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Pratiche urbane e processi di appropriazione

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Pratiche urbane e processi di appropriazione
2. PRATICHE URBANE E PROGETT-AZIONE
[estratto da Cellamare C. (2011), Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane, Carocci,
Roma]
Pratiche quotidiane, divenire urbano e progetto
La costruzione della città si sviluppa in tempi e modalità che, se non raramente e marginalmente, sono fuori
della portata dell’azione diretta dei suoi abitanti, quella che i sociologi chiamano l’area manipolatoria
(Jedlowski, 2003, 2005). Azione diretta che non riguarda soltanto la costruzione materiale della città, dei
suoi edifici e delle sue infrastrutture, ma anche più semplicemente l’organizzazione e la gestione del
processo costruttivo del proprio edificio o del proprio contesto di vita, sia da parte del singolo che da parte
di un gruppo di abitanti. Questa situazione è diventata evidente dallo sviluppo della città moderna ed ancor
più con lo sviluppo dei processi edilizi industrializzati e specializzati o con la costruzione dei sistemi
infrastrutturali e delle grandi opere.
Oltre a questo, nella città moderna siamo andati incontro anche ad una espropriazione della capacità
progettuale nei confronti degli abitanti, e alla separazione del progetto dall’atto dell’abitare (La Cecla,
1988).
Eppure, le pratiche urbane svolgono un ruolo determinante nella costruzione della città. In primo luogo
perché, in alcuni casi, la costruiscono effettivamente. E’ il caso dei processi informali che, nel nostro mondo
occidentale, associamo più facilmente all’abusivismo, ma che, in altre parti del pianeta, pur producendo
situazioni altamente problematiche, costituiscono una delle modalità fondamentali e prevalenti di sviluppo
urbano (Davis, 2006), interessando dimensioni che vanno anche oltre la semplice dimensione
dell’abitazione. In secondo luogo, perché la città non è data dal solo processo costruttivo degli spazi fisici,
ma è data dal continuo adattamento, attrezzamento e appropriazione di tali spazi per renderli “luogo
abitabile”, contesto di vita, sia esso una casa, un negozio, un campetto sportivo, un orto o uno spazio
verde. Ma, infine, è il nostro stesso abitare che costruisce e disegna la città. Anche solo il nostro camminare
e percorrere la città, come ci ricorda de Certeau (1990), la ridisegna continuamente.
Se guardiamo la città dal punto di vista di chi la vive e la abita, se ci impegniamo in uno sguardo che non è
(solo) dall’alto, ma dall’interno del corpo vivo della città, cogliamo quelle pratiche urbane che la
disegnano1. Questo vale, in primo luogo, per le azioni collettive più o meno organizzate ed intenzionali, ma
vale anche per le pratiche ordinarie, quotidiane, di uso ed anche di consumo della città che
apparentemente non sembrano determinare grandi cambiamenti nella conformazione fisica e strutturale
della città, ma che in realtà incidono fortemente sulla caratterizzazione dei luoghi.
Superando il riduzionismo delle categorie funzionali tradizionali dell’urbanistica, ma anche andando oltre la
semplice dimensione dei soli usi materiali2, l’interesse verso le “pratiche urbane” sta proprio nella capacità
di mettere in connessione le dimensioni fisiche e materiali e quelle culturali, simboliche e più
genericamente immateriali insite nei modi con cui viene concretamente vissuta e abitata la città
(Cellamare, 2008)3. Vi è quasi, nelle pratiche urbane, un “accoppiamento strutturale” tra materiale e
simbolico, tra usi e significati implicati, tra forme di appropriazione e processi di significazione. “Il simbolico
si appoggia al materiale” diceva Castoriadis (2001). L’attenzione alle pratiche urbane che attraversano la
città permette quindi di “accedere” anche al mondo del simbolico, agli immaginari, al “magma dei
significati sociali”. Ma soprattutto permette di rapportarsi più chiaramente e più fortemente alla vita
1
Si rimanda per uno sviluppo più ampio di questi temi a Cellamare (2008). In questo paragrafo se ne riprendono
sinteticamente alcune questioni principali.
2
Le “funzioni” rimandano a categorizzazioni, che sono poi astrazioni, degli usi o delle attività o ancora dei ruoli che
alcune parti della città possono svolgere nei confronti dell’organizzazione complessiva della città stessa; e
generalmente poco hanno a che vedere con le condizioni reali e concrete di vita nei contesti urbani. Gli “usi”, altra
categoria molto frequentata dall’urbanistica e che ha portato anche ad alcune classificazioni, si fermano per lo più a
guardare e ad analizzare gli aspetti fisici e materiali dell’abitare la città, e le connesse attività, rinunciando a valutare le
dimensioni immateriali che vi sono implicate.
3
Il linguaggio della corporeità svolge in questo senso un ruolo fondamentale, ma il tema ci porterebbe lontano e non
sarà qui sviluppato. Un altro aspetto delle dimensioni immateriali, che viene coinvolto attraverso una riflessione sulle
pratiche urbane, è quello dei “saperi d’uso”, conoscenze e capacità non solamente razionali, ma che derivano
dall’esperienza (su questi aspetti si tornerà invece nel cap. 10).
quotidiana degli abitanti, aprendo l’urbanistica ad un rapporto più significativo e profondo con questa
dimensione che è quella più propria dell’abitare, che è quella che spesso sta più a cuore agli abitanti e
rende le città vivibili.
Le forme del quotidiano sono il risultato di invenzioni costanti non meno che di pratiche di adattamento.
Qualunque attività quotidiana comporta tanto gesti ripetuti quanto improvvisazioni, tanto condotte
applicate distrattamente quanto momenti di attenzione, tanto soluzioni consolidate quanto problemi che
chiedono di essere nuovamente risolti. Implica l’esercizio di abilità, di accorgimenti dettati dall’esperienza:
insomma, un miscuglio articolato di abitudini, adattamenti alle circostanze e creatività. Ambito di ciò che è
prossimo e ricorrente, la vita quotidiana potrebbe dunque essere definita come l’insieme delle pratiche,
degli ambienti, delle relazioni e degli orizzonti di senso in cui una persona è coinvolta ordinariamente, cioè
più spesso e con la sensazione della maggiore familiarità, in una certa fase della sua biografia (Jedlowski,
2005).
Le pratiche disegnano la città, intessono di relazioni (prima di tutto sociali) la fisicità della città, creano
valori simbolici, danno senso ai luoghi, costituiscono tattiche di risposta alle dinamiche e alle politiche
urbane (de Certeau, 1990).
Le pratiche urbane esprimono e disegnano una geografia di valori e di significati – oltre che di usi – che si
incarnano nei luoghi e nelle modalità di abitare la città. Ci raccontano come le persone vivono
quotidianamente, ed oltre alle esigenze sociali emergenti ci mostrano allo stesso tempo sia le condizioni
concrete (ed alle volte costrittive) che le idee dell’abitare che pratichiamo. Noi abitiamo la nostra idea di
abitare.
Di conseguenza le pratiche urbane esprimono le aspettative di vita proiettate nello spazio.
Anche in relazione a quest’ultimo aspetto, esprimono infine una forte progettualità, sono intrise di
progettualità. Le pratiche urbane sono al contempo processi costruttivi della città, ma anche processi
progettuali poiché implicano un orientamento dell’atto dell’abitare, una proiezione sullo spazio di vita delle
proprie esigenze, delle proprie aspettative, delle volontà di adattamento rispetto alle proprie idee di
abitare.
La progettualità si esplica, nei mille processi di adattamento, di appropriazione degli spazi, di riutilizzazione
di contesti abbandonati, di manutenzione e cura dei luoghi, in forma permanente ma in molti casi anche
solo in forma temporanea. Si tratta, in molti casi, anche di processi inintenzionali, e per questo ritengo sia
più opportuno parlare di “progettualità insita nelle pratiche” che non di “progetto” in senso stretto, per
evitare la confusione con la visione stereotipata del progetto.
L’atto di abitare è una forma di adattamento, implicitamente progettuale, del proprio spazio di vita, e
comporta un apprendimento continuo dei modi più adatti per rendere lo spazio abitabile. Questo processo
continuo di percezione, definizione ed uso viene definito da La Cecla (1988) come “mente locale” ed è
talmente essenziale all’apprendimento che per lo più non ne siamo coscienti.
L’operazione di rendere abitabile, la pratica e l’arte dell’ambientamento sono per buona misura atti
“abitudinari”, gesti, sentimenti, sensi, consuetudini, mentalità. Il modo in cui questi tipi di habitus nel loro
insieme costituiscono un sistema di “apprendimento” del luogo e di interazione insediati-insediamento è la
mente locale (p. 119).
La progettualità è insita nell’atto stesso di abitare e non ne è separata.
Dire che sapessero “progettare” sarebbe riduttivo e ridicolo. La loro percezione, conoscenza ed uso dello
spazio rendeva superflua una progettazione se non ad una scala “uno a uno”. L’abitare era già molto più di
una attività di progettazione. Non avevano ancora separato se stessi dal proprio spazio di vita, condizione
questa necessaria per renderli bisognosi di un “progetto”. Orientavano il proprio spazio rispetto a se stessi,
stando al suo interno, non astraendosene. Non dovevano catapultarsi fuori di esso ed osservarlo su di una
griglia o una mappa o a volo d’uccello (p. 57).
Progettualità delle pratiche
Il progetto è, prima di tutto, un processo e una pratica che coinvolge pensieri, relazioni, azioni, interazioni
sociali, passioni, pratiche, connessi al vivere e all’abitare di una collettività nel suo contesto fisico e nel loro
dispiegarsi nel tempo; collettività che plasma in forma evolutiva il luogo in cui vive (Cellamare, 2008).
La progettualità delle pratiche, o meglio la progettualità insita nelle pratiche, si esplica attraverso diverse
dimensioni. In primo luogo, vi è una decisa propensione all’azione, sia individuale che collettiva, sia nella
sua dimensione fattuale (cioè del fare concretamente) sia nell’accezione arendtiana di agire come essere
nelle situazioni, nel pubblico (e, quindi, più vicina alla dimensione che Hannah Arendt considera della
politica). Questo agire è un agire prevalentemente tattico (de Certeau, 1990), più o meno connesso a un
pensiero “strategico”, ma spesso anche completamente indipendente da esso. Si sviluppa in un rapporto
diretto, di manipolazione del proprio contesto di vita, anche non mediato razionalmente. Il progetto si
“costituisce” nell’azione, ma anche è di fatto nell’azione che si esplica la progettualità; sia come fatto
sostanziale (nel senso che è attraverso l’agire urbano che assume concretezza e plasticità), sia perché i
percorsi innovativi che vengono praticati, che vengono intrapresi dagli abitanti (o almeno da alcuni di essi, e
in alcune situazioni) danno forma alla capacità creativa e progettuale: il progetto “emerge” nell’agire. Come
si è detto, la progettualità si esplica, quindi, spesso e soprattutto, nelle concrete pratiche urbane, nei mille
processi di adattamento, di appropriazione degli spazi, di riutilizzazione di contesti abbandonati, di
manutenzione e cura dei luoghi, in forma permanente ma in molti casi anche solo in forma temporanea. Si
tratta, in molti casi, di processi dove l’intenzionalità non è sempre cosciente, e per questo è più opportuno
parlare di “progettualità insita nelle pratiche” che non di “progetto” in senso stretto, per evitare la
confusione con la visione stereotipata del progetto. Per il loro carattere di azione non sempre pianificata o
oggetto di un’intenzionalità cosciente, e per il loro essere esito di un processo sociale (i cui effetti non sono
definiti a priori), il senso delle pratiche urbane e della loro progettualità, ovvero i significati di cui sono
portatrici, emergono e possono essere letti in pienezza soltanto a posteriori, in coerenza con le note
riflessioni di Weick (1995) sul sensemaking.
In secondo luogo, aspetto questo non meno importante, di fatto il progetto (o, meglio, la progettualità
insita nelle pratiche) è un processo di attribuzione di un valore simbolico, che può essere più o meno legato
ai valori d’uso, che può trovare un radicamento più o meno profondo e sentito nelle identità locali
riconosciute o nella stratificazione di valori storici e simbolici, ma anche e soprattutto che può essere
strettamente connesso (e questo vale soprattutto per quanto abbia una componente d’uso e di azione
collettivi) ai vissuti, alle relazioni empatiche che sono state spese o investite (e quindi anche alle
sofferenze), o sono state attivate e implicate nei processi che hanno permesso di realizzare quegli spazi
(pensiamo alle mobilitazioni di gruppi di abitanti o intere collettività; pensiamo alle energie e alle risorse
che gruppi di abitanti o intere collettività hanno investito nella cure dei luoghi o nel realizzare attrezzature,
spesso in assenza della pubblica amministrazione o in conflitto con le sue politiche). Il progetto è quindi
potenzialmente esso stesso un processo costruttivo di significazione (attraverso le pratiche).
In terzo luogo, progettare significa rielaborare modelli di vita e di comportamenti sociali, idee di convivenza
e di organizzazione dello spazio urbano, significa ripensarsi e ripensare il proprio contesto di vita, anche
attraverso il confronto di modelli culturali differenti, dentro e fuori contesti di interazione, più o meno
strutturati e più o meno intenzionali (fino all’autocostruzione di veri e propri “spazi pubblici”). Per questo
molta, in una riflessione sulla progettualità delle pratiche urbane, un particolare spazio di attenzione è
rivolto ai modi di immaginare il proprio contesto di vita.
Infine, il progettare passa non solo attraverso la definizione di spazi fisici ma anche attraverso la proposta e
la pratica di stili di vita personali e collettivi differenti, maturate e sviluppate dentro e fuori i gruppi
costituiti, e che spesso comportano una particolare attenzione alle relazioni sociali, forme di
riappropriazione diretta della città, un recupero della ricchezza e dello spessore dell’abitare rispetto alla sua
riduzione a pura residenza (La Cecla, 2000, 2008; Cellamare, 2009a).
Che vi sia una progettualità insita profondamente nelle pratiche urbane, questo non significa che siano
sempre “buone” e “positive”, e di conseguenza che gli abitanti “abbiano sempre ragione”. In primo luogo,
le pratiche degli abitanti sono profondamente condizionate dalla configurazione dello spazio e
dall’organizzazione funzionale della città (infrastrutture, trasporto pubblico, localizzazione dei servizi, ecc.).
La parte hard della città costituisce ovviamente un condizionamento pesante per l’organizzazione di vita
degli abitanti ed i margini delle pratiche urbane, il loro “campo di azione”, l’area manipolatoria, possono
essere molto limitati. D’altronde è anche per questo che le pratiche urbane corrispondono ad un
comportamento prevalentemente tattico. L’organizzazione della città infatti determina, anzi impone, un
modello di vita. L’organizzazione spaziale per funzioni separate, ad esempio, tipico della città moderna e
che si è andato recentemente affermando sempre più in funzione delle convenienze di mercato,
rappresenta un condizionamento molto forte. In questo rapporto dinamico tra organizzazione della città e
pratiche di vita, queste ultime possono assumere valenze diverse: possono esprimere un adattamento o un
scarto (nel senso dello “spostarsi per evitare”) per cercare possibilità alternative, un puro e semplice
adeguamento (che potrebbe essere considerato “senza speranza”), una resistenza che cerca di produrre e
riprodurre modelli alternativi di vita e di città.
In secondo luogo, le pratiche degli abitanti sono fortemente condizionate dai modelli di vita imposti e
sovraimposti, eterodiretti, sottilmente propagandati ed affermati, sia nella conformazione e
nell’organizzazione stessa della città (come si notava prima), ma anche attraverso i mass media, le
pubblicità immobiliari e non, i modelli sociali che si affermano e prevalgono (e che spesso sono connessi
all’espressione e all’affermazione del proprio status sociale), le egemonie culturali. Inevitabilmente, le
pratiche urbane non sono completamente e coscientemente libere da condizionamenti. Spesso poi
affermano modelli che potrebbero essere discutibili, ad esempio quando si favorisce l’individualizzazione
dei comportamenti piuttosto che la ricerca di forme coordinate e costruttive di convivenza, come nel caso
tipico e spesso molto conflittuale della mobilità. Gli esempi potrebbero essere numerosi e riflettono il fatto
che la vita quotidiana è imbevuta di un mix tra routine e innovazione (Jedlowski, 2005).
Se quindi gli abitanti “non hanno sempre ragione”, bisogna sapere e potere sviluppare una lettura critica
delle pratiche urbane; e creare quei contesti di interazione e quei “dispositivi” dove il dare forma alle
progettualità emergenti diventi un processo collettivo.
Ambiguità e innovatività delle pratiche
La nostra vita quotidiana è fatta soprattutto di routine oltre che di piccole pratiche divergenti che ci
permettono di sperimentare e sondare altri modi di abitare e altri mondi di significato (Jedlowski, 2005).
Ma è fatta prevalentemente di routine, che ci permettono di vivere in condizioni di tranquillità e di
replicare comportamenti sicuri e consolidati, tranquillizzanti appunto. Tali comportamenti consolidati
possono derivare sia da condizionamenti sociali subiti (per la reiterazione dei comportamenti quotidiani
orientati dalle condizioni del contesto sociale ed urbano, per i condizionamenti subiti dai modelli sociali
prevalenti ed egemonici, per gli immaginari sociali – più o meno eterodiretti – che abbiamo ormai
incorporato) che dalla sperimentazione e conferma di comportamenti un po’ divergenti, ma accettati, che
“funzionano”, che ci permettono migliori condizioni dell’abitare, una migliore vivibilità.
Molte routine, molti comportamenti sociali ripetuti sono carichi di ambiguità, in quanto esito non di una
rielaborazione personale all’interno di “pratiche di libertà”, ma in quanto rappresentative di modelli e
immaginari sociali incorporati, e per questo anche condizionate o obbligate, e spesso discutibili. Da questo
punto di vista, il ruolo prevalente della cultura prodotta e conculcata dai mass media pesa fortemente sulla
formazione delle coscienze così come degli immaginari, e quindi anche sui comportamenti sociali.
Diversi autori, nell’ambito della “teoria della pratica”, hanno ben illustrato la tensione che esiste tra i
condizionamenti dovuti alle strutture sociali, economiche e culturali e i comportamenti personali che
cercano gli spazi dell’azione autonoma. Bourdieu si colloca ad un estremo del range di posizioni, dandone
un’interpretazione piuttosto “dura” e restrittiva. Il concetto di habitus sviluppato da Bourdieu (1972, 1980,
1992, 2005), esplicita bene tale situazione:
Le strutture costitutive di un particolare tipo di ambiente (e cioè le condizioni materiali di esistenza
caratteristiche di una condizione di classe) producono habitus, sistemi di disposizioni durevoli e trasponibili,
strutture strutturate predisposte per funzionare come strutture strutturanti, e cioè come principi di
generazione e strutturazione di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente “regolate”
e “regolari” senza essere in alcun modo il prodotto di una obbedienza a regole, oggettivamente adattate ai
loro obiettivi senza presupporre la ricerca conscia di alcuni fini o un esplicito impegno nelle operazioni
necessarie per raggiungerli e, dato tutto questo, orchestrate collettivamente senza essere il prodotto di
un’azione di orchestrazione da parte di un conduttore (Bourdieu, 1980).
Di fronte all’ambiguità delle pratiche urbane, sorgono inevitabili interrogativi su quanto esse siano
innovative e quindi sul valore e sul carattere della progettualità insiti in esse.
L’innovazione nelle pratiche urbane scatta spesso quando i comportamenti consolidati appaiono
insufficienti rispetto alle condizioni di una buona vivibilità, quando non rispondono più adeguatamente ai
problemi che pone la vita quotidiana. Ognuno è quindi spinto a forzare e a cambiare tali comportamenti
alla ricerca di nuove strade più utili e significative, verso la sperimentazione di nuove pratiche. Il lavoro di
Lanzara (1993) sulla “capacità negativa” coglie la capacità progettuale proprio nella risposta ad una
mancanza, nella necessità di reagire a condizioni nuove di vita, anche determinate da evoluzioni
drammatiche o a catastrofi ambientali (come i terremoti), che impongono l’attivazione di pratiche nuove e
soluzioni innovative, poiché non ci sono più le condizioni per continuare in quelle consolidate.
Considerazioni analoghe spingono Bourdieu – in una posizione ancora una volta abbastanza “restrittiva” – a
dire che l’ars inveniendi, e cioè la capacità di innovare, è un’ars combinatoria, cioè è la situazione in cui le
persone (nel nostro caso gli abitanti della città) per rispondere più adeguatamente alle proprie esigenze
cercano nuove soluzioni combinando o ricombinando comportamenti appresi o sperimentati, anche legati
ad altre situazioni.
Le pratiche urbane tra condizionamenti strutturali e autonomia
Le pratiche si collocano nella tensione tra dimensione strutturale e capacità di agency dei singoli abitanti.
Sherry B. Ortner (2006) interpreta la nascita e lo sviluppo delle riflessioni sulle pratiche sociali come
risposta e superamento della cosiddetta opposizione structure/agency4, dando origine ad un
reinterpretazione dialettica di questa relazione. La Ortner colloca la nascita della “teoria della pratica” nello
stretto spazio di tempo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, grazie alle tre opere chiave di Pierre
Bourdieu (1972), Anthony Giddens (1979) e Marshall Sahlins (1981) che permettono, in modi e gradi
diversi, di concettualizzare l’articolazione tra le pratiche degli attori sociali “sul terreno” e le grandi
“strutture” e “sistemi” che costituiscono una “costrizione” per quelle pratiche ma che al contempo sono
suscettibili di essere trasformate da esse. La practice theory ricostituisce il ruolo dell’attore nei processi
sociali senza perdere di vista le strutture più vaste, che condizionano l’azione sociale, ma la permettono
anche. Pur con posizioni e gradi diversi di articolazione, i tre autori considerano gli attori (nel nostro caso gli
abitanti) come sottoposti a condizionamenti strutturali, ma allo stesso tempo – pur essendo
completamente immersi in questa rete di condizionamenti – nelle condizioni di trovare e sviluppare
percorsi di autonomia, ovvero capaci di sviluppare le proprie azioni in un rapporto dialettico con tali
condizionamenti. Abbiamo già ricordato, anche nella sua durezza, il concetto di habitus di Bourdieu.
Giddens, in una posizione leggermente differente, sviluppa una discussione sulla “dialettica del controllo” e
argomenta che i sistemi di controllo possono non lavorare sempre in maniera perfetta, e che i soggetti
sociali “controllati” hanno sempre capacità di azione e di comprensione che gli permettono di evadere o
resistere. Al di là della diversità di posizioni e delle gradazioni interpretative e senza poter qui discutere
adeguatamente la vastità delle argomentazioni, la Ortner individua diversi ambiti di articolazione della
dialettica structure/agency, tra cui il rapporto col potere e il campo culturale, illustrando la complessità
delle relazioni che vi si sviluppano ma anche gli spazi di azione e di autonomia che sono o possono essere
praticati dagli attori sociali. Ad esempio, se è vero che la cultura (considerando in particolare la forza
crescente prodotta dai condizionamenti culturali dei mass media) è allo stesso tempo “enabling”
(capacitativa, ovvero che permette alle persone di vedere, sentire, immaginare, capire alcune cose) e
“constraining” (limitativa, costrittiva, ovvero che sottrae alle persone la capacità di vedere, sentire,
immaginare e capire altre cose), è anche vero che la cultura è un processo evolutivo nel tempo, soggetto a
continue azioni costruttive e distruttive, condizionata da relazioni di potere, da regimi, e quindi processo
politico essa stessa, diventando un oggetto almeno parzialmente mobile e variabile. “[…] Culture (in a very
broad sense) constructs people as particular kinds of social actors, but social actors, through their living, onthe-ground, variable practices, reproduce or transform – and usually some of each – the culture that made
4
A sua volta connesse alle teorie (strutturalismo, economia politica marxista, antropologia interpretativa o
“simbolica”) che costituirono fino agli anni ’70 la risposta al funzionalismo.
them” (p. 129). Analogamente, vengono sviluppate una serie di riflessioni sulla relazione tra agency e
potere, chiarendo il senso dell’intenzionalità, e considerando la progettualità probabilmente la dimensione
maggiormente fondamentale dell’idea stessa di agency. La Ortner esplora la costruzione culturale della
capacità di agire sia come una forma di empowerment sia come la base della ricerca di realizzazione di
“progetti” all’interno di un mondo caratterizzato dalla dominazione e dalla disuguaglianza, arrivando a non
trovare più distinzione tra una agency of power ed una agency as (the pursuit of) projects.
The agency of projects is not necessarily about nomination and resistance, although there may be some of
that going on. It is about people having desires that grow out of their own structures of life, including very
centrally their own structures of inequality; it is in short about people playing, or trying to play, their own
serious games even as more powerful parties seek to devalue and even destroy them (p. 147).
La “resistenza” al potere è allora sempre della stessa natura: proteggere i propri progetti, o meglio il diritto
di avere progetti (p. 147)5.
Certo, oggi le strutture più vaste che condizionano l’azione sociale sono strettamente legate alle forme di
soggettivazione imposte dalla città contemporanea (Agamben, 2007; Guattari, 1989). Esse condizionano
fortemente, anche attraverso i condizionamenti sui modelli sociali e sugli immaginari collettivi, le pratiche
di appropriazione e le forme della vita quotidiana.
Da questo punto di vista, il conflitto, che normalmente viene interpretato come un fattore negativo o
pericoloso, da controllare e mediare, in realtà assume una valenza profondamente positiva e costruttiva. La
città, in realtà, è pervasa dai conflitti; non esiste una realtà urbana senza conflitti; il conflitto è un fattore
costitutivo (identitario) della città. Ne sono un tipico esempio gli spazi contesi, quelle realtà urbane (che
siano piazze, edifici dismessi, strade, ecc.) che sono oggetto di usi e attività in conflitto tra loro: pedoni che
cercano di strappare le strade alle macchine per restituirle alla piena pedonalità, o a una pedonalità
protetta; piazze del centro storico dove “popolazioni” diverse (abitanti, bambini con i loro giochi, esercenti
di bar e ristorazione con il loro apparato di tavolini e ombrelloni, turisti, eventi culturali, persone di
passaggio, abitanti di altri quartieri che vi piombano nel tempo libero fino a sera spesso presi dalla movida
notturna, immigrati con le loro tradizioni, feste e culture, ecc.) si contendono lo spazio; quartieri dove
confliggono usi intensivi di alcune “popolazioni” divenute residenziali (ad esempio, gli studenti nei quartieri
limitrofi ai grandi atenei).
E’ un conflitto dalle molte valenze, non solo materiali (dovute ad usi ed attività interagenti, che convivono
con difficoltà), ma anche politiche, sociali e culturali, legate cioè alle differenze (alle volte antagoniste, o
inconciliabili) nei modi di intendere lo spazio e di abitarlo6, nelle forme di convivenza, nelle idee di città e di
sviluppo (anche riferite solo a quartieri o parti di città7), nelle difficoltà di fronte alle diversità sociali e
culturali, alle paure e alle insicurezze nei confronti dell’Altro (spesso indotte o incentivate dalle politiche
securitarie).
Il carattere particolarmente drammatico del confronto degli stili deriva dal fatto che nelle teorie
architettoniche si schierano due rapporti dell’atto di costruire: con se stesso e le proprie precomprensioni,
5
“At issue once again is the importance […] of attempting to see the ways in which dominated actors retain “agency”
in either mode – by resisting domination in a range of ways, but also by tryung to sustain their own culturally
constituted projects, to make or sustain a certain kind of cultural (or for that matter, personal) authenticity “on the
margins of power”” (p. 147).
6
Un esempio tipico è fornito dal tema della mobilità. Qui si confrontano modelli e comportamenti molto diversi tra
loro, da quelli che hanno come riferimento la sola mobilità privata su gomma con la pretesa del parcheggio sotto casa
a tutti i costi, a quelli favorevoli alla mobilità a impatto zero, prevalentemente se non esclusivamente pedonale o
ciclopedonale.
7
Pensiamo ai grandi conflitti innescati dalle grandi opere o dagli interventi (spesso dettati da operazioni immobiliari)
di trasformazione radicale di interi quartieri. Ma grandi conflitti possono nascere anche rispetto alle piccole
trasformazioni e politiche urbane che possono innescare cambiamenti profondi e duraturi: in molti centri storici
(come quello di Roma) confliggono obiettivi legati alla vivibilità e alla residenzialità con la trasformazione in distretti
del turismo e del commercio o con la museificazione (che ne decretano la morte).
e con l’abitare, i suoi bisogni, e le sue aspettative. Conflitto di stili, perciò, ma altresì conflitto tra le diverse
interpretazioni che si danno dei bisogni vitali dell’abitare (Riva, 2008, p. 28).
Se i conflitti, in alcuni casi, sono legati ad interessi divergenti e possono essere mediati, in altri svolgono
invece un ruolo profondamente costruttivo. Rappresentano forme di resistenza non solo alle trasformazioni
fisiche, ma anche alla pervasività di idee dell’abitare eterodirette e stravolgenti. I conflitti obbligano a
cercare soluzioni più complesse tra i soggetti coinvolti e, se si sviluppano intelligentemente e ad un livello
più alto della semplice negoziazione e mediazione, permettono di mettere in discussione le relazioni di
potere e i riferimenti culturali di fondo, dando vita a nuove prospettive interpretative. In questo senso,
vanno piuttosto potenziati che non mediati8.
La produzione sociale di pubblico e di “beni comuni”
I processi di appropriazione e ri-appropriazione della città ci mostrano che, al di là delle regole (formali e
istituzionali), esiste un “pubblico” che si fa avanti nella pratica, nella quotidianità, nella convivenza. Sotto il
livello occupato dal “pubblico”, quello istituzionale e codificato, rappresentato dallo Stato e
dall’amministrazione pubblica in genere, tra questo livello e quello più propriamente privato, esiste una
dimensione “pubblica” che assume concretezza nella fisicità dello spazio, trasformandolo in “luoghi”.
Esiste una crescente produzione sociale di “pubblico”, in autonomia rispetto alle organizzazioni istituzionali
esistenti. Questo “strato intermedio”, questa “produzione sociale di pubblico” è sempre esistita, ma oggi
risulta particolarmente significativa perché esprime il “pubblico” più del pubblico/statale, rappresenta i
luoghi reali e concreti di confronto tra gli abitanti, la resistenza ai modelli di sviluppo, la costruzione di
modelli alternativi, ecc9.
Le forme di autorganizzazione e di autogestione (Bitter, Weber, 2009) stanno costruendo in molti casi uno
spazio di azione diretta e autonoma degli abitanti, dove lavorare “nonostante” l’amministrazione.
Allo stesso tempo è all’interno di questi processi che si producono “beni comuni” (Amoroso, 2009), non
come categoria astratta legata ai diritti o alle identità, ma come insieme di condizioni concrete, materiali ed
immateriali, esito indiretto di un processo collaborativo, o anche semplicemente concorrente, comune
(Cellamare, 2008). La costante produzione di “beni pubblici dal basso” (come vengono interpretati da alcuni
autori; Balducci, 2004), dentro e fuori processi partecipativi, anche semplicemente insita negli ordinari
processi di appropriazione della città, con cui peraltro gli abitanti sviluppano un profondo rapporto
empatico, costituiscono una delle modalità fondamentali di significazione degli spazi di vita.
La produzione sociale di “pubblico”, d’altronde, è attraversata da molte ambiguità, che non bisogna
sottovalutare, come spesso evidenzia la lettura critica sia dei modelli di abitare che delle idee di città
sottese dalle pratiche urbane o dai processi partecipativi.
Le pratiche urbane nel rapporto tra persone e luoghi
Le pratiche configurano i luoghi e le pratiche si configurano nello spazio, in un rapporto biunivoco tra
abitanti/società e spazio.
Il rapporto tra le persone ed i luoghi in cui vivono e abitano si sviluppano in tanti modi diversi. Si tratta di
relazioni reciproche, poiché come le persone instaurano rapporti tra di loro e con i luoghi, conformandoli
come luoghi (e non più banalmente spazi), così i luoghi condizionano le persone e le organizzazioni sociali
attraverso la loro conformazione, le modalità e opportunità d’uso, ma anche le stratificazioni di significati in
essi incorporati. Per essere più corretti, così come ci ha ben chiarito Simmel (1908), la spazialità è una
proprietà delle relazioni sociali, e non banalmente uno sfondo in cui si svolgono e da cui vengono
condizionate. Le relazioni sociali, così come il mondo di significati e di rappresentazioni da esse implicate, si
8
Sui temi del conflitto si tornerà anche nei capitoli successivi.
E’ interessante notare che in molti contesti urbani (Cellamare, 2008) la discussione ed i conflitti si spostano dalla
questione legale/illegale (connessa alle istituzioni formali dello stato) alla questione del lecito/illecito, rispetto alle
regole implicite ed autodefinite della convivenza di una collettività urbana (si tornerà su questi temi nel successivo
cap. 7).
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configurano spazialmente. La definizione dello spazio come a priori logico percettivo, permette di
considerare questa dimensione non come qualcosa di cui si fa esperienza, ma come un modo di fare
esperienza. “Lo spazio non è mai un aspetto oggettivo, ma, come dice Simmel, un’attività dell’anima,
contemporaneamente condizione (ciò che limita, vincola) e simbolo (cioè la creatività, la costruzione
sociale) dei rapporti tra gli uomini” (Mandich, 1996, p. 38), esito quindi di un’ambiguità e di un intreccio: “il
rapporto con lo spazio è soltanto da un lato la condizione, dall’altro il simbolo dei rapporti con gli uomini”
(Simmel, 1908, p. 580). Lo spazio non è, “di per sé”, una forma, ma produce forme nello strutturare i
rapporti di interazione. Le forme spaziali sono quindi quelle configurazioni di relazioni sociali che trovano
nello spazio la loro concretizzazione. Soggetti e gruppi sociali localizzati sono in relazione con spazi
soggettivati e oggetto di una rappresentazione sociale, all’interno di un nesso tra soggetti e luoghi che è
storico (e storicizzato) e rimanda ad un mondo di significati sociali, che è a sua volta un “campo” (usi e
significati condivisi, incorporati, contestati, appropriati o trasgressivi, motivo di tensione o di conflitto,
ecc.). Un luogo, ad esempio, al di là del rapporto che vi possiamo costruire oggi, è già portatore di una
stratificazione di valori e significati sociali incorporati, con cui implicitamente ci relazioniamo. Così come i
luoghi, la loro conformazione spaziale, i loro condizionamenti sulla nostra organizzazione di vita, possono
essere espressione di un rapporto di subordinazione, esprimono un condizionamento egemonico. I luoghi
sono quindi ibridi ed esprimono una molteplicità di usi, di significati, di valori simbolici, anche in contrasto
tra loro, in relazione ai diversi punti di vista degli abitanti e dei gruppi sociali che li vivono.
Alcuni studi (Caniglia Rispoli, Signorelli, 2008) di carattere interdisciplinare, hanno cercato di sistematizzare
un ragionamento sul rapporto tra soggetti e luoghi. In primo luogo, individuano tre possibilità di
strutturazione dei rapporti tra soggetti e luoghi (p. 45):
rapporti tra un soggetto (individuale e/o collettivo) e i luoghi;
rapporti tra soggetti (individuali e/o collettivi) nei luoghi;
rapporti tra i luoghi nell’esperienza e nelle rappresentazioni mentali dei soggetti (individuali e/o
collettivi).
I primi due aspetti sono probabilmente più noti e rimandano alle relazioni d’uso, ai bisogni sociali che esse
rappresentano e che si cerca di soddisfare, alle relazioni sociali che si instaurano nei luoghi. A proposito
dell’ultimo aspetto, meno frequentato, si noti come l’insieme delle rappresentazioni dei luoghi costruisce
una mappa mentale in ciascuno di noi.
L’insieme dei rapporti tra i luoghi, per come li conosciamo (o ce li immaginiamo) e per come li valutiamo,
costituiscono nella mente di ciascuno di noi una sorta di mappa del mondo. Ogni soggetto è infatti
portatore di una mappa mentale del mondo che gli consente di orientarsi nei rapporti con i luoghi e con gli
altri soggetti e, attraverso le rappresentazioni, di essere mentalmente in rapporto con luoghi altri e con
soggetti distanti. Di qui l’importanza di questa mappa, che ha per noi soggetti una funzione cognitiva e una
funzione valutativa del mondo: essa è precisamente l’espressione, la rappresentazione condivisa, di come
pensiamo che il mondo sia, ma anche di come pensiamo che dovrebbe essere; è la rappresentazione
mentale di quell’ordine del mondo stesso, di quella trasformazione del caos in cosmo che è un bisogno
originario della specie umana.
[…] le mappe del mondo possono essere materia di scontro e di conflitto anche molto radicale, sia alla
microscala che alla macroscala, come pure è più chiaro perché l’imposizione di una determinata mappa del
mondo ai portatori di una cultura altra sia un atto di grande rilevanza nei processi che stabiliscono quel
particolare tipo di dominio che è l’egemonia. (p. 49)
Lo stesso studio articola i rapporti tra soggetti e luoghi in tre modalità differenti (p. 51):
- l’assegnazione dei soggetti ai luoghi;
- l’appropriazione dei luoghi (modalità dell’utilizzazione pratica dei luoghi), a sua volta articolabile in:
Appropriazione pragmatica (fondata sull’uso);
Appropriazione relazionale (basata sulla frequentazione tra soggetti, sull’imitazione e lo
scambio);
Appropriazione cognitiva/culturale;
- l’appaesamento dei luoghi ad opera dei soggetti (processo per mezzo del quale un soggetto umano
individuale o collettivo investe di valore una porzione di spazio, trasformandola così in luogo-simbolo di
quello stesso valore).
L’assegnazione ai luoghi corrisponde più chiaramente ai condizionamenti che subiamo nell’essere collocati,
più o meno intenzionalmente, nei luoghi (pensiamo alle assegnazioni nelle case popolari), ma anche nel
“prenderci i luoghi per quello che sono” in conseguenza delle scelte di abitazione, di lavoro e di
organizzazione di vita che facciamo. “In sostanza l’assegnazione esprime le modalità del potere nel
rapporto tra soggetti e luoghi” (p. 52).
I processi di appropriazione, che in fin dei conti corrisponde alla modalità di utilizzazione pratica dei luoghi,
hanno sempre una componente cognitiva, una pragmatica ed una relazionale. Essi rimandano ad un
sistema di relazioni “politiche” all’interno dei luoghi.
L’appaesamento, infine, “è, delle tre modalità di rapporto tra soggetti e luoghi, quella più fortemente
caratterizzata in senso culturale e dunque anche quella che più spesso pone problemi di comprensione
reciproca” (p. 55).
Questo tipo di analisi, sviluppato nello studio di Caniglia Rispoli e Signorelli, costituisce un utile riferimento,
soprattutto per la capacità di mettere in connessione le situazioni concrete con le rappresentazioni
(simboliche e culturali) dei soggetti e dei gruppi sociali. Allo stesso tempo, presta il fianco ad una
interpretazione di questi rapporti un po’ meccanica ed oggettivata, a rischio di un approccio essenzialista.
Appare quindi necessario, quando si ragiona di pratiche urbane nel rapporto tra persone e luoghi,
approfondire i caratteri dei processi e delle pratiche, le dinamiche e le modalità di relazione, in un
approccio anche più narrativo, in quanto ogni situazione ha una propria storia ed una propria dinamica.
Inoltre, bisogna sempre tenere presente che il “senso dei luoghi” si colloca in una dimensione plurale,
perché diverse sono le interpretazioni dei luoghi (almeno quante le diverse popolazioni che li vivono), siano
esse vissute dagli abitanti o imposte dall’esterno o ancora costruite nell’immaginario collettivo.
Pratiche di appropriazione dei luoghi
I processi di appropriazione e ri-appropriazione dei luoghi sono al contempo sia processi materiali e di
trasformazione fisica sia processi culturali, immateriali e di attribuzione di un valore simbolico. Essi
riflettono le forme con cui gli abitanti, a diverso titolo e in diverse forme, trasformano e si appropriano dei
propri contesti di vita, in rapporto ai grandi processi di costruzione della città, che generalmente si
sviluppano al di fuori della loro portata e al di sopra delle loro teste. In questo senso sono associabili a
quelle che de Certeau (1990) considerava le “tattiche”. E sono anche le pratiche e i modi con cui si
sviluppano i processi di significazione e ri-significazione della città.
L’attenzione ai processi di appropriazione e ri-appropriazione della città ha profonde implicazioni sulla
progettualità e sulle politiche che si pongono come obiettivo la riqualificazione urbana e ambientale. In
questi processi e in queste pratiche urbane, infatti, sono profondamente incorporate significative
progettualità di cui non si può non tenere conto, ma che anzi risultano spesso più appropriate e più
adeguate agli obiettivi di riqualificazione e alle esigenze sociali, più o meno espresse. Inoltre implicano un
protagonismo degli abitanti che, in questa epoca di scollamento tra la città, gli abitanti e le istituzioni,
rappresenta una dinamica di coinvolgimento nei processi di costruzione della città che costituisce
esplicitamente un obiettivo da perseguire.
I processi di appropriazione non sono tutti uguali e il loro carattere molto dipende dal tipo di relazioni con i
luoghi che determinano, dagli obiettivi e dagli interessi che spingono i vari soggetti a muoversi, dal tipo di
socialità e messa in comune che ne deriva, dai soggetti sociali protagonisti della trasformazione, dai tipi di
contesti urbani e ambientali, dalle dinamiche sociali e politiche, dagli immaginari implicati, dalle eventuali
interazioni con i soggetti istituzionali, dalle implicazioni economiche, ecc.. I significati che ne derivano (così
come i modelli di abitare, le idee di città, le forme di convivenza, ecc., sottesi), oltre ad essere differenti,
non sono tutti neutrali o positivi, ed è importante poterli valutare in relazione a questi differenti aspetti.
Per fare emergere gli aspetti rilevanti e di maggiore interesse, i processi di appropriazione possono essere
valutati ed approfonditi attraverso alcuni criteri di lettura, come ad esempio:
- cura dei luoghi e produzione di “beni comuni”;
- beni e luoghi accessibili a tutti e che anzi vengono resi (nuovamente) fruibili ad una collettività
allargata; significatività dei luoghi nella vita delle collettività locali;
- attivazione di un processo orizzontale e costruttivo di coinvolgimento degli abitanti;
- sviluppo di forme di autogestione ed autorganizzazione;
- non prevalenza degli interessi economici, sviluppo di economie alternative, ecc.;
- costituzione (o ricostituzione) di culture legate all’uso e ai valori anche simbolici di quei beni e luoghi.
Esperienze diverse di appropriazione e significazione dei luoghi
L’analisi empirica delle esperienze ci aiuta ad evidenziare alcuni aspetti rilevanti dei processi di
appropriazione e significazione dei luoghi, caratterizzati da una varietà non riducibile ad una tipizzazione o
a una classificazione. Non si tratta quindi di una catalogazione, quanto di un esercizio di lettura utilizzando i
criteri indicati precedentemente. Le considerazioni che seguono, e che sono riportate in forma
estremamente sintetica, derivano dal lavoro sul campo. Il panorama di situazioni è estremamente ampio e
richiederebbe un approfondimento specifico per ogni singolo caso. Possiamo cercare di tracciare un quadro
sintetico a partire da alcune vicende, soprattutto in contesti romani.
In primo luogo, abbiamo i processi di appropriazione nelle loro forme più semplici, ovvero di adattamento
degli spazi esistenti, dei contesti fisici (urbani e ambientali) con interventi minimi, eventualmente
supportati dall’introduzione di elementi di arredo urbano o di attrezzature, anche autocostruite, per lo più
necessari e destinati alla socialità, all’incontro, alla convivenza, al tempo libero in compagnia, ecc..
Generalmente non sono né illegali né illeciti, e solo in alcuni casi possono influire marginalmente (anche
problematicamente, ma senza creare particolari conflitti) sull’organizzazione dello spazio collettivo, o sulla
mobilità o sulla fruibilità delle aree verdi. Sono piccoli interventi mirati a rendere più fruibile ed accessibile
lo spazio, sfruttarne potenzialità inespresse, a recuperare situazioni abbandonate. In fondo, a immettere o
re-immettere nella vita ordinaria della città spazi e luoghi altrimenti sterili. Si tratta, ad esempio, di
sistemazioni con sedie, panchine, tavoli e tavolini, eventualmente accompagnati da piante, fiori, aiuole, ecc.
di cui si prendono cura gli abitanti stessi. La portata dell’intervento dipende dal contesto e dalle risorse
disponibili agli abitanti, nonché dalle eventuali limitazioni esistenti (problematicità o conflittualità che
possono essere innescate). Al di là di una prospettiva idilliaca, questo tipo di situazioni ci parlano di un
clima collaborativo tra gli abitanti, della ricerca di socialità, di autorganizzazione per lo spazio pubblico, di
carenze di spazi pubblici, delle connesse attrezzature e dell’inadeguatezza delle politiche
del’amministrazione pubblica, ma ci parla anche – spesso – dell’inadeguatezza della progettazione degli
spazi pubblici, non attenta alle pratiche di uso reale dei luoghi. Nel quartiere Serpentara, nella periferia
nord di Roma, un quartiere di edilizia economica e popolare realizzato a partire dagli anni ’80, l’importante
piazza centrale, attorno a cui ruotava l’intero assetto morfologico e funzionale e l’intero progetto del
quartiere, è stata riprogettata e risistemata attraverso il programma “cento piazze”, il noto concorso per la
sistemazione di alcuni spazi pubblici a Roma, sviluppato alla fine degli anni ’90 e in corrispondenza del
Giubileo del 2000. La realizzazione, dal punto di vista architettonico, risulta interessante, con grande
impegno sia di alberature, che di attrezzature di arredo urbano che di sistemazioni fisiche. Si tratta, però, di
uno spazio, anche abbastanza grande, al di fuori dei percorsi di frequentazione degli abitanti, collocata al
centro del quartiere come grande snodo stradale, separata dalle aree residenziali (grandi edifici isolati
all’interno delle aree verdi) dalle strade che vi convergono. A questo errore urbanistico, progressivamente
abbandonato e degradato, corrisponde lo sviluppo di un’area piuttosto marginale rispetto all’assetto
complessivo del quartiere. Gli abitanti hanno infatti progressivamente attrezzato un’area verde
abbandonata ed incolta, direttamente accessibile da una delle grandi stecche residenziali che si affaccia su
di essa, senza soluzione di continuità. L’area verde è stata semplicemente attrezzata con sedie, tavolini,
piante, sistemazioni a terra, ecc. diventando il luogo più frequentato, se non proprio di riferimento, nel
tempo libero. La città di Roma, così come tantissime altre città, sono costellate da esempi come questo.
Essi costituiscono l’ordinario e la condizione minima della vitalità della città. In questo ambito di
ragionamento si inserisce anche la figura dell’everyday maker, la figura dell’abitante che con la sua capacità
di iniziativa e di azione, attraverso gesti concreti e quotidiani di costruzione (ma anche attraverso
l’animazione degli altri abitanti e in collaborazione con essi) produce quotidianamente, intenzionalmente e
in autonomia lo spazio in cui vive (Bang, 2005, Ghiraldini, 2011).
Abbiamo poi esperienze di appropriazione di spazi (piazze, aree verdi, campetti sportivi, ecc.), anche in
forme temporanee, da parte di alcuni gruppi o comunità che hanno così l’opportunità di incontrarsi,
organizzare attività, sfruttare il tempo libero. E’ tipico nel caso delle comunità straniere e/o migranti che si
incontrano – per ritrovarsi come “comunità” – in alcuni spazi pubblici, aree verdi o parchi in alcuni momenti
della settimana: è il caso, ad esempio, di piazza della Repubblica a Roma o del campetto della “polverera” a
Monti, sempre a Roma (ma avremo un caso di questo tipo anche nel cap. 4). Il campetto della “polverera”
è un campetto sportivo vicino a Piazza della Polveriera, a due passi dal Colosseo, che è diventato il luogo dei
campionati di calcio delle comunità sudamericane a Roma, in particolare ecuadoriane (compreso un
campionato femminile). La “polverera” è diventata così il riferimento di queste comunità, luogo di incontro
e delle feste, che possono durare anche l’intero week-end. Nel corso del tempo le comunità sudamericane
si sono sapute autorganizzare e coordinare in un’associazione che si occupa di gestire lo spazio, di
mantenerlo pulito, di prendere accordi con l’amministrazione e con l’agenzia municipalizzata per la
gestione dei rifiuti. Ma nonostante questo, il campetto, che nella settimana è utilizzato dai ragazzi del rione
(anche perché è l’unico spazio disponibile), nel week-end viene totalmente occupato e sottratto ad altri usi
possibili, generando tensioni e alcuni conflitti. Sono occasioni di grande socialità, oltre ad avere un enorme
valore simbolico per le comunità immigrate; ma determinano la limitazione dell’accessibilità allo spazio
pubblico, anche in forma solo temporanea, generando quelle tensioni e quei conflitti cui si accennava. In
queste situazioni, è più facile che si eserciti l’azione repressiva delle istituzioni, pur non essendo una
situazione di illegalità più significativa di altre. Le comunità immigrate infatti sono soggetti più deboli e
facile obiettivo di stigmatizzazione. In altri casi la limitazione dell’accessibilità diventa permanente
(aumentando i conflitti locali), ad esempio nei campetti e negli altri spazi che opposte tifoserie si
accaparrano nelle periferie romane già povere di spazi verdi.
In terzo luogo, abbiamo l’appropriazione a fini di sfruttamento dello spazio (pubblico) per attività
commerciali ed economiche, e quindi con fini di interesse economico privato. Si va, con un crescente peso
dell’interesse economico e privatistico, da piccoli interventi di attrezzature e sistemazione degli spazi
esistenti realizzati alle volte da commercianti o artigiani, ambulanti o privi di una struttura per svolgere la
propria attività lavorativa (spesso accettati o digeriti nei contesti locali, nella comprensione delle difficoltà
delle attività produttive più deboli e povere), ad attività produttive e commerciali (alberghi, meccanici,
carrozzieri, ecc.) che si appropriano del fronte strada, o ad attività commerciali ed esercizi pubblici che
occupano estensivamente vaste porzioni, se non interi spazi pubblici, innescando in questo caso forti
conflittualità. Questi comportamenti determinano infatti situazioni escludenti (anche in forma permanente)
nei confronti di altri soggetti, fino a forme di vera e propria privatizzazione dello spazio pubblico. Ne sono
tipico (e massimo) esempio le “occupazioni di suolo pubblico” nel centro storico di Roma e la nota e tanto
contestata e vituperata invasione di “tavolini”, che spesso fa scomparire intere piazze (ad esempio a
Trastevere o a Piazza delle Coppelle) o le sottrae in gran parte all’uso pubblico o ancora limita le visuali e la
fruibilità delle piazze storiche e monumentali (Piazza Navona, il Pantheon, ecc.). Per quanto legale (lo
spazio viene acquisito a fronte del pagamento di un canone), e senza considerare i comportamenti abusivi,
si tratta di un’operazione illecita agli occhi degli abitanti, anzi profondamente odiata. Si tratta infatti
strettamente di una privatizzazione dello spazio pubblico a fini di sfruttamento economico.
Abbiamo, poi, situazioni in cui invece prevale la cura e la rimessa in circolo di un bene, che quindi (ri)diventa un “bene comune”. Soprattutto se ad intervenire sono abitanti organizzati senza secondi fini o altri
soggetti (comitati, associazioni, ecc.) che appartengono al tessuto sociale, sono ben radicati nel territorio e
sono espressione di una dimensione collettiva condivisa (di un “pubblico” emergente dall’interazione
sociale su cui torneremo successivamente). Ne sono esempio, sempre per rimanere a Roma, l’A. S. Monti
per Villa Aldobrandini nel rione Monti, il Comitato di Tor Fiscale per il Parco di Tor Fiscale, il Comitato
Casilina 18 per il Parco della Pace a Borgata Finocchio, o ancora il campo per skating dei ragazzi di San
Basilio. In questi casi prevale la logica del “prendersi cura di” e della produzione/manutenzione di “beni
comuni”. Nel caso del Parco della Pace si tratta di un bene confiscato alla mafia che, dopo una lunga
battaglia, in un quartiere abusivo storico consolidato nell’estrema periferia est (molti kilometri al di fuori
del Grande Raccordo Anulare), è stato trasformato in un parco pubblico attrezzato all’interno di un più
articolato programma di riqualificazione che prevedeva anche la realizzazione di una biblioteca, di una
ludoteca e di un centro culturale (e che la nuova giunta comunale non ha portato a termine). Come anche
negli altri casi, si tratta di un esperienza di alto valore simbolico, sia perché oggetto di una lunga “battaglia”,
con grandi investimenti emotivi, di tempo e di risorse da parte degli abitanti, sia perché rappresenta la
dimensione della “possibilità” (la possibilità che vengano realizzati progetti a fronte di un impegno
collettivo), sia perché rappresenta la possibilità di avere un luogo di qualità anche nell’estrema periferia
“degradata ed abusiva” (e quindi rimanda alle dimensioni del riscatto, della riconoscibilità, ecc.), sia infine
perché costituisce un fattore identitario particolarmente forte in un contesto così povero di riferimenti
rilevanti. Per motivi diversi, si tratta tutte di esperienze di alto valore simbolico. Nel caso di Villa
Aldobrandini significa aver rimesso in circolo nella vita del rione (curandolo, presidiandolo, rendendolo più
fruibile, organizzandovi attività ed eventi) uno spazio altrimenti abbandonato e marginale, in via di
progressivo degrado. E, in questo caso, si tratta di un’occupazione, peraltro di un bene tutelato dalla
Soprintendenza. Sebbene illegale, è risultato per lo più accettabile agli occhi della collettività locale, proprio
in virtù della restituzione alla vita collettiva di un “bene” inutilizzato. In queste esperienze la gestione
diventa spesso un impegno da parte delle stesse organizzazioni che si sono impegnate per la loro
realizzazione, direttamente o indirettamente, diventando un altro motivo di cura del “bene comune” e di
rapporto più diretto con quella realtà, ed acquisendo un ulteriore valenza simbolica e di mantenimento di
quella appropriazione originaria. Nel caso del Parco della Pace è stata costituita una cooperativa di giovani
residenti per la gestione del verde, con un ulteriore obiettivo occupazionale; nel caso di Tor Fiscale, il Parco
ed in particolare i due casali presenti, sono stati dati direttamente in gestione al Comitato che ha realizzato
nelle due strutture spazi di uso comune e sale di incontro.
Spesso l’azione e la pressione della società civile arriva ad interessare la riorganizzazione di interi quartieri
(andando ad interessare i problemi della mobilità, del trasporto pubblico, del verde, ecc.), sia con azioni
dirette (anche solo a carattere simbolico) che con azioni indirette, sull’amministrazione pubblica.
Se, nei casi precedenti (anche se nel caso di Villa Aldobrandini la situazione è più complessa), l’esperienza è
l’esito di un’azione collettiva, ma la realizzazione fisica degli interventi è opera dell’amministrazione
pubblica, in molti altri casi gli abitanti si autorganizzano e realizzano una vera e propria autocostruzione di
spazi pubblici o di aree verdi (eventualmente attrezzate) e delle relative attrezzature pubbliche mancanti,
per lo più utilizzando fondi propri (oppure ottenendo fondi, anche minimali, dalla pubblica
amministrazione). Ne è un esempio emblematico la vicenda della piccola area verde attrezzata a Saxa
Rubra (Cellamare, 2009a). In genere queste situazioni corrispondono ad un livello di coesione della
comunità locale ed una autorganizzazione della convivenza, e si realizza sostanzialmente una sostituzione
all’amministrazione pubblica. Sono esperienze che ci parlano dell’inadeguatezza delle politiche e degli
interventi pubblici, e delle capacità di autorganizzazione degli abitanti anche in contrasto o conflitto con i
piani e i programmi esistenti, con soggetti privati forti (nel caso di Saxa Rubra, la RAI), con la Pubblica
Amministrazione.
Particolarmente interessante è l’esperienza degli orti urbani a Roma. In questo caso, alla cura di un
territorio e alla realizzazione di un “bene comune”, si aggiunge la possibilità di produrre beni (che sono al
contempo alimentari ed economici), in un’agricoltura urbana in genere sostenibile, che riavvicina ai cicli
della natura, che propone modelli economici alternativi (le economie a “km zero”). Anche se di fatto
rendono esclusivo l’uso di queste porzioni di territorio, in genere si occupano di terreni abbandonati,
eventualmente sottratti alla speculazione edilizia.
Interi quartieri o agglomerati possono essere autocostruiti. Non è questo il contesto per sviluppare una
ampia riflessione sulla città informale, che pure sarebbe estremamente interessante. Accenniamo solo alla
vasta e sfaccettata esperienza dell’abusivismo romano, in realtà molto differenziata al suo interno, oggetto
di una lunga vicenda storica e segnata dall’evoluzione nel tempo delle sue stesse caratteristiche fondanti
(per esempio, nel passaggio dall’”abusivismo per necessità”, legato alla domanda abitativa, all’”abusivismo
speculativo”, sostenuto dai reiterati condoni edilizi)10. E’ l’espressione della città “fai da te”. Può dare
origine a forme di collaborazione, solidarietà, mutuo aiuto, ecc. (ad esempio, nelle fasi costruttive
nell’”abusivismo per necessità”, o nella realizzazione di opere di necessità collettiva, come nel caso della
realizzazione di difese spondali all’Idroscalo di Ostia), oppure può dare origine a forme privatistiche di
appropriazione dello spazio. Anzi, la logica di fondo è radicata in una concezione privatistica dello spazio,
dove la dimensione collettiva è tutta da costruire ed entra in campo soltanto nella misura in cui è una
necessità e permette di perseguire i propri interessi privati.
10
Per un quadro della situazione a Roma si rimanda a Cellamare (2010) e Cellamare, Perin (2010).
Un’altra esperienza di appropriazione, infine, è quella delle occupazioni a scopo abitativo (su cui torneremo
successivamente, in maniera più ampia, nel cap. 5), dove si intrecciano sia la dimensione dell’autorecupero
e dell’autorganizzazione, sia la dimensione della resistenza ai modelli imposti, sia la pratica di forme diverse
dell’abitare, sia l’attenzione alla riutilizzazione degli spazi abbandonati della città.
Viceversa, la mancanza di processi di appropriazione può essere molto significativa ed è indicativa di una
situazione profondamente problematica, dove viene meno la vitalità della città. E’ quanto avviene
soprattutto nei nuovi quartieri realizzati intorno ai grandi centri commerciali romani, come Bufalotta –
Porta di Roma. In quest’ultimo caso, abbiamo di fatto un’assenza di forme di appropriazione dello spazio, o
al più una loro presenza decisamente marginale. Questo testimonia come nella “città del mercato”, dove i
processi di costruzione della città sono tutti eterodiretti ed il rapporto dell’abitante con la città è
mercificato, le forme di appropriazione siano tendenzialmente molto limitate e l’abitante è estraniato
rispetto al proprio ambiente di vita (e, a maggior ragione, rispetto allo spazio pubblico esistente).
Pratiche urbane e senso del “pubblico”
Possiamo quindi riconoscere processi di appropriazione molto diversi tra loro. Nella città consolidata, e
soprattutto nella città storica, i processi di appropriazione si concentrano sugli spazi pubblici (strade, piazze,
parchi, ecc.) o al più su contesti anche a carattere insediativo, ma interstiziali e per lo più luoghi
abbandonati. Ciò è evidentemente dovuto alla più limitata disponibilità di spazi, ma anche al maggiore
controllo. Mentre nelle aree più periferiche le forme di appropriazione interessano aree estese, edifici o
intere aree industriali, singole case di abitazione, complessi residenziali, pezzi di città, aree libere e aree
agricole.
Ma al di là di questa banale osservazione, ciò che interessa maggiormente è che, al di là delle regole formali
e istituzionali, esiste un “pubblico” che si fa avanti nella pratica, nella quotidianità, nella convivenza. Sotto il
livello occupato dal “pubblico”, quello istituzionale e codificato, rappresentato dallo Stato e
dall’amministrazione pubblica in genere, tra questo livello e quello più propriamente privato, esiste una
dimensione “pubblica” socialmente prodotta che, al di là delle sue interpretazioni teoriche (Crosta, 1998),
assume concretezza nella fisicità dello spazio, peraltro trasformandolo in “luoghi”. E’ una dimensione
“pubblica” che assume connotazioni diverse, anche problematiche, a seconda dei contesti e dei processi,
così come si poteva riconoscere nel rapido excursus sviluppato nel paragrafo precedente. E’ interessante
allora evidenziare ed approfondire criticamente, nella diversità dei processi, proprio le diversità di
“pubblico” che emergono e la complessità delle relazioni con la dimensione istituzionale e formale11.
In alcuni casi, il “pubblico” socialmente prodotto entra in contrasto con le regole formali (quando non sono
espressione di una produzione sociale in atto) e può portare a situazioni molto diverse tra loro:
- può portare alla deregulation (situazione che però può diventare problematica nell’ottica della stessa
convivenza, soprattutto se si crea un contesto di “sospensione” delle regole costitutive del “patto sociale”
che apre a forme di prevaricazione, se non addirittura a comportamenti malavitosi);
- o viceversa alla contestazione di quelle regole (nella misura in cui sono considerate ingiuste e non
espressione di una “società istituente”; Castoriadis, 1975);
- o ancora all’occupazione di uno spazio non regolato (questione che rimanda ad un riflessione su ordine
e disordine nella città, cfr. cap. 3), ovvero semplicemente occupare uno spazio fisico e sociale di non
regolazione.
In altri casi, invece, il “pubblico” socialmente prodotto entra in conflitto, non solo o non tanto con le regole
istituzionali, ma anche e soprattutto con le regole non scritte della convivenza e/o dell’appropriatezza al
contesto urbano e sociale in cui ci troviamo (de Certeau, Girard, Mayol, 1994), che non sono
necessariamente quelle formali, appunto. In questo caso i problemi sono veramente rilevanti perché
travalicano la dimensione delle regole formali ed intaccano le regole stesse di convivenza, generando
conflitti profondi e mettendo in discussione l’idea stessa di civitas che soggiace alla convivenza urbana.
Analogamente, i processi di appropriazione possono essere letti in termini di processi orizzontali e
costruttivi di coinvolgimento tra abitanti, se non addirittura in termini di forme collaborative e di
11
Nel capitolo 4 si tornerà sulla complessità e sulla problematicità del rapporto tra politiche di controllo e pratiche
ordinarie, della “regolamentazione” delle pratiche, ecc.
solidarietà, o di autorganizzazione che si possono attivare. E quindi in termini di capacità di autogoverno e
di costruzione del “pubblico” tra gli abitanti. Da questo punto di vista, le situazioni si distribuiscono in un
campo che va dalla collaborazione piena allo sviluppo di profonde forme di privatizzazione, non solo non
collaborative, ma anche escludenti.
Progetto e forme dell’abitare. La pratica di idee diverse dell’abitare
I processi di appropriazione ci fanno sondare il mondo dei “modelli di sviluppo” e delle “forme dell’abitare”,
l’idea di città che vi è sottesa. A proposito dell’abitare, La Cecla (2000) sottolinea che:
Abitare è una facoltà umana. E’, cioè, una abilità acquisita, costruita su di una predisposizione biologica,
(l’essere fisicamente presenti in un luogo) ma elaborata culturalmente, quindi condivisa con una società. In
quanto tale può essere lobotomizzata, come dice Evans, ma non soppressa del tutto. […]
Al pari di qualunque altro sistema commerciale hanno bisogno di trasformare una facoltà umana in un bene
di consumo e di produrre dei consumatori ignari che il bene che considerano scarso è invece alla sua origine
abbonante e già in loro possesso” (La Cecla, 2000, p. 76).
Spesso, queste pratiche ci parlano di una “idea dell’abitare” profondamente intessuta di relazioni sociali, di
una convivenza costruita sulla diversità e sulla collaborazione di tutti, di un rapporto di cura (e di concreta
manutenzione e costruzione) del luogo in cui si vive, in uno spirito di forte responsabilizzazione. In alcuni
casi, come in quello degli orti urbani, dove è coinvolta la dimensione ambientale e la dimensione
produttiva, di fatto si propone anche (e pure esplicitamente) un “modello di sviluppo” fondato su
un’economia alternativa.
In altri casi, invece, emergono modi, forme e immaginari dell’abitare tutti da discutere.
Nel caso dell’abusivismo (almeno a Roma), ad esempio, l’abitare è molto incentrato intorno alla casa
privata che diventa un microcosmo, dove non c’è solo l’abitazione per sé, per la propria famiglia, ma spesso
anche l’abitazione per la famiglia dei propri figli (sebbene la maggior parte di essi tenda oggi ad andarsene,
a cercare collocazioni in altre realtà che siano più proprie di un “essere città”). Ma soprattutto all’interno
del proprio lotto trova spazio il giardino, se non la piscina, così come l’orto e altre strutture che completano
una forma di abitare fondata sull’autosufficienza e un microcosmo che induce un’autoreferenzialità del
nucleo familiare, anche quando allargato. Chi se lo può permettere cerca di allargare e qualificare i propri
spazi, chi non può si accontenta della propria casa. Tutto ciò che è fuori del perimetro del proprio lotto, non
interessa molto. O lo si demanda ad altri soggetti. Per questo, tutto ciò che riguarda le strade, i marciapiedi,
le urbanizzazioni primarie, gli spazi pubblici, i servizi minimi, il verde sono sostanzialmente assenti o
completamente trascurati quando esistenti. La massimizzazione dello sfruttamento dei terreni da parte dei
lottizzatori e dei costruttori abusivi azzera la possibilità di realizzare spazi pubblici di qualsiasi tipo. L’abitare
è ridotto all’osso. La dimensione “pubblica” dell’abitare è ridotta al minimo, è occasionale. Questo è ancor
più vero nell’abusivismo speculativo e nelle evoluzioni più recenti del fenomeno, mentre era mitigato nelle
fasi iniziali, quando nell’abusivismo prevaleva il carattere della necessità. In questo caso, la collaborazione
tra i costruttori abusivi determinava la costruzione di uno spirito comune, radicava una socialità fondata
sulla solidarietà, stabiliva relazioni personali e sociali che si sono mantenute nel tempo ed anche rafforzate.
Ne è derivata una dimensione “pubblica” che è comunque percepita anche se non sempre si traduce in un
corrispondente spazio fisico. Alla Borghesiana (periferia est di Roma) i luoghi di incontro rimangono alcune
abitazioni di riferimento o alcuni rarissimi bar. Per alcuni versi, anche la dimensione “pubblica” viene
privatizzata. Questa dimensione “pubblica”, per quanto limitata ma significativa, si è andata ulteriormente
affievolendo con le nuove generazioni che non hanno vissuto quella fase “epica” e con lo sviluppo
dell’abusivismo prevalentemente speculativo.
In alcuni situazioni, o perché realtà più ristrette, o perché persone provenienti dagli stessi luoghi di origine,
o per l’intraprendenza e la leadership di alcune persone più sensibili, o per altri motivi, può prevalere lo
spirito collaborativo che porta alla realizzazione di strutture, spazi e attrezzature comuni, anche totalmente
in autocostruzione e in autogestione. A Cerquette Grandi, uno dei “toponimi” della periferia nord-ovest di
Roma, in questo modo sono stati realizzati tra l’altro un centro sportivo e ricreativo (con campetto di calcio,
altri campi sportivi, spogliatoi, spazio picnic, ecc.), un’area parco nella forra limitrofa con percorsi attrezzati
e cartellonistica, un campo fotovoltaico che dà energia alla borgata. A Ponte di Castel Giubileo, piccola
borgata abusiva storica consolidata, localizzata all’altezza dell’incrocio tra la via Flaminia ed il Grande
Raccordo Anulare di Roma, ormai schiacciata dal Centro RAI di Saxa Rubra, si è andato consolidando un
piccolo paese (con tutti i pro e i contro caratteristici dei paesi) con un piccolo spazio pubblico in prossimità
dell’unico alimentari, dell’unico bar e della cappellina esistenti. E’ stato realizzato anche uno spazio giochi
per bambini in autofinanziamento12.
Nella maggior parte dei casi, e nelle aree più estese dell’abusivismo romano, prevale comunque una forma
dell’abitare molto incentrata sulla dimensione privata, con una riduzione all’osso – come si diceva – dello
spessore e della complessità dell’abitare. Si tratta di una forma dell’abitare condizionata dallo sviluppo del
fenomeno (e che probabilmente non era propria dell’immaginario dei primi abitanti), ma che si è andata
affermando e che costituisce l’orizzonte dell’immaginario dei più giovani e degli abitanti arrivati più di
recente (mentre chi ha fatto esperienze fuori di queste borgate tende ad allontanarsene). Le più giovani
generazioni, nel tempo libero, mancando di spazi, attrezzature e attività adeguati, sono obbligati ad
allontanarsi e generalmente passano il loro tempo nei centri commerciali più vicini che offrono lo svago, le
distrazioni, un posto dove stare, il fresco d’estate. Tutte cose minime ed omologanti, ma pur sempre
l’opportunità alla dimensione della propria borgata. Nel week-end, soprattutto il sabato, le famiglie al
completo passano l’intera giornata nel centro commerciale più vicino (ad esempio, Roma Est per
Borghesiana).
Paradossalmente, troviamo un’analogia con le forme dell’abitare dei nuovi quartieri residenziali della “città
del mercato”, come quello di Bufalotta – Porta di Roma, già ricordato, che rappresentano oggi la “frontiera”
dell’abitare della classe media. Anche in questo caso, l’abitare è molto incentrato sull’abitazione privata e
sulla sua qualità, che rappresenta una forma di espressione e riconoscimento del proprio status sociale.
Sebbene gli appartamenti siano di dimensioni veramente piccole (tant’è che hanno balconi e logge di
dimensioni rilevanti, anche per compensare spazi interni limitati), le rifiniture e la qualità edilizia tendono a
replicare i modelli delle abitazioni più di lusso. Spesso le palazzine sono raggruppate in complessi
residenziali con una propria piscina, il parco interno, l’area giochi attrezzata per i bambini, i sistemi di
sicurezza per i controlli degli accessi. Tutto è in dimensioni più contenute, ma tutto tende a replicare
modelli residenziali di classi più abbienti. Con la differenza ulteriore che i palazzi e le palazzine possono
essere considerati degli “alveari”, non differentemente da altre realtà della periferia romana. Anche in
questi casi, la presenza dei grandi centri commerciali intorno a cui sono costruiti questi nuovi quartieri
assorbe tutte le altre funzioni e tutti gli altri tempi dell’abitare. Anche in questi casi vi è una interpretazione
riduttiva dell’abitare e una somma di funzioni separate. E’ interessante notare come alcuni degli stessi
nuovi abitanti di Bufalotta – Porte di Roma percepiscano il grande centro commerciale. Un “incubo”, una
“piovra”, un “buco nero” che assorbe tutta la vita, soprattutto tutto il tempo extra-lavorativo; così viene
percepito da molti abitanti. Alla fine e senza alternative, nel tempo libero, o anche solo per comprare il
pane, dalla propria abitazione (dove si svolge tutta la propria vita privata) si scende in garage a prendere la
macchina per andare fino al centro commerciale (passando per il parcheggio interrato) per passarvi in
alcuni casi anche intere giornate. Lo spazio intermedio, anche nella sua fisicità, scompare dall’orizzonte di
vita degli abitanti e dagli immaginari personali; esistono solo la propria abitazione ed il centro commerciale
(che certo non è uno “spazio pubblico” nel tradizionale senso della parola; peraltro come noto si tratta di
aree private, sottoposto anche a sorveglianza). Lo “spazio pubblico” fisico che pure esiste ed è ben curato in
questi quartieri, perde completamente il suo senso e, per ora, non vede alcuna frequentazione.
L’esito di queste osservazioni è che, per molti versi, nonostante le profonde diversità in termini di qualità
edilizia, di tipologie edilizie, di caratteri e consistenza degli spazi pubblici, queste forme di abitare, e gli
immaginari ad esse associate, non sono molto diversi tra loro; non c’è differenza tra i due “modelli” di
abitare. In entrambi i casi, salvo le particolari situazioni interessanti segnalate, si tratta di forme di abitare
senza appropriazione, o meglio con appropriazione nella sfera del privato, senza “pubblico”.
12
La vicinanza tra la piccola borgata ex-abusiva ed il grande Centro RAI permette di mettere a confronto due forme
dell’abitare molto diverse tra loro. La prima è incentrata sul locale, sulla piccola dimensione, sulla socialità; la seconda
sulle grandi relazioni sovralocali, sull’abitazione privata di lusso, sulla separazione delle funzioni, sulla mobilità,
sull’estraniazione (il tema è ampiamente sviluppato in Cellamare, 2009a).
Ancora una volta, possiamo affermare come i processi di appropriazione e le pratiche urbane ci spingano a
ragionare sull’idea di abitare e sui modelli sociali sottesi, perché in molti casi sono problematici, rimandano
ad immaginari sociali condizionati da quelli promossi o propagandati dal marketing urbano o dagli altri
strumenti massmediatici. Come già detto, in fin dei conti, noi abitiamo la nostra idea di abitare.
Le forme dell’abitare diventano un terreno interessante di lavoro e maturazione. Proprio in questo si
mostra come la progettualità delle pratiche stia anche nella proposta e nella pratica di stili di vita personali
e collettivi differenti, che comportano una particolare attenzione alle relazioni sociali, dentro e fuori gruppi
costituiti. E’ il caso di chi sperimenta forme diverse dell’abitare, come il co-housing o i condomini solidali.
Pur essendo limitate, almeno in Italia, queste esperienze ci raccontano del tentativo concreto di costruire
contesti di convivenza fondati sull’intensità delle relazioni personali, sul desiderio di relazioni abitative non
estranianti ma collaborative e di scambio, sulla volontà di sviluppare “spazi comuni” che non sono solo
luoghi fisici di incontro, ma occasioni di incontro dell’altro nella quotidianità della propria vita, e della
propria casa. Un’idea di abitare quindi di grande spessore e ricchezza che rifiuta le semplificazioni e i
riduzionismi cui ci sta obbligando la città contemporanea e la “città del mercato” in particolare. Queste
dimensioni appaiono ancor più forti nei condomini solidali, cui si aggiunge il progetto comune di un’idea
forte di convivenza dove i valori interpersonali e la gestione comune della casa, la collaborazione solidale e
l’apertura al disagio sociale e all’accoglienza costituiscono elementi fondativi.
O ancora è il caso della sperimentazione di forme diverse della convivenza, spesso fondate sull’imparare
dalla diversità, come spesso avviene in occupazioni di case o edifici abbandonati a scopo abitativo, dove
sono presenti sia italiani che stranieri e migranti, di nazionalità e identità differenti, con culture molto
diverse tra loro, espressione di una città multietnica che è al contempo l’opportunità di una grande
ricchezza culturale e di relazioni (su questo torneremo nel cap. 5). Non dobbiamo considerarle situazioni
ideali o idilliache, vi è un presenza notevole di difficoltà, conflitti ed ambiguità. Ma rappresentano una
forma di resistenza e la proposta di alternative ai modelli di abitare prevalenti, eterodiretti ed imposti.
Il rapporto con i processi di costruzione della città
L’analisi delle forme di appropriazione permette di valutare anche il rapporto con i processi di costruzione
della città. Come si diceva precedentemente, indubbiamente la città moderna è andata progressivamente
allontanandosi da processi che vedessero il protagonismo, o almeno il coinvolgimento, degli abitanti nella
sua costruzione. Il progressivo affermarsi dei processi industrializzati nell’edilizia, il ruolo crescente del
capitale fondiario ed immobiliare, il ruolo del mercato immobiliare come modalità di allocazione della
residenza e della distribuzione spaziale delle funzioni urbane, il tentativo (di fatto fallito) di controllo
pubblico della crescita dell’insediamento ed oggi l’affermarsi della finanziarizzazione della città tengono
ben lontani gli abitanti, e soprattutto le loro categorie più deboli, dal coinvolgimento attivo nella
costruzione della città, non solo nei suoi edifici, ma anche nei luoghi pubblici e nelle aree verdi. Questa
situazione innesca anche un meccanismo di dipendenza dal soggetto pubblico o dalle altre “agenzie” che si
occupano della costruzione della città, e a cui si deve chiedere qualsiasi cosa rispetto alla costruzione del
proprio contesto di vita. Ciò rafforza la diminuzione della responsabilizzazione rispetto allo spazio collettivo
e alla città come “bene comune”, oltre che l’espropriazione della capacità progettuale e costruttiva che
pure è una capacità propria degli abitanti ed è riconoscibile nelle loro pratiche di vita, nella “mente locale”.
Se pure dal punto di vista tecnologico-costruttivo così come da quello del governo delle trasformazioni è
difficile tornare indietro, bisogna però dire che i tempi e i modi con cui sono sviluppati i processi di
costruzione della città non creano nessuna condizione favorevole all’interazione con gli abitanti (Cognetti,
2007), in termini di processi di adattamento, interazione con le pratiche, attivazione di iniziative, elasticità
del progetto, temporalità adattive ai processi d’uso, ecc. Queste attenzioni dovrebbero indurre un
ripensamento dei caratteri del progetto e degli interventi, così come dei processi di progett-azione . Non
significa infatti tornare indietro a livelli più bassi di tecnologia, quanto invece – come diceva Bateson (1972)
– passare a livelli più alti e sofisticati della tecnologia, che implichino maggiori gradi di elasticità e modalità
di coinvolgimento degli abitanti13.
13
Ovvero sviluppare percorsi integrativi, come è avvenuto nel Progetto Periferie di Torino attraverso i PAS, i Piani di
Accompagnamento Sociale (Sclavi et al., 2002).
Se poi prendiamo in considerazione i soggetti che conducono la costruzione della città, da un lato
registriamo un progressivo venir meno del ruolo attivo del soggetto pubblico, e dall’altro, pur
mantenendosi un ruolo significativo delle cooperative e marginalmente dei singoli proprietari14, nei Paesi
occidentali a prevalente economia capitalista e di mercato si assiste ad una progressiva affermazione del
capitale privato come sistema nettamente prevalente di costruzione della città, con gli inevitabili effetti
sulle tipologie di spazi (pubblici e privati) e sulle forme dell’abitare.
Si può cogliere una profonda problematicità oltre che nei processi di costruzione della città fisica, anche
nell’intreccio tra pratiche urbane e politiche di governo o anche di riqualificazione della città. Questo
avviene non solo nel caso vi siano politiche mirate a “svendere la città”, ma anche nel caso vi siano “buone
intenzioni” ovvero la volontà di cercare di rispondere alle domande sociali emergenti. Questo intreccio,
infatti, coinvolge gli interessi economici e l’azione degli operatori privati. Da una parte questi cercano di
“cavalcare” i diversi comportamenti urbani, ed in particolare quelli che si trasformano in mode e stereotipi,
e che identificano modelli e collocazioni sociali (questo è molto tipico per quanto riguarda il tempo libero,
così come ci mostra lo sviluppo della movida notturna), ovvero cercano di “sfruttare” le pratiche urbane per
i propri fini, cercando di cogliere i comportamenti innovativi e innescando di rimando, su quest’onda, lo
sviluppo di mode e comportamenti indotti o condizionati. Dall’altra cercano di volgere a proprio vantaggio
le politiche urbane, ed in particolare quelle di riqualificazione o “valorizzazione”, approfittando dello
sfruttamento dei comportamenti sociali emergenti (basta riflettere su quanto avviene nei processi di
gentrification). Questa dinamica può anche determinare conflitti nel controllo dello spazio o nella gestione
delle attività economiche. Ma su questi punti torneremo successivamente in maniera più ampia (v. cap. 4).
Ci basti qui notare che guardare alle pratiche sociali ci permette di leggere criticamente le politiche urbane,
le loro distorsioni, le idee di città sottese, gli effetti (anche negativi e perversi) sulla città e sulle condizioni
di vivibilità. La politica dei “salotti di Roma” avviata nella capitale a partire dai primi anni 2000, si è
sviluppata da una strumentale interpretazione della “valorizzazione” delle strade e degli spazi pubblici, una
valorizzazione che si è poi rivelata per quello che è, ovvero puramente e semplicemente economica e
commerciale (Allegretti, Cellamare, 2009). Questa politica, emblematica del distorto “rinascimento urbano”
che ha attraversato molte città nel mondo, soprattutto europee (Porter, Shaw, 2009), ha piegato allo
sfruttamento tante aree di grande valore, ha determinato una privatizzazione degli spazi pubblici, ha
comportato un’espropriazione di tali spazi spesso di alto valore simbolico per la città, per i rioni storici e per
i loro abitanti che spesso invece ne erano stati i protagonisti della loro riconquista alla vita pubblica
(attraverso pedonalizzazioni, occupazioni, mobilitazioni, ecc.). Lo spazio pubblico riqualificato o
“caratterizzato” (in una interpretazione folklorica delle identità storiche) diventa oggetto di marketing, i
“luoghi” prodotti socialmente diventano merce e gli abitanti comparse su uno sfondo, sul palcoscenico
urbano (Cellamare, 2008).
Città “imposta” e città vissuta
In molti casi, le città vengono imposte, o meglio vengono imposti modelli insediativi e quindi modelli
abitativi ed idee di città che poi vanno a costituire le identità urbane locali15. Lo possiamo notare oggi per
quanto riguarda la città costruita dal mercato; lo possiamo facilmente riconoscere nella “città pubblica”,
storicamente costruita dallo Stato e ormai consolidata. Sono evidenti, in questi casi, i modelli e le utopie del
moderno che venivano tradotte in edifici e tessuti urbani nell’importante fase degli anni ’70 e ’80
dell’edilizia economica e popolare (e di cui abbiamo testimonianza ben nota ed emblematica in tanti
complessi di edilizia economica e popolare delle nostre periferie).
In alcune ricerche sull’abitare a Milano (Lanzani et al., 2006; Granata, 2005; Lanzani, 2011), si sottolinea
come l’abitare non sia più una scelta, ma sia di fatto molto condizionato dalle situazioni urbane e dalle
dinamiche del mercato immobiliare; che ci confrontiamo quotidianamente con “il mestiere di abitare”. Se
14
Ma bisognerebbe considerare anche il peso delle forme di autocostruzione e dello sviluppo della città informale
anche nei Paesi occidentali (UN-Habitat, 2010; Davis, 2006), soprattutto in quelli europei di area mediterranea o
balcanica, come riemergente modalità di risposta alla domanda abitativa che rimane insoddisfatta per l’inadeguata
risposta dell’amministrazione pubblica.
15
Per maggiori approfondimenti cfr. Cellamare (2009b).
questo è peraltro cominciato con la stessa costruzione della città moderna, oggi questo è ancor più vero,
dato il peso che sulla costruzione e sulla organizzazione della città hanno gli interventi legati al pubblico o,
ancor più (a fronte del progressivo venir meno dell’edilizia pubblica), alle grandi operazioni immobiliari dei
privati, agli effetti locali della globalizzazione, allo sviluppo della mobilità, al peso crescente delle
disuguaglianze e della divaricazione sociali.
Allo stesso tempo, gli abitanti mettono in atto pratiche di resistenza alla città “imposta”, nel tentativo di
piegarla alle esigenze della vita quotidiana, che di fatto costruiscono una città diversa. Emblematica la
situazione al quartiere Librino di Catania, nella periferia sud-ovest della città, tra la città consolidata e
l’aeroporto. Quartiere di edilizia economica e popolare pianificato negli anni ’70 e ancora in costruzione e
progressiva lenta realizzazione e completamento, Librino in realtà è composto di diverse parti,
comprendenti non solo l’edilizia pubblica, ma anche quella delle cooperative, oltre ad alcuni nuclei storici,
ex casali agricoli (tutto il territorio era precedentemente un vasto agrumeto), ecc.. La parte pubblica, che si
sta ancora realizzando sulla base di un piano di Kenzo Tange, prevedeva (e prevede tuttora) la realizzazione
di una serie di comparti completamente autonomi, dotati di complessi residenziali intensivi e massivi (torri
o grandi edifici in linea di molti piani e ad alta densità abitativa), di un proprio centro commerciale e,
nell’ipotesi iniziale, dei servizi necessari. I comparti sono messi in collegamento da un sistema viario molto
ampio, composto da strade a quattro corsie tracciate esternamente alle aree residenziali e che di fatto
costituiscono una sorta di confine/separazione tra i diversi comparti. Infine, tra i comparti si dovevano
realizzare alcune spine/cunei verdi, veri e propri parchi pubblici appoggiati ai corsi d’acqua presenti. Si noti
che il piano non permette la realizzazione di attività commerciali ai piani terra degli edifici, per lo più
realizzati a pilotis o destinati a locali di servizio. Nel complesso ne viene disegnato un modello di abitare che
ben poco ha a che vedere con la cultura catanese (e mediterranea in generale), scollamento reso ancor più
evidente se si confronta questo insediamento con la precedente utilizzazione ad agrumeto ed il connesso
sistema agricolo e dei casali, o con gli insediamenti storici e preesistenti, anche più poveri e popolani, della
città (come per esempio il non lontano San Cristoforo, con cui condivide l’attenzione all’allevamento e alle
corse dei cavalli). Se si considera, poi, che i servizi non sono stati realizzati o completati, salvo alcune scuole
(che di fatto costituiscono uno dei pochi luoghi qualificati e collettivi di tutto il quartiere), e che le aree
verdi sono ben lontane dall’essere trasformate in aree attrezzate, il quadro che ne risulta è particolarmente
desolante. E la presenza cospicua della malavita organizzata e dello spaccio della droga sembra una
conseguenza quasi scontata ed inevitabile di un tale modello insediativo e abitativo; da cui una serie di
elementi fortemente negativi identificativi del quartiere, ormai consolidati nell’immaginario catanese.
Anche in questo caso (come in altri quartieri di edilizia residenziale pubblica in Italia) alcuni progetti,
incentrati intorno ad alcuni eventi culturali e all’iniziativa di gruppi di artisti, anche in collaborazione con le
scuole, hanno cercato di rompere le stigmatizzazioni esistenti e a proporre rappresentazioni diverse di
Librino. In questo caso la questione appare molto più difficile, e questo tipo di proposte e progetti risultano
superficiali, estemporanei e velleitari finché non si affronta il cuore dei problemi e le numerose
problematiche strutturali.
Ciò che però è interessante notare è che gli abitanti hanno progressivamente messo in atto alcune piccole
trasformazioni, oltre ovviamente a numerosi interventi abusivi sull’edilizia residenziale. In primo luogo,
sono stati realizzati alcuni piccoli negozietti, per lo più piccoli spacci alimentari, nelle zone pilotis, o
chiudendo abusivamente gli spazi esistenti o trasformando in questo senso alcuni locali di servizio. Intorno
a questi piccoli punti di riferimento, luogo di frequentazione a piedi (mentre ai centri commerciali esistenti
bisogna andare in macchina) degli abitanti dei caseggiati limitrofi, spesso collocati anche in prossimità dei
passaggi pubblici per gli accessi alle parti residenziali, si sono costituiti dei piccoli spazi “attrezzati”, delle
“piazzette”. Ovvero spazi dove gli abitanti hanno collocato qualche sedia di plastica (se non addirittura
qualche panchina anche se fatiscente) o qualche pianta verde. Sono questi alcuni “spazi pubblici”, di fatto
autocostruiti, ma anche gli unici significativamente presenti. Non lo sono certo le mega piazze previste e in
parte realizzate, desolate e assolate, e assolutamente non utilizzabili, anche se in alcuni casi dotate di un
minimo di attrezzature. Così come, sempre in autonomia, gli abitanti hanno realizzato in proprio alcuni
spazi verdi attrezzati con i giochi per i bambini, in ritagli dei parcheggi o delle aiuole all’interno degli spazi di
pertinenza dei complessi abitativi (e non certo nelle spine verdi preda della vegetazione selvaggia). Sempre
in questi spazi di pertinenza sono stati realizzati, in alcuni casi, oltre alle tradizionali ed immancabili
cappelline votive, anche orti o gabbie per animali domestici o da pollaio. Vengono qui allevati anche
cavallini, nella tradizione catanese. Infine, i cunei verdi, dove non sono stati realizzati i parchi previsti e la
natura ha preso piede in forma spontanea, sono attraversati da sentieri e percorsi battuti che mettono in
comunicazione trasversalmente i comparti. Questi percorsi avvicinano i comparti tra loro per la via più
breve, permettendo di evitare l’utilizzazione obbligata dell’auto anche solo per andare a trovare parenti e
conoscenti che abitano in un comparto limitrofo. Questi percorsi sono anche quelli utilizzati dai bambini di
andare a scuola direttamente a piedi, altrimenti dovrebbero essere accompagnati su tragitti ben più lunghi,
e spesso in auto.
Si disegna così una geografia di pratiche e comportamenti completamente diversa da quella della città
imposta. Una città parallela, diversa dalla città pianificata. E’ questo un chiaro ed emblematico esempio di
un progetto di città alternativa, di cui l’urbanistica non può non tenere conto.
Pratiche di spazi pubblici
La dimensione dello “spazio pubblico” è spesso interpretata come costruzione intenzionale (per lo più di
spazi fisici) in risposta ad una carenza che, per molti versi, pur con i necessari distinguo, appare evidente a
tutti. Allo stesso tempo, è andata maturando nel tempo anche la convinzione che, quando si parla di
“spazio pubblico”, non si parla soltanto di uno spazio fisico, ma evidentemente anche di uno spazio
mentale, della capacità cioè di pensarsi in relazione, di pensarsi come appartenenti ad una collettività più
ampia, di pensare la stessa dimensione del “pubblico” (e di sentirsi all’interno di questa dimensione
relazionale).
La considerazione dello “spazio pubblico” (inteso come spazio fisico e modalità standard e predefinita di
incontro) come un’intenzionalità da costruire, come prodotto/obiettivo di un modello di convivenza, può
essere un rischio se non un errore. Mi sembra più interessante, piuttosto, concentrarci sulle condizioni in
cui si sviluppa o si può sviluppare la socialità ed il senso del collettivo (la produzione collettiva di socialità)
nella quotidianità, condizioni che a loro volta definiscono e strutturano (o possono definire e strutturare)
spontaneamente spazi pubblici, o crearne le condizioni di esistenza. Mi sembra cioè che l’intenzione di
costruire “spazi pubblici”, siano essi materiali o immateriali, senza i processi che li supportano e li
significano sia perlomeno ambigua e a rischio di essere inefficace.
Il frequente riferirsi, quando si parla di spazio pubblico, all’esperienza della città greca e del suo sistema di
democrazia non è evidentemente esportabile nelle condizioni attuali (ma le persone più avvertite
ovviamente non hanno questa intenzione). Quel sistema di democrazia e quella forma di spazio pubblico
sussisteva e funzionava perché era espressione di quella società, di quella cultura, di quella città, di quella
forma di convivenza.
Penso sia più importante andare a verificare quali siano le condizioni in cui si sviluppa oggi il “collettivo”, se
si sviluppa, e ragionare su quello. Così come mi sembra interessante andare a vedere quali siano oggi gli
“spazi pubblici” realmente vissuti e, senza prenderli tout court per positivi, rileggerli criticamente, rileggere
quale socialità vi viene prodotta. In qualche modo bisogna andare a vedere lo “spazio pubblico” per come è
e dove è oggi.
La convinzione di fondo, infatti, è che la socialità si costruisca e ricostruisca continuamente nei luoghi di
vita, come condizione essenziale del vivere collettivamente.
E’ indubbio che questo non è facile né scontato; né dobbiamo indulgere a banalizzazioni idilliache o
semplificazioni meccanicistiche. In primo luogo, perché la città per sua natura è una realtà plurale, è il luogo
della convivenza dei diversi. Se dobbiamo immaginare lo spazio pubblico come il luogo di incontro dei
diversi, è anche vero che tutto questo diventa molto difficile quando la diversità è forte e intensificata dai
flussi migratori attuali, quando i tempi di trasformazione della città non lasciano spazio alla
“metabolizzazione” della diversità, quando i tempi ordinari di vita sono tali che non c’è spazio per
l’incontro, per la capacità di conoscersi nelle culture diverse, per costruire relazioni. Quando le politiche
securitarie e gli interessi politici ed elettoralistici sollecitano la paura dell’altro, creando barriere. Quando la
precarietà e le difficoltà economiche fanno “tirare i remi in barca” e favoriscono approcci individualistici ai
problemi.
Stessi luoghi hanno quindi valori e sensi diversi a seconda degli abitanti che li vivono. Ad esempio, il modo
con cui gli abitanti del rione Monti nel centro storico di Roma sentono e vivono la “piazzetta” – piazza
Madonna de’ Monti – unico luogo di incontro del rione, luogo simbolico e di grande riferimento per tutti, è
diversissimo da come lo sentono e lo vivono i turisti, i romani di passaggio o quelli che la riempiono a
pranzo nei giorni feriali o la sera dei week-end. Per loro è soprattutto un fondale ed uno splendido luogo
dove incontrarsi la sera e stare insieme, un luogo di consumo. Così come per i commercianti, esercenti di
bar e ristoranti, che la invadono con i propri tavolini, è soprattutto un “bel luogo” da sfruttare, oggetto di
quella “valorizzazione”, che è essenzialmente valorizzazione economica, sostenuta dalle varie politiche
pubbliche, a cominciare da quella sui “salotti di Roma”. Così come è luogo di riferimento per la comunità
ucraina di Roma, che lì vi trova la propria parrocchia cristiano ortodossa (la chiesa dei SS. Sergio e Bacco) e
vi celebra i propri riti collettivi (splendida la celebrazione della Pasqua ortodossa). Lì si incontrano a pranzo
le badanti del centro storico di Roma. E l’elenco potrebbe continuare. La diversità è negli usi, nelle pratiche,
ma anche nei valori simbolici e nelle “idee di città” che quindi vengono a confrontarsi, ma anche spesso a
confliggere. Conflitti che sono materiali e simbolici, e politici, allo stesso tempo.
Conflitti che richiedono di essere gestiti. Significativo, a questo proposito, il fatto che si moltiplicano le
iniziative (ad esempio, dentro le scuole, ma non solo) legate alla mediazione dei conflitti e alla mediazione
sociale e culturale.
Ma oltre ai processi e alle conflittualità che appartengono inevitabilmente alla convivenza urbana e che
potremmo considerare ordinari in una città (anche se intensificati dagli attuali processi globali e dalle
inadeguate politiche nazionali e di alcune amministrazioni locali), dobbiamo poi considerare quei molti
processi che invece, intenzionalmente o meno, si pongono in diretto contrasto con la prospettiva di
costruzione e ricostruzione dello spazio pubblico come espressione di una produzione collettiva e
quotidiana della socialità.
Pensiamo in primo luogo alla privatizzazione degli spazi pubblici, siano essi strade, piazze, luoghi di
pertinenza degli edifici, aree verdi o altro. Nel centro storico di Roma, così come di altre città, questo è
abbastanza evidente; tale da impedire la fruizione stessa degli spazi (a meno che le persone non si siedano
ai “tavolini” e paghino le consumazioni). Nella “piazzetta” di Monti, quando ancora si facevano le
“ottobrate monticiane” in piazza, il permesso per utilizzare lo spazio pubblico non bisognava chiederlo al
Comune o al Municipio, ma ai proprietari dei bar che vi si affacciano e vi hanno le “occupazioni di suolo
pubblico”. In cambio, i gestori dei bar chiedevano il monopolio della somministrazione degli alcolici.
Dobbiamo poi considerare anche la diffusione dei fenomeni di privatizzazione delle condizioni ordinarie di
socialità nella vita quotidiana e le forme di separatezza forzata, fisica e simbolica: complessi residenziali
chiusi, spazi collettivi dell’edilizia pubblica non condivisi, spazi non permeabili, gestione non collettiva degli
spazi verdi e degli spazi pubblici, espropriazione degli spazi, gated communities, attrezzature sportive
private, ghettizzazione di alcune comunità, campi nomadi, stigmatizzazione degli abitanti dell’edilizia
pubblica, ecc.. Fenomeni sempre più diffusi nell’organizzazione degli spazi fisici della città, che riflettono le
condizioni della convivenza e della socialità, in un rapporto biunivoco che si rafforza negativamente in
maniera reciproca.
Infine dobbiamo considerare i condizionamenti dovuti non solo ai processi di valorizzazione economica
(tavolini), ma anche alla produzione di immaginari che avviene nella città (e attraverso la città) e ai processi
che sono diventati di moda e di massa. Il popolo della notte, la gente che si accalca a Ponte Milvio (luogo
che si è andato consolidando come riferimento per la movida serale e notturna, soprattutto nel week-end,
di tutta la zona nord di Roma), le frotte di giovani che si incontrano e si danno appuntamento nei centri
commerciali, esprimono esigenze profonde e diffuse di socialità e di incontro, ma le vivono, e le possono
vivere, sotto i forti condizionamenti di immagini e stereotipi prodotti e promossi, anche commercialmente,
ma anche perché molto spesso queste sono le uniche condizioni attraverso cui è data la socialità nella città.
Condizionando fortemente anche il modo stesso in cui sono pensate e vissute la convivenza e la socialità
stesse: legate al tempo libero, a un tempo eccezionale ed estraniante; legate al commercio (ma questo non
sarebbe troppo strano, se pensiamo alle funzioni dei mercati in tutti i tempi, a cominciare dal foro romano)
e al consumo; legate a persone selezionate; ecc.
Non meravigli il fatto che tutto questo si rifletta sui modi di organizzarsi dei movimenti e
dell’associazionismo e del modo con cui la socialità civile si rapporta alla politica, spazio pubblico sempre
più svuotato di significato, di rapporto con la costruzione dell’interesse collettivo intorno ai processi di
convivenza, e sempre più ridotto a luogo della mediazione degli interessi e del clientelismo politico.
Associazioni e movimenti sono sempre meno realtà sociali diffuse (pensiamo a quello che erano i
movimenti per la casa negli anni ’70) e sempre più iniziative di gruppi più motivati, anche se spesso legati
ad interessi più circoscritti e alle volte anche conflittuali rispetto ad altre realtà, anche contermini.
Viceversa, dobbiamo registrare altri segnali che esprimono l’esistenza di processi emergenti e sempre attivi.
Pensiamo all’Esquilino, quartiere emblematico della diversità etnica e culturale, dove esiste un’interessante
esperienza di mediazione culturale di quartiere. Una locale associazione di famiglie ha promosso e
sollecitato al Comune (mettendo a disposizione un autofinanziamento) l’installazione di due canestri nel
giardino di Piazza Vittorio, al centro del quartiere, anche per andare incontro alle esigenze di spazi gioco
per i bambini. Questi canestri sono diventati luogo d’incontro, frequentatissimo, di molti bambini pur
diversi etnicamente e culturalmente, realizzando uno scambio culturale ed una “integrazione” impliciti,
senza la mediazione di azioni intenzionali che invece spesso sottolineano le differenze. Esperienze di questo
tipo evidenziano che il richiamo forte e diretto delle esigenze della vita quotidiana e la capacità di creare le
condizioni per una reale vivibilità dei quartieri spesso ha come esiti imprevisti effetti positivi sulla
convivenza non raggiunti da tante politiche pubbliche.
Allo stesso modo, in molte realtà, è la scuola che diventa tramite per la costituzione di condizioni locali di
sviluppo della socialità e dell’incontro pubblico. Ne sono un esempio forte la collaborazione tra i genitori, in
particolare le madri, nella gestione dei figli all’uscita e all’entrata della scuola. Gli orari di lavoro, le
condizioni della mobilità e del traffico, l’aumento esponenziale delle difficoltà organizzative delle famiglie,
spingono molto spesso le madri degli studenti a coordinarsi e ad autorganizzarsi per la gestione degli
spostamenti dei figli, arrivando ad organizzare turni settimanali di accompagnamento distribuiti tra le
diverse persone. A fronte di condizioni sfavorevoli imposte dalla disorganizzazione della città,
l’autorganizzazione (generalmente delle madri) favorisce lo sviluppo di uno spirito collaborativo e di una
socialità diffusa.
E’ su questi aspetti che mi sembra oggi importante lavorare. Interrogarsi su dove sono oggi i processi di
spazio pubblico e su come costruire, attraverso la città, condizioni di produzione collettiva e quotidiana
della socialità e della convivenza tra diversi.
Perché occuparsi di pratiche urbane (in senso progettuale)
Alcuni urbanisti, in una logica riduttiva del progetto e delle politiche, ritengono che occuparsi di pratiche
urbane sia inutile, che apra ad aspetti che non possono essere gestiti e che, soprattutto, non abbia alcun
risvolto operativo. Io penso che invece si tratti di un approccio fondamentale proprio dal punto di vista
progettuale; sia dal punto di vista cognitivo ed euristico e della qualità della progett-azione sia dal punto di
vista del mettere al lavoro (anche criticamente) la progettualità insita nelle pratiche. Ricostituendo, per
quanto è possibile e nei modi in cui è possibile, in forma incrementale e germinativa, il rapporto tra
capacità progettuale e atto dell’abitare.
Obiettivo primario dell’urbanistica deve essere, infatti, riannodare il rapporto tra “città di pietra” e “città
degli uomini”, tra urbanistica e vita quotidiana, ragionando sulla vivibilità, sul creare le migliori condizioni di
vita urbana, anche nelle sue dimensioni immateriali.
In connessione a questo, obiettivo ancor più fondamentale e radicale, è ricomporre lo scollamento tra la
società locale e il proprio contesto urbano, la rottura tra l’uomo e il proprio habitat, pur nella coscienza dei
limiti e delle costrizioni (anzi agendo contro di essi) che, come abbiamo visto, sono imposti da diversi
problemi: la riduzione dell’area manipolatoria e le modalità di costruzione della città, la
professionalizzazione del progetto e la tecnicità, l’autoreferenzialità istituzionale, la logica delle
competenze e l’espropriazione della capacità progettuale, ecc.. Questo obiettivo può essere
fondamentalmente perseguito favorendo una riappropriazione materiale e culturale del proprio ambiente
di vita, che trova il suo cardine proprio in un approccio attento alle pratiche urbane.
Leggere le pratiche urbane permette di cogliere, in primo luogo, il senso dei luoghi. Andando al di là della
semplice logica funzionalista, la lettura delle pratiche urbane permette di cogliere allo stesso tempo sia gli
usi materiali che i valori culturali e simbolici incorporati sia negli usi che negli spazi fisici e negli oggetti
materiali. Permette di cogliere quel rapporto di significatività che caratterizza quel luogo. E’ la porta di
accesso alle dimensioni immateriali, o meglio all’unità inscindibile di materiale e immateriale, di fisico e
simbolico.
Ma questo significa anche interpretare i significati sociali che caratterizzano un luogo e la società locale che
lo vive; si tratta infatti di significati che rimandano (lo abbiamo già detto) a significati condivisi, a modelli e
valori sociali consolidati nella convivenza, a immaginari sociali (che possono essere più o meno
problematizzati e coscienti, come abbiamo già visto). Attraverso questo percorso – ulteriore passaggio
praticabile – si può arrivare sia a ragionare sui modelli di sviluppo e sulle idee di città e di convivenza sottesi
dalle pratiche urbane, anche nella loro ambiguità e problematicità, sia a far emergere e a dare espressione
alle diversità, ai differenti modi di vivere e interpretare la città, alle differenti città che costituiscono la città
plurale. Questa diversità diventa il materiale di lavoro del progetto.
In poche parole, una lettura a partire dalle pratiche urbane ci permette di cogliere il “profondo sentire”
della città, e quindi anche di capire bene i problemi e le strade praticabili, nonché di leggere criticamente
quanto emerge nel corpo vivo della città: le dimensioni immateriali e i valori incorporati nei luoghi, le
condizioni di vivibilità e ciò che viene considerato “qualità della vita”, i modelli antropologici (sociali e
culturali) insiti nella progettualità delle pratiche, gli spazi contesi e la geografia di significati insiti nei
conflitti urbani; entrando dentro le dinamiche ed i processi reali.
Questo approccio può dare vita, e non avrebbe molto senza, ad un percorso culturale e politico di
rielaborazione. Molti rimpiangono le ideologie tradizionali che sembrano lasciare un vuoto politico, anche
perché facile sistema di valutazione della realtà e di orientamento delle scelte. In un’epoca quindi di
“scomparsa” delle ideologie, questo approccio può permettere di sviluppare una valutazione critica non più
rispetto a tali ideologie, ma rispetto alle culture, alla vivibilità, alle forme dell’abitare, ai significati della
convivenza e della socialità, e costituire quindi una base ricostruttiva di una cultura politica. Non si tratta di
un relativismo, quanto di un punto di vista plurale critico che deve essere sviluppato in contesti di
interazione progettuale, che diventino anche “luoghi pubblici”, luoghi di ricostruzione di una visione politica
della città.
In una dimensione più semplice, e se vogliamo più operativa, questo approccio ci permette, allo stesso
tempo, di valutare adeguatamente e con più attenzione le politiche pubbliche urbane ed i loro effetti reali
sulla città, proprio attraverso una considerazione degli effetti sulle pratiche dell’abitare (Bricocoli, Savoldi,
2010). Viceversa ci aiuta a costruire politiche adeguate; anche considerando gli intrecci e le reciproche
influenze (anche negative) tra politiche, interessi privati ed azioni degli operatori economici, effetti sulla
città, pratiche e comportamenti sociali.
E’ importante assecondare le pratiche per dare senso e valore alla progett-azione, alla progettualità che vi è
insita e che costituisce una guida di riferimento pur nelle sue ambiguità. Questo permette una maggiore
qualità del progetto, anche in termini di progettazione fisica, dello spazio fisico, e di riqualificazione urbana,
sia con riferimento alla qualità architettonica che alla vivibilità. Perché permette di considerare in maniera
più adeguata le implicazioni immateriali, le esigenze sociali e le condizioni ordinarie della vita quotidiana. E
questo ragionando a diverse scale, sia a quella dell’intero quartiere, sia a livello di “microurbanistica”16.
Così come un tale approccio alla progett-azione permette di attivare altre dimensioni che non sono solo
quelle materiali e fisiche, ma che pure hanno valenze fondamentali nella trasformazione e nel
ripensamento della città17.
Queste ultime considerazioni suppongono ancora l’azione di un soggetto pubblico e di un tecnico di
supporto, sebbene profondamente radicati e attenti alle dinamiche e alla vita della città reale. Ma questo
approccio può essere ancor più significativo nella misura in cui permette di mettere in moto processi di
appropriazione e cura, o di assecondare quelli esistenti; di mettere al lavoro le energie vitali presenti
attraverso il coinvolgimento degli abitanti e delle altre persone coinvolte in un rapporto di significato,
dentro e fuori contesti di interazione progettuale.
“[…] quello che gli abitanti possono fare per se stessi, se gliene viene lasciata l’occasione, è di gran lunga più
efficace, dal punto di vista della risposta ai bisogni e della “qualità della vita”, di qualunque progetto
predisposto dall’esterno per loro. E che in ogni caso c’è una fascia che è la più povera che non beneficia di
16
Cfr. il progetto di riqualificazione di via del Boschetto così come altri interventi e altre politiche nel rione Monti del
centro storico di Roma (Cellamare, 2008).
17
Molto interessanti a questo proposito le azioni simboliche che, in molti casi, gli abitanti, singoli o organizzati,
portano avanti per guidare e sollecitare una trasformazione della città.
questi progetti e che in genere ne viene danneggiata sotto forma di rinnovamento urbano o di relocations”
(John Turner in La Cecla, 2000, p. 77)
Questo permette di valorizzare le forme di autogestione ed autorganizzazione (cfr. Renaudie, Guilbaud,
Lefebvre, 2009); così come permette di raccogliere le sollecitazioni e le proposte progettuali che vengono
dalla sfera dell’autorganizzazione per portarle ad una dimensione di organizzazione e di interesse collettivo,
dandole una forma strutturata.
L’attenzione alle pratiche urbane se, da una parte, permette di cogliere quei processi di significazione e di
produzione di “beni comuni” così importanti nella città, permette anche di cogliere quei processi che
rappresentano forme di resistenza o di proposta di alternative ai modelli dominanti di abitare. Sono quelle
stesse “tattiche” di cui parlava de Certeau, che assumono caratteri diversi nella città, e che aprono ad un
mondo di significati ed alternative che è importante cogliere, anche e soprattutto in un processo che apra
alle progettualità latenti per metterle al lavoro e renderle significative nella costruzione della città e della
convivenza urbana.
Come diceva Simmel, se, all’interno della città, sono presenti tendenze che hanno un carattere disgregativo
del tessuto sociale sono anche presenti controtendenze che hanno un carattere costruttivo, produttivo di
significati e legami sociali. Viviamo all’interno di una tensione tra condizionamenti continui e profondi e la
ricerca continua di condizioni di autonomia (Castoriadis, 2001), che si esplicano spesso attraverso “pratiche
di libertà” (Foucault, 2001).
Simmel interpretava i fenomeni sociali, ed i fenomeni urbani, a partire da una “filosofia della vita” che
interpreta la realtà come costituita da un tessuto di rapporti tra la vita e le forme che essa assume. La vita
ha necessità delle forme per esplicarsi nella realtà storica, forme che si strutturano (e assumono, per alcuni
versi, una propria autonomia oggettiva) nelle specifiche culture e organizzazioni sociali di ogni epoca e
contesto geografico. Ma tali forme costringono o impediscono il fluire e l’evolversi continuo della vita. Ne
risulta che, “per un verso ogni manifestazione vitale viene limitata dalla non-vita della forma che le si
contrappone, per l’altro, al tempo stesso, la vita ha bisogno della forma. Per Simmel, dunque, la vita per
manifestarsi deve condensarsi in forme, ma le forme possono incarnare solo singoli aspetti della vita che
sono quindi destinati ad esser superati dal continuo fluire della vita stessa tesa a realizzarsi come divenire”
(Mongardini, 1976, pp. LVII-LVIII). Per Simmel, la vita è quindi sempre in azione, dentro di noi e fuori di noi,
nelle organizzazioni sociali, così come nella città, e cerca di travalicare le forme in cui è costretta. “Infatti nel
momento stesso in cui certi bisogni-fini vengono soddisfatti nella situazione storica, attraverso i canali
istituzionali o la vita di gruppo, l’incessante fluire della vita ne produce dei nuovi e più pressanti che ci
spingono fuori della situazione storica, dell’istituzione o del gruppo. Perciò l’individuo non può mai essere
incorporato in nessun ordine senza che al tempo stesso si trovi a fronteggiarlo” (Mongardini, 1976, pp. LXLXI).
E’ in questo gioco tra tendenze e controtendenze in atto, mai in equilibrio e mai concluso, è nella
dimensione conflittuale connaturata alla città che si radicano le possibilità di rigenerazione della città stessa
e le dinamiche più profondamente “progettuali”.
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