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La zattera di Lampedusa, opera dell`artista Taylor DeCaires, giace

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La zattera di Lampedusa, opera dell`artista Taylor DeCaires, giace
GalileiTimes
News
LICEO STATALE SCIENTIFICO, CLASSICO, LINGUISTICO GALILEO GALILEI LEGNANO
Anno V - N° 3
Febbraio 2016
La zattera di Lampedusa, opera dell’artista
Taylor DeCaires, giace sul fondale
dell’Isola di Lanzarote. L’opera rievoca il
dramma dei profughi che perdono la vita
solcando le acque del Mediterraneo
nella speranza di un futuro migliore e fa parte
del Museo Atlantico, prima collezione
artistica sottomarina d’Europa.
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Anno V
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IN QUESTO NUMERO
NELLA SCORZA DI BETULLE
NATO IN UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO
COSA VUOL DIRE LEGGERE UN LIBRO?
SCANDALO: COPERTE LE STATUE CAPITOLINE?
PAROLE...
LO SCRITTORE CHE HA RINNOVATO LA LETTERATURA HORROR
PRIMAVERA 1945
UN’AVVENTURA SOLITARIA, COSTELLATA DA PAESAGGI INCREDIBILI
E VICENDE ESTREME
CONIATI 2 EURO PER I CINQUANT’ANNI DALLO SBARCO IN NORMANDIA
COORDINAMENTO
REDAZIONALE
Antonella
Polimeno Camastra
PROGETTO GRAFICO
E IMPAGINAZIONE
Federico Chinello
IN REDAZIONE
Marco Bagatella,
Federico Chinello,
Maria Vittoria
Crugnola, Lorenzo
Fortunato, Michela
Grasso, Andrea Meddi
Clara Morelli,
Beatrice Mugnaini,
Antonella Polimeno
Camastra,
Emanuela Re Cecconi,
Letizia Santini, Martina
Tognoni, Annalisa Toia
N° 3
Febbraio 2016
PER COMUNICARE
CON LA REDAZIONE:
[email protected]
GalileiTimes
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VITA D’ISTITUTO
Nella scorza di Betulle
Al Galilei uno spettacolo teatrale per ricordare la Shoa
I
l 27 Gennaio nell’auditorium della scuola si è
svolto lo spettacolo teatrale
“Nella scorza di betulle”, in
occasione della giornata della memoria. I ragazzi che vi
hanno preso parte frequentano il triennio del liceo classico e hanno affrontato 4 mesi
di prove prima di andare in
scena. Ma l’importanza di
ciò che è stato rappresentato
non sta solamente nel grande lavoro che è stato fatto,
sta soprattutto nel messaggio
che si voleva dare. Sono stati
presentati artisti che in qualche modo hanno tentato di
ricordare la Shoa e gli eventi
terribili di quegli anni, artisti
che hanno caricato sulle loro
spalle un compito gravoso
e difficile: rendere in modo
chiaro la realtà di milioni di
persone che non sono più qua
per raccontarla nel suo orrore. Sono stati letti dei testi,
testimonianze vere e concre-
te di persone sopravvissute a
quella serie infinita di soprusi
e umiliazioni, a quella perdita
improvvisa e immediata della
consapevolezza di appartenere alla specie umana, che
hanno dovuto sopportare nei
campi di concentramento,sterminio e addestramento. Il
tutto era intervallato dal racconto di un viaggiatore-filosofo, osservatore ben cosciente
di ciò che gli si parava davanti
agli occhi: i residui di uno dei
peggiori periodi della storia
contemporanea mischiati al
paesaggio muto e dolce della
Polonia. E mentre i ragazzi leggevano, raccontavano,
cantavano, alle loro spalle si
svolgeva un identico racconto
silenzioso che si rispecchiava
nelle loro parole.
“Nella scorza di betulle” è
stata un’esperienza meravigliosa, non solo per noi che
abbiamo avuto l’immensa
fortuna di parteciparvi, ma
credo (e spero) anche per chi
ha avuto l’occasione di vederlo, rare volte infatti si può
trovare un modo di rivisitare
l’Olocausto così particolare
e diverso rispetto alle solite
rappresentazioni, immersi in
un bosco di betulle tra cui si
sono trovati pesanti fardelli
della nostra storia, perché si,
questa storia non è solo di chi
l’ha vissuta ma anche nostra,
che dobbiamo sentirci in dovere di ricordare e tramandare per chi, in quei campi, ha
perso l’occasione di farlo.
di
MICHELA GRASSO
“Rare volte
si può trovare un modo
di rivisitare l’Olocausto
così particolare
e diverso rispetto
alle solite
rappresentazioni.”
Alcuni studenti* del nostro Liceo, guidati dai
rappresentanti Mattia Caon e Gioele Giannotti,
hanno speso le proprie vacanze di Carnevale
a ridipingere la nostra Aula Studio. I ragazzi,
aiutati da alcune ragazze del Liceo Artistico
Candiani, hanno reso l’aulettta un luogo più
accogliente e hanno dato un esempio di come
sia possibile ottenere grandi risultati quando si
uniscono le forze.
Un grazie ai rappresentanti e a tutti i volontari
che hanno impiegato il proprio tempo e le proprie energie per tutti noi.
* (Potete trovare i nomi dei volontari su una
delle pareti dell’auletta)
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MONDO
STORIE DI VITA / SHIN DONG-HYUK, ESULE NORDCOREANO FUGGITO DAI CAMPI DI PRIGIONIA A 23 ANNI
Nato in un campo di concentramento
Ambascaitore ONU per i diritti umani, ha raccontato la sua odissea nel libro “Fuga dal Campo 14”
di
MARTINA TOGNONI
“A quasi
10 anni
dalla sua
fuga,
il corpo
di Shin è
una mappa
recante
i segni
dell’orrore
che ha
vissuto.”
S
hin Dong-Hyuk, nato il
19 novembre 1982, oggi
ha 32 anni; quando parla non
gesticola, la sua voce sembra
non tradire nessuna emozione, si muove appena. E’ un
uomo come molti ma la sua
storia ha dell’incredibile. Shin
infatti è l’unica persona nata
in un campo di concentramento nordcoreano riuscita a
evadere.
La sua famiglia era rinchiusa
nel campo 14 di Kaechon, il
più grande e anche il più duro
“spazio di rieducazione e lavoro collettivo”, da due generazioni: suo zio era scappato
in Corea del Sud e, come dice
la legge, per le tre generazioni
successive la famiglia del fuggitivo fu imprigionata. Shin
è stato concepito durante uno
dei cinque incontri coniugali
concessi per buona condotta
ai detenuti durante un anno;
è stato cresciuto dalla madre,
insieme al fratello più grande,
mentre il padre lo ha visto solo
poche volte.
Una sera, quando aveva 13
anni, sentì la madre Jang Hyegyung e il fratello progettare
un piano di fuga. Shin li denunciò. Così gli avevano insegnato, così era consuetudine
fare. Lo fece solamente per
avere un po’ di cibo in più.
Ma le guardie sospettavano
che anche lui fosse coinvolto
nel piano e lo rinchiusero in
una cella, torturandolo per
mesi. Quando giustiziarono i
suoi familiari, Shin era in prima fila. In quei momenti non
provò nulla, anzi, era sollevato di non essere al loro posto.
Il giovane racconta anche di
aver odiato la madre; poiché lo
aveva messo al mondo in quella realtà. Molte madri infatti,
rinchiuse nei lager, preferiscono uccidere il proprio bambino, appena dopo il parto. Oggi
invece, Shin, se potesse rivedere sua madre, le chiederebbe
perdono per tutto quello che
ha fatto.
Come il giovane nordcoreano
racconta, la vita all’interno del
campo 14 è infernale e alienante. Tutti i prigionieri scontano
l’ergastolo e la speranza di vita
è circa di 45 anni; la giornata
è scandita dal lavoro e dalle
violenze. Sono le guardie che
comandano: tutti si devono
sottomettere al loro potere. A
ogni piccola mancanza, corrisponde un’amputazione o un
giro nei sotterranei. Nelle baracche ci sono vasche d’acqua
per affogare i detenuti, ganci
attaccati al muro per sospenderli sopra al fuoco, flaconi
d’acqua mista a peperoncino
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da versare nel naso. Il suicidio
è vietato in questi campi come
nei Lager nazisti. Shin racconta che durante una ispezione a
scuola, una insegnante trovò
in tasca a una bambina cinque
chicchi di mais; quindi le ordinò di andarsi a mettere in ginocchio di fronte alla lavagna
e iniziò a picchiarla con una
bacchetta. I bambini di nove
anni guardavano. La testa e il
naso della ragazzina iniziarono a sanguinare. Poi crollò a
terra svenuta, allora Shin e i
compagni la portarono a casa
trascinandola per le braccia.
Morì durante la notte.
A 22 anni, nel 2004, Shin conobbe un altro detenuto, un
certo Park, mentre lavorava
nella fabbrica tessile. Lui veniva da fuori, aveva visto cosa
c’era al di là del muro. Raccontò a Shin della libertà, del
mondo, e soprattutto di tutto il
cibo che aveva mangiato. Questo fu il vero motivo che convinse Shin a scappare: la fame.
Perciò i due progettarono la
fuga e il 2 gennaio 2005 riuscirono finalmente a scappare da
quell’inferno. I due compagni
colsero l’occasione quando
furono assegnati alla raccolta
legna sulla collina vicino al
perimetro. Park fu il primo a
tentare di scavalcare la recinzione elettrificata, ma venne
folgorato. Shin allora usò il
suo corpo come una sorta di
messa a terra e riuscì nell’impresa, ustionandosi solamente
una gamba. Dopo aver corrotto le guardie di frontiera andò
in Cina e vagabondò per circa
un anno guadagnandosi da
vivere lavorando per alcuni
allevatori locali. Si convinse a
spostarsi sentendo che molti
fuggiaschi si erano salvati grazie alle chiese coreane. Andò
quindi verso Pechino, Tianjin,
Jinan e Hangzhou, non trovando qualcuno che potesse o
volesse dargli qualcosa in più
che un pasto caldo. A Shanghai finalmente conobbe un
giornalista che lo portò all’ambasciata sudcoreana. Venne
quindi interrogato più volte
sia dai sudcoreani che dagli
americani
sottoponendosi
anche alla macchina della verità. Iniziò poi un percorso di
recupero per ex prigionieri dei
lager nordcoreani e affrontò
una forte depressione causata
anche dei sensi di colpa provocati dalla fuga. Grazie ad
associazioni benefiche visse
alcuni anni in California per
poi trasferirsi definitivamente
e Seoul.
A quasi 10 anni dalla sua fuga,
il corpo di Shin è una mappa
recante i segni dell’orrore che
ha vissuto: le caviglie deformate dai ceppi per tenerlo appeso
a testa in giù durante l’isolamento, mentre la schiena è
marchiata da ustioni. Le braccia sono piegate ad arco per
i lavori forzati, il dito medio
della mano destra è stato mozzato per avere fatto cadere una
macchina da cucire. Il basso
ventre forato dal gancio con
cui le guardie l’avevano appeso
sopra le fiamme per torturarlo. Gli stinchi sono bruciati dal
recinto elettrificato scavalcato
durante la fuga. Oggi è conduttore di Inside NK, programma
(visibile anche su You Tube)
impegnato nella propaganda
e nell’informazione contro la
dittatura nordcoreana, inoltre
Shin è ambasciatore dell’ONU
per i diritti umani, girando il
mondo per raccontare la sua
storia. Storia divenuta libro,
“Fuga dal campo 14”, scritto dal giornalista americano
Blaine Harden.
Grazie alle testimonianze di
Shin, oggi siamo a conoscenza delle atrocità commesse
all’interno dei campi nordcoreani, dove si stima che attualmente vi siano rinchiuse
tra le 150 mila e le 200 mila
persone, sia oppositori politici e cittadini. E loro, proprio
come Shin, accettano questa
vita di orrore reputandola
l’unica possibile. È stato pro-
prio il giovane sopravvissuto
a raccontare di come non si
fosse mai chiesto cosa ci fosse
al di fuori del campo, senza
sentire il desiderio di fuggire.
Semplicemente credeva che
ci fossero persone nate con le
armi e altre nate prigioniere.
Amore, pietà, famiglia, tutte
parole senza un vero signifi-
“A Shanghai
finalmente
conobbe un
giornalista
che lo portò
all’ambasciata
sudcoreana.”
“La vita all’interno
del campo 14 è infernale
e alienante.”
cato per Shin. All’interno del
campo, Dio non era né morto
né scomparso, semplicemente
non era mai esistito. Circa un
cittadino nordcoreano su dieci
è stato imprigionato. La cattura scatta per innumerevoli motivi: basta avere una Bibbia o
dimenticare la data di nascita
di uno dei membri della famiglia Kim.
Shin non sa se si sente libero
veramente, non riesce ancora
ad abituarsi. Pensava che poter mangiare, dormire e muoversi senza chiedere il permesso bastasse per superare gli
incubi ed essere felice. “Ma
forse mai sarò libero.”.
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RIFLESSIONI
CIBO PER LA MENTE / DALLA DEFINIZIONE DEL DIZIONARIO A CICERONE
Cosa vuol dire leggere un libro?
Insieme di fogli stampati cuciti insieme e racchiusi in una copertina o alimento della giovinezza
e gioia della vecchiaia?
di
LETIZIA SANTINI
S
econdo il dizionario, i
libri sono “insieme di fogli stampati cuciti insieme e
racchiusi in una copertina”.
Niente di più giusto, ma secondo voi, cosa sono realmente i libri?
Sono soltanto un insieme di
pagine, oppure sono qualcosa di più?
Sinceramente, io penso che
il libro sia un modo per poter evadere dalla vita abitudinaria di tutti i giorni, partendo per mete sconosciute,
usando la fantasia e l’immaginazione, un po’ come
quando si è piccoli. Nella
vita di tutti i giorni, spesso
dimentichiamo la spensieratezza di quando si è piccoli,
la magia che accompagna
ogni momento. Gli scivoli
diventano castelli, le altalene aeroplani, la sabbia
farina per torte. Spesso mi
“Sinceramente,
io penso che il libro
sia un modo per poter
evadere dalla vita
abitudinaria di tutti i
giorni, partendo per
mete sconosciute,
usando la fantasia e
l’immaginazione,
un po’ come quando
si è piccoli.”
capita di avere nostalgia di
quei tempi, quando ancora
tutto mi sembrava una nuova realtà da scoprire. Un libro, dunque, non può essere
anche questo? Un modo per
ricordarsi quanto spensierata possa essere la vita anche
oggi, dove tutto sembra correre, e dove ogni momento
scompare e viene dimenticato nell’istante stesso in
cui passa. Quando si legge
il tempo diviene relativo,
tutto intorno si ferma. Sembra che vi sia più tempo per
tutto, che un momento duri
un’eternità. Vi è mai capitato di iniziare a leggere con il
sole, e finire quando questi
è ormai scomparso dietro
l’orizzonte, perdendovi tra
mille parole, e altrettanti
pensieri?
Secondo Cicerone “I libri
sono l’alimento della giovinezza e la gioia della vecchiaia.”
Cosa vuol dire questa frase?
Secondo me, in base al punto di vista può assumere
significati differenti. Secondo il mio, Cicerone intende
dire che i libri sono come
dei piccoli mattoncini di
sapere, che impilati uno
sull’altro, riescono ad alimentare, quindi rallegrare,
incoraggiare, riempire la vita di un giovane, per poi far
parte di lui. E dopo? I libri
verranno mai dimenticati?
Pensatevi tra molti, e molti
anni, seduti su una sedia a
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dondolo, intenti a guardare i vostri nipoti. Ogni loro
piccolo gesto vi ricorderà le
gesta di un eroe dei vostri
libri, se mai dovesse agitare un bastoncino potrebbe
ricordarvi Harry Potter, o se
si imbattesse in disegni strani Shadowhunters, e molti
altri ancora.
Questo è –ovviamente- ciò
che io penso riguardo una
delle mie più grandi passioni, ma ho voluto ampliare un po’ la mia “ricerca”,
chiedendo ad alcuni miei
compagni di lettura cosa
significhi realmente leggere
per loro.
Una di loro mi ha risposto
così: “per me leggere significa entrare in un mondo
in cui mi sento accettata”.
Devo essere sincera, mi ha
lasciato molto sbalordita
questa sua affermazione,
anche se mi ha fatto molto
pensare. Un semplice libro,
fatto di carta ed inchiostro,
può essere un rifugio, può
aiutare a dimenticare le preoccupazioni per un attimo,
e farti sentire in un posto
che senti realmente tuo,
personale.
Un’altra mia amica, mi ha
risposto: “Per me leggere è
vivere, perché lo faccio da
quando era piccola. Ricordo
ancora i libri con le immagini che avevo da bambina, di
cui imparavo le storie a furia di sentirle per riuscire a
leggerle da sola. Non ho mai
GalileiTimes
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RIFLESSIONI
“Per me leggere è
vivere, perché lo
faccio da quando
era piccola. Ricordo
ancora i libri con le
immagini che avevo
da bambina, di cui
imparavo le storie a
furia di sentirle
per riuscire a
leggerle da sola.”
pensato alla mia vita senza
la lettura, è come una necessità al pari del bere e del
mangiare. Quando leggo mi
sento in pace con me stessa,
mi sento capita, mi sento incoraggiata a fare qualcosa.
Come diceva Umberto Eco,
ho la possibilità di vivere altre vite e altre situazioni.” Io
penso che questo sia ciò che
tutti noi pensiamo, e che
tutti noi proviamo nello sfogliare le pagine di un libro.
Un altro pensiero, è stato:
“Se un libro è davvero bello
è quasi come entrare a far
parte della storia stessa, come se per un certo periodo
potessi vivere in un mondo
differente, anche migliore.”
Quante volte capita di entrare nel libro, camminare
tra le parole, e saltare tra
le pagine, immaginando di
essere davvero parte della
storia?
Infine, l’ultimo mio compagno di lettura mi ha risposto:
“Mi piace leggere perché è
interessante, potrei passare
pomeriggi interi leggendo.
Mi permette di imparare cose nuove ed ampliare il mio
lessico.” La lettura, infatti,
non solo può essere interessante, ma anche costruttiva: può insegnare culture e
tradizioni differenti, parole
nuove e ricercate, quindi come rivolgersi, come parlare.
La cultura di una persona, si
vede anche dal modo in cui
questa parla, da come imposta il discorso, dalle parole
che usa, come dice un mio
professore.
In conclusione, vorrei riproporvi la domanda.
Cosa vuol dire leggere un libro, per voi?
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ATTUALITÀ
Scandalo:
coperte le statue
capitoline?
Come i media ci manipolano
di
CLARA MORELLI
N
o, il messaggio non è “è
tutto un complotto”, sono
i fatti visti da una prospettiva
diversa. Diversa dalla bomba
mediatica che dopo il 26 gennaio ci è esplosa addosso, da
ogni quotidiano, telegiornale
e sito web.
I fatti sono noti a tutti: in occasione della visita del presidente Iraniano Rohani a Roma, le statue nude dei musei
capitolini sono state coperte.
La risposta delle autorità politiche competenti è stata un
italianissimo non ne sapevamo nulla e poi il caos: ogni
rete televisiva grida allo scandalo e, come previsto, grida da
piazza in protesta si levano da
ogni profilo facebook e twitter,
“ci siamo venduti!”, “l’arte non
si copre!”, “siamo lo zerbino
dell’Iran!”.
Quanti si sono fatti trascinare
dalla vis polemica che ha pervaso il mondo della comunicazione? Tanti.
Quanti sono andati oltre il
sentito dire, oltre la scia della
“Quanti si sono fatti
trascinare dalla vis
polemica che ha
pervaso il mondo della
comunicazione?”
frase fatta? Quanti hanno riflettuto criticamente sul gesto,
si sono domandati il contesto,
hanno cercato di capirne le
motivazioni? Pochi. Troppo
pochi.
Crearsi un opinione propria,
che sia frutto di una riflessione profonda e individuale non
è una cosa semplice, richiede
un sforzo, un impegno, un
passo in più rispetto alla notizia flash sentita di sfuggita alla
radio.
Cambiereste idea se sapeste
che il gesto di coprire tempo-
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raneamente alcune statue è
un’abitudine consueta quando si tratta di relazioni diplomatiche? Cambiereste idea se
sapeste che nel giugno dello
scorso anno, in occasione della visita del Pontefice a Torino
sono stati coperti alcuni dipinti considerati forti di Tamara
de Lempicka? Probabilmente
no, non ancora.
La domanda è perché? La risposta non è semplice, ci sarà
un motivo per il quale bisogna
studiare anni per fare l’ambasciatore e il diplomatico.
GalileiTimes
Rispetto. La realtà non segue
una direzione univoca, tra il
bianco e il nero ci sono infinite
tonalità di grigio, e saperle distinguere significa pensare in
modo critico, prendere un fatto e scandagliarlo in ogni sua
sfumatura, per capirlo e farsi
un’opinione che non sia un urlo cieco e infondato.
In questa occasione nessuno
ha sminuito la meravigliosa
anima italiana, la straordinaria danza di forme, colori che
è la nostra arte. L’Italia non
deve sentirsi svilita. Non bi-
sogna dimenticare che Rohani ha fatto una scommessa di
17 miliardi di euro sull’Italia,
17000 milioni. Da sempre l’Iran predilige la qualità del
made in Italy a ogni prodotto
europeo e intercontinentale,
non a caso l’Italia è stato il primo paese visitato dopo la fine
dell’embargo imposto all’Iran
negli ultimi decenni (Per quale
motivo credete che la stampa
internazionale si sia così accesa e indignata?)
Ma fondamentale è capire il
sottile confine tra rispetto per
l’ospite e servilismo. Quando
si riceve un esponente politico
di religione ebraica si ha l’accortezza di escludere dai cibi
offerti maiale e coniglio, non
per questo la cucina Italiana è
svilita. In questo caso nessuno
ha imposto a Roma di coprire
i suoi nudi, è stata un accortezza diplomatica per tutelare
Rohani (probabilmente all’oscuro di ogni cosa, sono come
sopra detto gli ambasciatori
ad occuparsi delle modalità
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ATTUALITÀ
degli incontri. ndr): nell’ottica (discutibile) della cultura
islamica la simpatia eccessiva verso i costumi occidentali
avrebbe potuto essere strumentalizzata dall’opposizione
politica di Rohani, estremisti
integralisti (non isis ma quasi,
“Non bisogna dimenticare
che Rohani ha fatto una
scommessa di 17 miliardi
di euro sull’Italia,
17000 milioni.”
ndr), è inutile esplicitare quale
delle due tendenze politica sia
quella migliore per l’Europa e
per il mondo oserei dire.
Lungi da me santificare l’Iran
e la sua neopolitica filo-occidentale o screditare il valore
della magnifica bellezza artistica italiana. In ogni caso ciò
che è bene ricordarsi di fare è
riflettere, sempre.
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GalileiTimes
Parole...
di
FEDERICO CHINELLO
L
a parola, prerogativa
dell’essere umano, nacque migliaia di anni fa. Da
allora nessun altro vivente
è riuscito ad elaborare uno
strumento comunicativo tanto pregnante.
L’uomo, senza dubbio, fu
indotto a parlare da un’esigenza di tipo essenzialmente
pratico: trasmettere elementari informazioni ai propri
simili; ma non solo. E’ infatti
possibile collegare la nascita
della parola anche ad una
sopita istanza interiore, ad
un’intima, ancora incosciente, necessità - connaturata
all’uomo stesso - di esternare
il proprio pensiero.
Col tempo, abbiamo imparato ad utilizzare la parola per
comunicare contenuti anche
molto complessi: tra questi,
i sentimenti, le emozioni.
Soprattutto per mezzo della
letteratura, la parola è divenuta uno strumento di scavo
attraverso cui portare alla luce la nostra interiorità, proiettandola nella realtà a noi
circostante.
Questo ruolo di tramite della parola costituisce tuttavia
anche il suo principale limite: ridurre una tumultuosa
suggestione dell’animo a una
10
L’OPINIONE
ordinata sequenza di vocaboli implica inevitabilmente la
perdita di alcune, importanti,
sfumature. Ciò si evidenzia
soprattutto nell’ambito della letteratura. Lo scrittore,
consapevole di non poter
esprimere a pieno i propri
moti interiori, cerca di farli
giungere al lettore almeno
in parte, ma l’aspirazione risulta pressoché vana. Vana
perché, se è vero che con la
scrittura si riesce a trasmettere un contenuto, l’atto dello
scrivere cela in ogni caso una
continua lotta tra sentimento
e parola: la seconda cerca di
domare il primo, di imbrigliarlo con redini fatte di un
razionale susseguirsi di lettere. Ma il sentimento è spesso
troppo forte e ha la meglio
sulla parola, che, rassegnata,
deve ammettere il proprio limite.
La parola si presenta dunque
come un’entità ancipite: conferisce forma al pensiero, ma
inevitabilmente ne riplasma
la sostanza, semplificandola.
Scrisse Johann Wolfgang
Goethe: “Ciascuno esplori se
stesso e troverà che la cosa è
molto più difficile di quanto
non si possa pensare; poiché
purtroppo abitualmente le
parole sono per l’uomo dei
meri surrogati: per lo più egli
pensa e sa meglio di quanto
si esprima”.
Nonostante il naturale im-
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poverimento cui è soggetta
qualsiasi percezione interiore convertita in linguaggio,
la parola è senza dubbio uno
strumento espressivo senza
paragoni, duttile e dalle infinite potenzialità.
Le lettere sono elettrodi, le
frasi circuiti. E gli elettrodi,
assieme ai circuiti, formano
straordinari congegni, originano nuovi mondi, dove
regna un’essenza profonda e
impalpabile.
Negli ultimi anni, soprattutto a seguito della massiccia
diffusione di modalità comunicative improntate all’immagine, stiamo assistendo
ad una progressiva riduzione
dell’uso della parola adeguata da parte dei più.
Con l’avvento dell’era digitale, i ritmi di vita dell’uomo
sono divenuti frenetici. “Velocità” è il termine chiave
della modernità. In ogni ambito si richiedono sintesi e
brevità.
Tutto ciò produce conseguenze gravi sul linguaggio, le cui
fondamenta risultano oramai
corrose.
Di generazione in generazione la sintassi si semplifica,
il patrimonio lessicale si depaupera: trasmettere il proprio pensiero senza incorrere
in un’eccessiva banalizzazione è impresa ardua.
Come all’interno di un processo involutivo, l’uomo moderno non nutre più il desiderio di penetrare la realtà che
lo circonda attraverso la parola, ma si nutre di significati
già confezionati, propinatigli
dalla società del consumismo.
L’uomo moderno, incoscientemente prigioniero in una
gabbia di silenzio. L’uomo
moderno, parlato e non parlante.
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CULTURA
Lo scrittore che ha rinnovato
la letteratura horror
Lovercraft morì convinto di essere stato una nullità
L
ovecraft è stato uno scrittore che ha rinnovato la
letteratura del terrore, unendo nei suoi racconti fantascienza, fantasy e horror. È
stato fonte di ispirazione per
scrittori del calibro di Stephen
King e Neil Gaiman, e per registi come Guillermo del Toro
e John Carpenter. Nonostante la popolarità raggiunta ai
nostri giorni, Lovecraft non
vide mai una sua opera sotto
forma di libro, solo in riviste
pulp e morì convinto di essere
stato una nullità.
“Il senso dell’umorismo mi ha
aiutato a sopportare la vita:
infatti, in mancanza d’altro riesco sempre a procurarmi un
sorriso sarcastico riflettendo
sulla mia stessa insignificante
ed egoistica esistenza!”
Lovecraft proveniva da un
ambiente familiare travagliato: il padre morì in manicomio dopo la sua nascita
mentre la madre cadde lentamente in preda alla follia, impedendo al figlio di uscire di
casa o di andare a scuola, tutto ció aggravato da un crollo
finanziario che porto la sua
famiglia alla povertà. Questi
fatti lo portarono ad escludersi dalla società e a considerarsi estraneo al mondo, rispecchiandosi nei personaggi
creati dalla sua penna. Nonostante la sua solitudine ebbe
un incredibile corrispondenza con altri intellettuali, scrivendo all’incirca 100 mila lettere in 20 anni, tra cartoline
e resoconti, alcuni anche da
70 pagine. Al centro dei suoi
di
LORENZO FORTUNATO
“La visione
pessimistica
della vita era
un elemento
tipico di
Lovecraft.”
racconti pone un pantheon di
incredibili creature mostruose e divine dai mille occhi e
tentacoli, provenienti dalle
profondità dello spazio, le
quali hanno creato l’umanità
per puro errore. La visione
pessimistica della vita era un
elemento tipico di Lovecraft,
il quale considerava la vita
un fenomeno sopravvalutato, difatti nei suoi racconti
gli umani sono solo pedine
che subiscono lo scorrere degli eventi, culminanti con un
finale a sorpresa grottesco.
Nonostante il suo cinismo e
la sua apatia, nei suoi scritti dimostrò una ricchezza di
umanità e genio, riflettendo
sulla vita e sulla religione,
mostrando anche come a volte gli esseri piú mostruosi si
nascondano dentro di noi. È
interessante come le creature
nate dalla sua penna rappresentano gli aspetti piu brutali
e malvagi dell’uomo, nascosti da un velo sottile che può
stracciarsi quando si affronta
il vero volto della realtà.
“Questa nostra razza umana
non è che un banale incidente nella storia dell’universo.
Negli annali dell’eternità
dell’infinito non ha più importanza del pupazzo di neve
di un bambino nella storia
dei popoli delle nazioni di
questo pianeta”
GalileiTimes
12
CULTURA
Primavera 1945
Un salto indietro per rivivere quei momenti con gli occhi semplici di un ragazzo di 17 anni
di
EMANUELA
RE CECCONI
“Quello che
invece va
perdendosi
dalla
memoria
collettiva
sono tutte
le piccole
storie
di gente
ordinaria.”
L
a storia sta finalmente
per subire una svolta
netta, dopo anni di conflitti
apparentemente
insanabili, battaglie infinite, tuoni di
aerei nel silenzio della notte
e eserciti allo stremo. Le vicende e gli esiti della “Grande
Storia” sono più o meno noti
ai posteri, quello che invece
va perdendosi dalla memoria
collettiva sono tutte le piccole storie di gente ordinaria
vissuta in quei tempi bui.
La mia proposta è di fare
un piccolo salto indietro nel
tempo per rivivere quei mesi di trasformazione con gli
occhi semplici e forse un po’
inconsapevoli di un ragazzo
di 17 anni (per comodità lo
chiameremo Giovanni) che
non si trovava ancora al fronte, in quanto minore, bensì
occupato in una azienda statale la quale produceva calzature per l’esercito ufficiale.
L’indagato speciale, classe
1927, mi racconta volentieri
di quel tempo per noi lonta-
nissimo ancora ben impresso
nella sua memoria...
La tragedia era giunta come
inevitabile: dopo la guerra in
Abissinia e le forti sanzioni
della Società delle Nazioni
ai danni dell’Italia fascista,
il nostro Paese di ritrovò alle strette e si avvicinò agli
unici che sembravano offrire
un appiglio al Duce: Hitler e
la sua Germania. Quando la
guerra scoppiò, l’Italia si trovava ormai troppo vicina alla
Germania e la scelta di entrare in guerra al fianco dei
tedeschi era in quel frangente quasi obbligata. Giovanni
allora era poco più che un
bambino. La notizia ovviamente scosse la tranquillità
di quegli ambienti che dopo
anni di dittatura si erano costruiti un proprio equilibrio,
le razioni di pane e zucchero,
le campane notturne, i giovani al fronte, un’atmosfera
mista di ammirazione e orrore per un ragazzino. Tuttavia
la vita scorreva abbastanza
N° 3
Febbraio 2016
tranquilla, i fronti erano lontani e quelli che rimanevano
erano troppo occupati a lavorare. La situazione per la popolazione precipitò quando
l’Italia cambiò fronte: i fascisti dopotutto era pur sempre
Italiani, ma i tedeschi no, i
tedeschi erano cattivi, spietati con quelli che li avevano
traditi; e si sa, più si avvicina
la fine, più i violenti si sfogano sui deboli.
Tornando alla primavera del
1945, l’armata tedesca ormai
conservava solo pochi avamposti nella nostra Penisola, a
cui però si attaccò con i denti. In un pomeriggio qualunque il nostro Giovanni camminava con un amico lungo
il Sempione, andava in ditta,
verso i colli di Sant’Erasmo,
(in quella zona erano stanziate le sentinelle tedesche) ,
quando d’un tratto uno sparo ruppe il silenzio. In fondo
alla strada accasciato giaceva
un uomo, una ferita alla coscia e fiumi di sangue. Non
si era fermato all’alt quel disgraziato, se lo caricarono
in spalla, le mani alzate in
segno di pace e corsero verso
l’ospedale.
Di episodi come questi ne accadevano molti, alla luce del
giorno, in quei mesi finali,
stremati.
Poi finalmente la liberazione, gli Americani entrarono
a Milano, l’Italia si volgeva
verso un futuro democratico
e libero. Ma che ne rimane
di quelle storie ordinarie, di
gente comune, che fino all’ultimo rimase nella propria terra a convivere con il dolore?
GalileiTimes
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CINEMA
Un’avventura solitaria, costellata da
paesaggi incredibili e vicende estreme
La storia è ispirata alla leggendaria vicenda del trapper statunitense Hugh Glass
L
eonardo DiCaprio, Tom
Hardy e Domhnall Gleeson: The Revenant, ultima
pellicola del regista messicano Iñárritu, era sulla bocca
di tutti ancor prima di uscire
nelle sale italiane il 16 Gennaio 2016.
La storia è ispirata alla leggendaria vicenda del trapper statunitense Hugh Glass, che ha
compiuto oltre 300km di marcia solitaria nei territori del
Missouri senza armi né viveri,
dopo essere stato ferito da un
orso e abbandonato dai suoi
compagni in fin di vita.
Per quanto possa sembrare
una storia paradossale e forse
un po’ banale per reggere un
intero film, Iñárritu riesce a
tenerci attaccati allo schermo per ben due ore e mezza,
preoccupati della sorte di DiCaprio (morirà anche questa volta?) in quella che forse
potremmo definire la sua più
grande interpretazione dal
1990 ad oggi.
Certo non bisogna aspettarsi un film ricco di dialoghi e
teatrale quanto The Hateful
Eight, bensì un’avventura solitaria, costellata da paesaggi
incredibili e vicende estreme:
la natura contro l’uomo.
Hugh Glass affronta i pericoli più svariati, primo tra tutti
un orso grizzly. L’orso di The
Revenant ha forse superato
la fama dell’attore principale,
tanto da incuriosire un po’ tutti e diventare uno dei principali argomenti di discussione
di tutto il film. Compare sullo
schermo per circa sei minuti,
con una realisticità pazzesca,
ma a detta del regista è una
creazione di CGI (Computer-Generated Imagery): non
un vero orso, ma una fantastica performance di computer
grafica.
Se il grizzly è un grandioso
risultato digitale, gli scenari
apocalittici non hanno nulla a
che vedere con un green screen: le riprese sono avvenute
nel gelido clima Canadese e
nella Terra del Fuoco Argentina, mettendo alla dura prova i
macchinari da ripresa e l’incolumità degli attori.
Leonardo DiCaprio, noto per
aspirare ad una perfezione recitativa, questa volta è arrivato
ad indossare una pelliccia di
45 chili, svegliarsi alle tre di
notte per il trucco, recitare a
temperature sotto zero dichiarando di “aver rischiato più
volte l’ipotermia” e prendere
una bronchite, che però rende
la tosse di Hugh Glass realisti-
ca più che mai. Dopo l’impresa
erculea, Leonardo ha ottenuto
il plauso generale ed il Golden
Globe, che ha dedicato alle
popolazioni indigene che nel
corso della storia hanno perso
la propria indipendenza, sono state sottomesse e private
di tutto, quelle popolazioni a
cui l’attore si riferisce cosi: “è
giunto il tempo di riconoscere
la vostra storia e di proteggere
i vostri territori (….) è giunto
il tempo che le vostre voci siano sentite e che il pianeta sia
protetto per le prossime generazioni”.
Infatti The Revenant non è
solo la drammatica vicenda
di un cacciatore statunitense,
ma è anche la storia degli indiani d’America che possono
sembrare “i cattivi” del film
ma che, se guardati con un po’
più di attenzione, sono le vere
vittime di tutta la vicenda, le
vittime silenziose dell’avidità
umana.
N° 3
Febbraio 2016
di
ANTONELLA
POLIMENO CAMASTRA
“Un’avventura
solitaria,
costellata
da paesaggi
incredibili
e vicende
estreme: la
natura
contro l’uomo.”
GalileiTimes
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CURIOSITÀ
NUMISMATICA / PERCHÉ LA MONETA RIPORTA I VERSI DELLA POESIA CHANSON D’AUTOMNE DI PAUL VERLAINE
Coniati 2 euro per i cinquant’anni
dallo sbarco in Normandia
I primi versi della poesia furono utilizzati da Radio Londra, insieme dei programmi radiofonici trasmessi
dalla BBC e indirizzati alle popolazioni europee, come messaggio in codice l’1 luglio 1944
di
MARIA VITTORIA
CRUGNOLA
N
on sono mai stata un’appassionata di numismatica e ho sempre ritenuto
del tutto inutile collezionare
monete dello stesso valore
ma con dritti differenti. Eppure poco tempo fa mi sono
vista brillare tra le mani una
moneta da due euro nuova
nuova da sembrare appena
uscita dalla pubblicità della
“Cillit Bang”. Guardandola
attentamente mi sono subito accorta che non erano i
soliti due euro con il nostro
amatissimo Dante Alighieri,
ma la moneta in ricordo dei
cinquant’anni dallo sbarco in
Normandia (1944 – 2014). E
guardando più attentamente mi sono accorta che sulla
moneta era presente una brevissima poesia che vi riporto:
CHANSON
D’AUTOMNE
Les sanglots longs
Des violons
De l’automne
Blessent mon coeur
D’une langueur
Monotone.
CANZONE
D’AUTUNNO
I singhiozzi lunghi
dei violini
d’autunno
mi feriscono il cuore
con languore
monotono.
L’autore della poesia è Paul
Verlaine, poeta francese vissuto tra il 1844 e il 1896 e
considerato un “poeta maledetto” (vedi nota a margine).
Il tono di molte delle sue poesie che combinano spesso
malinconia e chiaroscuro,
rivela, al di là della forma
efficace di semplicità, una
sensibilità profonda.
Ma cosa c’entra Verlaine con la
seconda guerra mondiale dato
che sarebbe stato più che centenario nel 1944? E queste parole
di primo acchito non hanno
nulla a che fare con la guerra,
quindi perché sono incise su
questa moneta? Fatto sta che,
decisamente incuriosita, ho subito googolato le parole incise
sulla moneta e in pochi secondi
N° 3
Febbraio 2016
scopro qualcosa di decisamente
incredibile.
I primi versi della poesia furono utilizzati da Radio Londra,
insieme dei programmi radiofonici trasmessi dalla BBC e indirizzati alle popolazioni europee,
come messaggio in codice l’1
luglio 1944, esattamente alle 21
di sera, per annunciare alla resistenza francese il via libera allo
sbarco in Normandia. Il primo
verso, “Les sanglots longs des
violons de l’automne” (“I lunghi
singhiozzi dei violini d’autunno”), avvertì i Maquis (la Resistenza francese), situati nella regione d’Orléans nel cuore della
Francia, di compiere azioni di
sabotaggio contro la rete logistica tedesca presente ai confini e
sul territorio francese (stazioni,
binari, ponti, incroci stradali,
GalileiTimes
SBARCO IN NORMANDIA
Una delle più grandi invasioni anfibie della storia, messa in
atto dalle forze alleate durante la seconda guerra mondiale
per aprire un secondo fronte in Europa, dirigersi verso la
Germania nazista e allo stesso tempo alleggerire il fronte
orientale.
depositi di munizioni, etc.) nei
giorni successivi.
Il messaggio in codice significava che l’invasione era imminente e sarebbe stata confermata
dal verso seguente della stessa
poesia entro quarantotto ore
dalla data effettiva dell’attacco.
Il giorno successivo la BBC anziché completare il verso, ripeté
l’inizio della poesia: qualcosa
andò storto.
Nei primi tre giorni di giugno
il tempo era stato particolarmente clemente, con giornate di
sole e cielo limpido, l’ideale per
le incursioni aeree di supporto.
Tuttavia il 4 giugno all’improvviso il tempo si era ingrigito,
con previsioni di ulteriore peggioramento per il 5; erano infatti
previsti temporali e mare molto
agitato. Si cercò di ritardare il
più possibile l’azione di sbarco,
ma alla fine si decise di ordinare
il rinvio dell’invasione. Il bollettino meteo delle 21.30 comunicò
che esisteva la possibilità di un
netto miglioramento per l’alba
del 6: Eisenhower dunque decise che l’attacco avrebbe avuto
luogo.
La BBC alle 22.15 del 5 giugno
trasmise la seconda parte del
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CURIOSITÀ
verso di Verlaine: “…blessent
mon couer d’une langueur monotone” (“mi feriscono il cuore
d’un monotono languore”). Ricevuto il messaggio, l’immenso
apparato dell’aviazione alleata
si organizzò, partì, e fu così che
cominciò l’invasione.
La domanda sorge ora spontanea: questa moneta ha lo stesso valore del solito Dante o ha
qualcosa in più? Vale la pena
spenderla per cinque pacchetti di “Croccantelle” al bacon o
per dieci sigarette? La risposta è
immediata è: “decisamente no”.
Questa moneta si fa carico e ricordo per noi della storia passata, presente e futura ed proprio
per questo che va conservata
con la massima attenzione: per
poter raccontare un piccolo pezzo della nostra libertà e far sì
che rimanga, finché l’euro sarà
in circolazione, inamovibile ricordo.
POETA
MALEDETTO
L’espressione «poète
maudit» (poeta maledetto)
ha superato i limiti di
un’epoca, e può oggigiorno
qualificare altri autori oltre
a quelli che designava in
origine – ovvero gli amici
di Verlaine. Essa designa
in generale un poeta
(ma anche un musicista,
o artista in genere) di
talento che, incompreso,
rigetta i valori della
società, conduce uno
stile di vita provocatorio,
pericoloso, asociale
o autodistruttivo (in
particolare consumando
alcol e droghe), redige
testi di una difficile lettura
e, in generale, muore
ancor prima che al suo
genio venga riconosciuto
il giusto valore.
N° 3
Febbraio 2016
“Il messaggio
in codice
significava
che
l’invasione
era
imminente e
sarebbe stata
confermata
dal verso
seguente
della stessa
poesia entro
quarantotto
ore dalla
data effettiva
dell’attacco.”
GalileiTimes
16
L’ALTRA COPERTINA
L’artista cinese Ai Weiwei, noto per le sue opere ma anche per le sue posizioni
di contrasto rispetto al governo del suo paese e per il suo attivismo
a favore dei diritti umani, ha recentemente esposto al pubblico una sua nuova
creazione. Il 13 febbraio è stata infatti svelata un’installazione presso la
Konzerthaus di Berlino, una delle sale da concerto più note
della capitale tedesca. L’opera consiste in circa 14mila giubbotti salvagente
arancioni appesi alle colonne situate sulla facciata dell’edificio, in modo
da ricoprirle da terra fino alla sommità.
N° 3
Febbraio 2016
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