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Shoah e identità di genere
Nel 1935, in occasione dell’uscita delle leggi di Norimberga, i nazisti precisarono per la prima volta il concetto di ebreo e si fecero una serie di domande che, in precedenza, non si erano affatto posti, credendo che la questione ebraica fosse una faccenda dai contorni estremamente chiari e netti. In effetti, la legge del 7 aprile 1933 (denominata Legge per la ricostruzione della carriera dei funzionari statali di ruolo) aveva espulso dalla pubblica amministrazione tutti coloro che non erano perfettamente ariani: e questo accadde an- I mezzi ebrei che a coloro che avessero avuto anche solo un nonno o un genitore di origine ebraica. Nel 1935, invece, vennero catalogati come ebrei solo coloro che avevano almeno tre nonni ebrei, mentre per gli altri (chiamati Mischlinge o mezzi ebrei) fu elaborata una complessa casistica che li divideva in due gruppi. Innanzi tutto fu istituito il concetto di Mischlinge di secondo grado, categoria che includeva quanti avessero un solo nonno ebreo; il complementare gruppo dei Mischlinge di primo grado, invece, comprendeva chi, pur avendo due nonni ebrei, non aveva sposato un/a ebreo/a né praticava la fede di Israele. Questa normativa fu dettata dalla scoperta dell’elevato numero di matrimoni misti, che secondo una stima del 1933 erano circa 35 000. Lo Stato nazista fece di tutto per convincere le mogli e i mariti ariani a separarsi dai loro coniugi ebrei, cioè a divorziare, abbandonandoli al loro destino di discriminazione (e poi, più tardi, di deportazione). In molti casi, però, l’azione persuasiva e intimidatoria del regime non funzionò, cioè non riuscì a ottenere la separazione della coppia; a quel punto, dopo la notte dei cristalli (novembre 1938) fu introdotta un’ulteriore differenziazione all’interno delle unioni miste, sulla base dell’appartenenza razziale del coniuge maschio. In pratica, quelli in cui il marito era ariano (mentre la moglie era ebrea) vennero dichiarati matrimoni privilegiati, mentre gli altri rimasero matrimoni misti semplici. Due bambini costretti a portare la stella che identificava le persone ebree. La foto fu scattata sulla banchina ferroviaria di Auschwitz II-Birkenau nell’estate 1944. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C Le donne della Rosenstrasse UNITÀ 9 IL SECOLO DELLE DONNE 1 Shoah e identità di genere Shoah e identità di genere APPROFONDIMENTO C UNITÀ 9 LO STERMINIO DEGLI EBREI 2 Quando Rudy Holzer fu catturato e portato in Rosenstrasse, la moglie Elsa, insieme a molte altre donne ariane nella stessa condizione, manifestò con coraggio per ottenere la liberazione del coniuge, cosa che effettivamente avvenne permettendo così il ricongiungimento della coppia. Le mogli ariane di mariti ebrei, insomma, subirono un trattamento decisamente peggiore delle donne ebree sposate a uomini ariani: le famiglie dei matrimoni misti semplici, ad esempio, potevano venire espulse dalle loro abitazioni ed essere obbligate a risiedere nelle Case degli ebrei (Judenhaeuser), appositi palazzi in cui vennero concentrati tutti gli ebrei tedeschi dopo una direttiva emanata il 28 dicembre 1939. Dal 1941, inoltre, i figli Mischlinge di una famiglia non privilegiata dovettero portare il distintivo con la stella (come loro padre, ebreo al cento per cento), mentre la moglie ariana fu costretta a lavorare per lo sforzo bellico tedesco, secondo procedure identiche a quelle imposte a tutti gli ebrei del Reich. Nell’autunno del 1941, mentre la soluzione finale aveva già investito gli ebrei dell’Unione Sovietica e stava per travolgere gli ebrei polacchi, iniziarono le deportazioni di quelli tedeschi verso il ghetto di Lodz. Nei mesi seguenti migliaia di ebrei vennero deportati verso l’Est da tutte le città del Reich e, in primo luogo, da Berlino (che, nel 1939, contava 160 564 ebrei: circa un terzo di tutti quelli del Paese). Il 27 febbraio 1943 ebbe inizio la grande retata nelle fabbriche, che in pochi giorni vide l’arresto di circa 15 000 ebrei, sorpresi sul loro posto di lavoro. Mentre la maggior parte di loro finì ad Auschwitz, coloro che avevano parenti ariani furono temporaneamente sistemati in un edificio situato in Rosenstrasse 2/4 (poco distante dalla Alexanderplatz, vero cuore della capitale negli anni venti e trenta), che ospitava un centro di assistenza gestito dalla comunità ebraica. In Rosenstrasse furono concentrate un migliaio persone; il numero esatto, comunque, è incerto: minore (800) secondo alcune testimonianze, molto maggiore (quasi 2000) secondo altre. Vi furono portati sia maschi che femmine, sia adulti che ragazzi; per la maggioranza, però, si trattava dei membri non ariani dei matrimoni misti semplici. Le testimonianze provenienti da ragazze e da giovani donne pongono l’accento soprattutto sulle pessime condizioni dei servizi igienici; nessuno, comunque, fu oggetto di violenza o di percosse, e tanto meno nessuno fu ucciso. È ignoto il motivo per cui essi furono separati dagli altri ebrei (immediatamente deportati), così come non è affatto chiaro il destino che i nazisti avrebbero loro riservato (Auschwitz? Terezín?). Comunque, il regime non aveva certo previsto che essi sarebbero stati oggetto di un interessamento tutto speciale, da parte dei loro parenti ariani, che scelsero di non abbandonarli e cercarono di mantenere fino all’ultimo i contatti con i loro cari. La notizia che gli arrestati erano in Rosenstrasse si diffuse abbastanza presto; la maggioranza dei parenti che si recò in quel luogo lo fece per portare pacchi di viveri e ottenere notizie. Per lo più, si trattava di donne, o più esattamente mogli (e madri) che avevano il loro coniuge (e talvolta anche i loro figli) in stato di arresto. I dati sorprendenti sono due. Il primo è la nascita di un vero assembramento di persone: anche se pare poco credibile la cifra di 6000 persone contemporaneamente presenti, in Rosenstrasse comunque si radunarono sempre varie centinaia di individui, che reclamavano la liberazione dei loro cari. Inoltre (secondo elemento sorprendente), la protesta si protrasse per alcuni giorni (otto, complessivamente) e si concluse con l’effettivo, sia pur graduale, rilascio dei detenuti. È del tutto ignoto il motivo del comportamento nazista. Per comprendere le ragioni del mancato intervento repressivo e dell’avvenuta liberazione, si può comunque tener conto del fatto che la disfatta di Stalingrado si era consumata appena due mesi prima; inoltre, nella notte tra l’1 e il 2 marzo Berlino fu oggetto del primo massiccio bombardamento aereo britannico. Erano due segni evidenti del fatto che la guerra si stava mettendo male: in una simile situazione, il consenso della popolazione tedesca intorno al regime diventava ogni giorno più necessario, se si voleva evitare un collasso simile a quello verificatosi nel novembre 1918. Da questa considerazione, forse, nacque la scelta di non spazzare via con F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Andai in Rosenstrasse e lì trovai altre donne. Era davvero come se fosse accaduto un miracolo. M’imbattei subito in una commessa che lavorava nel negozio di mio padre. Aveva un marito ebreo. Nessuno doveva scoprirlo, proprio come per mio padre, che aveva sposato un’ebrea; gestiva il negozio insieme a un nazista, il quale ovviamente non doveva venirlo a sapere. La paura era tale, che nessuno dei due conosceva la situazione dell’altro, e nessuno dei due doveva conoscerla. E invece ci ritroviamo lì in mezzo alla strada! [...] Non riesco più a ricordare se davvero sono andata in Rosenstrasse tutti i giorni. Ero in una situazione conflittuale, costretta a dissimulare sia la mia origine, sia il mio legame con lui. Credo di esserci andata ogni sera dopo il lavoro. Ma non ricordo più quante volte in tutto, anche davanti agli occhi serbo ancora immagini molto precise. In Rosenstrasse non abbiamo fatto proprio niente. Andavamo avanti e indietro. Si parlava. Ma io ero molto più giovane della maggior parte delle donne lì presenti. Una sequenza tratta Avevo ventun anni. [...] Abbiamo parlato. E non rimaneva altro da fare che camminare lì da- dal film Rosenstrasse, vanti. Certo, si teneva sempre d’occhio il portone per vedere se capitava qualcosa. Ma per della regista tedesca il resto, non si poteva far altro che stare in piedi o camminare. E c’era gente a tutte le ore! Margarethe von Talora erano di più, talaltra di meno, ma era sempre un vistoso assembramento di persone. Trotta. Era questa la cosa straordinaria. [...] Le mitragliatrici a cui alcuni fanno riferimento, io non le ho viste. So che vengono sempre citate nelle testimonianze orali e scritte, anche in quelle di alcune conoscenti che sono state lì. Io posso solo dire che non le ho viste. Ma io non stavo lì tutto il giorno. Ovviamente, è possibile... Ma quelle grida: «Ridateci i nostri mariti!», quelle Che cosa facevano le donne che si c’erano. Posso confermarlo. [...] Una cosa è certa: ci minacciarono... eccome! Durante le affollarono in nostre veglie serali continuavano a passare e ci ordinavano: «Disperdetevi! Andate sull’alRosenstrasse? tro lato della strada!». Ma non gli davamo retta. Non ce ne importava niente, eravamo stufe. Quale rischio N. SCHROEDER, Le donne che sconfissero Hitler, Pratiche, Milano 2001, pp. 73-84, trad. it. P. QUADRELLI corsero? la violenza l’assembramento creatosi nel centro stesso della capitale, di cedere alla richiesta dei dimostranti e di restituire alle mogli ariane i loro mariti ebrei (e i loro figli di sangue misto). Dopo la guerra, l’episodio della Rosenstrasse fu praticamente dimenticato. In ef- Una vicenda fetti, la vicenda risultava imbarazzante e inquietante sotto vari punti di vista; molti dei imbarazzante protagonisti, ad esempio, sono i primi ad ammettere che la manifestazione delle mogli ariane non ebbe alcun risvolto politico autentico: fu un gesto spontaneo, dettato dall’impulso e dalla necessità di fare qualcosa non per gli ebrei oppure contro il regime, ma solo nei confronti dei propri cari. Inoltre, va ricordato che il legame di molti dei sopravvissuti con l’ebraismo era decisamente labile: anche se qualcuno di essi, dopo la guerra, è andato in Israele, diversi altri erano già completamente assimilati e al limite battezzati da tempo, cioè avevano reciso ogni collegamento con la comunità ebraica tedesca. Soprattutto, però, i più imbarazzati furono per lungo tempo i tedeschi, in quanto l’episodio della Rosenstrasse metteva in discussione il mito universalmente diffuso dell’assoluta impossibilità, da parte della popolazione, di influire sul comportamento del governo e di limitare almeno in parte la dinamica della Shoah. In pratica, di fronte a questo episodio, sorge il dubbio che i crimini nazisti abbiano potuto verificarsi in tutta la loro intensità solo perché gli uomini e le donne del Terzo Reich accettarono di essere indifferenti o addirittura complici di quanto accadde. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C Il passo seguente fa parte della testimonianza di Ursula Kretschmer, che aveva il proprio fidanzato all’interno dell’edificio. Dopo decenni di oblio, l’episodio fu riscoperto davvero solo negli anni Ottanta, allorché il governo della DDR commissionò una scultura di commemorazione alla scultrice Ingeborg Hunzinger, e riproposto al grande pubblico nel 2003-2004 dal film Rosenstrasse di Margarethe von Trotta. UNITÀ 9 DOCUMENTI 3 Shoah e identità di genere La memoria dell’episodio di Rosenstrasse APPROFONDIMENTO C Le donne deportate ad Auschwitz 1 Riferimento storiografico pag. 7 Riferimento storiografico pagg. 9 e 11 UNITÀ 9 2 e 3 LO STERMINIO DEGLI EBREI 4 Per uomini e donne ebrei sposati a un coniuge ariano, la situazione precipitava non appena questi chiedeva il divorzio. In tempi recenti, gli storici hanno studiato molte di queste vicende private, utilizzando il metodo della microstoria, che grazie alla ricostruzione minuziosa di un caso personale getta luce e aiuta a capire un fenomeno generale. Il soggetto non ebreo era vittima di una pressione fortissima da parte di tutto l’ambiente circostante: le autorità insistevano perché si separasse, i vicini lo isolavano, mentre i due coniugi non potevano più frequentare insieme un parco, un museo, un cinema o un teatro. Se l’uomo ariano, stanco di questa situazione, si creava una relazione con un’altra donna non discriminata, spesso si approdava alla separazione e, dal 1942, alla deportazione della donna abbandonata. Ad Auschwitz, tuttavia, per quanto la situazione ci appaia paradossale, pur essendo ebreo, un deportato tedesco (maschio o femmina che fosse) era pur sempre un cittadino del Reich: dunque, la sua eventuale morte veniva accuratamente registrata, veniva steso un certificato di morte e la sua carta di identità (con tanto di J stampigliata sopra) inviata al municipio di residenza. Nessuna procedura di questo genere fu invece seguita per tutti coloro che venivano uccisi nei quattro grandi crematori di Auschwitz II, dopo la frettolosa selezione effettuata sulla rampa ferroviaria. Anzi, da numerosi fonti (come le testimonianze dei sopravvissuti e le fotografie scattate dai nazisti agli ebrei ungheresi nell’estate del 1944) emerge che le donne, nell’ambito della selezione, furono penalizzate in maniera molto più forte dei maschi. Questo valeva anche per le donne giovani e forti se, pur essendo abili al lavoro, erano delle madri, con uno o più bambini al seguito. I nazisti non si fidavano a strappare quei bimbi dalla loro mamma: temevano che scoppiassero scenate e che si verificassero crisi isteriche, che avrebbero provocato caos e disordine sulla rampa della ferrovia. Di qui la decisione di inviare tutti alle camere a gas, i figli e le madri. Condotta all’insegna dello spreco, perché l’obiettivo dell’eliminazione totale della razza ebraica in Europa fu sempre anteposto a ogni considerazione di razionale sfruttamento economico della manodopera, la soluzione finale fu prima di tutto – almeno ad Auschwitz – sterminio di anziani, donne e bambini. Occorre però notare che le madri selezionate sulla banchina non ebbero alcuna facoltà di scelta. Decisamente diverso il caso delle madri di Terezín, detenute nel cosiddetto campo delle famiglie di Birkenau. Esse infatti, dopo che in un primo tempo avevano potuto tenere con sé i propri figli, nel giugno 1944, allorché i nazisti decisero di liquidare quel sottocampo, ricevettero un invito esplicito a separarsi da loro. In pratica, quelle madri sapevano che, se avessero abbandonato i loro bambini e avessero accettato il trasferimento in una squadra di lavoro, avrebbero avuto qualche speranza di sopravvivere. Malgrado ciò, su circa 600 donne interpellate, solo due scelsero di allontanarsi dai propri figli: tutte le altre li seguirono nelle camere a gas. Donne a bambini nel campo di sterminio di Auschwitz. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 DOCUMENTI La seguente dichiarazione fu rilasciata da Max Mannheimer. Nato nel 1920 in Cecoslovacchia, Mannheimer fu dapprima internato a Terezín, poi deportato ad Auschwitz (2 febbraio 1943). Il meccanismo di funzionamento di Auschwitz fu costantemente in evoluzione. In un primo tempo (marzo 1942-maggio 1944) gli ebrei sbarcarono sulla cosiddetta Judenrampe, una diramazione ferroviaria costruita a poca distanza dalla stazione principale. Dal maggio 1944 ad Auschwitz entrò in funzione la nuova rampa ferroviaria, che conduceva all’interno stesso del lager di Birkenau. Era qui che avvenivano le selezioni, che erano di competenza degli ufficiali medici. L’esame degli abili al lavoro, nel 1944, divenne ancora più sommario, col risultato che, spesso, più dell’80% di un intero convoglio finiva alle camere a gas, compreso un elevatissimo numero di donne. W. BENZ, L’Olocausto, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 106-107, trad. it. E. GRILLO F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 9 Un ufficiale medico nel campo di Auschwitz effettua la selezione sulla banchina di Auschwitz II-Birkenau (nell’estate 1944). 5 Shoah e identità di genere Auschwitz-Birkenau, banchina della morte, mezzanotte del 1o febbraio 1943. Scendere tutti! Lasciare tutto! È il panico generale. Ognuno cerca di mettersi in tasca tutto quello che può. Le ss urlano: Muoversi! Forza, alla svelta. Ci s’infila ancora una camicia. Un altro pullover. Sigarette. Magari possono servire come oggetto di scambio. Uomini da una parte, donne dall’altra con i bambini sugli autocarri, sui quali possono salire anche gli uomini e le donne che non sono in grado di andare a piedi. Sono in molti a presentarsi. Il resto viene messo in fila per cinque. Una donna cerca di avvicinarsi a noi. Forse vuole parlare a suo marito o a suo figlio. Un soldato delle SS la scaraventa a terra con un bastone. La colpisce alla gola. Resta a terra immobile. Viene trascinata via. È questo l’impiego di manodopera? Davanti a noi c’è un ufficiale delle SS. È un tenente. Così viene chiamato da una sentinella. Forse è un medico. Non ha il camice. Né lo stetoscopio. È in uniforme verde. Con il teschio. Avanziamo uno alla volta. La sua voce è calma. Anche troppo. Ci chiede l’età, il mestiere, se siamo sani. Ci fa mostrare le mani. Riesco a sentire alcune risposte. Meccanico – a sinistra. Amministratore – a destra. Medico – a sinistra. Operaio – a sinistra. Magazziniere della ditta Bata – a destra. È un nostro conoscente. Si chiama Büchler, ed è Bojkowitz. Falegname – a sinistra. Poi tocca a mio padre. Manovale. Stessa direzione dell’amministratore e del magazziniere. Ha cinquantacinque anni. Forse è per questo motivo. Poi è il mio turno. Ho ventitré anni, sono sano, lavoro in un’impresa di costruzioni stradali. Ho i calli alle mani. Ottima cosa, i calli alle mani. Mio fratello Ernst: vent’anni, installatore – a sinistra. Cerco con gli occhi mia madre, mia moglie, mia sorella, mia cognata. Impossibile. Molti autocarri sono partiti. Rimettersi in riga per tre. Una sentinella delle ss ci chiede sigarette cecoslovacche. Gliene do alcune. Risponde alle mie domande. I bambini vanno negli asili. Gli uomini possono far visita alle loro mogli la domenica. Soltanto la domenica? Basta e avanza! Vi deve bastare. In marcia. Su una strada stretta. Vediamo un piazzale illuminato a giorno. In piena guerra. Niente oscuramento. Torrette di guardia con mitragliatrici. Doppio filo spinato, riflettore, baracche. Soldati ss aprono una porta. La attraversiamo. Siamo a Birkenau. Restiamo fermi dieci minuti davanti a una baracca. Poi ci fanno entrare. Di un convoglio di mille persone tra uomini, donne e bambini, siamo rimasti ormai in 155, tutti uomini. APPROFONDIMENTO C La procedura di selezione sulla Judenrampe Spiega l’espressione «Ottima cosa, i calli alle mani». Quale destinazione avevano coloro che erano collocati a destra? Spiega, in un’ottica di genere, l’espressione finale del testo: «Di un convoglio di mille persone tra uomini, donne e bambini, siamo rimasti ormai in 155, tutti uomini». UNITÀ 9 APPROFONDIMENTO C Le sperimentazioni mediche ad Auschwitz LO STERMINIO DEGLI EBREI 6 Un nano ebreo fotografato ad Auschwitz. Tutte le selezioni sulla rampa ferroviaria di Auschwitz erano condotte da personale medico delle SS. Tra questi dottori, un posto speciale era occupato da Josef Mengele (1911-1979), un ricercatore in stretto contatto con Otmar von Verschuer, che dirigeva l’Istituto di Antropologia di Berlino e si occupava dei gemelli di ceppo zingaro. La decisione di recarsi ad Auschwitz fu presa da Mengele in stretto contatto con von Verschuer (che, malgrado le sue responsabilità e la sua sincera adesione all’ideologia nazista, avrebbe concluso la sua carriera universitaria nel 1968, con il titolo di professore emerito): fu la scelta di un convinto razzista, che cercava materiale per le sue ricerche e andava a condurle sul luogo in cui erano presenti in maggior numero i soggetti che stava studiando. Mengele arrivò ad Auschwitz il 30 maggio 1943; da allora, si recò molto spesso sulla banchina ferroviaria, anche quando non era il suo turno di servizio. La sua preoccupazione era quella di evitare che, per errore, fossero inviati alle camere a gas dei gemelli, che il medico riservava a sé, per le proprie ricerche. Tali studi erano condotti nell’ospedale di Birkenau, che occupava un settore denominato B IIF. I gemelli, per lo più bambini (circa 250, solo tra gli ebrei ungheresi, nell’estate 1944) erano studiati seguendo procedure estremamente meticolose. Ogni parte del loro corpo era misurata in modo preciso e puntuale; al termine di queste minuziose osservazioni, in genere erano uccisi assieme e i loro cadaveri comparati con autopsie altrettanto precise e dettagliate. Numerosi gemelli vennero prelevati anche dal campo degli zingari; i bambini gitani, inoltre, furono studiati anche per il fatto che presentavano frequentemente una rara malattia chiamata noma (una forma cancerosa delle guance, determinata dalle carenze alimentari) e fenomeni di eterocromia dell’iride (situazione in cui i due occhi della persona hanno colori diversi). Mengele studiò con attenzione anche i nani, che in genere erano inviati alle camera a gas dopo due settimane di rilievi. L’ideologia nazista e la logica di Auschwitz trovarono in Mengele la loro manifestazione più evidente. Quello che maggiormente colpì i medici ebrei costretti a collaborare con lui fu il suo totale distacco emotivo, la sua assoluta mancanza di empatia e di immedesimazione con i soggetti delle sue ricerche, trattati sempre e solo come animali da laboratorio, mai da esseri umani. Oltre a Mengele, operavano nei lager di Auschwitz vari altri ricercatori tedeschi, che si occupavano delle detenute per scopi sperimentali, cioè delle prigioniere scelte per sperimentare i metodi di sterilizzazione di massa, che i nazisti pensavano di poter applicare su larga scala, a guerra finita, nei confronti dei popoli slavi. Dopo un’apposita conferenza al vertice tenutasi il 7-8 luglio 1942, Himmler affidò l’incarico di trovare il sistema ottimale al dottor Carl Clauberg, primario del reparto di Malattie femminili presso l’ospedale di Chorzow (Polonia). Clauberg iniziò il suo lavoro ad Auschwitz alla fine del 1942, nella baracca numero 30 del campo femminile di Birkenau. Nell’aprile dell’anno seguente, il comandante Höss gli mise a disposizione una parte del Blocco 10 del campo di Auschwitz I, ove vennero alloggiate, di volta in volta, dalle 100 alle 400 deportate ebree di varie nazionalità. Il metodo di Clauberg consisteva nell’introdurre una sostanza chimica irritante, capace di bloccare il funzionamento delle ovaie; fiero dei propri successi, così scriveva Clauberg a Himmler il 7 giugno 1943: «Il mio metodo di sterilizzazione femminile senza far ricorso ad intervento chirurgico è quasi definitivamente elaborato [...]. Circa la domanda del Reichsführer sul tempo occorrente per sterilizzare con questo metodo 1000 donne, allo stato attuale e conformemente alle previsioni, posso rispondere che se le ricerche da me condotte avranno in seguito gli stessi risultati di adesso, e non vi è motivo di ritenere il contrario, po- F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C trò in breve riferire che un medico opportunamente addestrato e assistito da 10 ausiliari potrà probabilmente eseguire in un giorno la sterilizzazione di alcune centinaia o anche di 1000 donne ». Nel gennaio 1945, Clauberg partì per Ravensbrück e proseguì in quel lager i propri esperimenti, utilizzando come soggetti per le sperimentazioni prigioniere ebree e zingare. Non fu l’unico a ricercare ad Auschwitz il metodo più spiccio ed efficace per sterilizzare il maggior numero possibile di donne delle cosiddette razze inferiori. Un programma parallelo a quello di Clauberg fu portato avanti dal dottor Horst Schumann, che operò nella medesima baracca 30 del campo femminile di Birkenau, ma che si serviva delle radiazioni dei raggi X, utilizzando materiale fornito dalla ditta Siemens. I dati relativi al numero delle persone sottoposte agli esperimenti di Clauberg e Schumann (che, però, operò anche su soggetti maschi) sono contrastanti: alcune centinaia, secondo alcuni ricercatori, più di mille secondo altri. Josef Mengele. Riferimenti storiografici In un primo tempo, la discriminazione e la persecuzione infierirono più sui maschi che sulle donne, in quanto i primi erano accusati di essere nemici della Germania o bolscevichi. Quando invece il genocidio investì entrambi i generi, furono le donne a essere maggiormente colpite, in quanto le possibilità di sopravvivenza – nella misura in cui esistevano – erano legati alle capacità lavorative. Sebbene gli uomini e le donne fossero entrambi destinati alla morte, le loro strade – soprattutto nei primi anni della guerra – erano lastricate da regole, obblighi di lavoro, opportunità e restrizioni di vario tipo. Una differenza nel modo con cui i tedeschi trattavano gli uomini e le donne consisteva nella costante prassi di assegnare gli incarichi di comando agli uomini. [...] Un secondo tipo di politica messa in atto dai tedeschi nei primi anni della guerra (sebbene non universalmente applicata) consisté nel replicare lo schema tradizionale di divisione del lavoro, assegnando i lavori manuali pesanti agli uomini. I lavoratori ebrei ricevevano raramente un salario per il lavoro forzato nel quale erano utilizzati, ma laddove ciò avveniva (o dove il Consiglio ebraico veniva pagato per i lavoratori del ghetto utilizzati, ad esempio, nelle fabbriche tedesche), vi erano sempre sistematiche differenze fra i salari maschili e quelli femminili. Normalmente i salari delle donne oscillavano dai due terzi ai tre quarti di quelli maschili, anche nel caso in cui il lavoro svolto fosse lo stesso. [...] Una terza differenza consiste nel fatto che inizialmente le azioni si concentrarono sull’arresto e l’incarceramento degli uomini ebrei, sia in Europa occidentale che in Europa orientale. In Germania, ad esempio, nel pogrom della Notte dei cristalli del novembre 1938 furono solo gli uomini – ben trentamila – ad essere arrestati e inviati nei campi di concentramento [...]. Analogamente, nei primi giorni della guerra in Polonia, era molto più probabile che le violenze, gli arresti e gli incarceramenti colpissero gli uomini piuttosto che le donne. E così avvenne anche per le esecuzioni nell’ambito del sistematico attacco ai dirigenti delle comunità (fra i quali gli uomini erano in prevalenza). Inoltre, nel primo periodo del ghetto gli uomini rischiavano molto più delle donne di essere catturati per una giornata di lavoro manuale pesante (accompagnate da percosse arbitrarie e abusi da parte dei sorveglianti tedeschi o polacchi), o per essere deportati in un campo per il lavoro obbligatorio fuori dal ghetto. La più infame distinzione fra i sessi si riscontra nel trattamento riservato dai tedeschi alle donne in stato di gravidanza. È importante distinguere quello che avveniva nei ghetti da quello che avveniva nei campi di lavoro e nei campi di concentramento, anche se esistevano notevoli varianti all’interno di ciascuna di queste tre sfere, a seconda del luogo (nonché del mese e dell’anno). In molti ghetti i tedeschi instaurarono la politica dell’aborto obbligatorio. A Theresienstadt, ad esempio, nel luglio del 1943 venne emanato un ordine in tal senso, in conseguenza del quale qualsiasi donna che rifiutasse di abortire o partorisse venne aggregata al primo trasporto destinato ai campi di concentramento all’est. [...] L’ultima distinzione da farsi circa il trattamento degli uomini e delle donne da parte dei teF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 9 Il ruolo del genere nella Shoah 7 Shoah e identità di genere 1 APPROFONDIMENTO C UNITÀ 9 Donne prigioniere ad Auschwitz. Si tratta di uno speciale reparto impegnato nel magazzino del campo, denominato “Kanada” a causa dell’enorme quantità di materiale accumulato. LO STERMINIO DEGLI EBREI 8 Quale atteggiamento tennero i nazisti verso le donne che, nei ghetti, restavano incinte? Per quale motivo alcuni prigionieri ebrei di servizio sulla rampa ferroviaria dicevano alle madri giovani di dare i loro figli alle nonne? deschi – paradossalmente, si trattava di una chiara violazione delle linee della politica tedesca – era che le donne ebree erano soggette più facilmente degli uomini a molestie sessuali ed a stupri. Nonostante che l’incidenza degli stupri da parte dei nazisti appaia rara – o perlomeno questa è la nostra impressione, sulla base dei diari e delle testimonianze che abbiamo letto – è chiaro che molte ebree erano terrorizzate dalle voci che parlavano di stupri. Questa paura di subire abusi sessuali affliggeva anche le donne che vivevano nascoste. Infine, numerose testimonianze riportano esempi di sistematici abusi sessuali ai danni di donne ebree, avvenuti in specifiche località. Le sopravvissute del campo di Skarzysko, ad esempio, raccontano di diversi abusi di natura sessuale e di brutali stupri da parte dei comandanti tedeschi, nonostante che ai tedeschi fosse vietato macchiarsi di una tale vergogna della razza. [...] Nei campi, donne e uomini dovevano affrontare minacce e difficoltà per alcuni versi simili, per altri differenti. Sulla rampa di arrivo ad Auschwitz gli ordini prescrivevano che tutti i bambini rimanessero con le madri: in tal modo i nazisti legavano le madri e i loro figli ad un unico destino. È ben noto che alcuni degli ebrei che lavoravano sulla rampa di arrivo camminavano in mezzo alle donne allineate per la selezione dicendo alle giovani di «dare i loro figli alle nonne». Sapendo che le nonne – e i bambini – erano fin dall’inizio destinati alle camere a gas, tentavano di salvare la vita delle giovani madri. Le nuove arrivate, però, non sapevano cosa stava avvenendo – e certamente non capivano il vero significato del suggerimento che ricevevano. Naturalmente la maggior parte delle donne si attaccava ai propri bambini (e molti piccoli alle loro madri) e venivano inviate alle camere a gas insieme ad essi. [...] Poiché i nazisti camuffavano le camere a gas da locali per le docce e assicuravano quanti vi entravano che sarebbero stati sottoposti a un trattamento di disinfezione, la maggior parte delle donne non era consapevole di quanto stava loro avvenendo quando venivano messe in fila con i loro bambini per essere condotte alle camere a gas. Così, le donne non facevano una scelta consapevole di morire con i loro bambini. Erano i nazisti che le condannavano a morte per il fatto stesso che erano delle madri. In contrasto con questo andamento generale, tuttavia, un gruppo di donne scelse coscientemente la morte per rimanere con i propri figli fino all’ultimo. Quando le donne di Therienstadt vennero inviate al campo familiare di Auschwitz-Birkenau fu loro consentito di vivere insieme ai figli. Nel giugno del 1944 divenne chiaro che il campo familiare stava per essere liquidato e che i bambini sarebbero stati inviati alle camere a gas. Per le madri vi era però un’altra possibilità: dato che i nazisti avevano bisogno di forza lavoro, esse potevano scegliere di presentarsi per una selezione nella quale avrebbero potuto essere scelte come operaie, oppure potevano andare nelle camere a gas con i bambini. Era una scelta che non si poneva per gli uomini, in quanto essi venivano separati dalle donne e dai bambini appena arrivavano ad Auschwitz. Come ha osservato Ruth Bondy, tutte le seicento donne alle quali fu offerta questa possibilità, con due sole eccezioni, decisero che non potevano abbandonare i propri figli. Rimasero al loro fianco fino alla fine. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 D. OFER, L.J. WEITZMAN (a cura di), Donne nell’Olocausto, Le Lettere, Firenze 2001, pp. 7-8, 11-13, trad. it. D. SCAFFEI La seguente intervista fu condotta tra il 22 giugno 2002 e il 6 novembre 2003, dalla scrittrice italiana Daniela Padoan. Nata nel 1927, Goti Bauer fu deportata da Fossoli ad Auschwitz il 16 maggio 1944. Osserviamo che la testimonianza non è del tutto precisa, in un dettaglio, là dove parla di Höss; quando si scoprì la sua relazione con una detenuta ebrea, il comandante non subì alcuna punizione vera e nel 1944 tornò a essere il responsabile supremo di Auschwitz. Tuttavia è vero – e meritevole di nota – che lo stupro e la violenza sessuale (nel senso più stretto e brutale del termine) furono quasi assenti e non giocarono il ruolo che invece svolsero in altri contesti (come, ad esempio, la Bosnia degli anni Novanta). Secondo lei donne e uomini hanno fatto una diversa esperienza di Auschwitz? Non sono sicura di saperle rispondere in maniera precisa. Penso che dipenda molto dalla sensibilità individuale. Sono convinta che ci sono stati degli uomini di carattere molto sensibile che hanno sofferto tanto quanto le donne, come ci sono state donne più fredde, più concrete, che non hanno avuto la sensibilità di altre. Io allora ero una ragazza di diciannove anni e non credo di essermi mai posta questo problema, perché avevo un fratello diciassettenne che, a differenza dei miei genitori, non è stato eliminato immediatamente all’arrivo. Il mio costante pensiero era per lui, che era un ragazzo estremamente sensibile. Temevo che non reggesse la situazione. Per quello che si riferisce al dramma specifico delle donne, ricordo che c’erano donne arrivate ad Auschwitz in stato interessante, senza che i carnefici se ne accorgessero, e che hanno vissuto la gravidanza lì dentro tra paure ancora maggiori delle nostre. In quello stato, hanno sopportato le sofferenze indicibili dovute alla fame, alla fatica e a tutto quello che la deportazione comportava. Mi ricordo di una donna che ha partorito nella baracca dove ero io. Le è stato immediatamente portato via il bambino. Di lei non ricordo cosa sia successo, se l’abbiano mandata subito al gas oppure se sia morta lì. Altro non posso dirle. Per quanto riguarda la femminilità, in quel momento abbiamo vissuto la perdita delle mestruazioni come una liberazione, perché era drammatico non avere niente con cui proteggersi, con cui affrontare la situazione ogni volta che si presentava. E poi, sa? I problemi di vanità non esistevano. Eravamo tutte rasate, tutte vestite di stracci ma, rispetto alla sofferenza morale – quella sì veramente indescrivibile – credo che l’umiliazione per l’aspetto fisico passasse talmente in seconda linea che non ne abbiamo mai fatto un problema. […] F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Il doppio reticolato percorso dall’alta tensione che circondava alcune zone del campo di concentramento di Auschwitz I. UNITÀ 9 APPROFONDIMENTO C Testimonianza di Goti Bauer 9 Shoah e identità di genere 2 APPROFONDIMENTO C UNITÀ 9 La fotografia mostra alcuni ebrei appena scesi dal treno che li ha condotti al campo di Auschwitz II. LO STERMINIO DEGLI EBREI 10 Che peso ebbe l’umiliazione della nudità, nella vicenda complessiva della deportazione ad Auschwitz? Quale esperienza viene ricordata dalla protagonista come la più dura da sopportare fisicamente? E quale la più mortificante e opprimente, sotto il profilo psicologico? Se non le dispiace, vorrei chiederle ancora del suo arrivo ad Auschwitz. Liliana Segre mi ha parlato dell’umiliazione della nudità come di un trauma indelebile. Questo è stato sicuramente l’impatto iniziale. Molto traumatico, ma qualsiasi esperienza, per quanto umiliante essa sia, si affronta in maniera meno drammatica se si è in tanti, perché capita contemporaneamente a tutti e allora la si vive con una dignità che ci si autoimpone, come a dire, se sono arrivata a questa situazione la colpa è tua, non mia, sei tu il colpevole, sei tu il responsabile. A un certo punto ci si rassegna. Capitava ogni volta che si veniva portati alla disinfezione, alla doccia, o anche alle selezioni all’interno del campo, che erano molto frequenti. Spesso, dopo il lavoro, venivano chiuse le baracche, ci si doveva spogliare e subire un’ispezione. Tutte quelle che erano considerate tanto debilitate o sofferenti da non poter più continuare il lavoro venivano eliminate subito e sostituite da nuove arrivate più in forze. Questo essere spogliate, scrutate, osservate dalla commissione di medici incaricata del controllo, era talmente frequente che non gli si dava più importanza. O meglio, io la vivevo come più offensiva per chi la compiva piuttosto che per chi la subiva. Mi creda, di fronte a un camino da cui viene fuori in continuazione una fiamma che sparge attorno un odore acre di carne umana bruciata, che ti invade l’animo prima che le narici, niente più ha importanza; non un’umiliazione di questo tipo, non le botte, non la sofferenza fisica. L’immagine del camino che arde rappresenta la totalità delle emozioni che si possono vivere, superata forse soltanto dalla paura che possa toccare a te. Perché in ogni momento poteva toccare a te. Tutto il resto, nei miei ricordi, era secondario. Devo dire una cosa che sicuramente le avrà detto anche Liliana, e cioè che, nonostante quello che si crede, noi non abbiamo subìto violenza fisica. Violenza era tutto, lì dentro – la maniera in cui eravamo trattate, le botte, le minacce – ma violenza sessuale non ce n’era. Non per rispetto a noi, ma perché a loro era proibito avere rapporti con chi era considerato di razza inferiore, visto che non volevano inquinare la loro purezza ariana. I rari casi in cui è successo costituiscono le eccezioni che confermano la regola. Ricordo di aver letto che il comandante del campo Rudolph Höss aveva una ragazza ebrea che gli faceva le pulizie in casa. Quando si è saputo che aveva avuto rapporti con lei, è stato destituito, mandato via dal campo con un pretesto di avanzamento di carriera; ma è stato radiato. Noi questo oltraggio non lo abbiamo subìto. Tutto il resto, dopo la prima, la seconda, la decima delle occasioni in cui abbiamo dovuto esporci così, le assicuro che non rappresentava più niente per noi. Niente. Sa cos’era, nei miei ricordi, quello che mi tormentava di più? Quando stavamo all’appello per ore e ore, di mattina e di sera, di fronte alla baracca e vedevamo la rampa di arrivo sulla quale continuavano a fermarsi nuovi convogli. La gente in fila per la selezione, il mio senso di impotenza, il non poter aiutare, il non poter salvare i bambini. Al nostro arrivo non sapevamo quello che ci doveva succedere, ma quando poi abbiamo cominciato a vedere ogni giorno arrivare gli altri, sapendo che andavano al gas, è stata una sofferenza talmente lacerante… Quella è per me, nei ricordi, la cosa più orribile, più mortificante: non aver potuto salvare nessuno. Non aver potuto aiutare nessuno. Per il resto… il resto era secondario. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 D. PADOAN, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Bompiani, Milano 2004, pp. 65-66, 89-91 Nel Lager A venivano fatti esperimenti sulle donne? Sì, eravamo lì come cavie gratuite, in numero inesauribile. C’era una baracca al cui interno si trovava un reparto dove venivano eseguiti esperimenti sulle prigioniere. La chiamavano il blocco delle esperienze. Lì dentro venivano eseguiti esperimenti sulle prigioniere, soprattutto nelle parti genitali, anche se mi risulta che venissero studiate pure altre situazioni che non avevano un particolare nesso con la riproduzione. Le greche che erano già nel campo da mesi raccontavano di enormi cicatrici sui ventri, di asportazioni dell’apparato genitale, di misteriose iniezioni che forse servivano a indurre la sterilità. Per fortuna non ne ho avuta esperienza diretta, anche se ho corso il rischio di finire là dentro. Un giorno la capoblocco venne nel settore dove eravamo stipate a passare la quarantena, fitte nelle cuccette come conigli nelle conigliere, e prese il numero di matricola tatuato sul braccio sinistro di quindici persone, tra cui c’ero anch’io. Ci condussero nell’ambulatorio, dove l’esame delle greche si protrasse per tutto il giorno: misurazioni, fotografie, dettagliate visite mediche. Dapprima non capivamo, ma quando qualcuna mi disse che avrebbero condotto su di noi degli esperimenti per indurre la sterilità, mi sentii invadere da una disperazione profonda. Mi sentivo impazzire, e d’improvviso un desiderio lancinante si impossessò di me: volevo un figlio, un altro figlio. Non potevano sottrarmi quella gioia! Il ricordo della maternità, della sua infinita dolcezza, la sensazione di avere un bambino appena nato ancora legato al corpo eppure già indipendente, mi invadeva in ogni fibra. Scampai per miracolo al blocco delle esperienze, perché ci trasferirono nel campo di lavoro. Eppure pensi che la situazione che vivevamo là dentro era talmente miserevole che alcune donne erano convinte che essere destinate alle esperienze fosse un modo per stare al caldo e ricevere qualcosa in più da mangiare. […] A un certo punto lei e le altre donne dello Schuhkommando [squadra di lavoro addetta alle scarpe, n.d.r.] siete state trasferite nel Lager I di Auschwitz? Birkenau era il campo di sterminio vero e proprio, perché tutti i crematori erano lì, ed era lì che noi alloggiavamo, di ritorno dal lavoro. Ma un bel giorno, dopo un’ennesima selezione, il comando delle scarpe venne trasferito ad Auschwitz I, dove c’erano anche gli uffici e l’amministrazione tedesca. C’erano dei blocchi di nuova costruzione destinati alle donne. Non baracche, ma grandi edifici a due piani, con ampi dormitori provvisti di lavatoi e di gabinetti. Gabinetti veri, con il water e lo sciacquone. Continuavamo a tirarlo, per la felicità di sentire che veniva giù l’acqua! […] Non si può spiegare cosa fosse il piacere di tirare l’acqua. Lei non può immaginare cos’era una latrina di Birkenau: una lunghissima piattaforma di cemento, alta qualche decina di centimetri, larga in modo che ci stessero due file di buchi, senza niente, con sotto la terra. Non c’era acqua. In più, quando si aveva bisogno di andare in questo posticino, magari si trovava una polacca ariana… Perché, come le dicevo prima, una delle condanne studiatissime dai tedeschi per perseguitarci era proprio quella: poteva succedere che stavi lì seduta in quel frangente e arrivava una di loro, magari con un bastone in mano, e ti strappava dal posto per sedersi lei. A loro era permesso. Potevano concedersi ogni arbitrio, ogni prepotenza. La promiscuità ha costituito un’ulteriore violenza per le donne ebree? La mescolanza di ebree, non ebree, politiche, prostitute, è stato un ulteriore modo per perseguitarci, perché faceva sì che l’antisemitismo attecchisse all’interno del Lager. C’erano le russe, le polacche, le donne provenienti da tutto il Nord, le tedesche stesse – le criminali, quelle che portavano il triangolo verde – e poi quelle che portavano il triangolo nero, cioè le asociali, le prostitute. Questa mescolanza di ceti, di culture e di nazionalità era studiatissima, creata apposta perché fossimo perseguitate dalle nostre stesse compagne. Le migliori di tutte erano le prostitute, perché non avevano perso il senso della solidarietà femminile. Trovare solidarietà là dentro era pressoché impossibile. Se rimanevi persa in quel fantasmagorico universo, era finita. Invece la fortuna era stare nel gruppo dove si aveva possibilità di comunicare. Noi italiane eravamo poche, però stavamo con le francesi, con le belghe, con le greche di Salonicco che parlavano francese; il gruppo è rimasto unito per puro caso, dato che poteva essere disperso in altri comandi [squadre di lavoro, n.d.r.]. Quella è F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C La seguente intervista fu condotta tra il 9 ottobre 2002 e il 3 novembre 2003, dalla scrittrice Daniela Padoan. Nata nel 1914, Giuliana Tedeschi fu deportata da Fossoli ad Auschwitz il 5 aprile 1944. L’espressione Lager A indica un settore del campo BI di Birkenau, adibito a campo femminile. UNITÀ 9 Testimonianza di Giuliana Tedeschi 11 Shoah e identità di genere 3 APPROFONDIMENTO C UNITÀ 9 LO STERMINIO DEGLI EBREI 12 stata la nostra grande fortuna, perché una cosa che bisogna tenere molto presente è che le donne, in confronto agli uomini, si sono sempre aiutate. Gli uomini no. Non ho mai letto uno scritto di un uomo che abbia insistito sulla solidarietà. Mai. Nella letteratura non si trova mai uno che dica, mi sono salvato grazie alla relazione, allo scambio con l’altro. Tranne forse l’ultimo periodo di Primo Levi, quando rimane con quei due francesi nel campo ormai evacuato. Allora comincia la solidarietà, ma prima non troverà una parola in tutto il libro. Mi sono sempre fatta una domanda: pare proprio che Levi abbia incontrato Jean Améry; erano nello stesso campo, però non se ne sa niente, non viene mai fuori. Primo lo nomina, ma vada a guardare dov’è questo episodio e vedrà che anche lì sono due estranei, pur essendo nello stesso blocco. D’altra parte poteva accadere che non ci si conoscesse, perché si era parecchi, e bastava non appartenere allo stesso comando di lavoro: le amicizie erano dovute soprattutto all’appartenenza allo stesso comando. Sembra ritenere che le donne abbiano una maggiore capacità di solidarietà. Secondo me è indubitabile. Le donne sono maglie, se una si perde, si perdono tutte. Là dentro, almeno, era così; ci sentivamo unite da uno stesso filo di vita, che non doveva recidersi. Forse è perché le donne portano di più il proprio mondo dentro di sé e hanno un maggior desiderio di trovare corrispondenza con l’altro. Credo che questo abbia in qualche modo a che fare con la cura materna. In fondo l’uomo è più isolato, si costruisce lui stesso questo isolamento. Generalmente gli uomini sono chiusi, mentre le donne si raccontano anche particolari minuti, ricordi apparentemente privi di importanza. E poi c’è la solidarietà più spicciola, ma non meno importante. Noi, per esempio, ci aiutavamo a eliminare i pidocchi. Siamo state il primo convoglio di prigioniere a cui non hanno rasato del tutto i capelli; ce li tagliavano malamente, ma ci lasciavano qualcosa sul cranio. Nei blocchi e nei gabinetti c’era scritto Eine Haus ist dein Tod, un pidocchio è la tua morte [i pidocchi infatti portano il tifo esantematico o petecchiale, n.d.r.]. Se durante le ispezioni ti trovavano qualche uovo in testa, finivi in crematorio. Era molto importante avere un’amica che ti aiutasse. La domenica, quando non si lavorava, io controllavo i capelli di Olga o di un’altra amica, alla ricerca anche di un solo uovo, e lei faceva lo stesso con me. È una forma di solidarietà anche questa. E poi c’era il legame di tutti i giorni, lo sguardo muto che ti esortava a resistere quando credevi di non farcela più, il dono di una parte della razione quando l’altra ne aveva più bisogno di te… Ho molti ricordi di questo genere, perché sapevamo, quasi d’istinto, che la nostra vita era come una maglia dai punti strettamente intrecciati; una volta reciso un punto, il filo si snoda, si perde. D. PADOAN, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Bompiani, Milano 2004, pp. 139-140, 148-151 A che cosa erano disposte alcune donne «per stare al caldo e ricevere qualcosa in più da mangiare»? Perché Giuliana Tedeschi insiste molto sul concetto di solidarietà? Donne addette alle scarpe nel campo di Auschwitz. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012