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D`Annunzio, un mascalzone quasi simpatico

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D`Annunzio, un mascalzone quasi simpatico
SPIGOLATURE Lo scritto di un pubblicista croato alla vigilia del 12 settembre 1919
D’Annunzio, un mascalzone quasi simpatico
di Ilaria Rocchi
A
Una Disneyland
irredentista
Nel reportage pubblicato il 25
agosto, intitolato “Il fondatore del
fascismo conquistò Fiume e cercò
di attaccare pure Spalato” (e giunto segretamente a Zara, fu accolto “da una colonia italiana in lacrime....”), Kuljiš affronta il “nodo”
dannunziano partendo dal Vittoriale degli Italiani, ultima, stupefacente – alias “spettrale”, nell’occhiello dell’articolo – residenza-mausoleo del Vate a Gardone Riviera. Il
giornalista presenta i contenuti e il
percorso espositivo, con una serie
di sue valutazioni sull’ambiente. È
un’immersione, osserva, in una sorta di “Disneyland irredentista”, un
“tempio della vittoria e dello spirito
latino”, in cui vengono commemorate le principali gesta dannunziane
(“la conquista di Fiume e lo sbarco
in Dalmazia”).
Vista la collocazione geografica
– nella fattispecie il posizionamento
sul lago di Garda –, l’accostamento con Mussolini, che qui, dopo l’armistizio del 1943, creò il suo stato
fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, è inevitabile. “Salò e Garda –
rileva Kuljiš – sono come un Jurassic park virtuale popolate da spettri
fascisti, collocate in un ambiente di
ville milionarie, come quella di Catullo e Clooney, dove le idee virulente si spengono inavvertitamente e covano sotto le ceneri nella penombra del museo”.
Segue a pagina 7
IN QUESTO NUMERO
Giuliano-dalmati esuli e rimasti: i tempi cambiano, e anche
certe relazioni, tant’è che ciò che
sarebbe stato impensabile fino a
qualche anno fa, ora invece è diventato un segnale incoraggiante
e promettente di apertura da parte di chi, finora, si era dimostrato
refrattario al dialogo (contrariamente ad altri, avviati su percorsi riconcilianti). Parliamo della
presentazione di un progetto realizzato dai rimasti presso la sede
dell’Associazione delle Comunità
Istriane a Trieste. Nella seconda
metà di luglio, in via Belpoggio,
è stato infatti proiettato il documentario “Istria nel tempo”, prodotto da TV Capodistria in collaborazione con il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, l’Unione
Italiana e l’Università Popolare
di Trieste. Il lavoro, redatto e sceneggiato da Alessandra Argenti
Tremul, riassume l’omonimo
manuale di storia regionale del Centro di Ricerche
Storiche di Rovigno, curato da Egidio Ivetic.
Altre cose, invece, sembrano destinate a non cambiare mai. E purtroppo non si tratta
di allucinazioni
sotto il sole cocente dell’estate
2012, ma sono
delle proposte e
ipotesi pseudostoriche lette nei
mesi scorsi sulla stampa croata: dal museo di
Curzola dedicato a Marco Polo,
allestito nella sua
presunta casa natale, la collocazione
della tomba di re Artù
in Dalmazia; le avventure di Ulisse lungo le coste dell’Adriatico orientale...
Appropriazioni indebite, “scippi”, serto Storia e Ricerca di settemstrategie di marketing, ricostru- bre. Si prosegue con una rifleszioni strampalate e pacchiane, sione di Kristjan Knez sui confipromozione, con il marchio “cro- ni e la recensione di due saggi;
ato” di un patrimonio che è inve- quindi con la mostra che Space di tutt’altra matrice (romana, lato ha dedicato a Diocleziano,
con un personaggio che conveneta, in primis).
E (ri)spunta pure Gabrie- tinua ad affascinare, Grace di
le D’Annunzio, fatto resuscita- Monaco, e due proposte di letture, alla vigilia del mese dell’Im- ra: il libro di Ulderico Bernardi,
presa fiumana –, consumatasi il “Istria d’amore – L’Istria, ma12 settembre 1919 –, da un noto gico frammento d’Europa”, reeditorialista croato, Denis Kuljiš centemente edito da Santi Quasulle pagine di un supplemento ranta, e le memorie di un’esule
del quotidiano “Večernji list”. fiumana, Matilde Lizzul Comar,
È con quest’articolo, uscito sa- “Nonna fiumana racconta – Nibato scorso, che apriamo l’In- ni’s story”.
LA VOCE
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driatico orientale: un’estate rovente, anche sul piano
(pseudo)storico e culturale,
quella che sta per concludersi, con
proposte e ipotesi che non possono
apparire altro che “deliranti”. Abbiamo così letto del museo di Curzola, dedicato all’“oriundo” Marco
Polo, in quella che, a livello locale,
è stata indicata come la sua casa natale (gli unici che ci credono ciecamente sono i cinesi, che sappiamo
soliti a plagiare le cose italiane; ci è
stato poi riferito che la tomba di re
Artù si troverebbe nientemeno che
in Dalmazia; abbiamo “appreso”
che Ulisse avrebbe vissuto le sue
avventure in Dalmazia... Tra appropriazioni indebite e sfrontati “scippi”, strategie di marketing, ricostruzioni strampalate e pacchiane,
promozione, con il marchio “croato” di un patrimonio che è invece
di tutt’altra matrice (romana, veneta, in primis), non ci mancava altro
che il fantasma di Gabriele D’Annunzio. L’ha scomodato – alla vigilia del mese dell’Impresa fiumana,
consumatasi il 12 settembre 1919,
nonché del 150.esimo della nascita del Poeta-Soldato, che ricorrerà il
12 marzo prossimo (è nato a Pescara e si è spento a Gardone Riviera,
il 1.mo marzo 1938) –, un noto editorialista croato, Denis Kuljiš, sulle pagine del supplemento “Obzor”,
del quotidiano “Večernji list”, uscito sabato scorso.
Stravagante, spesso polemico
ma anche coraggioso, qualche anno
fa (era il 2007) di Kuljiš avevamo
apprezzato le prese di posizione nella diatriba Mesić – Napolitano su
foibe ed esodo. All’epoca aveva criticato duramente il presidente croato (chiedendo persino l’impeachement), che aveva contestato le affermazioni del suo omologo di Roma
sul ruolo di Tito. Kuljiš ci tenne a
sottolineare che, in effetti, le parole del Capo dello Stato italiano erano giuste e corrispondevano a verità
storica: “Quella attuata dall’esercito di Tito nei territori del Friuli Ve-
nezia Giulia nel dopoguerra è stata
null’altro che pulizia etnica, eseguita spietatamente – scrisse il giornalista – e con l’intento di eliminare
la popolazione autoctona da quelle
aree. Un certo numero di italiani è
finito nelle foibe, altri sono stati affogati in mare, ma la maggior parte è stata avviata all’esilio con una
combinazione tra politiche repressive e rovina economica. Il tutto
nell’ottica della cosiddetta tecnica rivoluzionaria dell’espropriare
l’espropriatore”.
DEL POPOLO
storia
e ricerca
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2 storia e ricerca
Sabato, 1 settembre 2012
RIFLESSIONI Due opere, proposte in un cofanetto unico, ci aiutano a inquadrare l’argom
Il tempo dei confini, epoca senza r
Guerre, mattanze, esodi di popolazioni e drammi di ogni genere furono e sono tuttora provocati dalle
di Kristjan Knez
I
l confine, sostantivo che deriva dal latino confinem, indica
una linea di separazione che
in origine riguardava un campo o
una porzione di terra. Esso è una
costante nella storia del genere
umano. La stessa leggenda della
fondazione di Roma è legata a un
limite e alla controversia tra i fratelli Romolo e Remo che finì con
la morte di quest’ultimo. Guerre,
mattanze, esodi di popolazioni e
drammi di ogni genere furono e
sono tuttora provocati dalle divergenze territoriali, dai dissidi confinari, che, inevitabilmente, sfociano nello scontro.
Gli esempi sono innumerevoli:
da quelli legati ai disaccordi circa le estremità comunali – possiamo rammentare le beghe tra Isola e Pirano, storicamente esistite e
documentate, e il “canon de figara”, metafora di una “guerra” che
non poteva e non doveva esserci
– o le attuali zone calde nel resto
del mondo, come il Kashmir, per
esempio, conteso tra l’India e il
Pakistan che da decenni si fronteggiano in quell’area. In questo
caso, però, si tratta di due stati che
possiedono un arsenale atomico.
Oppure come non menzionare
il bagno di sangue nei Balcani, la
macabra conclusione del Ventesimo secolo in Europa, la cui origine dev’essere ricercata anche nelle controversie territoriali in una
regione complessa e nel sincrono
allontanamento dalla Jugoslavia
di quelle che erano state le repubbliche socialiste, che proclamarono la loro indipendenza, tagliando
i legami con Belgrado e tracciando nuovi confini.
Vi è poi il ginepraio caucasico,
oppure l’interminabile questione mediorientale, per non parla-
Da queste parti il secondo dopoguerra si dilatò nel tempo e per
circa un decennio dalla fine del secondo conflitto mondiale, l’area
in questione, quella del cosiddetto
Territorio Libero di Trieste, a sua
volta suddiviso in due zone con altrettante amministrazioni, si trovò
a vivere nell’incertezza. Alla fine
proprio il nuovo confine tra l’Itae la Jugoslavia, questa volta deOpere fondamentali lia
finitivo, avrebbe portato a una traQuesti e innumerevoli altri sformazione radicale del contesto
esempi li troviamo nel recente vo- sociale, linguistico, culturale, mulume “Il tempo dei confini. Atlante tando per sempre un ambiente spestorico dell’Adriatico nord-orien- cifico.
tale nel contesto europeo e meRicadute di vario
diterraneo 1748-2008”, di Franco Cecotti, che si è avvalso della
genere
collaborazione di Dragan Umek,
Una linea immaginaria sul terriedito dall’Istituto regionale per la
storia del movimento di liberazio- torio porta a ricadute di vario genere
ne nel Friuli Venezia Giulia (Trie- che interessano la società e le istituste 2010, pp. 224). Con questo li- zioni in tutte le loro articolazioni. La
bro abbiamo a disposizione un al- dilatazione dell’orizzonte quasi semtro importante strumento di lavo- pre è foriero di una metamorfosi. Un
ro, di studio e di consultazione, nuovo confine può rappresentare anconcepito e realizzato da un’isti- che un’opportunità importante. Pentuzione che da tempo presta par- siamo solo alla fortuna di Trieste e
ticolare attenzione all’argomento di Fiume. La proclamazione di quei
ed è promotrice di prodotti edito- due porti franchi, nel 1719, era la
riali di notevole valenza.
conseguenza dell’espansione terriCome non ricordare l’opera toriale asburgica a seguito dell’incollettanea “Il confine mobile. At- successo ottomano riportato a Vienlante storico dell’Alto Adriatico na, assediata nell’estate del 1683. La
1866-1992: Austria, Croazia, Italia, controffensiva imperiale e le imporSlovenia” del 1996, o il CD ROM tanti vittorie, con il successivo riflusmultimediale “Storia del confine so turco, terminò con la pace di Carorientale italiano 1797-2007. Car- lowitz (Sremski Karlovci) del 1699.
I limiti orientali, che includevatografia, documenti, immagini, demografia”, curato da Franco Cecot- no buona parte dell’Europa pannoti e Bruno Pizzamei, ausili impor- nica, furono colti come il momentanti, specie a livello didattico, che to in cui si apriva uno scenario nuooffrono una serie di elementi grazie vo per l’economia della monarchia.
ai quali è possibile cogliere la dina- L’attività di Luigi Ferdinando Marmica delle linee di demarcazione in sili era rivolta proprio a tracciare le
un settore geografico come il no- linee attraverso le quali doveva passtro, conteso e oggetto di trattative sare il traffico commerciale, cioè da
e di spartizioni in diverse occasioni Vienna in direzione di Costantinonel corso del Novecento.
poli e del Levante, ma anche verso
re dell’Africa i cui scontri sovente
sono generati proprio da quei confini disegnati a tavolino dalle potenze coloniali europee che nel secolo XIX si spartirono quel continente e fomite di problemi e crisi,
quasi sempre sfociate in cruentissime guerre, che accompagnano il
continente nero dalla decolonizzazione in qua.
l’Adriatico e l’Italia nonché verso
la Polonia, la Moscovia e l’area del
mare del Nord.
Il Bolognese era consapevole
che l’Impero, grazie alle sue conquiste territoriali, sarebbe divenuto il
padrone assoluto nell’area danubiana e sosteneva la necessità di dotare il nuovo spazio geografico, acquisito dagli Asburgo, di arterie grazie
alle quali l’Impero avrebbe svolto un
ruolo di primo piano nei commerci
tra l’area dell’Europa settentrionale
e l’Oriente.
Analogie che aiutano
a capire
I lavori precedenti, che abbiamo
citato, sono stati d’indubbia importanza per gettare le basi, per iniziare
una trattazione che ora trova un ulteriore approfondimento in un volume importante, che allarga l’angolo
visuale. Si esce, infatti, da un’area
geografica circoscritta, come potrebbe essere quella adriatica, per
abbracciare anche altri contesti,
come il sud-est europeo, il Mediterraneo orientale, lo spazio dell’Europa dell’est e quello ex sovietico.
Attraverso la comparazione di
situazioni e problemi analoghi a
quelli verificatisi alle nostre latitudini, si offrono spunti, informazioni e rappresentazioni cartografiche
che permettono di cogliere i nessi e
di inserire i problemi locali o regionali in un contesto più ampio.
È una metodologia che giova
non poco alla comprensione di determinate soluzioni, questioni e metamorfosi che interessarono molte
aree del vecchio continente. Un altro punto di forza è, indubbiamente, la scelta del lungo periodo. L’attenzione, quindi, non è concentrata
esclusivamente alle vicende del Novecento (o addirittura solo a una sua
parte) ma offre innumerevoli ele-
menti che abbracciano un arco temporale di oltre due secoli e mezzo:
dalla pace di Aquisgrana, seguita
alla guerra di successione per il trono asburgico, che segna anche l’inizio di una più moderna e accurata
registrazione della maglia confinaria, all’allargamento dell’Unione
europea sulle coste del Mar Nero,
con l’inclusione della Romania e
della Bulgaria.
Come scrive l’autore nella presentazione: “la rappresentazione
spaziale (…) tiene conto dei rapporti diplomatici più ampi e degli
interessi territoriali degli stati che
hanno avuto la sovranità sull’area
adriatica: un rilievo particolare è
stato assegnato all’Europa centroorientale e ai Balcani, ma estendendo l’attenzione anche al bacino
del mar Mediterraneo e al vicino
Oriente, territori tutti dove espansioni commerciali e militari degli
stati europei (compreso l’Impero
ottomano) hanno provocato tensioni di ampia durata tra i secoli 18º
e 20º, e ancora oggi vedono la presenza di numerose missioni militari
di stati europei in funzione di contenimento di conflitti o con vere e
proprie occupazioni”.
Sulle orme dei conflitti
fra Stati nazionali
Le caratteristiche dell’opera offrono la possibilità di cogliere svariati aspetti nonché una riflessione
“(…) sul costituirsi e sulla diffusione degli stati-nazione, dalla crisi degli imperi plurinazionali o dalla loro
lenta agonia fino al consolidarsi del
nazionalismo e degli stati totalitari
nel corso del Novecento; permette
di seguire le spinte dell’espansione
coloniale e i conflitti per l’indipendenza degli stati nord africani e del
vicino Oriente, fino alla dissoluzione degli ultimi stati plurinazionali,
Dalla presentazione
La Lega Nazionale a Ronchi, ricordando l’Impresa di Fiume
La presidente della Sezione di Fiume della
Lega Nazionale, Elda Sorci, annuncia la cerimonia che, come ormai tradizione, ricorderà il 93.esimo anniversario dell’Impresa di Fiume di Gabriele D’Annunzio e dei suoi Legionari, e che si terrà
mercoledì 12 settembre 2012 alle ore 10.30, alla
stele che a San Polo di Monfalcone ricorda la storica data. La Lega Nazionale metterà a disposizione un pullman gratuito che partirà da Piazza Ober-
dan (lato Consiglio Regionale) alle ore 9 di mercoledì 12 settembre p.v. e farà ritorno a Trieste a
fine cerimonia.
Il Monumento eretto nel 1960 su progetto
dell’architetto dalmato (spalatino) Vincenzo Fasolo e si compone di una colonna romana collocata
su base quadrata. In memoria dei Legionari e della
loro Impresa, il Comune nel 1925 mutò il suo nome
da Ronchi di Monfalcone a Ronchi dei Legionari.
L’attenzione ai confini, alla loro storia e all’opportunità politica
o economica della loro configurazione è sempre stata presente nel
dibattito culturale. Le modalità, con cui tale attenzione si è espressa, sono legate alle diverse epoche e quindi alle circostanze storiche, determinate spesso da conflitti, da rivoluzioni interne agli stati
e dall’imporsi di ideologie che mettevano la propria identità in rapporto ad uno spazio, talvolta circoscritto, altre volte indeterminato
ed espansivo. Le riflessioni attuali sui confini non hanno limiti, attengono ad un ampio ventaglio di discipline, tra cui la sociologia,
l’antropologia, l’economia e la psicologia, che utilizzano spesso il
termine confine come concetto esplicativo oppure in modo metaforico, arricchendo di significati e di sensi, sempre legati ai rispettivi
ambiti di ricerca.
L’utilizzo trans-disciplinare del termine confine e la complessità
degli approcci metodologici rendono quindi necessaria una delimitazione di campo, per esplicare gli ambiti culturali e gli scopi che si
intende perseguire nel proporre i risultati di una ricerca: in questo
lavoro, fin dalla scelta del titolo, con i riferimenti ai “tempi” e alla
struttura di “atlante”, si vuole indicare un percorso strettamente legato alla storia e alla geografia, discipline precocemente e intrinsecamente attente al tema dei confini e alla loro evoluzione.
Il progetto di questo volume, avviato diversi anni fa, tende ad un
obiettivo preciso, quello di assolvere ad una funzione didattica, cioè
presentare in modo ordinato e chiaro le variazioni dei confini per facilitare il più possibile la comprensione della storia politica, diplomatica, sociale e culturale di un territorio complesso come l’Alto
Adriatico, dove nel secolo XX si sono alternate almeno sei formazioni statali e un numero maggiore di regimi politici.
L’obiettivo didattico è accompagnato da una certezza metodologica, cioè dalla necessità di produrre strumenti cartografici, ritenuti
indispensabili per dare concretezza e visibilità al discorso storiografico. Lo spazio geografico indispensabile per comprendere la mobilità dei confini nell’area adriatica, come la scelta di un’adeguata
profondità temporale per capire gli eventi storici che hanno prodotto
gli attuali confini hanno imposto un’attenta riflessione. […]
[Franco Cecotti, “Il tempo dei confini. Atlante storico
dell’Adriatico nord-orientale nel contesto europeo e mediterraneo
1748-2008”, in collaborazione con Dragan Umek, Trieste 2010, p. 8]
storia e ricerca 3
Sabato, 1 settembre 2012
mento
rispetto
e divergenze territoriali
consolidati attorno all’internazionalismo comunista, nell’Unione Sovietica e nella Jugoslavia, proprio mentre una diffusa globalizzazione economica imponeva la riduzione delle
barriere tra stati e spingeva alla formazione di aggregazioni sovranazionali, come è accaduto con l’Unione
Europa. Insomma, riflettere sui confini significa affrontare la storia degli
Stati-nazionali, delle identità e delle
culture politiche che hanno accompagnato la storia europea e mondiale
degli ultimi secoli” (pp. 8-9).
Accanto al ricco apparato di carte, semplici ed immediate, elaborate
appositamente per questa edizione,
che permette di cogliere l’evoluzione
delle linee di demarcazione, tra dilatazioni e arretramenti, il volume contiene una messe importante di dati,
considerazioni, testi concernenti la
legislazione di un determinato territorio incluso entro una precisa realtà
statuale, vi sono riferimenti alle varie
occupazioni e alle novità introdotte,
considerazioni sulle decisioni prese
nelle sedi diplomatiche, appunti sugli aspetti demografici, nazionali e
sui censimenti.
La questione adriatica
tra ’800 e ’900
Ma al concetto di confine, specie
dalla metà del XIX secolo, parallelamente iniziarono a svilupparsi le
identità nazionali con i conseguenti programmi previsti per i rispettivi
Stati che all’interno delle compagini imperiali, plurali per definizione,
andarono a cozzare, sviluppando il
concetto di etnicità e l’ideologia nazionalista. Ecco allora che il volume
“Un’epoca senza rispetto. Antologia sulla questione adriatica tra ’800
e ’900”, curato da Fulvio Pappucia
in collaborazione con Franco Cecotti, edito dall’Istituto già ricordato (Trieste 2011, pp. 333) è una prosecuzione ideale e complementare,
che propone una lettura critica e ragionata delle riflessioni elaborate a
cavallo tra il XIX e il XX secolo da
alcune personalità intellettuali e politiche dell’allora Litorale austriaco,
cioè Angelo Vivante, Ruggero Timeus e Henrik Tuma.
“Nell’Europa
centro-orientale tra la seconda metà dell’800 e la
prima parte del ‘900 entra in crisi la
tradizionale, secolare, sovrapposizione tra le gerarchie sociali (cioè,
semplificando molto, i rapporti tra
gruppi dominanti e dominati) e i caratteri culturali (“etnici”, linguistici,
religiosi): prima viene in parte sgretolata da una fase di “modernizzazione”, cioè di industrializzazione,
sviluppo dei trasporti, intensi flussi
migratori, urbanizzazione, crescita
dell’associazionismo, dei primi partiti di massa e di elementi di democrazia” (p. 11).
È un’opera pensata, soprattutto,
a un pubblico di non “esperti”, compresi gli studenti delle scuole medie
superiori e universitari, perciò l’antologia è stata confezionata proponendo un apparato didascalico rilevante, con schede dettagliate e riferimenti sui personaggi trattati o citati, con indicazioni bibliografiche,
con rimandi per gli approfondimenti, con l’estrapolazione di passi tratti
da altri volumi, coevi e no.
Molte sono le spiegazioni, particolarmente utili, specie laddove
determinati termini e/o questioni si
prestano a interpretazioni di vario
tipo. I testi selezionati e pubblicati sono corredati da un ricco numero di note esplicative del curatore,
Tre autori locali in rappresentanza di tesi e mentalità divergenti
Abbiamo trovato che le lacerazioni interne alla popolazione “di lingua italiana”
dell’Adriatico orientale possono essere ben
rappresentate dagli scritti di Ruggero Timeus
(1892-1915) e di Angelo Vivante (18691915), autori triestini nel primo quindicennio
del ‘900. In essi infatti è possibile riconoscere, concentrati e in qualche misura elaborati a
livello teorico e letterario, due modi di intendere la società che si erano andati formando a
partire da qualche decennio prima, in buona
parte di questa popolazione (non in tutta).
A Timeus e Vivante attribuiamo non la paternità di questi due modelli di mentalità (le
loro opere erano mal conosciute o addirittura ignorate) o una stretta corrispondenza con
essi, quanto una rappresentatività emblematica capace di evocare la profonda divaricazione che si era creata, e che – secondo noi – era
destinata ad una lunga persistenza, sulla quale azzarderemo solo delle ipotesi dato che la
nostra rassegna si ferma al 1914-1915.
in cui analizza i singoli problemi,
mentre le note dell’autore trattato,
in cui si riportano altri passi, giovano alla comprensione generale della questione. Vi sono poi gli “Spunti per un dibattito sui temi proposti”
in cui si evidenziano le caratteristiche dei singoli autori, le analogie o
le differenze esistenti con le altre
elaborazioni politiche simili, riconducibili ad un dato ambiente.
Perché “Un’epoca senza rispetto”? Pappucia scrive che attraverso
questo titolo si desidera evidenziare
il “radicale blocco nella capacità di
comprendere e di stabilire relazioni
con gli “altri”, cioè con chi è percepito come appartenente ad un mondo
diverso e inferiore che merita poco
“rispetto”. Si riscontra con maggiore evidenza in coloro che appartengono ai gruppi nazionali dominanti, in particolare in buona parte dei
ceti medi e in una parte dei ceti subalterni, che si sentono più esposti:
la percezione del “risveglio” slavo
come una minaccia li porta a elevare barriere e quindi a non distinguere
le articolazioni interne di questi “altri”, a non comprenderne la mentalità né ad apprezzarne risorse e talenti;
vige il rifiuto della loro lingua, non li
si frequenta e spesso li si ignora; di
conseguenza è impossibile “mettersi
nei panni altrui””.
Sul versante sloveno ci è sembrato particolarmente significativo il percorso di vita
dell’autore goriziano Henrik Tuma (18591935): comincia in un ambiente caratterizzato da gerarchie sociali e etniche che risentono
ancora della tradizione dell’ancien régime e
arriva nella prima quindicina del ’900 nel pieno di una turbolenta modernità. In questo percorso ci sembra di aver trovato una testimonianza essenziale dei modi con cui si afferma
un nuovo ceto medio urbano sloveno: non più
attraverso l’assimilazione alla cultura dominante delle “nazioni civili” (Kulturnation) tedesca ed italiana ma con una intraprendenza
che parte da un’orgogliosa rivincita personale
e di gruppo che si identifica nella “costruzione di una nazione”, coinvolgendo anche un
settore dei ceti contadini del Litorale/Primorska e della Carniola/Kranjska (in minor misura i ceti operai).
È un’intraprendenza – che trova spazio
nei processi di mobilità sociale innescati
A queste considerazioni condivisibili ne aggiungeremo un’altra, legata a un problema d’interpretazione storiografica, che superi un’interpretazione che individua
l’origine di tutti i problemi esclusivamente nella condotta della classe dirigente italiana dell’Adriatico orientale. In più occasioni abbiamo sottolineato l’incapacità di
questa a rapportarsi con il risveglio nazionale degli Slavi del sud,
considerati per lo più come un’entità priva di una coscienza nazionale, un insieme di “tribù” (usiamo
un termine presente nelle opere ottocentesche, ad esempio nei lavori
diCarlo Combi), senza storia e una
lingua letteraria, priva pertanto di
un cemento che le unisse in un corpo unico. Erano valutazioni miopi.
Al tempo stesso, anche per non cadere nella vulgata di una certa storiografia jugoslava, impregnata di
nazionalismo, che non coglieva gli
Italiani come popolo autoctono, ma
li presentava piuttosto come i “residui” di un’“occupazione straniera” e i fautori di tutti i mali, è opportuno considerare anche i modi
e le fasi di quel risorgimento slavo,
la sua aggressività e, anche in questo caso, la sua evidente incapacità
di giungere a soluzioni di pacifica
convivenza.
dalla riforma agraria del 1848 e dallo sviluppo delle attività produttive, dei trasporti e dei servizi tipici della società di massa (scuola, giustizia, sanità, burocrazia (che
devono essere dotati di personale capace di
comunicare nelle lingue usate da tutti gli
strati della popolazione)–; che si manifesta
nell’impresa privata, in alcuni casi (come
quello di Tuma) in un impegno riformatore
nelle professioni e molto spesso nell’associazionismo culturale, sportivo, cooperativistico e politico; -che, percepita come una
minacciosa concorrenza, suscita reazioni di
rigetto nel campo “italiano” (specie in buona parte dei ceti medi e in parte di quelli inferiori): proprio quelle reazioni che alimentano lo scontro di mentalità rappresentato
dagli scritti di Timeus e di Vivante. […]
[Fulvio Pappucia, Un’epoca senza rispetto. Antologia sulla questione adriatica tra ‘800 e ‘900, in collaborazione con
Franco Cecotti, Trieste 2011, p. 13]
Il caso di Fiume
Un esempio palese è quanto avvenne a Fiume dopo il 1848, anno
in cui la città quarnerina fu occupata militarmente dal bano Jelačić,
con la programmata croatizzazione
di un municipio che aveva difeso la
sua autonomia e la sua italianità, e
che avrebbe continuato a farlo fino
al compromesso magiaro-croato del
1868, ma non per questo ripudiava la compresenza croata. Nel 1861
cioè in un periodo di scontro politico, la “Gazzetta di Fiume” pubblicò:
“Ma si calmino questi signori, ed apprendano che questa lingua è quella
dei fiumani, che ereditarono dai loro
padri, nonni, e bisavoli, e che nella
stessa guisa che la parlano attualmente la parleranno e scriveranno
anche in appresso, rispettando sempre come è di dovere la lingua slava in miglior modo che non facciano
i loro avversari di contro all’idioma
italico qui preponderante”. E poi c’e
la Dalmazia in cui la componente
italiana, certamente minoritaria anche perché presente solo in alcuni
punti della regione, fu letteralmente travolta dai Croati – tranne Zara
–i quali progressivamente negarono
a quella ogni più elementare diritto,
sostenendo che in quella terra non
esistevano Italiani.
L’onda che li sommerse non
passò inosservata nella Venezia
Giulia, anzi generò una politica ancora più radicale nei liberal-nazionali, che non prevedeva alcuna concessione agli slavi. Dall’altra parte
Croati e Sloveni minacciavano che
la “Dalmazia docet” e quindi anche nel Litorale austriaco si doveva giungere, prima o poi, a quello
stato delle cose. Ovviamente tutto
ciò contribuì solo ad esacerbare gli
animi. E gli accadimenti in quella
provincia ebbero non pochi riflessi sulle terre dell’Adriatico settentrionale. Bisogna tenerne conto.
Ricordiamo queste cose non per
soppesare chi avesse più “colpe”,
ma per evidenziare la complessità
della storia e l’intricata trama delle questioni apertesi con il manifestarsi delle coscienze nazionali.
Chiudendo questo appunto,
che, lo ribadiamo, desidera fornire solo uno spunto per qualche riflessione, a Fulvio Pappucia vada
il nostro plauso per aver confezionato un volume di grande utilità
in cui i problemi sono sviscerati, i
luoghi comuni accantonati e le varie questioni trovano lo spazio che
meritano. Ne trarranno profitto tutti, anche gli studiosi dei problemi
che in questa sede abbiamo solo
abbozzato.
4
storia e
Sabato, 1 settembre 2012
MOSTRE Focus su Gaius Aurelius Valerius Diocletianus Pius Felix Invictus Augustus e il
Spalato torna agli antipodi riscopre
Originali, modellini, ricostruzioni, calchi, pannelli illustrativi e immagini ripercorrono la v
di Patrizia Venucci Merdžo
Autore dell’interessante esposizione è
Joško Belamarić, mentre l’allestimento
e il visual sono a cura di Ana Šverko.
Gorana Barišić Bačelić si è occupata
invece della parte multimediale e del
programma didattico; sculture, rilievi
e stampi sono stati realizzati da Đani
Martinić, Srećko Mimica e dalla ditta
«Neir» (esecuzione tecnica: Mirko
Gelemanović, Jelena Banđur, Marko
Batarelo). Hanno contribuito inoltre
Josipa Bilić, Antonija Eremut,
Jelena Marušić e Kristina Restović.
Il progetto è frutto della
collaborazione con l’Istituto per la
storia dell’arte – Centro Cvito Fisković,
ed è stato sostenuto dal Ministero
croato della Cultura, dalla Città
e dall’Ente per il turismo di Spalato
S’
intitola “Gaius Aurelius Valerius Diocletianus
Pius Felix Invictus Augustus e il suo palazzo a
Spalato” la mostra dedicata all’imperatore romano di origini illiriche in allestimento al Museo Civico spalatino fino al 17 ottobre 2012, che offre uno spaccato di civiltà romana e una fetta di storia che ci riguarda da vicino.
Un’esposizione che, tramite esposti originali d’epoca, modellini, ricostruzioni, calchi di rilievi e sculture, pannelli illustrativi, immagini, ripercorre e indaga la vita, l’operato,
l’abdicazione e la morte del cesare avvenuta in circostanze
mai del tutto chiarite.
L’ambiente museale si ammanta di atmosfere esotiche
e di suggestivi echi nel far rivivere le abitudini conviviali della famiglia imperiale nel “triclinium”, con una mensa
d’epoca tardoromana ammanita secondi gli usi e i costumi
del tempo. L’esposizione cerca, tra l’altro di dar risposta
all’“enigmatica“ presenza delle due sfingi egizie che, ieratiche – simili a custodi detentori di arcani segreti –, troneggiano nel sontuoso palazzo di Diocleziano; come pure tenta di far luce sulle ricadute che le persecuzioni condotte dal
cesare a danno dei cristiani ebbero sulla persona dell’imperatore.
Persecuzione dei cristiani
e complotto contro l’augusto
Com’è noto gli ultimi anni di Diocleziano al potere furono infatti caratterizzati dall’ultima grande persecuzione
dei cristiani, iniziata nel 303 e condotta con ferocia, soprattutto nell’Oriente, dove la religione cristiana era ormai
notevolmente diffusa. La riluttanza di Diocleziano ad agire
nei confronti dei Cristiani fu vinta dalle insistenze di Galerio, che lo convinse a radunare un consiglio sull’argomento. Gli argomenti che piegarono i dubbi dell’imperatore furono certamente quelli cari a Galerio: i Cristiani avevano creato uno Stato nello Stato, che era già governato
da proprie leggi e magistrati, possedeva un tesoro e manteneva la coesione grazie alle frequenti riunioni tenute dai
vescovi;occorreva intervenire prima che acquistassero anche una forza militare.
La persecuzione iniziò il 23 febbraio del 303, quando fu
affisso nella capitale Nicomedia il primo editto che ordinava: il rogo dei libri sacri, la confisca dei beni delle chiese e la loro distruzione; il divieto per i cristiani di riunirsi
e di tentare qualunque tipo di difesa in azioni giuridiche;
la perdita di carica e privilegi per i cristiani di alto rango,
l’impossibilità di raggiungere onori ed impieghi per i nati
liberi, e di poter ottenere la libertà per gli schiavi; l’arresto
di alcuni funzionari statali. Questa nuova forma di persecuzione, basata su precise norme di legge, da un lato esasperò
gli animi dei Cristiani, da un altro era soggetta ad abusi ed
atti di violenza da parte dei non cristiani.
Nel giro di pochi giorni, per due volte il palazzo e le
stanze di Diocleziano subirono un incendio. La strana coincidenza fu considerata prova della dolosità dei due eventi,
ed il sospetto ricadde ovviamente sui Cristiani. Diocleziano, sentendosi minacciato in prima persona irrigidì la persecuzione. Nonostante i numerosi arresti, ed esecuzioni, sia
nel palazzo che nella città, non fu possibile estorcere alcuna confessione di responsabilità nel complotto. Ad alcuni
apparve però sospetta la frettolosa partenza di Galerio dalla città, giustificandola con il timore di restare vittima dei
Cristiani.
I tetrarchi Massimiano,
Galerio e Costanzo Cloro
La mostra del Museo civico spalatino espone per la prima volta al pubblico i busti dei tetrarchi Massimiano, Galerio e Costanzo Cloro che, in quei tempi turbolenti, condivisero il potere con l’illirico. Salito sul trono, Diocleziano stimò che il sistema di governo dell’impero era inefficace per
garantire un adeguato controllo di un territorio tanto vasto
e militarmente minacciato su più fronti. Istituì, quindi, la
tetrarchia, un sistema di governo quadricefalo che divideva l’impero in due metà, una occidentale e l’altra orientale.
Due imperatori (col titolo di Augusto) erano a capo dei due
territori ed erano coadiuvati da due successori (col titolo di
Cesare) di loro scelta, i quali avevano un controllo quasi
diretto sulla metà del territorio governato dal loro Augusto.
La tetrarchia terminò nel 320, quando Costantino I riuscì a
riunificare il controllo imperiale nelle sue mani.
Diocleziano si dichiarò Augusto dell’Oriente, con capitale Nicomedia, e nominò Massimiano Augusto dell’Occidente, con capitale Mediolanum (Milano). Per la prima volta nella storia dello stato romano, Roma, lontana dai luoghi
di maggior pericolo militare, perdeva lo status di capitale.
Nel 292, Diocleziano nominò Galerio suo Cesare, e Massimiano fece lo stesso con Costanzo Cloro. Tutto il territorio
dell’impero venne ripartito in dodici diocesi che raggrup-
Gaio Galerio Valerio Massimiano (latino: Gaius Galerius
Valerius Maximianus; Felix Romuliana, 250 circa – Serdica, 5 maggio 311), imperatore dal 305. Di Diocleziano
sposò la figlia Valeria. Estremo difensore della tetrarchia, la sua morte nel maggio del 311 ne segnò la fine
Marco Aurelio Valerio Massimiano Erculio, più semplicemente Massimiano (latino: Marcus Aurelius Valerius Maximianus Herculius; Sirmio, 250 circa – Massilia,
luglio 310), fu cesare (dal luglio 285) e poi augusto (dal
1.mo aprile 286 al 1.mo maggio 305)
pavano più province;in questo modo,venne a cadere qualsiasi residuo di privilegio dell’Italia,che si trovò completamente equiparata alle altri parti dell’impero.
da centro. Si ipotizza inoltre che la struttura ottagonale della
cattedrale-mausoleo abbia costituito un modello per la tipologia del battistero. Nel 1979 è stato iscritto dall’UNESCO
nell’elenco di siti e monumenti del Patrimonio dell’umanità. La mostra è dovuta alla municipalità di Spalato e l’autore
della medesima e del catalogo è Joško Belamarić.
La splendida residenza dalmata
Un’attenzione particolare la mostra la riserva alla famiglia dell’imperatore le cui effigi – la moglie Prisca e la figlia Valeria – emergono dai calchi dei rilievi che adornano
il Mausoleo di Diocleziano, sito nel complesso dell’imponente palazzo cesareo spalatino. Ovviamente, al complesso architettonico dioclezianeo si dedica un rilievo notevole
tramite un’ avvincente presentazione multimediale la quale si avvale di un centinaio di fotografie, piantine, progetti
e ricostruzioni originali del palazzo, determinandone una
chiave di lettura nuova e suggestiva.
Il palazzo con le sue mura coincide col nucleo originario del centro storico della città, ed è strutturato con la
pianta tipica degli accampamenti militari romani, il “castrum”: due strade perpendicolari, il cardo ed il decumanus, che si intersecano e dalle quali si dipartono numerose vie trasversali perpendicolari a scacchiera. In origine, la
sua cinta muraria in opus quadratum era alta 18 m e spessa
2 m, e misurava 215,50 m per 175-181 m. In queste mura si
aprono tuttora vari torrioni quadrati e quattro porte, affincate da torri a base ottagonale: la Porta Aurea (a nord), la
Porta Argentea (ad est), la Porta Ferrea (ad ovest) e la Porta
Aenea o bronzea, sul mare a sud.
Suggestioni assolutistiche e orientali sono date dagli
ambienti di rappresentanza (soprattutto il “peristilio” con
le due ali sacre). Orientale è anche la scelta di porre sul
fondo gli ambienti di rappresentanza e l’uso delle vie colonnate. La sostanza e la componente ideologica, invece,
sono più schiettamente romane, soprattutto nell’aspetto
militarizzato e nelle scelte conservatrici dell’impianto.
L’edificio è l’antecedente più vicino ai castelli medievali,
ma anche ai monasteri fortificati, con il peristilio che funge
Le riforme dell’imperatore illirico
L’imperatore, oltre ad introdurre la tetrarchia, riformò
ed organizzò l’esercito romano che era uscito dalla grande crisi del III secolo. Le nuove necessità difensive imponevano di puntare più che sulla “qualità”, come in passato, ovvero mantenendo un esercito ridotto nel numero ma
ben addestrato e armato, sulla “quantità”: le truppe, quasi
Ricostruzione del palazzo di Spalato
ricerca
Sabato, 1 settembre 2012
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suo palazzo per promuovere il patrimonio storico culturale della città dalmata nata con lui
endo la magnificenza di Diocleziano
vita e l’operato del personaggio fino alla morte avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite
Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (nato Diocle e noto
più semplicemente come Diocleziano; Salona, 22 dicembre 243 – Salona, 313) nacque in Illiria a Dioclea (vicino
a Salona), secondo alcuni figlio liberto di uno scriba del
senatore Anullino, secondo altri figlio di una famiglia di
contadini. Diocle scalò velocemente i gradi dell’esercito
romano. In seguito alla vittoria riportata su Carino nella
Battaglia del fiume Margus, nel luglio 285, divenne unico
imperatore, cambiando il nome in Diocleziano
Flavio Valerio Costanzo, meglio noto come Costanzo Clo- La moglie di Diocleziano, Prisca; insieme ebberro una figlia,
ro (latino: Flavius Valerius Constantius,Illirico, 31 marzo
di nome Valeria. Al tempo della persecuzione, entrambe
250 circa – Eboracum, 25 luglio 306), fu un imperatore
furono obbligate a sacrificare agli dei, confermandosi così
romano (305 – 306) durante la tetrarchia e il padre di Co- estranee ad ogni sospetto di essere cristiane, con un gesto
stantino I
che ebbe probabilmente grande efficacia propagandistica
il doppio dei precedenti effettivi, furono suddivise tra limitanei, incaricati della difesa dei confini e contemporaneamente della coltivazione delle terre in prossimità di essi, più
contadini che soldati, e in comitatenses, per le manovre rapide, e in palatini o guardie di palazzo. I limitanei avevano
il compito di fermare gli invasori abbastanza a lungo da far
intervenire la riserva strategica dall’interno, che per la suddivisione tetrarchica era suddivisa in quattro parti, ciascuna
comandata da un comandante nominato dal tetrarca.
La crisi dell’Impero nel precedente mezzo secolo, aveva
comportato pesanti conseguenze economiche e sociali. Diocleziano prese atto delle trasformazioni subite dalla società
ed impostò una radicale opera di riforma amministrativa e
fiscale, che consentì di arrestare la crisi.
Venne razionalizzato il sistema fiscale, eliminando antichi privilegi ed esenzioni. La quantità delle tasse veniva
attentamente calcolata ogni anno sulla base delle necessità (redigendo per la prima volta un bilancio annuale) e sulla base delle risorse esistenti, determinate da un censimento. Infine, perfezionò il processo di esautoramento del Senato romano come autorità decisionale: l’impero divenne una
monarchia assoluta ed assunse caratteristiche tipiche delle
monarchie orientali, come l’origine divina del monarca e la
sua adorazione.
Dopo aver riformato l’Impero romano, Diocleziano abdicò ritirandosi nel suo meraviglioso palazzo appositamente
fattosi costruire e che doveva essere già completo o quasi. Vi
visse dal 305 fino alla morte, avvenuta nel 313 o nel 316.
Ricostruzione di una mensa nei sotterranei del palazzo,
circa IV secolo (progetto/presentazione di Ana Šverko,
con la consulenza di Katja Marasović; team tecnico: Mirko Gelemanović, Jelena Banđur, Marko Batarelo)
6 storia e ricerca
Sabato, 1 settembre 2012
PILLOLE Trent’anni fa la morte di Grace Kelly, icona di bellezza, classe e fascino
Vulcano dalla cima innevata
Così la definì Alfred Hitchcock, regista che aveva intuito l’irrequietezza della sua musa
A cura di Fabio Sfiligoi
E
Un primo piano
che dimostra l’intramontabile
fascino di Grace Kelly
rano le 23.45 del 14 settembre 1982 quando Telemontecarlo diffuse il flash della notizia della morte di Grace Kelly. Grace e la figlia Stephanie furono coinvolte in un terribile incidente stradale mentre
con la propria macchina si dirigevano dalla Francia a
Monaco. Stephanie riuscì a uscire in tempo dalla vettura precipitata in un pendio, a differenza della madre che
venne ritrovata priva di sensi. Era già in coma quando
fu trasportata in ospedale, dove morì 36 ore dopo a soli
52 anni.
ICONA Calava così il sipario sulla favola del “Cigno”, su quell’icona intramontabile di bellezza, classe
e fascino che la principessa di Monaco incarnava. Grace infatti non fu mai dimenticata, sia per il suo luminosissimo passato d’attrice, sia per la sua storia personale
molto simile a quella rappresentata nelle fiabe, sia per il
suo stile inconfondibile fatto di grazia, charme e discrezione, ma non sempre.
Che sarebbe diventata principessa era scritto nel suo
destino. Molti anni prima che Ranieri di Monaco la rapisse all’America e al cinema, Grace Kelly era già stata
chiesta in moglie dallo scià di Persia, che la coprì di costosissimi gioielli. Che lei, dopo un cortese rifiuto alla
proposta di matrimonio, si guardò bene dal restituirgli.
Inverno 1949, Manhattan; la signorina aveva 19 anni:
“Uscirono per sei sere di seguito. Lui le offrì un tour
completo di tutte le sale da ballo”, scrive Robert Lacey
Il suo matrimonio, primo evento mondano della storia
Un abito da sposa che ha fatto epoca
Snobbando i maggiori stilisti
dell’epoca, che si offrono di vestire la
sposa, tutto il guardaroba nuziale, tranne quello dello sposo (che opta per la
tradizionale divisa militare in stile napoleonico), viene affidato ad Helen
Rose, storica costumista della MGM,
vincitrice di due Oscar per i migliori
costumi, che ha già realizzato per Grace gli abiti indossati nel film “Alta Società”.
Proprio questo film diventa il punto
di partenza per l’elaborazione di tutto il
guardaroba della sposa, che deve richiamare il glamour di una star di Hollywood con il fascino di una principessa. Rispettando la tradizione monegasca, le
nozze vengono celebrate in due tempi.
Il 18 aprile 1956 la coppia si unisce
con rito civile, presso la Sala del Trono
del Palazzo di Monaco, davanti ai parenti ed amici stretti. Per l’occasione Grace indossa un elegante tailleur di taffetà
rosa antico, doppiato in pizzo Alençon,
abbinato ad una preziosa calottina in taffetà e guanti.
Il 19 aprile 1956 viene officiato il
rito religioso presso la Cattedrale di San
Nicola, una cerimonia estremamente rigorosa (gli sposi non si guardano mai
negli occhi), alla presenza di mille personalità e Vip, tra cui Cary Grant, David Niven, Gloria Swanson, Aristotele
Onassis e l’Aga Khan.
Il rito viene ripreso da telecamere e
microfoni dislocati per tutta la chiesa:
si tratta della prima diretta televisiva
mai realizzata di un matrimonio, che
viene vista da 30 milioni di spettatori.
L’abito sarebbe la rivisitazione di uno
indossato da Grace in “Alta Società” e
disegnato dalla Rose. Dalla calottina a
far da corona fino allo strascico, l’abito
da sposa di Grace è nell’insieme semplice ma squisitamente dettagliato.
Il corpetto è costituito da pizzo a
punto rosa, un tipo di pizzo di Bruxelles del diciannovesimo secolo dagli elaborati motivi floreali, che sembra ininterrotto perché i motivi floreali
vengono assemblati in modo da comporsi alla perfezione nel seguire la forma dell’abito. Alcune parti in pizzo,
accentuate da perline luccicanti, uniscono l’abito e gli accessori. Una pe-
santissima gonna plissettata in faille
di seta che incorpora una sottogonna
liscia, una sottogonna increspata, una
sottogonna di base.Uno strascico applicato, composto da un triangolo di tulle
e pizzo. E, infine, una fascia a pieghe in
faille di seta.
Si narra di una squadra di 35 sarte
impegnate per 6 settimane con la Rose
abbia lavorato in gran segreto nei laboratori della MGM, cucendo in un’ala
privata della sartoria, che viene chiusa
a chiave al termine di ogni sessione di
lavoro.
Al termine del lavoro l’abito, insieme a quello preparato per le nozze civili e ad uno da viaggio, viene spedito
in un container fatto costruire appositamente e imballato con cura, per assicurare che il tutto arrivi a Moanco, come
accade, intatto. La fascia in vita, davvero originale nel design, è stata realizzata con 23 metri di taffetà di seta ed altrettanti di gros de longre di seta. Vengono anche acquistati 90 metri di tulle
per il velo e il sottogonna.
Sul retro è applicato un voluminoso strascico, che viene impreziosito dai
ricami in mille perline. Sul capo della
sposa un lunghissimo velo fermato da
una calottina in pizzo e perline e da una
preziosa tiara. A reggere il tutto è una
elaborata acconciatura curata da Sidney Guilaroiff della MGM.
Ad accompagnare la sposa quattro
damigelle bambine, la sorella di Grace
nel ruolo di una dama d’onore, sei damigelle scelte tra le più care amiche della sposa vestite in completi gialli di organdis realizzati da Priscilla of Boston.
in “Grace Kelly - La principessa americana”, la biografia datata ‘94. Ma quello fu solo un flirt innocente,
rispetto alle focose infatuazioni della ragazza di Philadelphia che sarebbe diventata prima un’icona del grande
schermo poi la principessa del regno più piccolo e chiacchierato del mondo.
RAGAZZA NAVIGATA Quando Grace Patricia Kelly si iscrisse all’accademia di arte drammatica, nel 1947,
era già la ragazza più navigata del corso. A un boyfriend
dell’epoca confidò candidamente come aveva perso la
verginità: “È accaduto tutto molto in fretta. Sono andata
da un’amica, ma lei non era in casa. Fuori pioveva e suo
marito mi ha detto che non sarebbe tornata prima di sera.
Sono rimasta a chiacchierare con lui e, non so come, siamo finiti a letto, senza capire nemmeno perché”.
TOH, DEI PROFILATTICI La lista dei nomi e
delle avventure è lunghissima e inizia in età adolescenziale. “È un vulcano dalla cima innevata”, disse Alfred
Hitchcock, il regista che la trasformò in diva e che aveva intuito l’irrequietezza della sua musa. Bellissima, aristocratica, algida, ma sempre disponibile a nuove avventure già negli anni in cui si era intestardita a entrare nel
mondo del cinema contro il parere di suo padre, che rimase sconvolto quando, in un weekend in visita da New
York, Grace si presentò a casa con un amante ebreo e per
di più sposato. E che scandalo quando la povera mamma
Kelly, insospettita, frugò nella ventiquattr’ore della ragazza e scoprì che sua figlia viaggiava, just in case, con
una scatola di profilattici!
STAR E MOGLIE L’esistenza di Grace Kelly si potrebbe suddividere idealmente in due capitoli: una prima
parte vissuta a Hollywood come star del cinema e professionista consacrata pure da un premio Oscar, la seconda accanto al Principe Ranieri di Monaco come moglie e madre dei suoi figli, ma anche come Sua Altezza
Serenissima la Principessa protettrice delle arti. Grace,
tuttavia, non ha mai rinnegato il passato da attrice come
spesso fanno le sue colleghe dopo matrimoni che le introducono nell’alta società.
ADDOCCHIATA DA GARY COOPER Ben presto
l’attrice debutta nei teatri di Broadway ed interpreta anche film per la tv. In uno di questi viene notata da Gary
Cooper, che la vuole accanto a sé sul set di “Mezzogiorno di fuoco” (1952). Grace aveva già ottenuto un breve
ruolo un anno prima ne “La quattordicesima ora” (1951)
ma è con il western di Fred Zinnemann, nei panni della
moglie quacchera di Gary Cooper, che la Kelly diviene
una vera e propria figura mediatica. Del resto se si riflette sulla carriera cinematografica dell’attrice, si noterà
che in soli cinque anni e con undici film all’attivo la diva
ha inanellato una serie di successi e conquistato premi
del calibro dell’Oscar e del Golden Globe.
OSCAR La Mgm la mette sotto contratto e le offre
“Mogambo” (1953), nel quale si contende l’amore di
Clark Gable con la bruna Ava Gardner. Grazie a questa
interpretazione Grace ottiene la nomination al premio
Oscar, che comunque le arriva l’anno successivo grazie
a “La ragazza di campagna” (1954), melodramma sentimentale diretto da George Seaton, con Bing Crosby e
William Holden. Un’emozionata Grace ritira la statuetta
d’oro nel 1955 pronunciando poche parole con la voce
rotta dalla commozione.
“La ragazza di campagna” non è tra i titoli più noti ai
fan dell’attrice: è il regista Alfred Hitchcock che le affida i tre ruoli per i quali la Kelly diviene leggenda. Si
inizia con “Delitto perfetto” (1954), nel quale è la ricca Margot, moglie di un negoziante, che ne organizza
l’omicidio. La donna però si salverà e riuscirà ad incastrare il marito.
GHIACCIO BOLLENTE Il regista inglese conia
per lei un ossimoro “Ghiaccio bollente” a dimostrarne la
sensualità nonostante l’aspetto freddo e distaccato e la
vuole di nuovo sul set di “La finestra di fronte” (1954).
Qui l’attrice è la fidanzata di James Stewart il quale,
bloccato su una sedia a rotelle, inizia a spiare i propri vicini e assiste suo malgrado a un omicidio.
La rivista “Variety” elogia la sua recitazione ne “La
finestra di fronte”: per la prima volta l’attrice interpreta
il ruolo di una donna indipendente e in carriera. La stampa internazionale la esalta e le dedica copertine dei magazine più importanti da “Time” a “Paris Match”.
RANIERI Nel 1955 Grace sbarca in Costa Azzurra
per girare un altro successo di Hitchcock: “Caccia al ladro”. L’attrice veste i panni della ricca Frances, giovane
ereditiera attratta dalla figura di John Robie, il celebre
ladro di gioielli soprannominato il Gatto. Di questa pellicola memorabile è la scena in cui Grace guida in maniera spericolata sulle tortuose strade della Costa Azzurra, dove diversi anni dopo l’attrice perderà tragicamente
la vita. Durante una pausa dalle riprese la star si reca nel
Principato di Monaco per un servizio fotografico e lì conosce il principe Ranieri, che pochissimo tempo dopo la
chiederà in sposa.
storia e ricerca 7
Sabato, 1 settembre 2012
LIBRI La complessità della regione «seduce» il sociologo trevigiano Ulderico Bernardi
L’Istria come paradigma
di un’Europa di culture
I
l magico microcosmo istriano in tutta la
sua eterogeneità. Ad offrire uno sguardo
approfondito, pluridimensionale su questa terra complessa è il sociologo trevigiano Ulderico Bernardi, narratore del mondo
tradizionale veneto, che a questa area particolarissima dell’Europa ha appena dedicato
un libro, “Istria d’amore – L’Istria, magico
frammento d’Europa”, recentemente edito
da Santi Quaranta (collana “Il rosone”, Treviso, 2012, pp. 168, euro 13), segnando –
come si legge nella presentazione – uno “dei
punti più alti e più belli della sua narrativa e
del suo pensiero. Tutta l’opera è attraversata
da un’elegia scabra e umanissima – si legge
ancora sul sito dell’editore –, dal sentimento del viaggio come metafora, dal paesaggio
percepito come forza e geografia dell’anima;
da un’Istria, terra veneziana e slava, mischiata di tante culture, piccolo specchio dell’universo; dall’attenzione privilegiata per le persone. È scrittore, non di frontiera, ma che allarga la frontiera e le frontiere per incontrare
l’altro, la sua cultura e la sua identità in uno
scambio persistente e amoroso di arricchimento reciproco”.
Passeggiate e letture
Attraverso passeggiate e letture, da Trieste alle isole del Quarnero, l’autore scopre e
fa conoscere – agli italiani dello Stivale, innanzitutto, “rei” di un’imperdonabile ignoranza o di conoscenze/interpretazioni solo
superficiali e frettolose della realtà istriana
– tutte le ricchezze, le bellezze e l’originalità
del territorio, questo suo meticciamento che
lo pone come un vero e proprio laboratorio
delle diversità. Un modello, un paradigma di
un’Europa di culture (sono oltre 330 quelle regionali), che potrebbe trovare proprio
nell’esperienza – geograficamente piccola,
ma antropologicamente intensa – della realtà istriana quasi un modello a cui ispirarsi
per il proprio futuro.
Tommaseo, Tomizza, Eliade
Gli fanno da “cicerone” in questo suo percorso tre numi tutelari, che gli spianano continuamente la strada: Niccolò Tommaseo,
sostenitore delle “piccole civiltà” e del loro
reciproco scambio culturale ed economico,
della persona secondo la visione del cattolicesimo, nonché nemico di qualsiasi centralismo e nazionalismo; Fulvio Tomizza, segnato da un’istrianità plurima, sofferta e dolce, e
Mircea Eliade, grande storico delle religioni,
che sottolinea l’importanza dell’autoctonia,
del sentirsi intimamente legati ad un luogo,
che è cosa ben lontana dalle narrazioni nazionaliste che, specie proprio in Istria, produssero inenarrabili sofferenze che non dobbiamo
mai lasciar cadere nell’oblio”.
Andare nell’interno,
nei cimiteri e nelle osterie
Da dove partire per capire la complessità dell’Istria? “Occorre visitare senza fretta, spingendosi all’interno, cimiteri ed osterie – dichiara il professore in un’intervista
rilasciata a Vittorio Filippi per il quotidiano
“Avvenire” (23 agosto) –. Nei primi le lapidi parlano di un passato originale e ricco di
sorprese, di personaggi misconosciuti ed interessanti come, nel camposanto di Draguccio, del medico ottocentesco Antonio Grossich, inventore della disinfezione preoperatoria con la tintura di iodio, tecnica che salvò
chissà quante vite. E poi le osterie, dove attorno ad un bicchiere di buon malvasia l’intercalare in veneto ed in croato-ciacavo sottolinea una mescolanza linguistica e culturale di un’Istria che nei secoli è stata davvero
un palinsesto su cui tante mani hanno lasciato una traccia più o meno profonda”.
Mescolanza di etnie
Ed è quello che ha fatto questo studiosoviaggiatore, trasformando poi le sue esperienze in cinque capitoli che ci parlano di
geografia, storia, cultura, mitologia, personaggi famosi e gastronomia di questa terra
composita. Bernardu vuole principalmente
ribadire che il fascino della regione è principalmente nella sua diversità. L’Istria, afferma, nei secoli è stata “un palinsesto sopra cui diverse mani, in successione, hanno
lasciato traccia del loro modo d’intendere la
vita e il mondo”, in cui le “culture di terra e
di mare si sono mescolate”, che “sulla battigia latina sono venute a spegnersi onde di
trasmigrazioni millenarie”, che “sulla carne
viva di tante culture, miste per antica condivisione di mestieri di mare e di terra, per
condizione sociale e per fede religiosa, per
lingue e per dialetti”, hanno inciso crudelmente più volte nel tempo i coltelli rugginosi
dell’avversione etnica, del furore nazionalista e dello strangolamento ideologico”.
Le lacerazioni del ’900
Dunque, sono stati proprio gli “ismi”, i
regimi totalitari ad aver inferto nel Novecento delle profonde (mai rimaerginate) ferite a
quest’area. La perdita delle province orientali da parte dell’Italia, dopo la Seconda
guerra mondiale, “costituì una vicenda dolorosa e insanguinata, sconvolgendo le vite
degli innocenti giuliani di qualsiasi etnia, ma
presentando il conto soprattutto al ceppo italiano, su cui gravava la colpa di essere tale
e in quanto tale etichettato in blocco odiosamente come fascista – osserva –. In questa
ebbra e insensata orgia di antitalianità, anche
gli antifascisti – conclude – vennero considerati alla stregua di nemici”.
Bernardi non tralascia la dura battaglia
degli italiani rimasti nel preservare la propria lingua e cultura (dice di guardare oggi
all’Istria con un velo di tristezza perché molti turisti, anche italiani “si sorprendono nel
trovare i cartelli bilingui, ignorando la storia e l’originalità di queste terre che vedono gli italiani non come degli immigrati, ma
come degli autoctoni veri e propri, anche se
per i rimasti c’è una sofferenza indicibile dovuta ad un esodo lungo e doloroso che inizia con il crollo fascista del 1943 ed arriva
fino agli accordi di Osimo del 1975”), invita a costruire speranza a partire dal comune senso dell’istrianità (“La cultura locale è
ricca quando membri pacificamente consapevoli della propria diversità si riconoscono
nell’orgoglio della comune appartenenza.
Ed è su questa roccia di autocoscienza collettiva che si potrebbero gettare le più solide
fondamenta di una casa comune, capace di
impreziosire la civiltà d’Europa dalle molte
etnie”) e loda la ricucitura in atto fra esuli e
rimasti, che “danno la mano per conservare la lingua, l’arte, il diritto di sentirsi a pieno titolo parte orgogliosa di questo spicchio
d’Europa”.
Educazione
all’interculturalità
Ulderico Bernard, scrittore, sociologo,
accademico e giornalista italiano, è nato
a Oderzo (Treviso) nel 1937. Ha conseguito la laurea in Economia e commercio
nell’Università Ca’ Foscari di Venezia e la
laurea in Sociologia nell’Università di Trento. I principali interessi di studio riguardano
il rapporto tra persistenza culturale e mutamento sociale nei processi di sviluppo; le
relazioni tra locale e globale; l’educazione
all’interculturalità. Ha applicato le sue analisi al passaggio dalla società rurale alla società industriale; alle minoranze etniche e
agli insediamenti collettivi dell’emigrazione italiana, con soggiorni di studio, corsi
di lezioni e campagne di ricerca in Australia, nelle Americhe e in Europa. Professore
ordinario presso la Facoltà di Economia e
Commercio dell’Università Ca’ Foscari di
Venezia, ha prodotto molti studi e ricerche
sul campo indagando comunità agricole industrializzate, minoranze etniche e colonie
di emigrati italiani nelle Americhe ed in Australia. Autore di numerose opere scientifiche e narrative, dirige la Collana sulle culture popolari venete nella Fondazione Giorgio Cini di Venezia ed è anche membro del
Centro Studi Nazionale dell’Accademia
Italiana della Cucina. (ir)
D’Annunzio, un mascalzone quasi simpatico
Dalla prima pagina
“Mussolini è morto – lo hanno ucciso i guerriglieri comunisti sotto il comando del compagno Tito – mentre D’Annunzio dorme nella sua tomba in cima alla necropoli, attorniato da
una decina di avventurieri, i Sette samurai, con i quali, dopo la
Prima guerra mondiale, conquistò Fiume e stravolse il corso
della storia europea. Uno di loro fu probabilmente il prima artista concettuale al mondo. D’Annunzio, d’altra parte, è il più
importante ideologo del XX secolo, oltre a Lenin, ma questo
suo ruolo storico viene più nascosto che svelato nel ‘lunapark
fascista’ del Vittoriale”, conclude l’opinionist croato.
Con la «Puglia» in Dalmazia
Kuljiš sfrutta la presenza della mezza corazzata “Puglia”
come pretesto per approdare con il racconto in Dalmazia. Poco
più piccola del “Galeb” di Tito, alla fine del Primo conflitto
mondiale la nave militare italiana era stazionata a Sebenico. Tra
il 4 e il 5 novembre del 1918 reparti militari italiani giunsero a
Zara, Lissa, Lagosta, Sebenico e in altre località dell’interno.
L’ammiraglio italiano Enrico Millo il 19 novembre fu nominato governatore della Dalmazia e fissò la propria sede a Sebenico
con l’intento di prendere possesso di tutta la zona d’occupazione prevista dal Patto di Londra. A Spalato, invece, si instaurò un
Comitato jugoslavo che si autoproclamò quale nuovo “Governo della Dalmazia”. Iniziò così in Dalmazia un nuovo periodo
molto controverso tra italiani e slavi, perché gli alleati forti delle rivendicazioni serbe e croate, temendo inoltre un eccessivo
rafforzamento italiano in Adriatico, non erano più propensi a
rispettare gli impegni presi in precedenza con l’Italia.
In quel frangente giunsero dalla Dalmazia alcune proposte per una costituzione di uno Stato libero dalmatico, ma non
incontrarono il favore degli zaratini che preferivano una inequivocabile annessione all’Italia. Quando il 15 novembre 1919
D’Annunzio sbarcò a Zara proveniente da Fiume con lo scopo di allargare gli orizzonti ideali e pratici dell’Impresa; pur
riuscendo il poeta a costituire un “Corpo di volontari dalmati”
rinforzato da suoi legionari, la sua azione non produsse risultati pratici nell’ambito del mondo politico italiano. L’autore si
sofferma nel dettaglio anche sul caso Traù, “isola tra la terraferma e Bua, in cui all’epoca non c’era in pratica neanche una
famiglia croata”, antico comune veneto che aveva armato una
galea al comando di Alvise Cippico. A capo della comunità italiana stava un ricco nobile, Nino de Fanfoglia. Insieme con un
gruppo di dannunziani prese la città e proclamò la Repubblica. A minare i suoi piani saranno però gli alleati e l’intervento della USS “Olympia”. L’11 luglio del 1920 la nave militare
italiana “Puglia”, da mesi nel porto di Spalato per proteggere
la minoranza italiana da rappresaglie jugoslave, fu attaccata a
colpi d’arma da fuoco da nazionalisti slavi e caddero uccisi il
comandante Tommaso Gulli e il motorista Aldo Rossi. “Dalla
parte croata ci fu una vittima civile, un tale Matej Miš – riporta
Kuljiš – di cui oggi nessuno si ricorda più”.
Figura tragicomica
È uno scritto degno d’attenzione principalmente perché in
maniera relativamente corretta, scevra da ideologismi e vicende mistificate dalle penne dei vincitori, con una serie di riflessioni, l’autore si sforza di ricostruire in maniera “leggera” la
verità storica, ovviamente nella misura in cui questo è possibile
(molte ombre sono difficili da dissipare, quando si cerca di fare
luce su un frangente storico così complesso, in cui interessi politici internazionali si fusero con questioni locali).
Il giornalista cerca, dunque, di spiegare la popolarità del
fenomeno D’Annunzio e le gesta del pesarese a un’opinione
pubblica croata finora influenzata prevalentemente da semplificazioni, visioni univoche e cliché propinati da certa storiografia, prima jugoslava, ora croata. E quello che emerge è il ritratto di una figura tragicomica, ai limiti del ridicolo, che cerca di
muoversi in un mare agitatissimo infestato di “squali”, che alla
fine verrà abbandonato e rinnegato da molti (deluso dall’espe-
rienza di Fiume, nel febbraio 1921, si ritirerà in un’esistenza
solitaria nella villa di Gardone Riviera; qui lavorerà e vivrà
fino alla morte, curando con gusto teatrale un mausoleo di ricordi e di simboli mitologici di cui la sua stessa persona costituiva il momento di attrazione centrale).
Peccato che, focalizzando l’attenzione sugli aspetti più
“spettacolari” (e scontati), non abbia colto l’occasione per approfondirne altri più meritevoli di rilievo, come quella Carta
del Carnaro che sanciva la libertà di pensiero, di stampa, di riunione e di associazione; il salario minimo, la pensione, l’assistenza medica; mentre le arti erano considerate parte fondante
della nazione. Un disegno umanissimo, nobile e antesignano,
democratico e civile.
Un mausoleo soffocante
Il giudizio conclusivo? “Alla fine il suo personaggio si dipana nella futilità, nella follia, in un accumulo quasi schizofrenico di artefatti e oggetti vari, cose piccole e grandi. Diventa un
personaggio vicino, umano, vulnerabile, un vecchietto comico, che possedette dozzine di stivali per andare a cavallo fatti
su misura, centinaia di flaconi di profumo, migliaia di libri tedeschi, nonostante non conoscesse nemmeno una parola di tedesco, l’elica dell’aereo con il quale qualcuno girò il mondo, il
carapace di una tartaruga secolare posto sulla tavola della sala
da pranzo riservata agli ospiti (D’Annunzio preferiva mangiare sempre da solo nella Zambracca, uno studiolo-guardaroba,
dove si trovava anche la sua fornitissima farmacia, nda) come
monito, poiché era morta d’indigestione nei giardini del Vittoriale... Ora pure lui giace su, nella necropoli, in un bozzolo
pietrificato, un monumento che ha strangolato il suo significato, circondato da una banda di festaioli, pseudorivoluzionari,
ubriaconi e avventurieri, e, se non avesse avuto dei denti così
cariati e idee tanto marce, questo terribile ipocondriaco e bugiardo risulterebbe quasi simpatico!”.
Ilaria Rocchi
8 storia e ricerca
Sabato, 1 settembre 2012
MEMORIE A 84 anni Matilde Lizzul Comar, scomparsa 4 anni fa, ha scritto la sua biografia
Una nonna fiumana racconta
dalla lontanissima Australia
La narrazione si espande attraverso
tre continenti: Europa, America (Brasile)
e Australia, partendo dall’ex Jugoslavia
per articolarsi tra Venezia, Perth e
Genova. La protagonista non ha avuto
una vita facile, tutt’altro, ma è sempre
riuscita a superare le avversità – tanto
quelle imposte della grande Storia quanto
quelle personali (come l’infedeltà del
marito, che ammette candidamente, senza
rancori né “sentenze”) – e le sfide grazie
a una straordinaria carica di positività,
energia, perseveranza e tanta speranza
Il nonno Toni con la famiglia
Uno dei disegni
che corredano
l’opera
È
dedicata ai nipoti brasiliani l’autobiografia scritta da
Matilde Lizzul Comar (Fiume 21 ottobre 1922 – Perth, Australia, 18 giugno 2008), con il
contributo dei figli Marina Chenaux e Vito Comar (residente in
Brasile), al fine di tramandare alle
future generazioni la storia della
famiglia e la propria esperienza di
vita. Lo si intuisce anche dal titolo dell’opera: Nonna fiumana racconta – Nini’s story (www.createspace.com/3976010), che l’autrice
ha iniziato a scrivere all’età di 84
anni, dopo aver superato un periodo di depressione.
Matilde, detta Nini, è un esule
fiumana di origini istriane, le cui
vicende si snodano su tre continenti: Europa, America latina e Oceania. Nel libro, suddiviso in tre parti,
Matilde ha condensato il racconto
di tutta la propria vita. Un’esistenza che la sorte ha voluto essere più
avvincente di un romanzo.
Sfogliando le pagine del libro possiamo scoprire la storia
dei suoi genitori Giacomo e Francesca (Fanni), del nonno materno Toni, un marinaio “austriaco”
a riposo considerato il leader carismatico di Casali Sumberesi
(Šumber) e morto nel campo di
concentramento di Dachau dopo
essere stato arrestato dai nazisti
con l’accusa di aver aiutato i partigiani, ma anche il suo rapporto
con il marito Cide, anch’egli originario del capoluogo quarnerino.
Possiamo farci un’idea di come
sia stata vissuta a Fiume l’epidemia di tifo che colpì la città nel
1945/46 – e che ha rischiato di essere letale per Matilde –, dei motivi che hanno spinto molti fiumani a scegliere la via dell’esilio
dopo la fine della II Guerra mon-
diale e della la vita nei campi d’accoglienza dei profughi giulianodalmati in Italia e in particolare nel
campo Foscarini in Veneto. Possiamo farci un’idea sulla difficoltà
degli studi universitari condotti da
Matilde e dal marito all’Ateneo di
Venezia – lei, aiutata dalla sorella più brillante e intraprendente,
trova il suo percorso artistico alle
Belle arti veneziane –, il rapporto
emotivo e professionale della coppia (come si erano conosciuti e innamorati, come lui, un uomo molto
attivo e capace, coinvolto in molti progetti – dalla direzione di una
rivista studentesca, alla formazione
di un team di pallanuoto, agli stu-
di di architettura, senza dimenticare il lavoro di tecnico al cantiere –
la aiutava con le scene che doveva
realizzare per il Teatro Fenice), le
sfide legate all’emigrazione in Australia… Il libro ha 130 pagine ed è
impreziosito da numerosissimi disegni realizzati dall’autrice.
Krsto Babić
Premio «Achille e Laura Gorlato»
Il Veneto e l’Istria, tema per giovani ricercatori
Il Veneto e l’Istria: l’Ateneo Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti di Venezia bandisce un concorso al
Premio “Achille e Laura Gorlato”, secondo il legato testamentario della stessa prof. ssa Gorlato, socia
dell’Ateneo, recentemente scomparsa, di dedicare
un premio per onorare la memoria del padre Achille, storico ed etnografo istriano. Il premio annuale
di 3.000 euro verrà assegnato a un lavoro inedito e
originale di circa cento cartelle di duemila battute
cadauna, su un argomento riguardante uno dei molteplici aspetti della storia del Veneto e dell’Istria sia
dal punto di vista etnografico, antropologico, artistico che più propriamente storico-istituzionale.
Le domande di ammissione vanno rivolte alla
Presidenza, in carta libera e corredate dall’indicazione di tutti i recapiti utili, devono contenere in
allegato anche il curriculum dell’attività scientifica e la relativa documentazione dei lavori. Dovranno essere presentate in duplice formato, cartaceo
– spedito o consegnato presso la Segreteria, con
l’indicazione nell’indirizzo della dicitura “Premio
Gorlato”, Ateneo Veneto, San Marco 1897, 30124
Venezia – e digitale, in formato pdf, con oggetto
“Premio Gorlato” all’indirizzo [email protected], entro e non oltre il 15 ottobre 2012.
Potranno accedere al premio giovani studiose
e studiosi della Comunità Europea e della Croazia
che non abbiano compiuto al 15 ottobre 2012 l’età
di 40 anni. I lavori potranno costituire tesi magistrali, dottorali o successive ricerche di approfondimento. L’unico vincitore – non sono previsti ex-aequo – potrà pubblicare sulla rivista “Ateneo Veneto” un saggio tratto dallo studio premiato. Gli studi
presentati – in lingua italiana o inglese o francese
– saranno esaminati da un’apposita commissione,
nominata dal Consiglio Accademico dell’Ateneo, il
cui giudizio è insindacabile. La premiazione avverrà in forma solenne entro il 15 dicembre 2012, nella sede dell’Ateneo Veneto, in campo San Fantin,
a Venezia.
Anno VIII / n. 65 del 1.mo settembre 2012
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: STORIA E RICERCA
Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Vanja Dubravčić
Collaboratori: Krsto Babić, Kristjan Knez, Fabio Sfiligoi e Patrizia Venucci Merdžo
Foto: Kristjan Knez, Goran Žiković, Internet e Museo archeologico di Spalato
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