseph H. Greenberg.2 Valendosi della sua lunga esperienza nell'ambito delle lingue africane, che spesso presentano complicati sistemi di generi e di classi nominali (anche non correlate al sesso3) egli conduce un'analisi a partire da alcuni fenomeni di «rinnovamento» delle marche di 1 “Grado normale” e “grado zero” sono termini della linguistica indeuropea. Nelle lingue indeuropee più antiche esisteva l’apofonia, cioè il mutamento di alcune vocali utilizzato come strumento morfologico. Secondo la lunghezza o la qualità della vocale si hanno diversi “gradi”. La vocale e è caratteristica del “grado normale”. Quando tale vocale è assente, si ha il “grado zero”. 2 «How does a Language Acquire Gender Markers?», in: Universals of Human Language (a cura di J.H.Greenberg), vol. 3: Word Structure, Stanford: University Press, 1978, pp.47-82. 3 Ivi, p.49: «Strutturalmente, sistemi siffatti [= in cui una delle basi di classificazione è il sesso] non differiscono in alcun modo fondamentale da quelli in cui il sesso non è presente... Quando una delle basi di classificazione è il sesso parleremo di genere sessuale (“sex gender”)». genere in alcune lingue africane, estendendo poi le sue osservazioni ad altre lingue del mondo munite di classi nominali e di genere grammaticale. Anzitutto, come necessaria premessa terminologica, occorre distinguere il concetto di «sistemi a classi nominali» («noun class systems»), termine con cui si designa ogni sistema linguistico che ripartisca i sostantivi in più classi distinte, dal concetto di «sistemi a generi nominali» («noun gender systems»). Quest'ultimo concetto implica che, oltre alla ripartizione dei nomi tra vari generi, esista un meccanismo di «accordo», in base al quale la scelta di un nome appartenente ad un dato genere determini anche la scelta tra serie di forme alternative in una o più altre classi di morfemi o di parole che a tale nome si riferiscono, per esempio articoli, dimostrativi, aggettivi, pronomi indipendenti usati anaforicamente, indici pronominali-soggetto incorporati nelle forme del verbo, ecc. Esistono pure altri sistemi che possono essere compresi nella definizione più vasta di «sistemi a classi nominali», per esempio i «sistemi a classificatori», in cui le marche di classe sono espresse da vere e proprie parole (morfemi liberi).1 Particolarmente interessanti, per i fenomeni di “accordo” che essi instaurano sono i sistemi «a classificatori numerali» o quelli «a classificatori possessivi». Il primo di questi sistemi, caratteristico di numerose lingue dell'estremo oriente (p. es. il cinese), permette di distinguere all'interno dei nomi svariate classi, caratterizzate dal tipo di «classificatore» impiegato nei sintagmi numerativi. Mentre in italiano sono soltanto alcuni sostantivi designanti collettivi o in generale entità non numerabili che per venire accompagnati da numerali richiedono l'inserimento di un opportuno vocabolo (p. es. capo in espressioni come tre capi di bestiame, o forma in due forme di formaggio ecc.), in queste lingue l'uso di determinate parole di questo tipo, dette «classificatori», è obbligatorio tutte le volte che si impiegano dei numerali, con ogni tipo di nome. Di qui nasce una «classificazione» dei nomi sulla base del «classificatore» che ciascuno di essi richiede (esseri animati; oggetti piatti e lisci; oggetti rotondi, ecc.). Analogamente avviene in alcune lingue amerinde e dell'Oceania nel caso di sintagmi possessivi, che richiedono in tali contesti l'uso di «classificatori».2 Per quanto riguarda differenze e analogie dei due sistemi a classificatori citati rispetto ai sistemi di generi, è vero che in ambedue l'uso di un nome appartenente ad una data classe determina la scelta di un altro elemento (il classificatore), ma è altresì vero che, a differenza dei sistemi a generi nominali, non tutto il lessico è affetto da questa classificazione (astratti non numerabili non compariranno mai con numeratore e classificatore, e lo stesso vale per i nomi suscettibili di possesso inalienabile, come le parti del corpo, che non richiedono classificatore in sintagmi possessivi). Inoltre, nei sistemi a classificatori l'unico ambito di applicazione dell' «accordo» è proprio quello numerativo o possessivo, mentre un «genere» ha solitamente ambiti di espressione ben più estesi. Va inoltre osservato che raramente nei sistemi a classificatori (numerali o possessivi) le varie classi di nomi sono caratterizzate da elementi morfologici comuni, e l' appartenenza alle diverse classi è data per lo più solo dal valore semantico del nome (covert system “sistema opaco”), mentre il genere è sovente caratterizzato dall'esistenza di esplicite marche formali di appartenenza alle diverse classi nominali (overt system “sistema trasparente”). Sempre come premessa terminologica, un'importante distinzione va pure fatta tra quelli che Greenberg chiama concord e agreement (potremmo tentare, in italiano, di fare corrispondere ai due termini rispettivamente concordanza e accordo). Solo quest'ultimo (agreement, accordo propriamente detto) è il termine che descrive la situazione dei generi nominali, per i quali vi è una scelta determinata dalla classe cui appartiene il nome reggente, mentre una semplice concordanza 1 Si vedrà qualche esempio tratto da una di queste lingue, il dyirbal, nella seconda parte degli appunti, di considerazioni sincroniche su “Percezione visiva e assegnazione di genere”. 2 Un sistema ancora più raro prevede «classificatori per i verbi», in cui un morfema specifico viene apposto al verbo a seconda della classe cui appartiene il nome argomento del verbo stesso. Per esempio nella lingua caddo (della famiglia nord dakota) le frasi kassi’ háh-‘ic*’á-sswí’-sa’ «lei sta infilando perline» e ka’ás háh-‘ic*’ah-‘í’-sa’ «le prugne stanno crescendo» contengono entrambe, tra i morfemi che accompagnano il verbo, ‘ic*’á/‘ic*’ah, lett. «occhio» che specifica la nozione di «(piccolo) oggetto rotondo» (rispettivamente kassi’ «perlina» e ka’ás «prugna»). (=costrutti in cui due o più elementi presentino uno stesso trattamento sintattico) può aver luogo senza l'esistenza di classi nominali, per esempio là dove vi siano dei sostantivi declinati che richiedano aggettivi nello stesso caso (cfr. ungherese eb-ben a kert-ben “in questo giardino”, in cui sia eb“questo” sia kert- “giardino” sono al locativo). Per entrare nel merito della ricerca, Greenberg esamina il processo di rideterminazione delle marche di classe avvenuto o in corso di svolgimento in numerose lingue africane dotate di generi. All'interno del gurma, sottogruppo della più vasta famiglia delle lingue voltaiche (cioè parlate nel bacino del Volta), si presentano quattro tipi di situazione, corrispondenti, assai verisimilmente, a quattro stadi di avanzamento di questo fenomeno di rinnovamento delle marche di genere: 1- Lingue che, come il moba, hanno solo suffissi di classe (punto di partenza); 2- Lingue, come il gurma, in cui la marca di classe può anche comparire davanti al nome con un valore di articolo determinativo; 3- Lingue, come il gangam, in cui questo articolo non ha solo valore di articolo determinativo ma ha assunto anche altre funzioni, che Greenberg denomina di articolo «non-generico»; 4- Lingue, come l'akasele, in cui questo «articolo» si è finalmente saldato al nome, dando luogo a marche di genere sia pre- che suffissali (punto di arrivo dell'evoluzione). Si può quindi tracciare una linea evolutiva che dall'assenza di marche di genere (1) va alla nascita di un articolo (2), alla sua progressiva estensione in usi «non generici» (3) ed infine alla nascita di vere marche di classe (4). La fase forse più interessante è quella dell'articolo «non generico», che comprende, oltre ai contesti in cui il nome è definito, anche quei casi in cui si fa riferimento ad un nome specifico, per cui però l'italiano o l'inglese userebbero un articolo indefinito, p.es. in frasi del tipo sto cercando un libro (intendendo un libro specifico, che io ho in mente, non un libro in generale, piuttosto che un altro oggetto). Benché oscillanti nelle diverse lingue che se ne servono, gli usi di questo articolo «non generico» testimoniano di una graduale estensione dell'articolo ad un numero sempre più ampio di contesti, che ha luogo a spese del valore di definitezza dell'articolo stesso, cosicché a lungo andare questo antico articolo finisce per trasformarsi in una marca nominale obbligatoria in ogni contesto e priva di qualunque valore di definitezza. Dopo avere osservato che fenomeni analoghi hanno luogo in altre lingue africane anche per rinnovare marche di genere prefissali con marche suffissali o pre-prefissali ecc., Greenberg osserva che: «A priori non c'è motivo perché il processo attraverso il quale un articolo diventa una marca nominale debba limitarsi a lingue del gruppo niger-congo. In secondo luogo, non c'è motivo perché ciò debba aver luogo solo in sistemi di generi che non comprendono il sesso come base semantica per il genere.1 In terzo luogo, è evidente che il processo non deve per forza limitarsi al rinnovamento di marche di genere, ed essere quindi ristretto a lingue che già possiedono marche di genere evidenti (...). In quarto luogo, come vedremo, non vi è motivo neppure perché questo processo sia ristretto a lingue già dotate di una qualsivoglia classificazione di generi» (p.58). Sulla base di queste ipotesi di lavoro, Greenberg analizza la situazione di numerose lingue al di fuori dei gruppi da cui era partito, trovando la conferma della possibilità di stabilire un «tipo» di nascita di morfemi di genere nel nome a partire da un articolo, e prima ancora da un dimostrativo («stadio zero» del processo). Il processo, del tutto analogo a quello esaminato a proposito del «rinnovamento» dei morfemi in lingue che già possedevano una distinzione dei generi, prevede così: - uno «stadio I» con nascita dell'articolo; - uno «stadio II» con progressiva estensione degli usi di questo articolo (articolo «non generico»); 1 Ricordo che col termine «genere» Greenberg intende quel tipo di classificazione presente nelle lingue che distinguono classi nominali dotate di «accordo» nel senso sopra esposto, indifferentemente dal numero di classi e dal loro valore semantico, e che di fatto un «genere grammaticale» legato alla semplice distinzione maschile-femminile non si distingue da tutti gli altri sistemi compresi in questa categoria se non per il numero ridotto di classi nominali e per il particolare valore semantico delle due classi in opposizione. Ad esso Greenberg fa riferimento col termine «sex-gender system». - e infine uno «stadio III» con la scomparsa pressoché totale delle forme prive di «articolo» e il suo scadimento a semplice marca nominale obbligatoria e distintiva di tante diverse classi nominali quante erano le forme di «articolo» degli stadi precedenti. Ricavata in questo modo una sequenza abbastanza plausibile e documentata di passaggi «obbligati» nella nascita ed evoluzione di una distinzione morfologica di diverse classi nominali, resta da stabilire le possibili modalità di evoluzione dei fenomeni di «accordo». Anche qui un ruolo decisivo sembra essere svolto dai dimostrativi/pronomi di terza persona1. Senza entrare così nel dettaglio come nello studio della nascita delle classi nominali, Greenberg si limita a rilevare che è una costante tendenza dei dimostrativi quella di produrre fenomeni di «concordanza». Se il dimostrativo da cui parte il processo non è distinto in base a categorie semantiche, come nel caso dell'«articolo» ebraico o arabo, avremo fenomeni di semplice «concordanza» (nel senso sopra descritto), p. es. ebr. ha-yyeled ha-t!\t!\ov “il bravo ragazzo”, lett. “il-ragazzo, il-bravo”. Dove invece il dimostrativo è differenziato secondo i generi, avremo la nascita di un vero e proprio «accordo», p. es. berbero ta-funast ta-mgart “la/una vecchia mucca” [<“(la-)mucca (la-)vecchia” (qui siamo già alla fase III senza più connotazioni di determinatezza per l'«articolo»)] che si contrappone a a-funas a-mgar “il/un vecchio bue” [< “(il-)bue (il-)vecchio”]. È evidente in entrambi i casi che questi fenomeni nascono da fatti di topicalizzazione, messa in rilievo, cioè, di un elemento noto (il sostantivo), con sua ripresa da parte di un dimostrativo: “il bue, quello vecchio”. È così che i dimostrativi/marche di genere vengono estesi anche agli aggettivi, ma un fenomeno analogo può avvenire anche con i verbi: da topicalizzazioni come (dial. italiani settentrionali) la violetta, la2 va, la va , da cui si sono originate forme verbali distinte secondo i generi (lù) el va / (lee) la va (v. più avanti a proposito della situazione delle lingue semitiche). Per concludere, Greenberg pone il problema di come, in ultima analisi, si possa spiegare la nascita, all'interno dei dimostrativi, di differenziazioni morfologiche correlate a differenziazioni semantiche. Anche in questo caso l'indagione è volutamente limitata a pochi cenni. Basandosi su suoi precedenti studi egli si limita a constatare l'importanza che possono avere assunto in questo contesto antichi «classificatori» (su quali, v. sopra). Questi antichi nomi, spesso svuotati di valore autonomo e presenti obbligatoriamente in sintagmi di numerazione, presentano in diverse lingue una spiccata tendenza ad estendere il proprio uso applicandosi in primo luogo anche ai dimostrativi, fondendosi poi con essi. É forse a fenomeni di questo tipo che si può imputare la nascita di dimostrativi connotati semanticamente, non solo per le categorie “maschile” / “femminile”, ma anche secondo diversi altri criteri. 1.3 Il «genere grammaticale» in camito-semitico La situazione delle lingue camito-semitiche3, per quanto riguarda la distinzione dei generi grammaticali, è ancor meno chiara di quella delle lingue indeuropee. Oltretutto, la natura dell'indagine, che per numerose lingue «camitiche» è ristretta ad attestazioni non di molto anteriori a questo secolo, non facilita la comprensione del succedersi nel tempo dei vari fenomeni. Di fatto, 1 A volte anche dagli indici di persona incorporati nel verbo, circostanza che può forse rivelarsi di una certa importanza, come vedremo più avanti a proposito del genere nelle lingue semitiche. 2 Originariamente ancora con valore dimostrativo/pronominale. “essa”. 3 Giova ricordare che le lingue «semitiche» sono un gruppo relativamente omogeneo, in cui è possibile riscontrare notevoli convergenze sia nel sistema fonematico, sia nella grammatica, sia nel lessico (sem. orientale: accadico; sem. nordoccidentale: ugaritico, fenicio, ebraico, aramaico, ecc.; sem. meridionale: arabo, sudarabico, etiopico), mentre le lingue «camitiche» sono costituite da più gruppi alquanto eterogenei tra loro e rapportabili in maggiore o minor misura con le lingue semitiche, pur senza quella regolarità nelle corrispondenze fonetiche e quelle estese congruenze nel lessico che giustificherebbero a pieno titolo l'esistenza di una comune famiglia in senso genealogico (antico egiziano e copto; libicoberbero parlato nel Nordafrica; lingue «cuscitiche» parlate intorno al Corno d'Africa; lingue ciadiche). solitamente vengono prese in considerazione le sole lingue semitiche e l'egiziano, per via della loro maggiore affidabilità ai fini ricostruttivi.1 Dovendo descrivere in modo sintetico (e per questo forzatamente incompleto) la situazione di queste lingue, si osserva innanzitutto che, a differenza di quelle indeuropee, esse non conoscono, accanto al maschile e al femminile, anche un neutro sistematicamente organizzato. Delle due classi, maschile e femminile, è quest'ultima ad essere marcata morfologicamente dalla presenza di affissi (per lo più suffissi) generalmente caratterizzati dalla presenza di una dentale t, mentre il maschile comprende tutti quei nomi che non presentano quest'elemento morfologico (nomi primitivi o derivati con affissi non in dentale). Lo schema che si suole ricostruire limitatamente alle lingue semitiche per i morfemi di maschile e di femminile è il seguente2: maschile femminile singolare *Ø *-at plurale *-uµ/*-ıµ *-aµt Quello che a prima vista appare evidente, comunque, è che il suffisso in -t non caratterizza solo o principalmente gli esseri viventi di sesso femminile, ma anzi è un elemento morfologico presente nella derivazione di un numero notevole di classi di nomi. L'opinione più diffusa, anzi, giunge addirittura al punto di considerare questa -t come un morfema di derivazione privo di uno specifico valore semantico primario, il cui valore sarebbe stato di volta in volta determinato dalla natura della base cui veniva affisso, secondo lo schema seguente: 123[4- Nome di essere animato maschio + -t Base qualitativa (aggettivo o verbo) + -t Nome di unità + -t Collettivo + -t Æ nome di femmina; Æ nome astratto; Æ collettivo/plurale; Æ nome di unità.] (L'ultimo caso, quello della derivazione di nomi di unità da collettivi, è suscettibile di contestazione perché, come vedremo, non è dato trovarlo in antico egiziano, al contrario degli altri tre tipi di derivazione)3. Per quanto riguarda la derivazione di nomi della femmina da nomi di esseri animati di sesso maschile per mezzo di affissi in dentale, va osservato che questo tipo di derivazione non appare risalire ad epoche molto antiche: nelle lingue semitiche è infatti assai frequente l'uso di nomi radicalmente diversi per femmine e maschi, come per es. arabo h\imaµr “asino maschio”, ’ataµn “asina”. In coppie come questa si assiste solo in epoca relativamente tarda, ad una tendenza a «rideterminare» il nome della femmina con il morfema in questione, con la nascita di nomi come ’ataµnat per «asina». Molto più diffusa e antica appare invece la derivazione di nomi astratti da verbi o aggettivi mediante l'impiego di affissi in dentale.4 Per questo, ad esempio, in accadico l'aggettivo damqum “buono”, allo stato «assoluto» (usato cioè predicativamente), damiq significa “è buono”. La forma 1 Tra i numerosi studi complessivi apparsi di recente, ricordo in particolare F. Aspesi, La distinzione dei generi nel nome antico-egiziano e semitico, Firenze: La Nuova Italia, 1977. 2 Intendendo descrivere una situazione a grandi linee, non verrà qui trattata la situazione del duale. 3 Cfr. Aspesi, op.cit. , p. 55 e ss. 4 L'uso del termine «basi qualitative» per indicare verbi e aggettivi discende dal fatto che, a differenza delle lingue indeuropee, in cui morfologia del nome e morfologia del verbo appaiono ben differenziate, le lingue semitiche mostrano confini meno marcati tra queste classi morfologiche, ed in particolare presentano una radicata tendenza all'impiego predicativo di aggettivi, con la nascita, intorno agli inizi dell'epoca storica, di una nuova coniugazione verbale. Sull'interessante fenomeno del continuo rinnovamento del sistema verbale alimentato dalla grammaticalizzazione di «frasi nominali», si può oggi consultare l'approfondito studio di David Cohen La phrase nominale et l'évolution du système verbal en sémitique, Paris 1984 [1986] (“Collection linguistique publiée par la Société de Linguistique de Paris” LXXII). «femminile» da questa «base», damiqtum, ne costituisce anche il nome astratto: “il bene”. Tale uso, estesissimo in tutte le lingue semitiche, comporta la conseguenza di rendere piuttosto problematico un confronto con l'evoluzione della distinzione dei generi in indeuropeo, dove invece non sembra irragionevole l'ipotesi che un ruolo importante nell' estensione dei morfemi di genere all'interno del sistema grammaticale sia stato giocato proprio dagli aggettivi. Se infatti il valore «primario» delle terminazioni in dentale affisse a basi qualitative era quello di derivarne il nome astratto, risulta difficile pensare che esse potessero avere presto assunto senza problemi quello di derivare una forma femminile da quella maschile. Il problema più delicato che si pone a chi cerchi di indagare l'origine della distinzione dei generi nelle lingue semitiche è comunque costituito dall'inestricabile nesso che esiste tra forme in dentale ed indici di numero, sia per quanto riguarda i nomi di unità derivati da collettivi mediante questi morfemi, sia per le formazioni di collettivo (e spesso di vero e proprio «plurale») che vengono frequentemente derivate, nello stesso modo, da nomi di unità. Affissi in dentale usati per la derivazione di collettivi, che frequentemente evolvono in veri e propri plurali sono frequentissimi nelle lingue semitiche, p. es. arabo xaddaµmat «servitori». L'accadico e l'etiopico (lingue «marginali» nelle quali è quindi lecito attendersi di poter individuare arcaismi nel caso di isoglosse) concordano nel possedere un elevato numero di sostantivi «maschili» dotati di un plurale in dentale, p. es. accadico naµru “fiume”, pl. naµr aµt u (in etiopico, questo è addirittura l'unico modo di formare plurali per suffissazione, indipendentemente dal genere del sostantivo). D'altra parte, è spesso difficile tracciare un confine netto tra categorie come quella dell'astratto, del collettivo e del plurale, come si può vedere, per esempio, nel caso del suffisso -uµt dell'accadico, che costituisce astratti (p.es. s &ibuµtum “testimonianza”), ma forma anche il plurale maschile degli aggettivi (es. t!\a µbuµtum «buoni», ma vale anche “amici” e “amicizia”). Quanto alla formazione di nomi di unità a partire da collettivi mediante l'affissazione di morfemi «femminili», questa appare molto diffusa in lingue come l'arabo (p.es. dalla radice QT‘ “fare a pezzi”: qita‘ = “pezzi”, ma qit‘at = “pezzo”), al punto che vi sono stati studiosi che hanno ritenuto originario per gli affissi in dentale proprio il valore di derivatori di nomina unitatis. A ciò si oppone, però, come si è anticipato, il fatto che questo valore non trova riscontro nella pur antichissima documentazione antico-egiziana. E nello stesso ambito semitico, le lingue di più antica attestazione non presentano che rarissimi casi di nomina unitatis in -t. É possibile che un ruolo in questa evoluzione sia stato svolto dallo «sdoppiamento» delle terminazioni di «femminile», avvenuto in un'epoca relativamente recente, con la contrapposizione di un «singolare» e di un «plurale» distinti dalla lunghezza della vocale: -at /-aµt. In questo caso sarebbe forse possibile spiegare l'origine di serie di 3 termini come ar. tuffaµh \ «mela /-e» (concetto non numerabile, p. es. in espressioni come «coltivare mele»), tuffaµh\at «(una) mela», tuffaµh\aµt «(un determinato numero di) mele». Dal nome «primitivo» sarebbe sorto dapprima un «plurale in dentale» da cui poi si sarebbe ulteriormente derivato, contrapponendo -at a -aµt, un «singolare». Da una trafila del genere, forse, è possibile ipotizzare la nascita del valore di derivatore di nomi di unità per il morfema di «femminile» nelle lingue semitiche più recenti. Una caratteristica a prima vista sconcertante della sintassi dei numerali cardinali in tutte le lingue semitiche (ma a quanto pare non condivisa da alcuna lingua «camitica») illustra bene la complicazione di questo intreccio morfologico e semantico di genere e numero. Si tratta di questo: i numerali superiori al 2 compaiono muniti di una terminazione in dentale identica a quella del «femminile» quando accompagnino sostantivi maschili (che di tali terminazioni sono, normalmente, privi), mentre ne rimangono privi quando si riferiscono a sostantivi femminili. Es.: arabo talaµtat-u banıµn a «tre figli», ma talaµtu ban-aµt -in «tre figlie». Questa apparente «bizzarria», che da sempre ha costituito un motivo di perplessità negli studiosi di linguistica semitica discende, con molta verisimiglianza, da un'«interferenza» tra la nascente categoria del genere e un'anteriore situazione in cui i morfemi in -t erano soprattutto indici di pluralità (non a caso il fenomeno non ha luogo con i numerali 1 e 2, con i quali sarà stato necessario l'uso del singolare e del duale)1. É cioè probabile che vi sia stato uno stadio in cui la pìluralità, con i numerali maggiori di 2, veniva indicata, per mezzo di morfemi in dentale, in uno soltanto dei due membri del sintagma numerativo: o nel nome (nel qual caso il numerale non avrebbe subito modificazioni) o nel solo numerale nel caso che il nome non potesse far uso di queste terminazioni (p.es. nel 1 Per le più recenti direzioni della ricerca in proposito, si può consultare: V. Brugnatelli, Questioni di morfologia e sintassi dei numerali cardinali semitici, Firenze: La Nuova Italia, 1982. caso di nomi di animati di sesso maschile, in cui una -t avrebbe derivato il nome della femmina e non il plurale). Prima di concludere questa presentazione del quadro della distinzione dei generi nelle lingue semitiche, giova ricordare un'ulteriore difficoltà che si frappone all'individuazione della situazione più arcaica e quindi del modo di imporsi di questa innovazione. Si tratta del numero complessivamente assai scarso dei «fonemi» (soprattutto di quelli consonantici) che entrano a far parte degli affissi morfologici delle lingue semitiche. La particolare morfologia di queste lingue, basata su una ricca articolazione del gioco apofonico, permette infatti di far uso di un numero relativamente ristretto di affissi, che oltretutto mostrano una tendenza, ancora in epoca storica, ad una massima semplificazione. Di fatto i soli «morfo-fonemi» consonantici di lingue come l'arabo o l'ebraico sono, oltre alle semivocali y e w, le nasali n e m, la fricativa h (che ha quasi ovunque sostituito una più antica s), nonché le occlusive ’ e t. Quest'ultima si è estesa, nelle lingue più recenti, a spese di altri suoni occlusivi, come k, ancora presente nelle lingue più antiche, p.es.: 1. pers. sg. della coniugazione a suffissi, accadico -aku, arabo -tu. Ora, data questa situazione, non è possibile escludere a priori la possibilità che le molteplici funzioni dei morfemi in dentale continuino in realtà le funzioni di diversi affissi in occlusiva un tempo differenziati e successivamente confluiti in un'unica formazione in dentale. Per fare un esempio, anche l'inglese, che presenta una morfologia assai ridotta, conosce pochi «morfo-fonemi», e tra essi vi è la marca di plurale nominale -s, che a prima vista è omofona alla marca di terza persona singolare del verbo -s, col risultato di apparenti «bizzarrie» come one fly flies «una mosca vola» ma two flies fly «due mosche volano», dove il comportamento di -s potrebbe apparire analogo a quello di -at negli esempi coi numerali arabi citati in precedenza. Dal momento però che dell'inglese ci è nota la storia grazie al confronto con le altre lingue germaniche di più antica ettestazione e delle altre lingue indeuropee, ogni possibile speculazione su di una -s «marca di plurale» nel nome ma «marca di singolare» nel verbo viene prevenuta dal fatto che è ben noto come queste terminazioni, oggi omofone, un tempo non lo erano affatto e non possono quindi essere considerate congiuntamente in una visione diacronica. Prendendo atto di tutte queste difficoltà che tuttora ostacolano la ricostruzione delle modalità di affermazione dell'innovazione della distinzione dei generi nelle lingue camito-semitiche, non rimane in questa sede che esporre qualche considerazione alla luce degli studi di tipologia della nascita del genere grammaticale, come quello, esaminato in precedenza, di Joseph Greenberg. Da questo punto di vista, bisogna riconoscere che la situazione delle lingue semitiche appare poco congruente con i processi generali individuati da Greenberg. Da una parte è ben difficile riconoscere in -at un antico «articolo femminile» la cui incorporazione nei nomi abbia potuto dar luogo alla nascita di una «classe nominale» che sarebbe stata il punto di partenza per la diffusione dell'innovazione (e d'altra parte il fatto che il maschile non sia formalmente marcato rimanderebbe in questo caso ad un'improbabile situazione con un articolo «maschile» di forma Ø!). Inoltre, pur esistendo una differenziazione morfologica di maschile e femminile nei pronomi di seconda e terza persona, questa si attua mediante affissi completamente diversi da quelli impiegati per distinguere le due classi nei nomi. Il femminile «pronominale» è caratterizzato da una terminazione -i (cf. arabo 2.sg. m./f. anta /anti, 3. sg. m./f. huµ(wa) / hȵ(ya), ecc.).!! Sembra dunque difficile pensare che da pronomi siffatti discendano, attraverso una fase di «articolo» i morfemi che diedero luogo alla nascita del femminile nominale. L'unico appiglio, se si vuole rimanere nell'ambito delle proposte di tipologia dell'evoluzione dei sistemi di genere grammaticale avanzate da Greenberg, andrà ricercato nell'indice pronominale affisso alle più antiche coniugazioni verbali semitiche, cioè quelle a prefissi. Qui infatti, contrariamente alla situazione della più tarda coniugazione a suffissi, la terza persona non è priva di marca, né nel maschile né nel femminile (rispettivamente y- e t-), e ciò può far pensare che abbiamo qui incorporati due antichissimi «pronomi», analogamente a molti dialetti italiani settentrionali in cui le forme verbali di terza persona, acompagnate o meno da un soggetto (anche pronominale), sono sempre accompagnate da indici di genere, p. es. (lù, el birocc, ecc...) el va, ma: (lee, la violetta, ecc...) la va. In questo caso i morfemi semitici in dentale caratteristici del femminile avrebbero origine da questo pronome, che peraltro sarebbe stato poi sostituito, in seguito al suo scadimento prima ad articolo e poi a semplice marca nominale, da nuovi pronomi che sono poi quelli storicamente attestati. D'altra parte non si tratta che di un'ipotesi, e lo stato ancora non molto avanzato della ricerca sulle modalità di affermazione della distinzione dei generi nelle diverse lingue del mondo non esclude che le lingue camito-semitiche abbiano proceduto in un modo diverso, peraltro ancora da chiarire con precisione.