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Riflessi linguistici delle differenze di genere

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Riflessi linguistici delle differenze di genere
Linguistica generale I e II
Nicola Grandi e Vermondo Brugnatelli
a.a. 2003/2004
Riflessi linguistici delle differenze di genere
(nel sistema della lingua e nei suoi usi sociali)
1. Riflessi all'interno del sistema : la "distinzione grammaticale dei generi".
1.a Aspetti diacronici
1. Il «genere grammaticale» in indeuropeo
2. Tipologie della nascita dei «generi grammaticali»
3. Il «genere grammaticale» in camito-semitico
L'argomento di questo corso affronta una delle funzioni cruciali della lingua, quella del suo
rapportarsi con la realtà «extralinguistica». Benché non siano mancate correnti di pensiero,
soprattutto in ambito strutturalistico, che hanno tentato di presentare descrizioni linguistiche che
prescindessero il più possibile da tutto ciò che, al di fuori del «sistema» linguistico, sfugge ai tentativi
di descrizione sistematica, è evidente che lingue «ideali» consistenti solo in un insieme di rapporti più
o meno complessi tra elementi astratti non esistono. Una lingua totalmente priva di riferimenti, sia di
ordine semantico sia di ordine pragmatico, alla realtà esterna, non potrebbe esistere. Quantomeno, non
potrebbe essere definita «lingua». Si tratterebbe, nel migliore dei casi, di un'improbabile entità
metafisica, una potenzialità astratta destinata a non realizzarsi in atto. Una lingua presuppone
l'esistenza di parlanti e l'esistenza di una realtà suscettibile di essere percepita e descritta, comunicata
tra i locutori.
Ovviamente, una lingua non contiene una proiezione immediata del mondo circostante quale esso
è, ma rispecchierà piuttosto il modo di rapportarsi al mondo da parte dei parlanti. Di qui l'esistenza di
categorie semantiche assai differenziate a seconda delle molteplici culture che delle varie lingue fanno
uso. La distinzione dei due sessi è una categorizzazione della realtà che, in vario modo, è recepita da
numerose lingue del mondo.
Il primo aspetto che verrà qui esaminato sarà proprio quello relativo alle modalità di proiezione,
all'interno di sistemi linguistici, di categorie formali correlate ai due generi riscontrabili nel mondo
animale, e in particolare nella specie umana: la cosiddetta «distinzione grammaticale dei generi», nelle
lingue che la possiedono.
Esiste una nota teoria, conosciuta col nome di«ipotesi Sapir-Whorf», secondo la quale il rapporto
tra rappresentazione del mondo e forma linguistica sarebbe così stretto da provocare considerevoli
influssi nei due sensi: non sarebbero solo le rappresentazioni della realtà a condizionare le strutture
linguistiche, ma anche, all'inverso, le strutture linguistiche condizionerebbero in misura rilevante il
modo di rapportarsi con la realtà da parte dei parlanti. Per quanto questa teoria nel suo complesso
trovi molti oppositori, e non si possa certo considerare dimostrata, limitatamente all'argomento che ci
interessa sarà interessante notare come i sistemi linguistici, soprattutto là dove la «distinzione dei
generi» è grammaticalizzata in modo esteso, possano svolgere un ruolo nell'accentuare la
consapevolezza dell'esistenza oggettiva di due categorie “maschile” vs. “femminile”, estese
«metaforicamente» anche al di là degli esseri animati. Altri e non meno importanti sono gli influssi
che il sistema linguistico finisce per esercitare sulle concezioni che i parlanti hanno dei rapporti uomodonna nella società, soprattutto là dove asimmetrie nel sistema si scontrano con esigenze riconosciute
di parità tra i sessi.
Questo secondo aspetto della questione, cui si suole fare riferimento col termine di «sessismo
linguistico», è entrato solo di recente nel dibattito linguistico ma ha già dato luogo ad interessanti
ricerche nell'ambito di diverse lingue (inglese, tedesco, francese e anche italiano, benché con un certo
ritardo rispetto alle altre lingue).
Un ultimo aspetto, che non può essere trascurato in uno studio dei rapporti tra sessi e linguaggio, è
quello sociolinguistico, e riguarda la variabilità linguistica legata al sesso del parlante. Dal momento
che l'uso di determinate varietà di lingua può essere statisticamente correlato all'appartenenza dei
parlanti a diversi gruppi sociali, soprattutto di recente si è provveduto ad investigare l'uso che i
parlanti maschi e femmine fanno della lingua. Ovviamente quanto maggiore è l'integrazione tra i due
sessi tanto minore sarà la variabilità. Ancor oggi esistono società tradizionali in cui ad una rigida
separazione tra i sessi corrispondono macroscopiche divergenze linguistiche tra i due gruppi; invece
nelle moderne società industrializzate la variabilità si limita di norma al solo uso statisticamente
divergente di determinati registri linguistici.
1. Riflessi all'interno del sistema : la "distinzione grammaticale dei generi".
Un settore delle lingue che è particolarmente sensibile alla proiezione di categorie
«extralinguistiche» all'interno dei sistemi linguistici è costituito da quella parte della grammatica che
più ha a che vedere con quello che Benveniste chiamava l' «apparato formale dell'enunciazione»1.
Questo «apparato» non va confuso con la sostanza delle singole enunciazioni, appartenenti in quanto
parole alla sfera della massima soggettività, che male si presta ad un'analisi linguistica, ma costituisce
invece tutto quell' insieme di condizioni delle quali non può fare a meno qualunque atto di
«enunciazione». Questo insieme di condizioni, in sé a prima vista non specificamente «linguistiche»,
finiscono però per costituire, in quanto di fatto indispensabili per l'esistenza di qualunque
«enunciazione», e quindi di qualunque lingua, un insieme di dati di fatto correlati a parametri
sufficientemente generali e dunque relativamente sistematizzabili.
L'enunciazione, atto indispensabile per tradurre l'astratta «possibilità di lingua» in una
realizzazione concreta della «lingua», comporta l'espressione, da parte del locutore, di almeno alcune
«coordinate» che permettano di collocare l'atto di enunciazione nella realtà fisica esterna (chi parla; a
chi è diretta l'enunciazione; quando questa avviene; dove, ecc.). Di qui la nascita di varie classi di
elementi morfologici presenti in tutte le lingue del mondo (eventualmente con sfumature di significato
ritagliate in modo diverso in lingue diverse): anzitutto i pronomi di prima e seconda persona,
successivamente i numerosi indici di ostensione (pronomi dimostrativi, avverbi di luogo...) ed il
sistema dei rapporti temporali relativamente al momento in cui l'enunciazione ha luogo.
Come avremo modo di vedere più avanti nel dettaglio, càpita storicamente assai di frequente che il
«cavallo di Troia» attraverso il quale si introduce in un dato sistema linguistico la distinzione dei
generi sia proprio una delle categorie citate (in particolare la seconda, quella degli indici di
ostensione). A riprova di ciò, basta osservare che le lingue del mondo che possiedono una distinzione
dei generi in grado più ridotto (p.es. l'inglese), solitamente si limitano a distinguere questa categoria
nei dimostrativi o nei «pronomi» (sia quelli di prima e seconda persona , sia quelli «di terza persona»,
la cui natura è assai più prossima ai dimostrativi che ai «pronomi»).2
1.1 Il «genere grammaticale» in indeuropeo
Passando ora ad esaminare alcuni esempi di lingue dotate di una distinzione sistematica dei generi
nella morfologia nominale, il primo ambito linguistico che si presta all'osservazione è quello
1
P. es. in: Problemi di linguistica generale II , Milano (Saggiatore), 1985, 96 ss.
Un altro esempio a prima vista curioso ma che si inserisce in modo esemplare in queste considerazioni è il caso del
basco, lingua in generale assolutamente priva di distinzione dei generi, che presenta un solo fenomeno morfologico
correlato ai sessi: il «trattamento» del verbo a seconda del sesso dell'interlocutore, in cui traspare evidentemente la traccia
dell'incorporazione di antichi pronomi di seconda persona di forma maschile / femminile: eman dik “egli lo ha dato”
(parlando a un maschio) / eman din “egli lo ha dato” (parlando a una femmina).
2
indeuropeo. Qui le prime ricostruzioni proponevano addirittura una «protolingua» dotata di un
sistema con tre generi, in cui accanto al maschile e al femminile, vi sarebbe stato fin dalle origini un
neutro (propriamente «inanimato»), posto sullo stesso piano dei due generi portatori, semanticamente,
di una differenza sessuale.
Un penetrante studio di Antoine Meillet1 , pubblicato già a pochi anni di distanza dalla decifrazione
dell'ittito (divulgata dopo la fine della I guerra mondiale), rimise in discussione questa immagine,
proponendo una visione più scaglionata nel tempo, in cui in definitiva la distinzione di due generi,
maschile e femminile, all'interno dell'«animato» appare un'innovazione relativamente tarda, mentre
assai più antica doveva essere la distinzione tra animato e inanimato (poi «neutro»).
Già fin dai primissimi studi successivi alla sua decifrazione l'ittito aveva presentato caratteristiche
alquanto imbarazzanti per gli indeuropeisti che cercavano di collocarlo all'interno della famiglia
indeuropea. Accanto ad alcune caratteristiche estremamente arcaiche, che non permettevano di
dubitare della sua collocazione all'interno di questa famiglia, l'ittito presentava però divergenze anche
notevoli in merito a diverse questioni di non poco conto. Per questo vi fu chi, come Forrer o
Sturtevant, avanzò l'ipotesi che la lingua ittita fosse sì imparentata con le altre lingue indeuropee, ma
non in quanto «figlia», al pari di queste ultime, della lingua-madre indeuropea, bensì in quanto
«sorella» della stessa lingua «indeuropea», e facente parte, come questa, di una medesima famiglia
«indo-ittita».
Appoggiandosi oltre che sulla situazione dell'ittito anche su quella del tocario (anch'esso
conosciuto solo agli inizi del 20° secolo) nonché dell'armeno (noto da tempo, ma a lungo ritenuto una
lingua iranica e perciò poco studiato autonomamente), Meillet rileva come sia possibile avanzare
un'altra ipotesi per rendere conto di questi fatti. Esistono infatti diversi tratti comuni a queste lingue
che sembrano ignoti alla maggioranza delle altre lingue indeuropee, anche se la rispettiva posizione
geografica può far escludere che si tratti di innovazioni comuni successive alla dissoluzione dell'unità
indeuropea. 2 «Enunciata in termini storici, quest'ipotesi si traduce così: le lingue marginali si
sarebbero staccate dal grosso della «nazione indeuropea» in un'epoca in cui l'indeuropeo comune
possedeva certe forme che in seguito sarebbero scomparse e che, di conseguenza, non sarebbero state
recate con sé dai gruppi staccatisi posteriormente.» (p.5)
Ora, una siffatta ipotesi sembra in grado di render conto di numerosi fatti, e in particolare della
situazione dei generi grammaticali, che proprio in ittito, come vedremo, si presentano in modo
marcatamente diverso dalle altre lingue indeuropee.
Riassumendo i dati sul genere grammaticale nelle altre lingue indeuropee, si osserva che:
A- Qualunque tipo di tema nominale può in indeuropeo avere valore maschile o femminile. Il
comportamento di gran parte degli aggettivi (p. es. lat. novus [tema in -o, masch.] /nova [tema in aµ,
femm.], ecc.) potrebbe a prima vista far pensare che i temi in -o- fossero propri del maschile (e del
neutro) e che quelli in -aµ- fossero propri del femminile. Tuttavia la comparazione mostra che esistono
parecchi nomi femminili con temi in -o- (p. es. gr. nyos «nuora»; lat. [patula] fagus «faggio
[frondoso]», e così tutti i nomi di piante) e che, viceversa, molti temi in -aµ- sono maschili (gr. políteµs
“cittadino”, lat. agricola “contadino”, ecc.); quanto agli altri temi (in -i-, -u-, in consonante ecc.), è
noto come in essi si possano trovare sia nomi maschili che femminili.
1
«Essai de chronologie des langues indo-européennes», Bulletin de la Société de Linguistique de Paris 32 (1931) pp. 128.
2
Tali tratti sono, ad esempio, la terminazione -r caratteristica di forme medio-passive del verbo, che si ritrova
estesamente in ittito e tocario, e talvolta anche in armeno. Queste attestazioni fanno uscire dal loro isolamento
le forme italo-celtiche come lat. loquor «parlo», amatur «è amato», ecc., dimostrando che non di innovazioni si
tratta, bensì della conservazione di arcaismi. Lo stesso vale per la desinenza di 3. p. plurale caratterizzata da
una -r- come lat. dixere (poi Æ dixerunt «dissero»), che ha ora chiare corrispondenze in tocario ed in ittito. E'
di conseguenza abbastanza logico pensare di avere a che fare con «lingue marginali», nelle quali è facile
ritrovare più estesamente tratti arcaici, non più conservati nel resto del territorio indeuropeo.
B- Esistono diversi nomi che possono riferirsi sia ad esseri di sesso maschile che ad esseri di
sesso femminile.
Peer esempio il sanscrito gaúh\ = gr. boûs = lat. boµs designa a seconda delle circostanze bovini maschi
o femmine. Sono solo mutamenti successivi che hanno portato alla fissazione di un genere, peraltro
divergente, nelle lingue romanze (it. bue, solo masch.) e in quelle germaniche (ted. Kuh, solo femm.).
Viceversa, nomi diversi afferenti allo stesso concetto tendono ad avere lo stesso genere
indipendentemente dal tema di appartenenza: cfr. tutti i nomi per la «terra» in latino, che sono sempre
femminili, sia humus (tema in -o), sia terra (in -aµ), sia tellus/telluris (antico tema in -s con
rotacismo).
C- Un’opposizione morfologica regolare tra significanti riferiti ad entità maschili e ad entità
femminili si trova solo nel pronome dimostrativo ed in alcuni aggettivi.
In questi casi, la differenziazione non risiede in particolarità della flessione ma sta solo nella scelta del
tema (tema in -o per i maschili, tema in -aµ per i femminili).
D- L’esame degli strati più arcaici dell’indeuropeo permette di stabilire che là dove si
presentava la necessità di rendere esplicita una differenza di maschio e femmina si faceva
ricorso anticamente a nomi differenti.
Gli esempi sono molto numerosi, p. es. lat. mater f. / pater m.; taurus m. / vacca f., ecc. In sanscrito vi
erano addirittura numerali di genere diverso come trayah\, catvaµr ah\ («3», «4»), femm. tisrah\,
catasrah\. Essi presentano un «suffisso» *-sor, *-sr facilmente riconducibile all'identico «suffisso»
presente, ad esempio, in termini come *swe-sor «sorella» (sanscrito svasar-, lat. soror) o lat. uxor
“sposa”. È chiaro come questo «suffisso» provenga da un nome (con un significato di “femmina” o
sim.) che entrava in composizione con ciò di cui andava specificato il sesso. Questo conferma il fatto
che anticamente una distinzione riferita al genere naturale non veniva espressa in modo sistematico
attraverso un genere grammaticale.
E- La contrapposizione tra maschile e femminile in indeuropeo appare di natura ben diversa da
quella della contrapposizione tra queste due classi da una parte e il neutro dall'altra.
Un'opposizione tra un genere neutro/ inanimato ed uno animato è di solito caratterizzata, nelle lingue
che la possiedono, da divergenze nella formazione del nominativo e dell'accusativo, solitamente
identici e privi di marche nel neutro/inanimato, e invece differenziati e dotati di marche specifiche
nell'animato (cfr. un aggettivo latino come facilis, facilem [rispettivamente nominativo marcato da una
-s e accusativo marcato da una -m, per il genere maschile e femminile] / facile [nominativo uguale
all’accusativo neutro. privo di marche], oppure, in russo, la contrapposizione tra un animato mal'c˚ik,
mal'c˚ika [«ragazzo», nom. senza desinenza, accusativo in -a] a un inanimato stol [«tavola»,
nominativo = accusativo]). Al contrario, l'opposizione tra maschile e femm. in ie. è sostanzialmente
caratterizzata solo dalla scelta del tema, non da differenze nella flessione.
Come sintetizza Meillet: «Insomma, la distinzione del maschile e del femminile in indeuropeo non
è che un accessorio. Essa non si manifesta né nel verbo, né nel pronome personale, né nel sostantivo,
e neanche in tutti gli aggettivi. D'altra parte parecchie lingue l'hanno eliminata nel corso dell'epoca
storica». (p.10)
La perdita della distinzione dei generi nel nome, che ha avuto luogo in buona parte delle lingue
iraniche e di quelle germaniche, è stata in esse preceduta sempre da una estensione a tutto il lessico
della distinzione temi in -o- : maschili; temi in -aµ- : femminili.
Viceversa, il comportamento delle lingue staccatesi più anticamente dall'unità indeuropea, presenta,
per le epoche più antiche, una situazione ben diversa.
In ittito, dove è nettamente marcata un'opposizione tra animato e neutro, non vi sono tracce di un femminile
ed è difficile pensare, data l'arcaicità di questa lingua, che questa situazione faccia seguito ad una fase anteriore
in cui tali caratteristiche sarebbero state assai sviluppate .
Anche per l'armeno, lingua che fin dalle più antiche attestazioni si presenta priva di una distinzione formale
dei generi, è difficile pensare che tale mancanza faccia seguito alla perdita di un sistema regolare ed esteso
come è avvenuto, invece, nelle vicine lingue iraniche. Diversi nomi, come quello, p. es., della «nuora» nu, che
in altre lingue indeuropee sono «femminili» in -aµ-, si presentano ancora come un tema in -o-, il che mostra che
essi non sono passati attraverso una fase di regolarizzazione morfologica (confronta anche la situazione
arcaizzante del lat. nurus rispetto all'it. nuora, in cui la terminazione è passata ad -a). Inoltre, gli aggettivi in o- hanno solo forme in -o- e non sembrano conoscere alcuna forma corrispondente in -aµ-, come invece
dovrebbe avvenire se vi fosse stata una regolarizzazione sulla base dell'attribuzione dei temi in -o- alla
categoria del maschile e di quelli in -aµ- a quella del femminile.
Anche il latino, lingua che, come si è visto, appartiene a quel gruppo di dialetti indeuropei che si sono
staccati relativamente presto dal resto dell'indeuropeità, presenta uno stato di cose in cui la regolare espressione
dei due generi non è ancora pienamente attuata all'epoca delle prime attestazioni. É anzi risaputo che «in latino
il femminile è in progressiva crescita in epoca storica, giacché vi si vede agna sostituire agnus feµmina».
Numerosi sono in latino i temi in -o- femminili: per esempio i nomi di alberi, come faµg us (che nelle lingue
romanze tenderanno invece a diventare poi maschili, come l'it. faggio) o il nome della terra, humus, che nelle
lingue baltiche e slave ha invece ricevuto un suffisso di derivazione femminile: lit. z˚eme˘ , paleosl. zemlja. E,
viceversa, sono tutt'altro che rari i nomi maschili in -aµ-, come scrıµb a o agricola «contadino». Un'estesa
categoria di aggettivi, poi, quelli della terza declinazione, non mostra alcuna differenza di genere tra maschile e
femminile: fortis , audax , i participi (ferens ), ecc.
Analoghi fenomeni (aggettivi indifferenti al genere e corrispondenza solo parziale tra temi in -o- e genere
maschile e tra temi in -aµ- e genere femminile) si riscontrano nelle lingue celtiche, il sottogruppo indeuropeo con
le più strette affinità con le lingue italiche.
Più contraddittoria la posizione del greco. Da una parte questo mostra già in partenza una situazione più
evoluta del latino, per esempio nei participi che hanno un femminile in -aµ- (férousa «portante [f.]» accanto a
féroµn «id. [m.]»). D'altra parte, però, sono ancora numerose le situazioni di indifferenza al genere, come nei
comparativi (meizoµn “maggiore”, m. e f., rispetto al neutro meizon, analogamente a quello che vediamo, con
altri morfemi, in latino: maior, m. e f. / maius , ntr.), o di maschili in -aµ-, come políteµs “cittadino” e temi in -oindifferenti al genere, come rhododáktylos “dalle rosee dita” [epiteto caratteristico dell'aurora, héoµs, femm.].
Questi indizi di antica indifferenza al genere sono tali da far pensare che il greco debba la conservazione delle
categorie maschile e femminile alla nascita di un articolo determinativo differenziato secondo i generi (m. ho, f.
heµ [< haµ]).
È importante notare «il ruolo dell'articolo nella fissazione dei generi maschile e femminile. Là
dove esistono due forme di articolo a seconda dei generi l'opposizione viene fissata in modo stabile, e
finisce per durare anche se agli inizi era vacillante: è il caso del greco; essa si mantiene anche se per lo
più non ha alcun senso: è il caso del francese. Là dove non vi è un articolo che tenga distinti i generi,
la distinzione, per quanto netta fosse al principio ha la possibilità di esssere eliminata, ciò che è
avvenuto in una parte dell'iranico» (p.15).
Queste osservazioni di Meillet, ricavate da un'approfondita analisi storica, sul ruolo svolto
dall'articolo (derivato da «indici di ostensione» come i dimostrativi) nell' introdurre una regolare
differenziazione dei generi nel sistema grammaticale di una lingua, si accorda molto bene con quanto
abbiamo osservato, al principio del capitolo, sul ruolo dell' «apparato formale dell'enunciazione” nella
nascita della distinzione dei generi grammaticali.
A conclusione dell'indagine della situazione delle diverse lingue indeuropee nei confronti della
distinzione dei generi, Meillet rileva come le lingue che fin dagli inizi presentano il maggior grado di
regolarizzazione della distinzione dei generi siano quelle che vanno dall'indo-iranico al germanico
(comprendendo dunque anche le lingue baltiche e quelle slave), il che permette di affermare che «lo
sviluppo della distinzione del maschile e del femminile era meno avanzata nelle epoche più antiche
rispetto al momento in cui gli ultimi gruppi indeuropei si sono staccati. La distinzione ha progredito
in indeuropeo tra una fase arcaica, rappresentata dalle lingue “marginali”, ed un periodo più recente,
rappresentato dalle lingue centrali».
Questo progredire, più accentuato nei gruppi dall'indo-iranico al germanico e meno accentuato nelle lingue
comprese tra l'armeno e l'italico, è testimoniato anche dal fatto che spesso non vi è una concordanza completa
nei morfemi femminili impiegati. Per esempio, negli aggettivi femminili formati su temi in -u-, come greco
heµdeia (m.: hedús) “dolce” e sanscrito svaµdvıµ (m.: svaµdús), sia il greco che il sanscrito fanno uso di un suffisso
*-yaµ- , ma il greco su di un “grado normale”1 [*-eu- ] e il sanscrito su di un “grado zero” [*-u-], e ciò fa
escludere che queste due formazioni risalgano ad un'epoca «comune».
Per venire, infine, alla ricerca delle cause che hanno dato origine al fenomeno della distinzione dei
generi (una questione che è ancor oggi dibattuta e lungi dall'essere completamente chiarita), Meillet
individua il punto di partenza nei dimostrativi. Anch'essi, per la verità, mostrano un'originaria
indifferenza al genere per quanto riguarda i casi obliqui. Tuttavia, al nominativo e, forse
secondariamente, anche all'accusativo, sembra che fin dalle epoche più antiche siano attestate due
forme diverse per maschile e femminile (qualcosa come nom. *so/*saµ, accus. *tom/*taµm ). E'
probabilmente questa distinzione di maschile e femminile, attuata nei dimostrativi con la
contrapposizione di un tema in -o- e di uno in -aµ-, potrebbe aver fornito lo spunto per un'estensione
della distinzione dapprima agli altri pronomi, e successivamente agli aggettivi, alcuni dei quali («di
valore astratto, come quelli significanti “uno”, “intero”, “stesso”» ) possedevano già una declinazione
di tipo pronominale.
Un ruolo importante sarebbe stato inoltre rivestito dall'esistenza di alcuni vocaboli indicanti individui di
sesso femminile e muniti fin dall'antichità di terminazioni in -aµ. Tale, ad esempio, il nome indeuropeo della
“donna”, gr. guné (genitivo gunaikós), antico alto ted. quena, ecc., che pur non appartenendo alla categoria dei
temi in -aµ-, pure al nominativo doveva avere una forma che terminava in -aµ.
Tuttavia, decisivo sarebbe stato il ruolo dei nomi di agente, per i quali veniva usata fin dall'antichità una
terminazione *-yaµ- [= *-ye´2; al “grado zero”: *-i´2 Æ *-ıµ], come dimostra l'accordo di due lingue agli estremi
opposti dell'area indeuropea, il latino (p. es. masch. genitor, femm. genetr-ıµ-x ) e il sanscrito (p. es.: masch.
janitaµ, femm. janitr-ıµ).
Solo in un'ultima fase, che in molte lingue indeuropeee non appare ancora del tutto completata, si
affermò il principio di far coincidere nomi indicanti esseri di genere femminile o maschile
rispettivamente con temi in -aµ- o in -o-.
1.2 Tipologie della nascita dei «generi grammaticali»
Lo studio di Meillet che ha impostato nelle sue attuali direzioni la ricerca della nascita dei generi
nelle lingue indeuropee si accorda in larga misura con le osservazioni fatte in precedenza riguardo al
ruolo che, nella nascita della categoria del genere, viene svolto dalle categorie grammaticali connesse
con l'«enunciazione». Quest'indagine, infatti, basata sui dati storici disponibili per le lingue
indeuropee, finisce per considerare verisimile l'ipotesi che il luogo da cui si è originata la
differenziazione formale dei generi nei nomi vada individuato nei dimostrativi.
Ma come, di fatto, avvenne questo passaggio? Lo studio di Meillet non può, al riguardo che
rimanere nel campo delle ipotesi, come si è visto. Studi di tipologia del divenire linguistico hanno
affrontato solo di recente la questione generale del modo in cui può avvenire l'estensione delle marche
morfologiche di genere all'interno dell'intero lessico di una lingua.
Il contributo che fin qui appare più significativo da questo punto di vista è stato fornito da uno dei
«padri» delle moderne ricerche di tipologia linguistica finalizzate all'acquisizione di norme
«universali»: Joseph H. Greenberg.2 Valendosi della sua lunga esperienza nell'ambito delle lingue
africane, che spesso presentano complicati sistemi di generi e di classi nominali (anche non correlate
al sesso3) egli conduce un'analisi a partire da alcuni fenomeni di «rinnovamento» delle marche di
1
“Grado normale” e “grado zero” sono termini della linguistica indeuropea. Nelle lingue indeuropee più antiche esisteva
l’apofonia, cioè il mutamento di alcune vocali utilizzato come strumento morfologico. Secondo la lunghezza o la qualità
della vocale si hanno diversi “gradi”. La vocale e è caratteristica del “grado normale”. Quando tale vocale è assente, si
ha il “grado zero”.
2
«How does a Language Acquire Gender Markers?», in: Universals of Human Language (a cura di J.H.Greenberg), vol. 3:
Word Structure, Stanford: University Press, 1978, pp.47-82.
3
Ivi, p.49: «Strutturalmente, sistemi siffatti [= in cui una delle basi di classificazione è il sesso] non differiscono in alcun
modo fondamentale da quelli in cui il sesso non è presente... Quando una delle basi di classificazione è il sesso parleremo
di genere sessuale (“sex gender”)».
genere in alcune lingue africane, estendendo poi le sue osservazioni ad altre lingue del mondo munite
di classi nominali e di genere grammaticale.
Anzitutto, come necessaria premessa terminologica, occorre distinguere il concetto di «sistemi a
classi nominali» («noun class systems»), termine con cui si designa ogni sistema linguistico che
ripartisca i sostantivi in più classi distinte, dal concetto di «sistemi a generi nominali» («noun gender
systems»). Quest'ultimo concetto implica che, oltre alla ripartizione dei nomi tra vari generi, esista un
meccanismo di «accordo», in base al quale la scelta di un nome appartenente ad un dato genere
determini anche la scelta tra serie di forme alternative in una o più altre classi di morfemi o di parole
che a tale nome si riferiscono, per esempio articoli, dimostrativi, aggettivi, pronomi indipendenti usati
anaforicamente, indici pronominali-soggetto incorporati nelle forme del verbo, ecc.
Esistono pure altri sistemi che possono essere compresi nella definizione più vasta di «sistemi a
classi nominali», per esempio i «sistemi a classificatori», in cui le marche di classe sono espresse da
vere e proprie parole (morfemi liberi).1 Particolarmente interessanti, per i fenomeni di “accordo” che
essi instaurano sono i sistemi «a classificatori numerali» o quelli «a classificatori possessivi». Il
primo di questi sistemi, caratteristico di numerose lingue dell'estremo oriente (p. es. il cinese),
permette di distinguere all'interno dei nomi svariate classi, caratterizzate dal tipo di «classificatore»
impiegato nei sintagmi numerativi. Mentre in italiano sono soltanto alcuni sostantivi designanti
collettivi o in generale entità non numerabili che per venire accompagnati da numerali richiedono
l'inserimento di un opportuno vocabolo (p. es. capo in espressioni come tre capi di bestiame, o forma
in due forme di formaggio ecc.), in queste lingue l'uso di determinate parole di questo tipo, dette
«classificatori», è obbligatorio tutte le volte che si impiegano dei numerali, con ogni tipo di nome. Di
qui nasce una «classificazione» dei nomi sulla base del «classificatore» che ciascuno di essi richiede
(esseri animati; oggetti piatti e lisci; oggetti rotondi, ecc.). Analogamente avviene in alcune lingue
amerinde e dell'Oceania nel caso di sintagmi possessivi, che richiedono in tali contesti l'uso di
«classificatori».2
Per quanto riguarda differenze e analogie dei due sistemi a classificatori citati rispetto ai sistemi di
generi, è vero che in ambedue l'uso di un nome appartenente ad una data classe determina la scelta di
un altro elemento (il classificatore), ma è altresì vero che, a differenza dei sistemi a generi nominali,
non tutto il lessico è affetto da questa classificazione (astratti non numerabili non compariranno mai
con numeratore e classificatore, e lo stesso vale per i nomi suscettibili di possesso inalienabile, come
le parti del corpo, che non richiedono classificatore in sintagmi possessivi). Inoltre, nei sistemi a
classificatori l'unico ambito di applicazione dell' «accordo» è proprio quello numerativo o possessivo,
mentre un «genere» ha solitamente ambiti di espressione ben più estesi. Va inoltre osservato che
raramente nei sistemi a classificatori (numerali o possessivi) le varie classi di nomi sono caratterizzate
da elementi morfologici comuni, e l' appartenenza alle diverse classi è data per lo più solo dal valore
semantico del nome (covert system “sistema opaco”), mentre il genere è sovente caratterizzato
dall'esistenza di esplicite marche formali di appartenenza alle diverse classi nominali (overt system
“sistema trasparente”).
Sempre come premessa terminologica, un'importante distinzione va pure fatta tra quelli che
Greenberg chiama concord e agreement (potremmo tentare, in italiano, di fare corrispondere ai due
termini rispettivamente concordanza e accordo). Solo quest'ultimo (agreement, accordo
propriamente detto) è il termine che descrive la situazione dei generi nominali, per i quali vi è una
scelta determinata dalla classe cui appartiene il nome reggente, mentre una semplice concordanza
1
Si vedrà qualche esempio tratto da una di queste lingue, il dyirbal, nella seconda parte degli appunti, di considerazioni
sincroniche su “Percezione visiva e assegnazione di genere”.
2
Un sistema ancora più raro prevede «classificatori per i verbi», in cui un morfema specifico viene apposto al verbo a
seconda della classe cui appartiene il nome argomento del verbo stesso. Per esempio nella lingua caddo (della famiglia
nord dakota) le frasi kassi’ háh-‘ic*’á-sswí’-sa’ «lei sta infilando perline» e ka’ás háh-‘ic*’ah-‘í’-sa’ «le prugne stanno
crescendo» contengono entrambe, tra i morfemi che accompagnano il verbo, ‘ic*’á/‘ic*’ah, lett. «occhio» che specifica la
nozione di «(piccolo) oggetto rotondo» (rispettivamente kassi’ «perlina» e ka’ás «prugna»).
(=costrutti in cui due o più elementi presentino uno stesso trattamento sintattico) può aver luogo senza
l'esistenza di classi nominali, per esempio là dove vi siano dei sostantivi declinati che richiedano
aggettivi nello stesso caso (cfr. ungherese eb-ben a kert-ben “in questo giardino”, in cui sia eb“questo” sia kert- “giardino” sono al locativo).
Per entrare nel merito della ricerca, Greenberg esamina il processo di rideterminazione delle
marche di classe avvenuto o in corso di svolgimento in numerose lingue africane dotate di generi.
All'interno del gurma, sottogruppo della più vasta famiglia delle lingue voltaiche (cioè parlate nel
bacino del Volta), si presentano quattro tipi di situazione, corrispondenti, assai verisimilmente, a
quattro stadi di avanzamento di questo fenomeno di rinnovamento delle marche di genere:
1- Lingue che, come il moba, hanno solo suffissi di classe (punto di partenza);
2- Lingue, come il gurma, in cui la marca di classe può anche comparire davanti al nome con un
valore di articolo determinativo;
3- Lingue, come il gangam, in cui questo articolo non ha solo valore di articolo determinativo ma ha
assunto anche altre funzioni, che Greenberg denomina di articolo «non-generico»;
4- Lingue, come l'akasele, in cui questo «articolo» si è finalmente saldato al nome, dando luogo a
marche di genere sia pre- che suffissali (punto di arrivo dell'evoluzione).
Si può quindi tracciare una linea evolutiva che dall'assenza di marche di genere (1) va alla nascita
di un articolo (2), alla sua progressiva estensione in usi «non generici» (3) ed infine alla nascita di
vere marche di classe (4).
La fase forse più interessante è quella dell'articolo «non generico», che comprende, oltre ai contesti
in cui il nome è definito, anche quei casi in cui si fa riferimento ad un nome specifico, per cui però
l'italiano o l'inglese userebbero un articolo indefinito, p.es. in frasi del tipo sto cercando un libro
(intendendo un libro specifico, che io ho in mente, non un libro in generale, piuttosto che un altro
oggetto). Benché oscillanti nelle diverse lingue che se ne servono, gli usi di questo articolo «non
generico» testimoniano di una graduale estensione dell'articolo ad un numero sempre più ampio di
contesti, che ha luogo a spese del valore di definitezza dell'articolo stesso, cosicché a lungo andare
questo antico articolo finisce per trasformarsi in una marca nominale obbligatoria in ogni contesto e
priva di qualunque valore di definitezza.
Dopo avere osservato che fenomeni analoghi hanno luogo in altre lingue africane anche per
rinnovare marche di genere prefissali con marche suffissali o pre-prefissali ecc., Greenberg osserva
che:
«A priori non c'è motivo perché il processo attraverso il quale un articolo diventa una marca
nominale debba limitarsi a lingue del gruppo niger-congo. In secondo luogo, non c'è motivo perché
ciò debba aver luogo solo in sistemi di generi che non comprendono il sesso come base semantica per
il genere.1 In terzo luogo, è evidente che il processo non deve per forza limitarsi al rinnovamento di
marche di genere, ed essere quindi ristretto a lingue che già possiedono marche di genere evidenti (...).
In quarto luogo, come vedremo, non vi è motivo neppure perché questo processo sia ristretto a lingue
già dotate di una qualsivoglia classificazione di generi» (p.58).
Sulla base di queste ipotesi di lavoro, Greenberg analizza la situazione di numerose lingue al di
fuori dei gruppi da cui era partito, trovando la conferma della possibilità di stabilire un «tipo» di
nascita di morfemi di genere nel nome a partire da un articolo, e prima ancora da un dimostrativo
(«stadio zero» del processo). Il processo, del tutto analogo a quello esaminato a proposito del
«rinnovamento» dei morfemi in lingue che già possedevano una distinzione dei generi, prevede così:
- uno «stadio I» con nascita dell'articolo;
- uno «stadio II» con progressiva estensione degli usi di questo articolo (articolo «non generico»);
1
Ricordo che col termine «genere» Greenberg intende quel tipo di classificazione presente nelle lingue che distinguono
classi nominali dotate di «accordo» nel senso sopra esposto, indifferentemente dal numero di classi e dal loro valore
semantico, e che di fatto un «genere grammaticale» legato alla semplice distinzione maschile-femminile non si distingue
da tutti gli altri sistemi compresi in questa categoria se non per il numero ridotto di classi nominali e per il particolare
valore semantico delle due classi in opposizione. Ad esso Greenberg fa riferimento col termine «sex-gender system».
- e infine uno «stadio III» con la scomparsa pressoché totale delle forme prive di «articolo» e il suo
scadimento a semplice marca nominale obbligatoria e distintiva di tante diverse classi nominali quante
erano le forme di «articolo» degli stadi precedenti.
Ricavata in questo modo una sequenza abbastanza plausibile e documentata di passaggi «obbligati»
nella nascita ed evoluzione di una distinzione morfologica di diverse classi nominali, resta da stabilire
le possibili modalità di evoluzione dei fenomeni di «accordo». Anche qui un ruolo decisivo sembra
essere svolto dai dimostrativi/pronomi di terza persona1. Senza entrare così nel dettaglio come nello
studio della nascita delle classi nominali, Greenberg si limita a rilevare che è una costante tendenza
dei dimostrativi quella di produrre fenomeni di «concordanza». Se il dimostrativo da cui parte il
processo non è distinto in base a categorie semantiche, come nel caso dell'«articolo» ebraico o arabo,
avremo fenomeni di semplice «concordanza» (nel senso sopra descritto), p. es. ebr. ha-yyeled ha-t!\t!\ov
“il bravo ragazzo”, lett. “il-ragazzo, il-bravo”. Dove invece il dimostrativo è differenziato secondo i
generi, avremo la nascita di un vero e proprio «accordo», p. es. berbero ta-funast ta-mgart “la/una
vecchia mucca” [<“(la-)mucca (la-)vecchia” (qui siamo già alla fase III senza più connotazioni di
determinatezza per l'«articolo»)] che si contrappone a a-funas a-mgar “il/un vecchio bue” [< “(il-)bue
(il-)vecchio”]. È evidente in entrambi i casi che questi fenomeni nascono da fatti di topicalizzazione,
messa in rilievo, cioè, di un elemento noto (il sostantivo), con sua ripresa da parte di un dimostrativo:
“il bue, quello vecchio”. È così che i dimostrativi/marche di genere vengono estesi anche agli
aggettivi, ma un fenomeno analogo può avvenire anche con i verbi: da topicalizzazioni come (dial.
italiani settentrionali) la violetta, la2 va, la va , da cui si sono originate forme verbali distinte secondo i
generi (lù) el va / (lee) la va (v. più avanti a proposito della situazione delle lingue semitiche).
Per concludere, Greenberg pone il problema di come, in ultima analisi, si possa spiegare la nascita,
all'interno dei dimostrativi, di differenziazioni morfologiche correlate a differenziazioni semantiche.
Anche in questo caso l'indagione è volutamente limitata a pochi cenni. Basandosi su suoi precedenti
studi egli si limita a constatare l'importanza che possono avere assunto in questo contesto antichi
«classificatori» (su quali, v. sopra). Questi antichi nomi, spesso svuotati di valore autonomo e
presenti obbligatoriamente in sintagmi di numerazione, presentano in diverse lingue una spiccata
tendenza ad estendere il proprio uso applicandosi in primo luogo anche ai dimostrativi, fondendosi poi
con essi. É forse a fenomeni di questo tipo che si può imputare la nascita di dimostrativi connotati
semanticamente, non solo per le categorie “maschile” / “femminile”, ma anche secondo diversi altri
criteri.
1.3 Il «genere grammaticale» in camito-semitico
La situazione delle lingue camito-semitiche3, per quanto riguarda la distinzione dei generi
grammaticali, è ancor meno chiara di quella delle lingue indeuropee. Oltretutto, la natura
dell'indagine, che per numerose lingue «camitiche» è ristretta ad attestazioni non di molto anteriori a
questo secolo, non facilita la comprensione del succedersi nel tempo dei vari fenomeni. Di fatto,
1
A volte anche dagli indici di persona incorporati nel verbo, circostanza che può forse rivelarsi di una certa importanza,
come vedremo più avanti a proposito del genere nelle lingue semitiche.
2
Originariamente ancora con valore dimostrativo/pronominale. “essa”.
3
Giova ricordare che le lingue «semitiche» sono un gruppo relativamente omogeneo, in cui è possibile riscontrare notevoli
convergenze sia nel sistema fonematico, sia nella grammatica, sia nel lessico (sem. orientale: accadico; sem.
nordoccidentale: ugaritico, fenicio, ebraico, aramaico, ecc.; sem. meridionale: arabo, sudarabico, etiopico), mentre le
lingue «camitiche» sono costituite da più gruppi alquanto eterogenei tra loro e rapportabili in maggiore o minor misura con
le lingue semitiche, pur senza quella regolarità nelle corrispondenze fonetiche e quelle estese congruenze nel lessico che
giustificherebbero a pieno titolo l'esistenza di una comune famiglia in senso genealogico (antico egiziano e copto; libicoberbero parlato nel Nordafrica; lingue «cuscitiche» parlate intorno al Corno d'Africa; lingue ciadiche).
solitamente vengono prese in considerazione le sole lingue semitiche e l'egiziano, per via della loro
maggiore affidabilità ai fini ricostruttivi.1
Dovendo descrivere in modo sintetico (e per questo forzatamente incompleto) la situazione di
queste lingue, si osserva innanzitutto che, a differenza di quelle indeuropee, esse non conoscono,
accanto al maschile e al femminile, anche un neutro sistematicamente organizzato. Delle due classi,
maschile e femminile, è quest'ultima ad essere marcata morfologicamente dalla presenza di affissi (per
lo più suffissi) generalmente caratterizzati dalla presenza di una dentale t, mentre il maschile
comprende tutti quei nomi che non presentano quest'elemento morfologico (nomi primitivi o derivati
con affissi non in dentale). Lo schema che si suole ricostruire limitatamente alle lingue semitiche per
i morfemi di maschile e di femminile è il seguente2:
maschile
femminile
singolare
*Ø
*-at
plurale
*-uµ/*-ıµ
*-aµt
Quello che a prima vista appare evidente, comunque, è che il suffisso in -t non caratterizza solo o
principalmente gli esseri viventi di sesso femminile, ma anzi è un elemento morfologico presente nella
derivazione di un numero notevole di classi di nomi. L'opinione più diffusa, anzi, giunge addirittura
al punto di considerare questa -t come un morfema di derivazione privo di uno specifico valore
semantico primario, il cui valore sarebbe stato di volta in volta determinato dalla natura della base cui
veniva affisso, secondo lo schema seguente:
123[4-
Nome di essere animato maschio + -t
Base qualitativa (aggettivo o verbo) + -t
Nome di unità + -t
Collettivo + -t
Æ nome di femmina;
Æ nome astratto;
Æ collettivo/plurale;
Æ nome di unità.]
(L'ultimo caso, quello della derivazione di nomi di unità da collettivi, è suscettibile di contestazione
perché, come vedremo, non è dato trovarlo in antico egiziano, al contrario degli altri tre tipi di
derivazione)3.
Per quanto riguarda la derivazione di nomi della femmina da nomi di esseri animati di sesso
maschile per mezzo di affissi in dentale, va osservato che questo tipo di derivazione non appare
risalire ad epoche molto antiche: nelle lingue semitiche è infatti assai frequente l'uso di nomi
radicalmente diversi per femmine e maschi, come per es. arabo h\imaµr “asino maschio”, ’ataµn “asina”.
In coppie come questa si assiste solo in epoca relativamente tarda, ad una tendenza a «rideterminare»
il nome della femmina con il morfema in questione, con la nascita di nomi come ’ataµnat per «asina».
Molto più diffusa e antica appare invece la derivazione di nomi astratti da verbi o aggettivi
mediante l'impiego di affissi in dentale.4 Per questo, ad esempio, in accadico l'aggettivo damqum
“buono”, allo stato «assoluto» (usato cioè predicativamente), damiq significa “è buono”. La forma
1
Tra i numerosi studi complessivi apparsi di recente, ricordo in particolare F. Aspesi, La distinzione dei generi nel nome
antico-egiziano e semitico, Firenze: La Nuova Italia, 1977.
2
Intendendo descrivere una situazione a grandi linee, non verrà qui trattata la situazione del duale.
3
Cfr. Aspesi, op.cit. , p. 55 e ss.
4
L'uso del termine «basi qualitative» per indicare verbi e aggettivi discende dal fatto che, a differenza delle lingue
indeuropee, in cui morfologia del nome e morfologia del verbo appaiono ben differenziate, le lingue semitiche mostrano
confini meno marcati tra queste classi morfologiche, ed in particolare presentano una radicata tendenza all'impiego
predicativo di aggettivi, con la nascita, intorno agli inizi dell'epoca storica, di una nuova coniugazione verbale.
Sull'interessante fenomeno del continuo rinnovamento del sistema verbale alimentato dalla grammaticalizzazione di «frasi
nominali», si può oggi consultare l'approfondito studio di David Cohen La phrase nominale et l'évolution du système
verbal en sémitique, Paris 1984 [1986] (“Collection linguistique publiée par la Société de Linguistique de Paris” LXXII).
«femminile» da questa «base», damiqtum, ne costituisce anche il nome astratto: “il bene”. Tale uso,
estesissimo in tutte le lingue semitiche, comporta la conseguenza di rendere piuttosto problematico un
confronto con l'evoluzione della distinzione dei generi in indeuropeo, dove invece non sembra
irragionevole l'ipotesi che un ruolo importante nell' estensione dei morfemi di genere all'interno del
sistema grammaticale sia stato giocato proprio dagli aggettivi. Se infatti il valore «primario» delle
terminazioni in dentale affisse a basi qualitative era quello di derivarne il nome astratto, risulta
difficile pensare che esse potessero avere presto assunto senza problemi quello di derivare una forma
femminile da quella maschile.
Il problema più delicato che si pone a chi cerchi di indagare l'origine della distinzione dei generi
nelle lingue semitiche è comunque costituito dall'inestricabile nesso che esiste tra forme in dentale ed
indici di numero, sia per quanto riguarda i nomi di unità derivati da collettivi mediante questi
morfemi, sia per le formazioni di collettivo (e spesso di vero e proprio «plurale») che vengono
frequentemente derivate, nello stesso modo, da nomi di unità.
Affissi in dentale usati per la derivazione di collettivi, che frequentemente evolvono in veri e propri plurali
sono frequentissimi nelle lingue semitiche, p. es. arabo xaddaµmat «servitori». L'accadico e l'etiopico (lingue
«marginali» nelle quali è quindi lecito attendersi di poter individuare arcaismi nel caso di isoglosse)
concordano nel possedere un elevato numero di sostantivi «maschili» dotati di un plurale in dentale, p. es.
accadico naµru “fiume”, pl. naµr aµt u (in etiopico, questo è addirittura l'unico modo di formare plurali per
suffissazione, indipendentemente dal genere del sostantivo).
D'altra parte, è spesso difficile tracciare un confine netto tra categorie come quella dell'astratto, del collettivo
e del plurale, come si può vedere, per esempio, nel caso del suffisso -uµt dell'accadico, che costituisce astratti
(p.es. s &ibuµtum “testimonianza”), ma forma anche il plurale maschile degli aggettivi (es. t!\a µbuµtum «buoni», ma
vale anche “amici” e “amicizia”).
Quanto alla formazione di nomi di unità a partire da collettivi mediante l'affissazione di morfemi
«femminili», questa appare molto diffusa in lingue come l'arabo (p.es. dalla radice QT‘ “fare a pezzi”: qita‘ =
“pezzi”, ma qit‘at = “pezzo”), al punto che vi sono stati studiosi che hanno ritenuto originario per gli affissi in
dentale proprio il valore di derivatori di nomina unitatis. A ciò si oppone, però, come si è anticipato, il fatto
che questo valore non trova riscontro nella pur antichissima documentazione antico-egiziana. E nello stesso
ambito semitico, le lingue di più antica attestazione non presentano che rarissimi casi di nomina unitatis in -t.
É possibile che un ruolo in questa evoluzione sia stato svolto dallo «sdoppiamento» delle terminazioni di
«femminile», avvenuto in un'epoca relativamente recente, con la contrapposizione di un «singolare» e di un
«plurale» distinti dalla lunghezza della vocale: -at /-aµt. In questo caso sarebbe forse possibile spiegare
l'origine di serie di 3 termini come ar. tuffaµh \ «mela /-e» (concetto non numerabile, p. es. in espressioni come
«coltivare mele»), tuffaµh\at «(una) mela», tuffaµh\aµt «(un determinato numero di) mele». Dal nome «primitivo»
sarebbe sorto dapprima un «plurale in dentale» da cui poi si sarebbe ulteriormente derivato, contrapponendo -at
a -aµt, un «singolare». Da una trafila del genere, forse, è possibile ipotizzare la nascita del valore di derivatore
di nomi di unità per il morfema di «femminile» nelle lingue semitiche più recenti.
Una caratteristica a prima vista sconcertante della sintassi dei numerali cardinali in tutte le lingue semitiche
(ma a quanto pare non condivisa da alcuna lingua «camitica») illustra bene la complicazione di questo intreccio
morfologico e semantico di genere e numero. Si tratta di questo: i numerali superiori al 2 compaiono muniti di
una terminazione in dentale identica a quella del «femminile» quando accompagnino sostantivi maschili (che di
tali terminazioni sono, normalmente, privi), mentre ne rimangono privi quando si riferiscono a sostantivi
femminili. Es.: arabo talaµtat-u banıµn a «tre figli», ma talaµtu ban-aµt -in «tre figlie». Questa apparente
«bizzarria», che da sempre ha costituito un motivo di perplessità negli studiosi di linguistica semitica discende,
con molta verisimiglianza, da un'«interferenza» tra la nascente categoria del genere e un'anteriore situazione in
cui i morfemi in -t erano soprattutto indici di pluralità (non a caso il fenomeno non ha luogo con i numerali 1 e
2, con i quali sarà stato necessario l'uso del singolare e del duale)1. É cioè probabile che vi sia stato uno stadio
in cui la pìluralità, con i numerali maggiori di 2, veniva indicata, per mezzo di morfemi in dentale, in uno
soltanto dei due membri del sintagma numerativo: o nel nome (nel qual caso il numerale non avrebbe subito
modificazioni) o nel solo numerale nel caso che il nome non potesse far uso di queste terminazioni (p.es. nel
1
Per le più recenti direzioni della ricerca in proposito, si può consultare: V. Brugnatelli, Questioni di morfologia e sintassi
dei numerali cardinali semitici, Firenze: La Nuova Italia, 1982.
caso di nomi di animati di sesso maschile, in cui una -t avrebbe derivato il nome della femmina e non il
plurale).
Prima di concludere questa presentazione del quadro della distinzione dei generi nelle lingue semitiche,
giova ricordare un'ulteriore difficoltà che si frappone all'individuazione della situazione più arcaica e quindi del
modo di imporsi di questa innovazione. Si tratta del numero complessivamente assai scarso dei «fonemi»
(soprattutto di quelli consonantici) che entrano a far parte degli affissi morfologici delle lingue semitiche. La
particolare morfologia di queste lingue, basata su una ricca articolazione del gioco apofonico, permette infatti
di far uso di un numero relativamente ristretto di affissi, che oltretutto mostrano una tendenza, ancora in epoca
storica, ad una massima semplificazione. Di fatto i soli «morfo-fonemi» consonantici di lingue come l'arabo o
l'ebraico sono, oltre alle semivocali y e w, le nasali n e m, la fricativa h (che ha quasi ovunque sostituito una più
antica s), nonché le occlusive ’ e t. Quest'ultima si è estesa, nelle lingue più recenti, a spese di altri suoni
occlusivi, come k, ancora presente nelle lingue più antiche, p.es.: 1. pers. sg. della coniugazione a suffissi,
accadico -aku, arabo -tu. Ora, data questa situazione, non è possibile escludere a priori la possibilità che le
molteplici funzioni dei morfemi in dentale continuino in realtà le funzioni di diversi affissi in occlusiva un
tempo differenziati e successivamente confluiti in un'unica formazione in dentale. Per fare un esempio, anche
l'inglese, che presenta una morfologia assai ridotta, conosce pochi «morfo-fonemi», e tra essi vi è la marca di
plurale nominale -s, che a prima vista è omofona alla marca di terza persona singolare del verbo -s, col risultato
di apparenti «bizzarrie» come one fly flies «una mosca vola» ma two flies fly «due mosche volano», dove il
comportamento di -s potrebbe apparire analogo a quello di -at negli esempi coi numerali arabi citati in
precedenza. Dal momento però che dell'inglese ci è nota la storia grazie al confronto con le altre lingue
germaniche di più antica ettestazione e delle altre lingue indeuropee, ogni possibile speculazione su di una -s
«marca di plurale» nel nome ma «marca di singolare» nel verbo viene prevenuta dal fatto che è ben noto come
queste terminazioni, oggi omofone, un tempo non lo erano affatto e non possono quindi essere considerate
congiuntamente in una visione diacronica.
Prendendo atto di tutte queste difficoltà che tuttora ostacolano la ricostruzione delle modalità di
affermazione dell'innovazione della distinzione dei generi nelle lingue camito-semitiche, non rimane
in questa sede che esporre qualche considerazione alla luce degli studi di tipologia della nascita del
genere grammaticale, come quello, esaminato in precedenza, di Joseph Greenberg.
Da questo punto di vista, bisogna riconoscere che la situazione delle lingue semitiche appare poco
congruente con i processi generali individuati da Greenberg. Da una parte è ben difficile riconoscere
in -at un antico «articolo femminile» la cui incorporazione nei nomi abbia potuto dar luogo alla
nascita di una «classe nominale» che sarebbe stata il punto di partenza per la diffusione
dell'innovazione (e d'altra parte il fatto che il maschile non sia formalmente marcato rimanderebbe in
questo caso ad un'improbabile situazione con un articolo «maschile» di forma Ø!).
Inoltre, pur esistendo una differenziazione morfologica di maschile e femminile nei pronomi di
seconda e terza persona, questa si attua mediante affissi completamente diversi da quelli impiegati per
distinguere le due classi nei nomi. Il femminile «pronominale» è caratterizzato da una terminazione -i
(cf. arabo 2.sg. m./f. anta /anti, 3. sg. m./f. huµ(wa) / hȵ(ya), ecc.).!! Sembra dunque difficile pensare
che da pronomi siffatti discendano, attraverso una fase di «articolo» i morfemi che diedero luogo alla
nascita del femminile nominale.
L'unico appiglio, se si vuole rimanere nell'ambito delle proposte di tipologia dell'evoluzione dei
sistemi di genere grammaticale avanzate da Greenberg, andrà ricercato nell'indice pronominale affisso
alle più antiche coniugazioni verbali semitiche, cioè quelle a prefissi. Qui infatti, contrariamente alla
situazione della più tarda coniugazione a suffissi, la terza persona non è priva di marca, né nel
maschile né nel femminile (rispettivamente y- e t-), e ciò può far pensare che abbiamo qui incorporati
due antichissimi «pronomi», analogamente a molti dialetti italiani settentrionali in cui le forme verbali
di terza persona, acompagnate o meno da un soggetto (anche pronominale), sono sempre
accompagnate da indici di genere, p. es. (lù, el birocc, ecc...) el va, ma: (lee, la violetta, ecc...) la va.
In questo caso i morfemi semitici in dentale caratteristici del femminile avrebbero origine da questo
pronome, che peraltro sarebbe stato poi sostituito, in seguito al suo scadimento prima ad articolo e poi
a semplice marca nominale, da nuovi pronomi che sono poi quelli storicamente attestati.
D'altra parte non si tratta che di un'ipotesi, e lo stato ancora non molto avanzato della ricerca sulle
modalità di affermazione della distinzione dei generi nelle diverse lingue del mondo non esclude che
le lingue camito-semitiche abbiano proceduto in un modo diverso, peraltro ancora da chiarire con
precisione.
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