...

Quelle cicatrici da risarcire CASSAZIONE

by user

on
Category: Documents
9

views

Report

Comments

Transcript

Quelle cicatrici da risarcire CASSAZIONE
30 LA GIURISPRUDENZA
15-21 settembre 2009
CASSAZIONE/ Confermata la condanna di clinica e chirurgo per ritocchi al seno mal fatti
Quelle cicatrici da risarcire
I danni non fisici vanno valutati con rigore - Casa di cura corresponsabile
L
a clinica è sempre responsabile in solido con
il chirurgo per i danni arrecati al paziente,
anche se il medico non è dipendente né
collaboratore stabile. E i danni non patrimoniali vanno quantificati con rigore. A esempio «la presenza di
cicatrici deturpanti sul seno non può considerarsi
“non funzionale”, allorché vengano in considerazione l’estetica e la sfera sessuale della persona». E
ancora, il danno da depressione non può essere escluso sulla base del rilievo secondo cui «potrebbe essere
superato tramite cure psicoterapiche»: «Il fatto stesso
che si debba ricorrere a una psicoterapia manifesta la
presenza di un turbamento grave».
Il doppio monito ai giudici di merito arriva dalla
terza sezione civile della Cassazione (sentenza n.
18805/2009, depositata il 28 agosto scorso), chiamata a pronunciarsi su una vicenda che risale ai primi
anni Novanta. Protagonista una ventenne che si era
sottoposta a un intervento di ingrandimento del seno,
liposuzione delle cosce e rinoplastica: la prima operazione aveva prodotto cicatrici deturpanti che non era
più stato possibile eliminare, nonostante due interventi chirurgici “riparatori”. Nel 2001 il tribunale di
Monza aveva riconosciuto alla paziente un risarcimento danni pari a 118.780 euro (quasi 230 milioni
delle vecchie lire). Non soddisfatta, la donna aveva
proposto appello: nel 2003 la Corte d’appello di
Milano ha “corretto” la sentenza di primo grado,
condannando clinica e chirurgo a liquidare altri 15mila euro per i danni patrimoniali e 5.834 euro per i
costi dell’intervento “riparatore”.
La giovane non ha desistito e in Cassazione ha
contestato l’omessa o insufficiente motivazione sulla
liquidazione dei danni. Censura fondata, secondo gli
Ermellini, perché la Corte d’appello, quando sceglie
di decidere in via equitativa, «deve indicare i criteri
ai quali ha voluto fare riferimento». E dev’essere
chiara su quali somme per quali danni, mentre non lo
è stata. La Corte ha inoltre commesso un altro errore,
confermando la sentenza del tribunale laddove ha
attribuito alla ricorrente un’unica somma per risarcire i danni fisici. Ignorando cioè i «danni non fisici»
ritenendo le cicatrici lesioni prive di «carattere funzionale» e i problemi di depressione «agevolmente superabili». Sbagliato. «Il concetto di funzionalità - scrive
la Cassazione - va posto in relazione con la natura
del danno». Se il danno ha effetti sulla vita di relazione e sulla sfera sessuale le lesioni sono funzionali
eccome. E se la paziente lamenta depressione il
«turbamento grave» va valutato.
La Suprema Corte si è anche dilungata sugli
obblighi della casa di cura, che nel ricorso incidentale aveva preso le distanze dal chirurgo, sottolineandone l’estraneità alla clinica e denunciando che la donna avrebbe pagato alla clinica solo le fatture relative
alla degenza e al medico tutto il resto. Ma - replica la
Cassazione - questa ipotetica regolamentazione «richiederebbe quanto meno la prova certa e rigorosa
dell’esistenza dei due contratti separati», con l’espressa indicazione delle prestazioni incluse nell’uno e
nell’altro. «Un modello a dir poco inconsueto e
difficilmente praticabile». Comunque non dimostrato nella fattispecie. Ciò che resta accertata è invece la
partecipazione all’intervento di personale della clinica con l’utilizzo di attrezzature e organizzazione.
Elementi che «giustamente» hanno fatto riconoscere
la responsabilità solidale della clinica.
CASSAZIONE/ 2
Sfregio da bisturi, ginecologo assolto
U
na neonata viene alla luce con una ferita da taglio dal labbro superiore allo
zigomo sinistro. Il ginecologo
è responsabile? No, secondo
la Cassazione: anche se il bisturi ha effettivamente colpito
la bimba al volto il medico
non deve alcun risarcimento
danni se ha eseguito l’intervento in condizioni di urgenza.
Lo ha stabilito la Corte
d’appello di Torino con una
sentenza appena confermata
dalla terza sezione civile della
Cassazione (pronuncia n.
14532, depositata il 22 giugno), che ha respinto le censure proposte dai genitori della
piccola contro l’operato del
professionista. A loro avviso,
se lo specialista avesse rispettato le regole tecniche e i princìpi che presiedono allo svolgimento dell’attività medica, la
ferita non si sarebbe verificata. In particolare, la coppia
Manuela Perrone contestava al ginecologo, ritenuto non colpevole in primo e
© RIPRODUZIONE RISERVATA
in secondo grado, di non aver
«protetto con il dito i tessuti
sottostanti», manovra che anche secondo la Ctu almeno
sarebbe servita a limitare i
danni.
Sia il tribunale di Novara
nel 2002, però, sia la Corte
d’appello torinese nel 2004
(contumace il medico) hanno
escluso la responsabilità del
ginecologo e il nesso causale
tra la sua condotta e la lesione
riportata dalla piccola, «tenuto conto delle condizioni di
urgenza in cui aveva operato». L’Asl, costituita in giudizio, aveva infatti evidenziato
che il cesareo era stato praticato in emergenza, a causa «dell’improvvisa protrusione della faccia fetale (...) con arresto sagittale alto in posizione
occipito-sacrale per cui la faccia venne a trovarsi in stretto
contatto con il segmento uterino iperdisteso».
Davanti all’ennesimo ricorso dei genitori, la Cassazione
CASSAZIONE/ 3
taglia corto: «La Corte d’appello ha dedicato alla valutazione della responsabilità in
questione e in particolare alla
Ctu sopra citata una esauriente, articolata e scrupolosa disamina (...) alla quale i ricorrenti
hanno opposto censure che
debbono ritenersi inammissibili (in quanto non prendono in
rituale esame le argomentazioni del giudice, ma si limitano
a critiche generiche e sostanzialmente apodittiche) prima
ancora che prive di pregio».
Un ricorso mal fatto, insomma, che obbliga gli Ermellini
a una conclusione netta: «Non
rimane dunque che respingere
il ricorso».
Innegabile, però, la complessità delle questioni affrontate. Tanto che la Suprema Corte ha disposto la compensazione delle spese di
giudizio.
M.Per.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
CASSAZIONE/ 4
Anziano lasciato a casa,
Deducibile per le Asl il costo delle ferie non godute carcere
per la moglie
L
a Cassazione, con sentenza n.
871 del 15 gennaio 2009, respingendo la tesi contraria dell’amministrazione finanziaria, ha affermato che, ai fini della determinazione del reddito di impresa, il costo
per le ferie maturate e non godute
nell’esercizio dal personale dipendente è deducibile e che, nel caso
che negli esercizi successivi le ferie
non vengano monetizzate, ma vengano recuperate, il relativo importo
costituirà una sopravvenienza attiva
imponibile.
Secondo l’amministrazione finanziaria invece l’importo maturato sarebbe stato da considerare solo un
accantonamento e sarebbe stato deducibile solo il pagamento di una
eventuale indennità sostituiva.
Il principio affermato è di grande
interesse anche per le aziende del
Ssn, limitatamente al personale impiegato in attività imponibili Ires,
cioè in quelle diverse da quelle sanitarie, decommercializzate ai sensi
dell’art. 74, secondo comma, del Tuir 917/86.
I princìpi contabili. Il documento n. 19, approvato dai Consigli nazionali dei dottori commercialisti e
dei ragionieri recita: «Le ferie costituiscono un diritto del dipendente,
che matura gradualmente durante
l’esercizio. Il principio della competenza che impone la correlazione
dei costi ai ricavi dell’esercizio richiede che il costo del personale,
inteso nella sua globalità e quindi
inclusivo del periodo di ferie retribuito, debba essere correlato al beneficio che l’impresa ottiene dal sostenimento di detto costo, cioè debba
essere determinato in funzione del
periodo durante il quale il personale
ha prestato la propria opera concor-
rendo alla formazione dei ricavi
aziendali. Ciò comporta, a fine periodo, l’iscrizione in bilancio dell’ammontare corrispondente al costo per
le ferie maturate in favore dei dipendenti e non ancora liquidate o fruite».
Questo principio contabile, pur essendo rivolto, come tutti gli altri, alle
società di capitali, è da ritenere applicabile, secondo la dottrina più autorevole, anche alle aziende sanitarie, trattandosi di una problematica che si
presenta con le stesse caratteristiche.
Non sarebbe pertanto corretto
evitare la contabilizzazione di tale
fenomeno, basandosi sul fatto che le
ferie costituiscono un diritto irrinunciabile da parte dei dipendenti e che
i contratti di lavoro
non prevedano la
monetizzazione
(salvo i casi di cessazione del rapporto).
Si tratta in sostanza di un meccanismo contabile
che consente di gravare l’esercizio
del costo di un fattore produttivo (il
personale) utilizzato in misura superiore a quanto liquidato; l’importo
andrà poi ad alleggerire il costo dello stesso fattore produttivo nell’esercizio in cui i dipendenti usufruiranno delle ferie maturate in precedenza, prestando perciò minore attività
lavorativa.
Il conteggio del debito per ferie va
basato sul numero dei giorni di ferie
spettanti al dipendente e sul costo
giornaliero per l’azienda; il numero di
giorni di ferie deve comprendere tutti
i giorni maturati a favore del dipendente alla data di bilancio; il costo
giornaliero deve includere la relativa
retribuzione lorda, i contributi sociali
a carico dell’azienda, nonché la quota
di Tfr e l’Irap (nel caso di pagamento
con il metodo retributivo).
Il debito per ferie, in sostanza, è
correttamente stanziato quando corrisponde al costo totale delle singole
ferie maturate a favore dei dipendenti alla data di chiusura del bilancio e
cioè se è pari a quanto si sarebbe
dovuto corrispondere ai dipendenti
e agli enti previdenziali nell’ipotesi
in cui a tale data fosse cessato il
rapporto di lavoro.
La sua imputazione contabile
esatta è nell’ambito dei debiti, in
conformità al suggerimento dei princìpi contabili degli Ordini professionali. Tuttavia è ipotizzabile la collocazione nell’ambito dei Fondi per
oneri.
In conclusione,
non considerare il
“fenomeno” comporterebbe la violazione dei princìpi
della competenza,
della prudenza, della correlazione
fra costi e ricavi; inoltre verrebbe
meno la possibilità di gestire il fenomeno stesso allo scopo di ridurre il
volume di ferie che spesso tenderebbe ad aumentare.
La rilevanza fiscale. La sentenza della Corte di cassazione sancisce, in concreto, l’allineamento delle norme fiscali con quelle civilistiche, osservando che «il costo delle
ferie non godute va rapportato all’esercizio di competenza, in quanto
ivi maturato, indipendentemente dal
fatto che il dipendente fruisca delle
ferie in un periodo successivo».
La Corte ha ricordato anche, con
riferimento alle sentenze n. 24474
Vale per le attività
soggette a Ires
del 17 novembre 2006 e n. 11213
del 30 luglio 2002, che «le regole
sull’imputazione temporale dei componenti del reddito implicano che
gli elementi reddituali derivanti da
una determinata operazione siano
iscritti in bilancio non già con riferimento alla data del pagamento o
dell’incasso materiale del corrispettivo, ma nel momento in cui pervengono a completa maturazione, a prescindere quindi dalla inerente fatturazione, nonché dall’effettivo pagamento, con il solo limite della certezza di costi e ricavi».
Ne deriva che, essendo gli oneri
per le ferie non godute del personale alla fine dell’esercizio certi e determinabili con precisione, tenendo
conto della retribuzione in corso e
delle condizioni contrattuali di ciascun dipendente, devono essere imputati all’esercizio di maturazione,
indipendentemente dal fatto che se
ne preveda o meno la monetizzazione.
Di conseguenza, indipendentemente dalle direttive che le varie
Regioni possono aver dato alle
aziende sanitarie del proprio territorio in merito alla contabilizzazione
o meno del “fenomeno” delle ferie
maturate e non godute nello stesso
esercizio, è opportuno ricordare
che, in sede di Dichiarazione Unico,
il quadro Rf Redditi di impresa deve evidenziare, fra le variazioni in
più o meno del risultato economico
delle attività commerciali, desunto
dalla contabilità separata, tenuta ai
sensi dell’art. 144, secondo comma,
del Tuir 917/86, le eventuali discordanze dovute alla contabilizzazione
non in linea con i princìpi contabili
e con la normativa fiscale.
Q
uando la moglie va in vacanza rischia una
condanna penale per abbandono di persona incapace se il marito è anziano e non in
grado di provvedere a se stesso. Lo ha stabilito
la quinta sezione penale della Corte di Cassazione che nella decisione 31905/2009, depositata
il 4 agosto, ha confermato la condanna decisa
dalla Corte d’appello di Palermo a una donna,
denunciata dal figlio, perché partita per le vacanze estive lasciando da solo, in pessime condizioni igieniche, il marito anziano e bisognoso
di cure.
L’estremo stato di degrado e sporcizia della
stanza dove l’uomo era stato abbandonato era
stato accertato e verbalizzato dalla polizia giudiziaria. Per questo, il tribunale di Castelvetrano
aveva condannato la donna per il reato di abbandono di persona incapace, condanna poi confermata in appello. Contro la sentenza la signora
aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che il marito era anziano ma lucido, e quindi
non poteva essere considerato incapace. Ma
queste motivazioni non hanno affatto convinto
la Suprema Corte che ha respinto il ricorso e
ribadito che «la vecchiaia, al pari di altre non
specificate, è intesa causa di incapacità dell’offeso di provvedere a se stesso, alternativa all’infermità fisica o mentale della persona abbandonata e implica la cura della persona incapace,
se non la sua “custodia”, perché le siano assicurate le misure necessarie per l’igiene propria e
dell’ambiente in cui vive».
In un tale contesto, va ricordato che l’articolo 591 del Codice penale punisce «chiunque
abbandona una persona minore degli anni 14,
ovvero una persona incapace, per malattia di
mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra
causa, di provvedere a se stessa, e della quale
abbia la custodia o debba avere cura», prevedendo un aumento della pena se il fatto è
commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o
dal coniuge.
Roberto Caselli
Lucilla Vazza
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Fly UP